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scheda tecnica
durata: 135 minuti
nazionalità: Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Norvegia, Olanda, Svezia
anno: 2002
regia: Lars Von Trier
sceneggiatura: Lars Von Trier
produzione: Lars Jonsson, Vibeke Windelov
fotografia: Anthony Dod mantle
montaggio: Molly Marlene Stensgard
scenografia: Peter Grant
effetti: Peter Hjorth
costumi: Manon Rasmussen
interpreti: NICOLE KIDMAN
(GRACE), STELLAN SKARSGARD (CHUCK), SIOBHAN FALLON
(MARTHA), CHLOE SEVIGNY (LIZ HENSON), PATRICIA CLARKSON (VERA), JEREMY DAVIES (BILL
HENSON), PHILIP BAKER HALL (THOMAS SR.), PAUL BETTANY (TOM JR.), LAUREN BACALL (MA
GINGER), JAMES CAAN, BLAIR BROWN (SIG.RA HANSON), BEN GAZZARA, JIMMY ULLER
(CHUCK), JEAN-MARC BARR, HARRIET ANDERSSON, UDO KIER, BILL RAYMOND, ERICH
SILVA, TRINITY STILES
Lars Von Trier
nato a Copenhagen, Danimarca
nel 30 aprile 1956
filmografia
NOCTURNE
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 1980
IMAGE OF RELIEF
Regia, Soggetto, Sceneggiatura – 1982
L'ELEMENTO DEL CRIMINE
Regia, Soggetto, Sceneggiatura – 1984
EPIDEMIC
Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio, Attore –
1988
IDIOTI
Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Fotografia - 1988
EUROPA
Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Attore – 1991
LE ONDE DEL DESTINO
Regia, Sceneggiatura – 1996
THE KINGDOM - IL REGNO
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 1996
THE KINGDOM II - IL REGNO II
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 1997
DANCER IN THE DARK
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 2000
DOGVILLE
Regia, Sceneggiatura - 2002
LE CINQUE VARIAZIONI
Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Attore – 2003
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Nicole Kidman
nata a Honolulu, Hawaii, USA
il 20 giugno 1967
filmografia
THE PEACEMAKER - IL CONCILIATORE
Attrice - 1997
AMORI & INCANTESIMI
Attrice - 1998
EYES WIDE SHUT
ORE 10: CALMA PIATTA
Attrice - 1999
Attrice - 1988
BIRTHDAY GIRL
GIORNI DI TUONO
Attrice - 2000
Attrice - 1990
THE OTHERS
BILLY BATHGATE - A SCUOLA DI
GANGSTER
Attrice - 2001
Attrice - 1991
Attrice - 2001
CUORI RIBELLI
Attrice - 1992
MY LIFE - QUESTA MIA VITA
Attrice - 1993
MALICE - IL SOSPETTO
Attrice - 1993
DA MORIRE
Attrice - 1995
BATMAN FOREVER
Attrice - 1995
MOULIN ROUGE!
THE HOURS
Attrice - 2002
DOGVILLE
Attrice - 2002
LA MACCHIA UMANA
Attrice - 2003
RITORNO A COLD MOUNTAIN
Attrice - 2003
THE STEPFORD WIVES
Attrice - 2004
RITRATTO DI SIGNORA
Attrice - 1995
premi e festival
Cannes Film Festival 2003
nomination Palma d’Oro Lars von Trier
Copenhagen International Film Festival 2003
vincitore premio Honorary Lars von Trier
European Film Awards 2003
migliore fotografia Anthony Dod Mantle
miglior regia Lars von Trier
miglior sceneggiatura Lars Von Trier
nominatione miglior film
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LarsVonTrier
ThomasVinterberg
Dogma 95
Manifesto e voto di castità
During the spring of 1995, film directors Lars Von Trier and Thomas Vinterberg sat down to write their vow of
chastity: the manifesto for a new, ascetic film making.
© Lars von Trier, Thomas Vinterberg
DOGMA 95 è un collettivo di registi cinematografici
fondato a Copenhagen nella primavera del 1995.
DOGMA 95 si pone lo scopo dichiarato di contrastare
"una certa tendenza" del cinema attuale.
DOGMA 95 è un’azione di salvataggio!
Nel 1960 dissero basta!
Il cinema era morto e venne fatto risorgere.
Lo scopo era buono ma i mezzi no!
La Nouvelle Vague si dimostrò un’increspatura che finì in nulla
sulla spiaggia e si trasformò in mucillagine.
Gli slogan dell’individualismo e della libertà crearono qualche opera,
ma nessun cambiamento.
L’onda era buona per tutte le stagioni, come i suoi registi.
L’onda non è mai stata più forte degli uomini che le stavano dietro.
