Censimenti a confronto e rappresentazioni del divario
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Censimenti a confronto e rappresentazioni del divario
Censimenti a confronto e rappresentazioni del divario Roberto Foderà CULTURA E SOCIETÀ Attraverso la ricostruzione delle informazioni fornite dai censimenti si presentano confronti fra la Sicilia e le altre regioni su tre fenomeni: il tasso di urbanizzazione, il tasso di istruzione e la struttura familiare 1 Introduzione Questo lavoro prende spunto da un progetto di recupero delle informazioni dei censimenti della popolazione svolti dal 1861 ad oggi, intendendo per informazioni sia i dati che permettono di delineare gli andamenti socio-demografici, che le modalità di attuazione dei diversi censimenti, come il questionario, sia lo strumento di misura dei fenomeni sociali che un suo derivato. Le difficoltà nel costruire confronti tra dati distribuiti in un così lungo lasso di tempo si manifestano anche nei confronti spaziali, tra territori, in quanto se i primi vengono necessariamente riferiti a ambiti amministrativi (comuni, province, ecc.) questi non sono rimasti i medesimi nel tempo. In questo testo si vuole fornire una prima ispezione su alcune differenze tra la Sicilia e l’Italia, inserendo, quando significativi, i dati di altre regioni. Le divergenze tra le aree del Paese rappresentano oggi un elemento evidente a tutti. Cercare di studiare come si sia arrivati a queste differenze, posto che si sia partiti da posizioni non distanti, è compito di storici, economisti, scienziati sociali, e certo i dati dei censimenti non potranno dare risposte definitive, ma potranno essere solide basi di riflessione. Tra gli innumerevoli spunti che le rilevazioni censuarie permettono si è scelto di rappresentare solo tre fenomeni sociali che permetteranno però di procedere bilanciando il peso delle riflessioni su due gambe: la gamba dei dati statistici e quella delle riflessioni metodologiche. I tre fenomeni che verranno esaminati sono il tasso di densità demografica, nella sua declinazione di tasso di urbanizzazione, il tasso di istruzione e la dimensione media della famiglia. 2 Il tasso di urbanizzazione Oggi quando si vogliono confrontare due paesi o due territori per individuare quello che possa essere considerato il più sviluppato si usa un semplice indicatore economico-statistico, il prodotto interno lordo (pil). È il pil un valore delle cose prodotte, siano esse beni o servizi. È un indicatore criticato ma è quello che usiamo perché lo riteniamo la miglior misura dello sviluppo. Proviamo a fare un viaggio nel tempo e tornare nella mente di uno studioso del 1861. Se si volesse allora cercare un indicatore simile al pil cosa si sarebbe potuto utilizzare? L’indicatore che veniva utilizzato era la densità demografica, ovvero il rapporto tra la popolazione e la superficie occupata. In mancanza di qualunque altro indicatore e nella certezza che la forza umana, la consistenza della popolazione, fosse la forza della nazione, la densità della popolazione rappresentava il grado di sviluppo di uno stato. Una misura più accurata era rappresentata, in particolare, dalla quota della popolazione che risiedeva in città: la dimensione della città esprimeva la dimensione dello sviluppo. Un paese sviluppato si riconosceva dalla consistenza delle sue città e il tasso di urbanizzazione diventava così l’esatto corrispondente del pil odierno. Una forte presenza di città popolose indicava, necessariamente, un maggiore sviluppo. StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 Questo legame verrà espresso nella maniera più diretta e chiara da Giandomenico Romagnosi che legherà esplicitamente il tasso di civiltà di un popolo, quello che oggi chiameremo tasso di sviluppo, con il tasso di concentrazione della popolazione nelle città. Romagnosi nella sua ricerca su L’indole e i fattori dell’incivilimento parte dalla constatazione che la stessa parola “incivilimento” richiama il termine città: “E quanto alla derivazione nominale, ad ognuno si fa palese che il nome di civiltà e di incivilimento vengono da quello di città” [10, p. 9]. L’elemento