New York City, vivere la città più famosa al mondo

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New York City, vivere la città più famosa al mondo
di Massimo Passera
Un morso
alla
Grande
Mela
New York City, vivere la
città più famosa al mondo
S
i accendono le luci della cabina. Tra qualche applauso (e qualche sospiro), l’assistente di volo vi augura: “Welcome to JFK
International Airport”. Signore e signori, siete atterrati nella capitale del mondo. Passport control, ritirate lo zaino, e
oplà, siete sulla NYC subway: “Take the ‘A’ train”, man! Sì, quello di
Duke Ellington. Harlem è laggiù, in fondo al binario. L’atmosfera attorno a voi comincia a cambiare. Dov’è finito quel tipo indaffarato tra Samsonite e Blackberry? E’ un processo graduale, ma i turisti
che vi accompagnano (i pochi che non hanno preso il taxi - o l’elicottero - per raggiungere Manhattan) sembrano scomparire poco a
poco, sommersi dalle ondate di umanità che invadono la vostra carrozza ad ogni fermata. Euclid Avenue, East NY, Utica Avenue; è la NY
che pochi stranieri conoscono; sono i milioni di persone che vivono la NY lontano dal glamour della Fifth Avenue. Un’ora dopo siete
a Manhattan. Ovunque scendiate, l’emozione è forte. I suoni della
città si mischiano a quelli del vostro iPod. Miles Davis. Washington
Square, il cuore pulsante del Greenwich Village. Giocolieri, skateboards, passeggini, punk, rappers, gente che legge, gente che balla.
Chitarre ovunque. Ti sembra di sentire anche quella di Bob Dylan. E
quell’elegante signora laggiù? Joan Baez? E’ lei! Vi guardate, ti sorride,
ma per l’emozione non riesci nemmeno a dirle “Hi”! Sulla panchina,
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Foto di Diego Beltramo
una studentessa (siete nella piazzetta della New York University...) legge un libro di Henry James (“Washington Square”?). Un
iguana si avvicina, meglio spostarsi. Nell’angolo giocano a scacchi, da sempre. Più in là, all’angolo tra West 4th e 6th Avenue,
i ragazzini si arrampicano nell’aria sul campetto da basketball.
Comincia a far buio, l’atmosfera è tanto vibrante e densa da poterla tagliar a fette, dice Diego. Scivolando giù per lo scivolo,
sorridendo ad occhi chiusi, scatta due foto. Le sue immagini di
quest’angolo di mondo sono tra le più belle che abbia mai visto.
NY è così, è la “melting pot”, come la chiamano qui da sempre,
il villaggio globale, anche se avete il Wi-Fi spento. Sarete una
goccia d’acqua, una in più, come scrive Poly - in quest’oceano
non è difficile sentirsi a casa.
E’ mattino, vi alzate presto. Scarpe comode, caffè e bagel in
mano, siete pronti a buttarvi nella mischia. Subito su, in cima
all’Empire State Building. Quando mio padre mi portò lassù da
ragazzino, guardando il luccichio della città non ebbi dubbi:
“Qui, prima o poi, vengo a viverci!”. Qualche anno dopo ero lì.
Da Caselle Torinese a NY, un bel balzo! Nei primi tempi, di notte andavo alla base delle Twin Towers a stendermi su una panchina e guardare all’insù, con gli U2 nelle orecchie. Ero davvero
lì? Sì, e senza alcuna premura di andarmene! (Andarmene??)
Poi, poco alla volta, il sottofondo rilassante dei campi da tennis di Caselle, il suono secco e pulito del colpo della racchetta,
lasciò spazio al rumore degli antifurti dei parcheggi tra Mulberry e Canal Street. A modo suo, NY stava diventando “casa”.
Giù dai grattacieli: il nuovo MoMA, MET, Guggenheim. Too much! Central Park. Poly e Gus che giocano a pallone. Vi lasciate
alle spalle gli “Strawberry Fields” di John Lennon. E’ ora di andare da “Zabar’s”, 80th e Broadway: un’aringa affumicata placherà quel languore di stomaco. Subway per downtown, a perdersi
nel Village, a caccia di quel libro usato da “Strand”. Astor Place.