Il cinema antiborghese divenne borghese,
perché la base su cui le sue teorie erano costruite
era la percezione borghese dell’arte.
Il concetto di autore era romanticismo borghese sin dall’inizio, e quindi falso!
Per DOGMA 95 il cinema non è individuale!
Oggi infuria una tempesta tecnologica,
da cui conseguirà la definitiva democratizzazione del cinema.
Per la prima volta chiunque può fare un film.
Ma più i media divengono accessibili,
più si fa importante l’avanguardia.
Non è un caso che la parola avanguardia abbia connotazioni militaresche.
La disciplina è la risposta…
dobbiamo mettere un’uniforme ai nostri film,
perché il film individuale sarà decadente per definizione!
DOGMA 95 si contrappone al film individuale
presentando un corpo di regole indiscutibili conosciute come Il voto di castità.
Nel 1960 si disse basta!
Il cinema era stato cosmetizzato fino alla morte, si disse;
eppure a partire da allora l’uso di cosmetici ha avuto un’esplosione.
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Il fine "supremo" dei cineasti decadenti è ingannare il pubblico.
È di questo che siamo tanto fieri?
È questo che abbiamo ottenuto da questi 100 anni di cinema?
Illusioni tramite le quali si possono comunicare delle emozioni?
Tramite la libera scelta d’ingannarci dell’artista individuale?
La prevedibilità (drammaturgia) è divenuta il vitello d’oro
attorno al quale noi danziamo.
Il fatto che le vite interiori dei personaggi giustifichino la trama
è troppo complicato, non è "arte alta".
Mai come ora si sono lodate sperticatamente l’azione superficiale
e la cinematografia superficiale.
Il risultato è vuoto.
Un’illusione di pathos e un’illusione d’amore.
Per DOGMA 95 il cinema non è illusione!
Oggi infuria una tempesta tecnologica,
da cui deriva l’elevazione dei cosmetici a Dio.
Usando la nuova tecnologia chiunque
in qualsiasi momento
può lavare via gli ultimi granelli di verità
nell’abbraccio mortale della sensazione.
Le illusioni sono tutto ciò che il cinema può nascondere dietro di sé.
DOGMA 95
"Io giuro di sottomettermi al seguente corpo di regole
delineate e confermate da DOGMA 95:
Le riprese devono essere fatte dal vero.
Non devono essere utilizzati scenografie e set (se è necessario per la storia un particolare
elemento scenografico, si deve scegliere una location in cui è già presente
quell’elemento).
Il suono non deve mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa (la
musica non deve essere usata a meno che non si senta nell’ambiente in cui si svolge il
film).
La cinepresa deve essere a spalla.
Sono concessi tutti i movimenti (e l’immobilità) che si può ottenere a mano (il film non deve
svolgersi dove è piazzata la cinepresa; le riprese devono avere luogo dove si svolge il
film).
Il film deve essere a colori.
Non sono concesse illuminazione speciali.
(Se c’è troppa poca luce per impressionare la pellicola la scena deve essere tagliata o si
può attaccare una singola torcia alla cinepresa).
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Il lavoro sulle ottiche e sui filtri è proibito.
Il film non deve contenere azioni superficiali (omicidi, armi ecc. non devono comparire).
È proibita l’alienazione temporale o geografica (cioè il film deve avere luogo qui e ora).
I film di genere non sono accettabili.
Il formato del film deve essere Academy 35 mm.
Il regista non deve essere accreditato.
Mi impegno inoltre come regista a evitare il gusto personale!
Non sono più un artista.
Giuro di non creare un’"opera", poiché ritengo l’istante molto più importante del tutto.
Il mio fine supremo è costringere la verità a uscire dai miei personaggi e dalle mie
ambientazioni.
Giuro di fare ciò con tutti i mezzi disponibili e a discapito di ogni considerazione di
buongusto o di carattere estetico.
Pronuncio a questo modo il mio VOTO DI CASTITÀ.
Copenhagen, lunedì 13 marzo 1995
LA MIA AMERICA – intervista a Lars Von Trier
di Marcella Peruggini.
Dogville di Lars von Trier, presentato in concorso al 56° Festival di Cannes, é un’opera
originale, cinema e teatro alla Brecht, con una star come protagonista, il premio Oscar
Nicole Kidman, che lavorando con von Trier ha realizzato un grande desiderio. Un film
degno di attenzione per contenuti intensi e recitazione convincente. Con uno scenario
finto, volutamente ricostruito a volte essenzialmente minimalista, che fa da sfondo ad una
storia di bontà e cattiveria, di amorevolezza e umana/disumana brutalità.
Lars von Trier è uno sperimentatore e forse un provocatore, un regista che scrive
velocemente le sue sceneggiature e che si prefigge obiettivi ben precisi da raggiungere. Si
è nutrito di cinema americano, ma non ama andare al cinema.