da osservare è “l’aggregazione dunque colla sua vita collettiva” [10, p. 17] e assumeva rilevanza come il suo livello potesse essere stimato da un lato attraverso il tasso di crescita demografico dall’altro attraverso il tasso di urbanizzazione, quasi fosse una misura più fine all’interno del concetto di densità. Per farla semplice il tasso di urbanizzazione è la quota di abitanti di un territorio che risiedono all’interno di una città rispetto al totale delle persone che risiedono nel territorio. Il percorso logico seguito degli studiosi del XIX secolo era delineato dall’idea che una maggior urbanizzazione era sintomo di sviluppo perché, se misuriamo la concentrazione delle residenze – dei focolari –, abbiamo una misura della capacità umana di sostenersi, poiché il lavoro delle campagne permette di mantenere una parte della popolazione che può così dedicarsi alle attività manifatturiere ed artigianali, ad attività di servizio o di svago. Ciò comporta una indiretta misura dello sviluppo o, come lo chiamò Romagnosi, dell’incivilimento. Più complicato è invero definire cosa possa essere indicato come città, tanto che nei cento cinquant’anni trascorsi le definizioni sono cambiate. Senza entrare nel dettaglio delle diverse classificazioni succedutesi nel tempo – dal concetto di città aperta o di città chiusa (in relazione alla cinta daziaria che chiudeva, all’interno delle mura storiche, la zona antica della città) o di soglia demografica minima per assurgere a titolo di città, soglia che poteva essere definita a livello assoluto (numero di cittadini residenti) o relativo (numero di cittadini oltre una soglia media territorialmente definita) – qui si vogliono prendere per buone le analisi che gli stessi redattori dei dati censuari hanno fatto. Figura 1 Distribuzione della popolazione per divisione territoriale StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 Fonte: [7, p. XXIV] Prescindendo quindi da verifiche più fini e utilizzando i dati del primo censimento così come sono stati immaginati da chi li ha prodotti, si scopre che il maggior tasso di urbanizzazione, cioè la maggior quota di popolazione che risulta residente nei “Centri” che possano essere definiti città, è proprio quello siciliano. La figura 1, tratta dalla relazione alle risultanze del primo censimento del 1861, rappresenta la tabella relativa alla distribuzione della popolazione in “centri”, “casali” (praticamente le odierne frazioni) e “case sparse”. Se dovessimo pertanto valutare il livello di sviluppo dei territori al 1861 dovremmo dire che l’area più avanzata era la Sicilia e che il Mezzogiorno risultava più moderno del nord Italia. Questa analisi verrà ripetuta ai censimenti seguenti, purtroppo con accorpamenti tra centri urbani e casali, ma le risultanze non cambiano in quanto ancora le regioni del sud Italia presentano gli indicatori maggiori. La tabella 1, tratta da uno studio di D’Addario del 1932, mostra la quota per 1000 abitanti della popolazione agglomerata, ovvero il corrispondente tasso di urbanizzazione1. Tabella 1 – Popolazione agglomerata (per 1000 abitanti) ai censimenti del 1871, 1901 e 1921 Regioni Piemonte Lombardia Veneto 1871 742 787 585 1901 708 769 544 1921 751 801 590 1 L’indicatore utilizzato viene descritto così dall’autore: un modo per avere l’idea di come la popolazione si distribuisca si ha facendo il rapporto tra l’ammontare della popolazione agglomerata e l’ammontare della popolazione complessiva, rapporto che, brevemente, chiameremo coefficiente di agglomeramento. Si ha così, in certo modo, notizia della più o meno forte tendenza della popolazione ad accentrarsi. [2, p. 63]. StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 Emilia Toscana Lazio Campania Puglie Sicilia 417 563 869 893 935 932 406 549 832 834 931 892 451 576 853 836 927 893 Regno 743 718 742 Fonte: elaborazione da [2, p. 65] Come si nota in questa serie il valore siciliano rimane tra i maggiori, superato solo da quello pugliese mentre i valori delle regioni del nord si collocano sotto la media del regno o attorno ad essa con solo la Lombardia con agglomerazioni urbane maggiori. Oggi sarebbe