Union Square, il farmers’ market. Mentre morsicate una mela,
guardate all’insù. Quella era la “Factory” di Andy Warhol. Chissà come son stati qui gli anni ‘60?! A NY tutto cambia in fretta,
ma le foto scattate da mio padre qui in quegli anni sono più vive che mai. Alle gallerie di Chelsea e SoHo! Giù per Broadway,
l’acciottolato di TriBeCa, Little Italy (Italy?), Nolita, l’East Village
di Basquiat. Birretta fresca da “Sidewalk”, poi Tompkins SquaLuglio - Agosto 2009 zeroquindici
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re, Charlie Parker Place, i suoni Nuyorican, i murales di Loisaida, i loft da capogiro di Williamsburg, a Brooklyn, i pesci (e le
banche) di Chinatown. Siete emozionati, increduli e felici. Vi fermate da “Pearl Paint”, a Canal Street, per comprarvi due lattine
di colore. (Che vi servano o no, entrateci ugualmente.) Passate il
Manhattan Bridge, siete a Dumbo. Le scene della “25th hour” di
Spike Lee vi scorrono davanti agli occhi. Trovatevi una bici e, dato il numero di incidenti che ho avuto, un caschetto. D’ora in poi
il vostro peggior nemico sarà l’onnipresente taxi giallo. Il Brooklyn Bridge! Tornate a Manhattan. Woody Allen dev’essere qui.
Wall Street (già, Wall Street). A Ground Zero non son mai andato. Preferisco così. Pedalate fino a Battery Park per prendere il
ferry per Staten Island. Eccola lì, la Statua della Libertà! Ed Ellis Island. Alla fine dell’800 mio bisnonno aveva seguito fin qui
il Sogno Americano. Da qui, all’inizio del 900, suo figlio partiva per l’Italia. Prima o poi avrete fame e, pranzo o cena che sia,
non c’è luogo sul pianeta che offra più possibilità di NY. Ci vorrebbero pagine per raccontare i piatti, i profumi ed i sapori che
ho archiviato in specifici files nell’ippocampo in tanti anni di gastronomia newyorkese (files in continuo aggiornamento). Guida “Zagat” in mano (sfogliatevela da Barnes&Noble, bevendo un
caffè, o sull’iPhone), dalla “slice” di pizza all’arte di “Nobu” ci sono ottime opzioni per tutti. Provate tutto: come perdersi il pastrami di “Katz’s”, nel Lower East Side? (Non fatevi distrarre dal
tavolino della celebre scena del finto orgasmo di Meg Ryan in
“Harry ti presento Sally”!) E che dire della fantastica anatra alla pechinese della “Peking Duck House”, a Chinatown, o dei kokoretsi di “Barba Jorgos” ad Astoria, Queens? (A poche miglia da
Flushing Meadows...) Se è Domenica, precipitatevi a Chinatown
per il Dim Sum da “88 Palace”, sotto il ponte di Manhattan. Qui
serve il quarto dan per raggiungere il tavolo, ma ne vale la pena.
Eppoi c’è il sushi di “Tomoe” che, a mio parere, è secondo solo
alla “finanziera” di mia madre ed al “bobó de camarão” di mia zia
Lucia. A notte fonda vado all’”Olive Tree”, nel Village. Non chiude
mai. Mentre aspetto la borscht e la mia fantastica insalata tabouli, sul fondo scorrono i film di Charlie Chaplin. Li ho visti e rivisti
qui mille volte, ma continuo a ridere. Prendo un gessetto bianco e comincio a scrivere le mie formulette (i tavoli sono d’ardesia). Arriva la pita, appena sfornata. Fuori nevica. Mezzanotte.