Di lei si dice che è un regista che ha cambiato le regole del fare cinema. Cosa ne pensa?
Penso semplicemente di aver dato qualche contributo positivo in un contesto
creativo talvolta poco vivace. Il cinema di oggi si assomiglia tutto. La mia speranza
è di aver creato qualcosa che può funzionare. Credo, inoltre, che oggi per chi fa
cinema sia importante avere una prospettiva più ampia sulle cose, al di là degli stili
che sono ormai sperimentati da tutti.
Dai film Dogma al cinema/teatro di Dogville, tutti film originali e diversi tra loro.
Si sente uno sperimentatore?
Sperimentare stili è una cosa divertente, ma è più importante cercare di esprimere
una certa prospettiva sui contenuti. E poi, a dire la verità, non mi sento un vero
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sperimentatore, perché quando lavoro a un film so dove voglio arrivare.
Ho in testa un progetto e vedo cosa posso fare con il materiale che ho in mente.
Così, una volta che ho l’ispirazione, scrivo soggetto e sceneggiatura abbastanza
rapidamente. In alcuni progetti, come i film Dogma, poco si può osare dal punto di
vista dell’esperimento per via delle regole, ma ora, per i due prossimi film, il
secondo e terzo della trilogia Usa – Land of opportunities – e il prossimo sarà
Manderlay sulla schiavitù – sono ancora più convinto di poter dire quel che voglio
dire.
E’ però innegabile la sua tendenza al continuo cambiamento.
Si, perché sono una persona molto curiosa. Realizzo i film per il mio piacere e non
per il piacere di farli. Vale a dire che faccio i film che io stesso vorrei vedere al
cinema…
Quale genere di cinema guarda volentieri?
Io non sono uno spettatore cinematografico, non vado praticamente mai al cinema.
Mia moglie ha ormai rinunciato a chiedermi se voglio accompagnarla al cinema,
perché già conosce la risposta. Magnolia è stato l’ultimo film che ho visto al
cinema e mi è piaciuto molto. Forse dovrei vedere più film. Ma in realtà alla fine
ognuno va avanti col proprio progetto e credo in un certo senso di avere un progetto
o meglio, per favore, lasciatemi almeno nell’illusione di credere che ne abbia uno!
Dogville è la risposta alle critiche che le sono state fatte per Dancer in the dark, ovvero
per aver girato un film sull’America, senza essere americano? Quanto è importante per lei
l’apprezzamento da parte della critica specializzata?
Si, uno degli spunti per fare Dogville mi fu dato all’epoca di Dancer in the dark da
un giornalista che aveva mosso quella critica. Comunque, apprezzo le critiche
positive e non odio chi mi giudica male. Ho lavorato a questo film ambientandolo
sulle Montagne Rocciose. E’ tutto evidentemente finto e volutamente ricostruito. Ma
io mi sento americano. Ho visto molti film americani e lavoro seguendo l’immagine
così come la vedo. Detto questo sono anche un po’ critico, perché non credo che gli
Stati Uniti, oggi, sono così come dovrebbero essere.
Come le è venuta l’idea di uno scenario nero con tratteggi bianchi?
Avevo bisogno di una mappa. Il film era stato scritto per uno scenario naturalistico.
Poi ho capito che era meglio così.
In Dogville appare una certa relazione con il teatro di Brecht: cosa ci può dire a questo
proposito?
Me lo chiedono spesso di questi tempi. Non ho una “vera” relazione con il teatro di
Brecht. Mia madre, invece, aveva una vera passione per lui. Forse mi è rimasto
qualcosa del suo sentimento.
L’ha forse influenzata nella scrittura L’anima buona di Sezuan, che racconta del rapporto
tra l’uomo e il fare del bene?
Le fonti di ispirazione sono tante. Ma quando porto avanti un mio lavoro cerco di
cancellare visivamente tutte le scene che sono la fonte di ispirazione e di tenere di
esse solo le idee, i concetti frammentati, nella mia testa. Poi ricompongo i
frammenti, scrivo rapidamente e non modifico più il materiale.
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I due protagonisti, Tom e Grace, sono personaggi buoni, ma pronti a trasformarsi in Caini.
Quanto c’è di lei in questi due personaggi?
I due personaggi centrali mi rispecchiano, è vero, e non ne sono orgoglioso.
Comunque un po’ tutti i personaggi rispecchiano l’autore. Perché si mettono in
scena persone e le loro azioni. Ti chiedi sempre come può agire un personaggio in
un determinato momento e non puoi essere che tu a dare la risposta.
Realizzerai il terzo Kingdom per la tv prima o dopo Manderlay?