relativamente facile contestare che l’indicatore non è certamente il migliore, che l’urbanizzazione è dettata o condizionata dalla geografia del terreno – distribuzioni diverse degli abitati si avranno in zone di pianura o in zone di montagna –, che è dettata o condizionata dalla struttura produttiva – cento cinquant’anni fa l’economia era agricola e dipendeva dalla estensione del terreno coltivato e dalla tipologia delle coltivazioni, cosicché ad esempio feudi coltivati a campi di grano chiedevano diverse modalità colturali dei poderi coltivati a riso e corrispondenti presenze sul territorio dei lavoratori – e che la diversa struttura produttiva comportava la nascita di diverse tipologie di agglomerati urbani. È nota la differente storia dell’agricoltura nelle due aree del paese e, con essa, la differente distribuzione e crescita delle località abitate. L’imperfetta attribuzione del significato di sviluppo (incivilimento) a tale indicatore può essere segnalata, pur senza fornire indicazioni quantitative, traendo spunto dai resoconti dei viaggiatori che svolgevano il gran tour che, come ci ricordano Daniele e Malanima, potevano “camminare per giorni e giorni senza vedere anima viva nelle campagne; finché s’incontrava un grosso borgo di migliaia di persone abitato per la maggior parte da contadini” [3, p. 16]. Ma, è questo l’elemento cognitivo da sottolineare, con gli occhi di uno scienziato sociale del 1861 la misura della civiltà era questa. Con gli occhi e la mente e le conoscenze di uno scienziato sociale della metà del XIX secolo non potevano esservi dubbi. 3 Il tasso di istruzione Un fenomeno che oggi si ritiene elemento di base per affrontare il concetto di sviluppo è il tasso di istruzione della popolazione. In una società che, non a caso, si definisce della conoscenza, la misura della capacità concettuale diventa un elemento inevitabile. Svariati possono essere gli indicatori che misurano il tasso di istruzione: il più semplice, e anche per questo il più diffuso al mondo e misura con la quale è possibile svolgere confronti territoriali, è il titolo di studio raggiunto. Oggi questa misura sembra ovvia e i dati sono rilevati in quasi tutte le nazioni, anzi l’indicatore è spesso criticato in quanto è ritenuto una proxi piuttosto grezza delle reali competenze della popolazione. Questa è una delle richieste che l’indagine censuaria del 2011 pone tra i quesiti bloccan- StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 ti2. Se si osserva il questionario dell’attuale censimento (scaricabile da www.istat.it) le articolazioni dei titoli di studio sono svariate e per alcune tipologie vengono richieste anche delle specifiche. Ma questo non è stato vero sino all’ultimo censimento anteguerra, quello del 1936. La richiesta infatti si articolava in due sole domande: “sa leggere?”, “sa scrivere?”, che permettevano tre modalità di risposta, sa leggere, sa leggere e scrivere, nessuna delle due. In quest’ultimo caso la persona veniva classificata come analfabeta. Le elaborazioni distinguevano questo caso dall’insieme dei due precedenti che venivano aggregati come alfabeti. In una società come quella italiana di metà del XIX secolo in cui su alcuni territori si arrivava anche al 90 per cento di persone non alfabetizzate, la differenza di composizione tra regioni poteva assurgere a dato di discernimento; sempre meno questa distinzione poté risultare significativa più si diffondeva l’istruzione. Certamente meno significativo è il tasso di analfabetizzazione nel 1936 rispetto a quello del 1861. 