Saliamo su un tetto. Su, fino alla cima della cisterna d’acqua più
alta. La vista dell’East River è splendida. Scatto una foto. La serata promette bene. Chi suona stasera? Il fascino della Carnegie
Hall, le luci del Lincoln Center, i gospel e le jam sessions di Harlem, electronic dance downtown, punk nel Lower East Side, minimal-techno off the beaten beat, samba o axé, salsa o rumba,
reggae o reggaeton, hip hop o R&B... Nella “Big Apple” il problema è solo scegliere. Fatevi guidare dai blog, dal “Village Voice”, e
dalle vostre orecchie. Certo, locali chiudono, altri aprono. Il bello sta anche lì. La musica sperimentale non è certo morta con la
chiusura del “Tonic”, né il rock con quella del “CBGB’s”! E’ quasi
mattino, gli afterhours clubs vi aspettano... São Paulo, Londra,
Tokyo, Sydney; tutte le città fanno un pisolino. NY no. La metropolitana non si ferma, ristoranti e supermercati non chiudono
mai. La spesa a Bleecker Street? La fai di notte, tornando a ca5TH AVENUE - NEW YORK CITY
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sa. Perché farla di giorno, quando la coda alla cassa è più lunga? “The city
that never sleeps”. E di notte incontri anche gli homeless rannicchiati nei
loro scatoloni, a sfidare il gelo d’inverno e le “heat waves” d’estate. NY è
anche questo. A NY incontri molte persone, ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, come dice Vasco, ma le amicizie vere sono rare e preziose, come ovunque. Io ho avuto fortuna: i miei amici di NY sono ormai dispersi in
tutto il mondo, ma ogni occasione è buona per ritrovarci tutti, da qualche
parte, come si faceva a Washington Square. Ogni volta che torno qui mi si
rovesciano addosso i miei anni ‘90 vissuti con loro. La notte che Sasha ha
lasciato la Fisica, che Gus ha lasciato NY, che Leo ha lasciato me a JFK. Che
Oleg ci ha lasciato. “Leaving New York, never easy”, scrivono i R.E.M. Ma il
mondo è rotondo, e anche se NY te l’ha fatto vivere intensamente, presto ti
accorgi che la crisi d’astinenza da questa città non è altro che l’insuccesso
della ricerca in te stesso. Se sei saggio la risolvi, ci torni con occhi nuovi,
e magari progetti una vita nuova da qualche altra parte. “Io amo NY”, scriveva Italo Calvino un bel pò di anni fa, “...e l’amore è cieco. E muto: non
so controbattere le ragioni degli odiatori con le mie [...] Farò scrivere sotto la mia tomba, sotto il mio nome, ‘newyorkese’”. Riposa in un’antica cittadina toscana, all’ombra di siepi da cui si vede il mare. Il vostro tempo a
NY passerà in fretta. Prima i giorni, poi le settimane e i mesi, e ben presto la lunghissima lista che vi eravate preparati prima di arrivarci, di tutto ciò che volevate vedere, ascoltare, toccare, gustare e annusare, adesso
vi farà sorridere. Vi accorgerete che era in realtà così breve, così esigua!
Non avevate scritto le corse in bici lungo l’Hudson River d’autunno, le partite a calcio a Brooklyn, le nottate con gli amici nel Lower East Side, qualche metro sotto terra. Mancavano i kebab con mia madre nell’East Village,
Washington Square con la neve, le scalate sui tetti di NYU al tramonto, il
viaggio in Brasile che vi ha cambiato la vita. Ma come potevate immaginarvelo? Chissà, forse vi deciderete a comprare la vostra prima Moleskine e,
macchina foto sempre con voi, comincerete ad annotare e fotografare tutto. Un riflesso da “Mc Sorley’s”, un gigantesco quadro blu a Williamsburg,
la luce del biliardo di “Sophie’s”, un viso ad Harlem. Anni dopo, quelle senzazioni sono ancora lì, ed altre si aggiungono. Magari vi chiederanno persino di scrivere un breve articolo sulla “vostra” NY. Cercherete allora le
vostre Moleskine e vi ci perderete dentro. I giorni a NY non bastano mai.
Dovrete per forza tornarci.