Per Kingdom bisogna aspettare. Mentre insieme a Manderlay al momento sto
lavorando ad un progetto teatrale, L'anello dei Nibelunghi di Richard Wagner, che
dovrebbe essere pronto nel 2006. Ci lavoro ogni giorno, è una bella sfida.
Intervista all'attrice australiana
Il sorriso di Nicole Kidman star senza capricci
di MARIA PIA FUSCO – La Repubblica
"La prima volta che sono andata sul set, dove Lars aveva costruito gli elementi
essenziali della città di Dogville, piante di case, senza porte né pareti, mi ha
mostrato un angolo: "Vedi quel cane? Devi accarezzarlo per non farlo abbaiare". A
terra c'era solo il profilo disegnato di un cane. "Tutto lì il cane?". "Certo". "O.K.", ho
detto ed è cominciata così la mia avventura con Lars"
.
Bellissima, il sorriso smagliante, un cappottino rosa corto e sottile, le lunghe gambe nude,
Nicole Kidman è a Cannes con il film più atteso del festival, Dogville di Lars von Trier che
a giudicare dalle prime reazioni non dovrebbe mancare dalla rosa dei candidati al
Palmarès. È l'arrivo di una star, con tanto di aereo privato, muro di guardie del corpo e
folla in attesa dalla mattina, ma all'incontro Nicole Kidman è allegra e cordiale, sfida lo
sguardo severo del regista igienista fumando sotto il suo naso, è generosa di risate e di
allegria: come se conservasse la semplice spontaneità della ragazza australiana di un
tempo.
"Ovunque tu sia arrivata, ricordati da dove vieni, questo è il mio motto. Quando
vedo il circo dei fotografi e tante persone che mi ammirano, ricordo che anch'io ero
una di loro, mi piaceva tanto vedere gente famosa, ricordo ancora quando a 11 anni
riuscii a intrufolarmi su un set e vidi Mel Gibson! Mi ha guardato!, dicevo a tutte le
amiche ed ero felice come a Natale. Ancora oggi, quando entro nella stanza di un
albergo lussuosa, l'istinto è di saltare sul letto e saltare di gioia come una bambina".
Però è una star in grado di scegliere i registi. È vero che ha cercato lei Von Trier?
"Verissimo, avevo visto "Le onde del destino" e ho pensato che con un regista così
sarei stata pronta a qualunque cosa".
Dice la leggenda che Lars Von Trier maltratti le sue attrici...
"E' vero, me l'ha confermato lui, che era stato duro con Bjork, ma solo a beneficio
del film, perché Bjork più che un'attrice è puro istinto, aveva bisogno di sensazioni
vere e infatti ha fatto una bellissima intepretazione. All'inizio io ero diffidente, poi
abbiamo fatto una passeggiata di quattro ore nella foresta, abbiamo discusso,
litigato, ho pianto, poi ho riso, ci siamo detti tutto e al ritorno eravamo amici.
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E lo siamo ancora, se non fosse così sarei una pazza ad accettare di interpretare gli
altri due film che Lars vuole fare su Grace, il mio personaggio in "Dogville".
Perché le piace tanto lavorare fuori di Hollywood?
"Perché mi piacciono le sfide, mi piace viaggiare, espormi ad altre culture, usare quel
minimo di potere che ho per mettermi al servizio di un regista che mi incuriosisce. In
questo periodo mi piace la vita come un'esplorazione continua, ma so che non sarò
così per sempre, e forse non farò per sempre questo lavoro. Quando mi innamoro mi
piace fermarmi, abbandonarmi alla dolcezza della famiglia e della casa, mi è già
successo. E spero che mi succeda ancora".
Recensioni
FilmChips - Angelica Tosoni
Dall'alto, la macchina da presa si avvicina alle tavole nere di un pavimento di legno in cui sono
tracciate in bianco strade e case. Dogville si presenta allo spettatore sotto forma di mappa. Da
adesso si stabilisce tra Lars von Trier e la platea un patto che non si scioglie fino al termine del
film. Nell'istante in cui sullo schermo iniziano a scorrere titoli di coda e fotografie più o meno
vecchie di un'America povera, reietta e perdente l'accordo viene meno. E' il momento dell'esegesi.