2 I quesiti bloccanti sono domande alle quali i rispondenti devono fornire obbligatoriamente una risposta. Questi quesiti sono stati stabiliti a livello di Commissione europea e sono validi, vincolanti quindi, per tutti i paesi dell’Unione Europea. StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 Tabella 2 – Tassi di analfabetismo per alcune regioni (su popolazione con almeno 6 anni) Regioni Piemonte Lombardia Veneto Emilia Lazio Campania Puglie Sicilia Regno 1861 50,2 53,7 n.d. 77,7 n.d. 87,9 87,0 88,6 78,0 1881 1901 31,8 36,7 57,8 63,4 57,8 75,1 80,0 81,1 67,3 1921 18,0 21,6 35,3 46,3 43,9 65,1 69,5 70,9 56,0 6,8 8,6 15,0 21,1 26,0 40,9 49,2 49,0 36,5 Fonte: Elaborazioni su dati Istat Se volessimo leggere differenze tra aree territoriali attraverso la composizione per alfabeti/analfabeti il Mezzogiorno, a differenza dell’indicatore precedente, si trova in una condizione di netto svantaggio. Il censimento del 1861 classifica per la Sicilia quasi l’89% della popolazione con almeno 6 anni come incapace di leggere e scrivere, per la Campania sfiora l’88%. Tra le regioni del nord Italia il Piemonte tocca il 50,2% e la Lombardia non supera il 54%, La quota per l’intero regno è pari al 78,0%, sempre considerando la popolazione con 6 ani e oltre. Un grafico in cui la dinamica temporale viene evidenziata dall’altezza delle barre verticali per le due maggiori regioni del Mezzogiorno e le due del nord Italia, pur evidenziando un andamento comune, ovvero una continua contrazione dell’analfabetismo, mostra un evidente gap tra le prime e le seconde. Pur mancando delle informazioni sulla distribuzione dei titoli di studio raggiunti (per cui la distribuzione dei titoli più alti potrebbe essere similare nonostante i livelli assoluti diversi di popolazione “istruita”) ancora alle porte della seconda guerra mondiale quasi il 40% della popolazione siciliana e poco meno per quella della Campania non presentava alcun titolo di studio. Grafico 1 – Tassi di analfabetismo per alcune regioni (su popolazione con almeno 6 anni) 100 Piemonte Lombardia 80 Campania Sicilia 60 40 20 0 1861 1871 1881 1901 1911 Fonte: Elaborazioni su dati Istat StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 1921 1931 Questo indicatore nasconde molte insidie se si volesse utilizzare per interpretare le dinamiche storiche di una singola regione, perché cela, ad esempio, la dimensione dei tempi e dei costi dell’“allevamento”, o le conseguenze della mobilità, in particolare dei trasferimenti dalle aree del sud a quelle del nord che, soprattutto nei decenni più recenti, influiscono maggiormente sulla componente della popolazione con un titolo di studio più elevato. Il fatto certo è comunque che la società del sud parte meno attrezzata verso le istanze della società della conoscenza. Ma una riflessione di carattere metodologico è utile anche in questo caso. La costruzione di una tassonomia è sintomo che un fenomeno appartiene all’orizzonte del ricercatore, ovvero che un determinato fenomeno ha assunto un peso, più o meno significativo ma certamente utile, per la comprensione della realtà sociale. Il fatto che un indicatore non esista è viceversa indicativo del fatto che esso sia considerato inutile rispetto al punto di vista dell’analista. È questo il caso del titolo di studio. Ciò che sembra essenziale mettere in evidenza rispetto a questo indicatore è che, anche se livelli di studio differenziati, dalla laurea all’attestato della scuola dell’obbligo, avrebbero potuto essere rilevati in quanto esistenti, la loro importanza conoscitiva non fu neppure considerata. 4 La struttura familiare Un altro elemento che può porre in evidenza l’esistenza di una differenza strutturale tra la Sicilia e gli altri territori d’Italia è la struttura familiare. Questa discende e dipende dall’ordine sociale, dalle reti di relazioni che vengono a comporre la comunità, ma anche dalla struttura produttiva che condiziona la distribuzione della popolazione nello spazio e ne influenza in modo determinante anche la coabitazione. Anche per delineare tale fenomeno si possono utilizzare i dati censuari, pur non in modo particolarmente approfondito. Nel 1861 e nel 1871 venivano rilevati i cosiddetti «focolari», ovvero non veniva fatto un preciso riferimento al rapporto di parentela tra le persone coabitanti. Dalla relazione del 1871 si legge esplicitamente che Per famiglia sotto l’aspetto demografico, non si vuol intendere il complesso delle persone legate da vincoli di parentela entro determinati gradi e linee, tenendo conto non meno degli assenti che dei presenti, ma bensì la convivenza domestica, sia abituale, sia precaria, di tutte quelle persone che mangiano, per così dire, assieme e si riscaldano al medesimo