Inquadrati dall'alto, i personaggi ricordano i topolini bianchi degli esperimenti. Dogville è un film
molesto perché emozionante al di là di ogni limite. Un laboratorio scientifico dall'impianto teatrale
brechtiano dà origine ad una straordinaria prova di cinema. La finzione scenica esplicita ed
esplicitata, grazie alla macchina da presa a spalla, concentra l'attenzione dello spettatore sui
rapporti tra i vari personaggi, sui moventi delle loro azioni e sugli oggetti con cui realizzano
relazioni simboliche. Non esiste altro. Il narratore, la voce fuori campo, assume la funzione del
coro della tragedia greca. La suddivisione in nove capitoli, pur non interrompendo il flusso emotivo,
garantisce lo spettatore dalle trappole dell'affabulazione e dell'identificazione. La trama potrebbe
erroneamente indurre a pensare si tratti di una pellicola simile ai tanti racconti di fuggitivi che
imperversano nella cinematografia mondiale. Nulla di più distante dalla verità. Sono gli anni della
recessione, la bellissima Grace è inseguita da pericolosi gangster. Fuggendo, la donna giunge
nella tranquilla Dogville. Sebbene inizialmente restii, grazie all'intervento di Tom, i cittadini
accettano di nasconderla. Per assicurarsi la benevolenza degli abitanti, la ragazza lavora per
ognuno di loro. Quando in città uno sceriffo affigge il manifesto della donna, ricercata ovunque,
Dogville esige molto di più. Il buon cuore nell'America democratica ha un prezzo: Grace diventa
proprietà dell'intera cittadinanza. Lars von Trier utilizza il film come una lente d'ingrandimento che
impietosa indugia sull'animo umano e sulle dinamiche di potere. E' un regista che non ama i suoi
personaggi, nell'assenza di affettività risiede la forza e la lucidità della sua regia. Talvolta, si ha la
sensazione di avere a che fare con un demiurgo che sperimenta le reazioni dei protagonisti a
contatto con un potente reagente: "metti in scena una persona, ti chiedi come agisce in quel
momento, e per forza sei tu che devi dare la risposta". Grace, interpretata da Nicole Kidman, non è
un'eroina, anzi. In lei prende consistenza un mutamento che la trasforma da materia inerte nelle
mani degli altri a splendida dea vendicatrice, in grado di determinare la sorte altrui. Se l'iniziale
necessità di credere e sperare in tutto ciò che è umano lascia intravedere qualcosa dell'Idiota di
Fedor Dostoevskij, l'assolutezza della scelta finale la allontana da qualsiasi sentimento di pietà.
Niente sangue sullo schermo, non ce n'è bisogno. Resta la condanna, resta l'esecuzione
implacabile. Tom è un filosofo, un aspirante scrittore, esempio di ipocrisia e di inabissamento
dell'idealismo nell'autoprotezione e nel perbenismo. Si tratta di un personaggio complesso, difficile
da riscattare che trova un valido interprete in Paul Bettany. Nel cast spicca Ben Gazzara,
magnifico ed intenso. Come definire il nuovo film del regista danese? Un esperimento? Una
messinscena teatrale? "Dogville - afferma Lars von Trier - è soprattutto un film e come film sono
soddisfatto della forma, del contenuto e della recitazione". Un capolavoro, aggiungiamo noi, un
raggelante straordinario capolavoro cinematografico.
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la Repubblica - Roberto Nepoti
Avremo ancora il coraggio di lamentarci del cinema? Ormai non passa settimana senza che
escano film belli o interessanti, tanto da far scarseggiare il tempo e gli euro necessari per vederli.
Però Dogville appartiene alla categoria "cinquestelle lusso": perderlo è vietato (pur col rammarico
che la distribuzione lo abbia accorciato di 40'). Se von Trier ci stupisce a ogni film, non è mai così
geniale come quando si aggira per il cinema della crudeltà: a qualcuno la sua rabbia potrà dare
fastidio, ma si tratta di un fastidio salutare. E Lars è un genio cattivo. Basta vedere il modo in cui
Dogville tra(sgre)disce le aspettative del pubblico; sia sul piano della storia, sia nel modo di
raccontarla. Inseguita dai gangster, la dolce Grace giunge nel borgo sperduto di Dogville e trova
la protezione dei tranquilli americani che vi abitano. In cambio, partecipa ai lavori della comunità.
Dovrà subire una dura delusione: poco a poco i buoni samaritani cominciano a esigere da lei
prestazioni in natura di vario genere, sottoponendola a oppressione psicologica, economica,
sessuale secondo la logica del profitto cui anche i poveri sono devoti. Proprio in nome di tale logica
gli abitanti del villaggio saranno puniti orrendamente, quando la nivea fanciulla deciderà di
assumere il proprio ruolo sociale. Il soggetto sembra riproporre le eroine sacrificali dei film
precedenti di von Trier, ma poi ne ribalta la personalità quando rivela la vera Grace. Il ribaltamento
che sorprende di più, tuttavia, riguarda il linguaggio. Dogville si situa all'opposto di "Dogma", il
manifesto del '95 dettato da Lars che ora, Demiurgo volubile, dinamita le regole imposte prima.
Invece di luoghi autentici e luce naturale, una scelta scenografica radicale dove gli spazi sono
disegnati sul suolo come nel tabellone del Monopoli e rappresentano ambienti (le case, la chiesa,
la scuola, i negozi, perfino la sagoma di un cane) disincarnati, privi di fisicità. Brechtianamente, il
film è diviso in nove capitoli e un prologo e raccontato dalla voce di un narratore onnisciente. Sono
gli strumenti linguistici di un nuovo corso, che l'autore chiama "cinema fusionale"
(cinema+teatro+letteratura), funzionali alla realizzazione di un'atroce, magnifica parabola sui
rapporti sociali. Circondandola di un grande cast, von Trier sfrutta al meglio il vero talento di
Kidman: mostrare un viso d'angelo e far affiorare per gradi tutta la ferocia del personaggio. C'è da
augurarsi che la "trilogia americana", concepita dal cineasta, prosegua con lei.
Il Giorno - Silvio Danese
Dogville è un paesino disegnato col gesso come si faceva in cortile, da ragazzini, per simulare il
mondo. Intorno c'è il vuoto, il buio o la luce accecante a seconda se è giorno o notte. Centrato su
una eretica parabola cristologica, designando una donna proba, Grazia, al posto del Signore, è un
altro film estremo del regista di "Dancer in the dark". Cancella il rapporto convenzionale del cinema
con la realtà fotografata e chiede allo spettatore di giocare con l'immaginazione come se leggesse
un libro, o se ascoltasse la radio. L'effetto straniante fa passare l'emozione attraverso la psiche e
aumenta, nel nuovo, la tragedia. Come si dice, è arte concettuale. Le strade sono definite da righe
bianche. Gli alberi da un disegno con la scritta "albero". I venti abitanti entrano ed escono aprendo
e chiudendo porte invisibili, ma sonorizzate, come i passi o i motori delle auto. «Teatralità
cinematografica» mai tentata così. Per la Kidman un altro passo nella maturità della recitazione.
Grande sfida, anche con i 40 minuti in meno rispetto a Cannes. E grandi detrattori, a partire da
Enrico Ghezzi.
Corriere della Sera - Tullio Kezich
È proprio vero che chi entra Papa in conclave ne esce cardinale. Approdato a Cannes come
favorito per la Palma d'oro, Dogville ne è uscito senza premi e con le ossa rotte. È bastata
l'opinabile decisione della giuria perché la diva Nicole Kidman, che si proclamava stanca ma felice
di aver lavorato con Lars von Trier e pronta a interpretare gli altri episodi della sua trilogia Usa, si
tirasse indietro; e per imperativi di mercato il regista ha dovuto ridurre di tre quarti d'ora i 180
minuti del film che riesumerà integri nel Dvd. Nel finale della canzone di Brecht e Weill «Jenny dei
pirati», la più evidente ispirazione di un melò che potrebbe intitolarsi «Grace dei gangsters», i
filibustieri dopo aver espugnato la città chiedono: «Chi dobbiamo uccidere?»; e Jenny risponde:
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«Tutti». In fuga dai malavitosi che la inseguono, Grace si nasconde in un borgo ai piedi delle
Montagne Rocciose dove trova asilo e lavoro. Ma, dopo un breve periodo felice, quando si scopre
che la straniera è ricercata dalla polizia, le cose cominciano a cambiare. La cittadina si rileva
un'accolita di gente infida: Grace viene angariata, taglieggiata, stuprata e infine, per un'ingiusta
accusa di furto, incatenata a una pesante ruota. L'ipocritone Tom, l'unico fra i maschi che
credendo di amare la malcapitata non ha partecipato alla violenza collettiva, conclude comunque
che sarà meglio sbarazzarsene e telefona al padrino della mala che è anche il padre di Grace.
Avrà appena il tempo di pentirsi. Nell'affrontare la descrizione di un paese dove non è mai stato,
quasi imitando i nostri grandi americanisti da Vittorini a Pavese, Von Trier (anche se lo nega) si è
ricordato di un dramma che ebbe successo poco prima della Seconda Guerra. Come in «Piccola
città» di Thornton Wilder c'è un narratore (presente però soltanto «in voce»), non ci sono
scenografie realistiche, appena i tracciati sul pavimento dello studio e pochi elementi di arredo.
Tira un'aria da vecchio teatro moderno che sulle prime sembra un residuo di avanguardismi
superati, ma nel procedere dell'azione si entra nel gioco e se ne intendono la raffinatezza e la
necessità. La suggestione nasce dallo stile (inquadrature, illuminazione, montaggio) e dalla
presenza di attori che andrebbero elogiati uno per uno. Il sentimento che pervade la finta tragedia
americana è di un pessimismo agghiacciante.
l'Unità - Alberto Crespi
Eccola qui, la versione «condensata» di Dogville, nuova attesissima opera del danese Lars Von
Trier: dura circa 40 minuti in meno rispetto al film che ci siamo sciroppati a Cannes. Ma aspettate a
lanciarvi in pubblici appelli in difesa degli autori e della libertà di espressione: i tagli li ha fatti Von
Trier medesimo, non appena i venditori internazionali gli hanno insinuato il dubbio che 177 minuti
fossero un po’ troppi. Anche con 40 minuti in meno, Dogville rimane sufficientemente se stesso
per dividere il pubblico come è successo a Cannes: qualcuno, convinto che Von Trier abbia
inventato il cinema, l'amerà; qualcuno l'odierà, irritandosi per le trovate ad effetto del danese; e
qualcuno (fra i quali chi scrive) si collocherà nel mezzo, in una gelida indifferenza, la stessa che
provammo all'uscita da Dancer in the Dark. Inutile dire che l'indifferenza è proprio ciò che
manderebbe in bestia Von Trier, geniale press-agent di se stesso, regista il cui indubbio talento è
finalizzato a far parlare sempre e comunque di sé. Von Trier vuole stupire, indignare, farsi amare o
odiare. Con noi, casca male: non lo amiamo e non lo odiamo. Rispetto a Dancer in the Dark,
Dogville prosegue la medesima operazione intellettuale - ricreare in studio un'America «mentale»
e mai vista - ma con alcuni decisivi passi indietro. Intanto non c'è la trovata del musical, né
un'interprete/non attrice di straordinaria personalità come la cantante islandese Bjork. Il Dogma è
stato totalmente dimenticato, lo stile è più tradizionale. La novità di Dogville dovrebbe risiedere
tutta nella messinscena, ma proprio qui l'operazione di Von Trier mostra la corda: mutuando
soluzioni dal teatro d'avanguardia, il regista cade irrimediabilmente nel teatro filmato. E di secondo
piano: perché Von Trier non ha voluto (ci mancherebbe!) filmare un testo di Tennessee Williams o
di Thornton Wilder, ma ha voluto ricreare a suo modo quei grandi drammaturghi, mescolandoli con
suggestioni da scrittori hard-boiled come Dashiell Hammett. Abbiamo quindi, nell'ordine: un testo
che è un pastiche del teatro americano e del romanzo noir, un allestimento che sembra un Luca
Ronconi riciclato e una recitazione naturalistica, di alto livello, ma convenzionale. A questo punto
vorrete sapere cosa racconta Dogville, e soprattutto come lo racconta. Il «cosa» è presto detto:
Nicole Kidman è Grace, una donna in fuga che si rifugia in una minuscola cittadina sulle Montagne
Rocciose e chiede asilo, ed aiuto, alla comunità. I cittadini di Dogville scoprono ben presto che
Grace è inseguita dai gangsters; Grace scopre a sua volta che farsi accettare da Dogville è più
difficile e penoso di quanto si potesse immaginare. Alla fine i gangsters arrivano a Dogville e
Grace deve confrontarsi con il loro capo (una magnifica comparsata del grande vecchio James
Caan). Non vi diciamo né chi è il capo, né come si risolve il conflitto nel quale Grace è incastrata.
Sappiate solo che se il nome vi suggerisce qualcosa, avete ragione: come Selma in Dancer in the
Dark, e come Bess in Le onde del destino, anche Grace è una puttana santa, una Maria
Maddalena vittima della ferocia del mondo. Solo che Grace sa trasformarsi, nel finale, da agnello
sacrificale a dea vendicativa. Il «come» vi è stato riferito da Cannes, ripetiamolo: la cittadina di
Dogville è tutta costruita in studio, e consiste di 6-7 abitazioni le cui mura sono solo tracciate sul
pavimento, come in una mappa. Solo alcuni elementi scenografici (una porta, un mobile, una
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finestra) suggeriscono la disposizione delle case, ma la convenzione fa sì che gli attori recitino
fingendo di essere in un ambiente reale (per cui, se uno di loro bussa su un uscio che non esiste,
si sente «toc toc» e l'altro attore dice «avanti»). In questo ambiente, oltre ai citati Kidman e Caan,
si muovono grandi attori come Harriet Andersson, Lauren Bacall, Jean-Marc Barr, Paul Bettany,
Philip Baker Hall. Alcuni dei quali (soprattutto Hall e la Bacall) decisamente sotto-utilizzati. La voce
narrante, in originale, è di John Hurt.
Sole 24 Ore - Roberto Escobar
Il perdono? É un'arroganza. Cosi assicura il Gangster (James Caan) a Grace (Nicole Kidman),
nell'ultima sequenza di Dogville (Francia, 2003, 137'). Segue poi una motivazione complessa, di
cui possono bearsi i molti estimatori di Lars von Trier. Quanto ai pochi scettici, dopo oltre due ore
anche loro hanno un motivo di gratitudine nei confronti del regista danese. Il quale, appunto, ha
provveduto da sé a tagliare 40 minuti dei 177 originali. Insomma, il mestiere dei recensore ha i suoi
inconvenienti. Da spettatori, dopo qualche sequenza di Dogville si può mettere in atto con
tranquilla dignità una delle strategie che più alleggeriscono la condizione umana: la desistenza. Da
recensori, invece, si è obbligati al suo opposto: la resistenza (in platea). A tale scopo, può risultare
d'aiuto ripassare a mente la presa di posizione "poetica" di von Trier, o almeno la sua più nuova.
Quanto alla precedente - nota come Dogma, e il cui testo sacro pullulava di must, forbidden, not
acceptable e truth -, pare che non se ne debba far più niente. Con tanti ringraziamenti e attestati di
ben servito agli autori e ai critici che, entusiasti e come un sol uomo, dal 1995 a oggi l'han seguito
lungo un vicolo cieco. Oggi, dunque, von Trier si fa apostata della propria stessa fede. Non più
divieto di luci artificiali, non più divieto di filtri e trucchi ottici, non più dovere di cavar fuori la Verità
da luoghi e personaggi. Niente più appelli alle virtù militari della disciplina (espressiva). Niente più
"uniformi" in cui rinserrare i film. Niente più giuramenti di fedeltà ("I swear...", "Io giuro...", si
leggeva nel testo fondativo di Dogma, che gli adepti eran chiamati a sottoscrivere con animo
grato). Ora il Maestro - che i più sbarazzini tra i fedeli, forse non senza brividi, ardiscono chiamare
Lars, per così dire en amitié - indica tutta un'altra via verso l'Essenza del Cinema. La quale
Essenza pare stia, almeno fino a contrordine, nel la formula magica detta del cinema fusionale.
Per spiegare alla buona: si prende un certo numero di macchine da presa le si mene su un
palcoscenico e ci si aggiunge prosa letteraria quanto basta. La ricetta non lo precisa, ma pare sia
consigliabile insaporire con l'aggiunta di divi e dive di sicuro richiamo, anche a maggior gloria della
produzione. Naturalmente, ogni autore ha il diritto di teorizzare come meglio crede. E ha anche
quello di sostenere emerite sciocchezze. Ma fine, quel che conta è la sua opera. Nel caso
specifico, quel che conta è Dogville. Ossia: un pezzo mediamente furbo e mediamente superfluo,
ma certo non originale, di teatro filmato. Gli estimatori aggiungono l'aggettivo brechtiano, che torna
nei loro elogi con la stessa insistenza di crudele, atroce, magnifico. Gli scettici, invece,
preferiscono lasciare Bertolt Brecht dove si trova, anche per rispetto d'un teatro che è stato
grande. D'altra parte, si trattasse solo di teatro filmato, le due ore e più passerebbero senza troppi
danni. Ma non c'è via di scampo: la ricetta impone l'aggiunta d'una voce narrante, che nel caso
specifico non dà tregua agli orecchi, risultando ancora più petulante che letteraria. Torniamo ora al
perdono e all'arroganza. Anzi, facciamo un passo indietro, come si leggeva una volta nei
romanzoni popolari (questo è il film, in fondo: una specie di Cieca di Sorrento, ma "brechtiana").
Fatto il passo indietro, troviamo quella che ci assicurano sia la visione del mondo di von Trier:
l'umanità è una sentina di malvagità con spiccata attitudine al tormento di fanciulle giovani e belle.
Infatti, i bravi paesani di Dogville - che la regia ci mostra nelle loro case disegnate con il gesso,
intenti a mimare con puntiglio l'apertura e la chiusura delle porte -, i bravi paesani, dunque, ne
combinano di cotte e di crude sulla pelle (e tutto il resto) della povera Grace. Qui si vorrebbe
aggiungere che, dato il nome (Grazia), qualcuno azzarda l'ipotesi che si tratti di un film quasicristiano. Ma persino il diritto alle idiozie ha un limite. Dunque, ci limitiamo a osservare che la
povera Grace abbozza. Infatti, così ancora ci assicurano, von Trier ha una vera passione per le
vittime che stanno al gioco. O almeno ce l'aveva fino a ieri. Oggi, con il cinema "fusionale", tutto
cambia: la signorina smetterà d'essere arrogante e farà un bel massacro, bambini inclusi. Morale?
Non si sa. Comunque - così ancora ci spiegano - si tratta d'un geniale "ribaltamento" della
precedente poetica del Maestro. Sarà vero? Non sarà vero? Per quel che ci riguarda, alla fine di
Dogville, alzandoci dalla poltrona ce l'abbiamo, una certezza, e anche arrogante: la prossima
volta, invece, andremo al cinema.
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