fuoco, o ciò che si suol chiamare focolare. [8, p. VI]. Questa definizione si discosta non poco da quella utilizzata negli ultimi censimenti soprattutto perché non permette di distinguere tra famiglie nel senso di persone conviventi legate da vincoli di parentela o affetti, e convivenze, quell’insieme di soggetti che condividono il “focolare” ma coabitano per esigenze di cura, di istruzione o per altri diversi motivi. Di tutto ciò gli esecutori dei primi censimenti ne erano assolutamente coscienti, tanto che, ad esempio, la data stessa dei censimenti è stata scelta per rendere minimi gli errori di tale fenomeno3. Ancora nella relazione al secondo censimento, infatti, si legge che Del resto l’epoca in cui si suol fare il censimento, che è quella del chiudersi dell’anno, non fu scelta per motivi solamente di comodità nei computi cronologici, e per la sua più facile rispondenza con tutte le altre notizie amministrative ed economiche, ma sì ancora, e soprattutto, per3 I primi tre censimenti sono stati svolti con riferimento alla notte tra il 31 dicembre ed il primo gennaio dell’anno successivo. Solo successivamente le date furono scelte facendo riferimento a opzioni diverse, mantenendo comunque come momento di riferimento una giornata festiva. StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 ché nei giorni in cui ricorrono le maggiori solennità religiose e civili le famiglie tendono a ricomporsi, e gli elementi accidentali del focolare si riducono alla loro minima espressione. [8, p. VII]. La famiglia a cui si fa riferimento, quindi, non è la famiglia naturale, comprendente cioè solo gli individui uniti tra loro da vincoli di parentela o di affinità, tanto presenti che temporaneamente assenti alla data del censimento, ma la cosiddetta “famiglia di censimento”, che comprende, oltre ai membri presenti della famiglia naturale (con esclusione degli assenti temporaneamente), anche gli ospiti, i dozzinanti, i domestici. È soltanto nel 1951 che si introduce una prima rigorosa definizione di famiglia, che rimane sostanzialmente invariata nei censimenti successivi. Si legge negli atti al censimento del 1951: In senso stretto, per famiglia si intende, di norma, l'insieme di due o più persone, unite da vincoli di matrimonio o di parentela. Agli effetti del censimento, però, oltre alle persone unite dagli anzidetti vincoli, sono considerati come facenti parte della famiglia i figli adottivi, gli affiliati, i sottoposti a tutela, le persone legate alla famiglia stessa da vincoli affettivi, nonché le persone entrate a farne parte per ragioni di servizio (domestici), di lavoro (garzoni e simili), di impiego (istitutori), di ospitalità, nel preciso senso di alloggio e vitto (dozzinanti o pensionanti). In particolare, perciò, anche due persone che convivono maritalmente, con o senza prole, pur non essendo unite in matrimonio, costituiscono una famiglia. [5, p. 59] Quindi se anche si arrivava a dare rilevanza di famiglia ad una coppia di fatto – come accade ancora oggi seppure solo ai fini della rilevazione censuaria –, ancora il vincolo familiare comprendeva una componente profondamente economica: la messa in comune o la produzione di un reddito. Questo vincolo sarà abbandonato con l’introduzione del regolamento anagrafico del 1989. La statistica ufficiale deve far proprie tutte queste modifiche alle definizioni se vuole svolgere le proprie rilevazioni ed adattarsi alle trasformazioni della società e del “sentire” sociale, ovvero alla sensibilità che la comunità mostra nei confronti di fenomeni cangianti. Se si chiedesse oggi se siano più numerose le famiglie residenti al sud o quelle al nord d’Italia sicuramente la risposta sarebbe che sono più numerose le famiglie del sud. Confrontando un semplice indicatore di sintesi, il numero medio dei componenti la famiglia, la risposta sarà considerata corretta guardando gli ultimi censimenti ma si scoprirebbe che così non è sempre stato, anzi che questo è vero solo dal periodo repubblicano. Al primo censimento italiano le famiglie siciliane presentavano una dimensione media pari a 4,25 persone, tra le più basse tra le regioni, superiore solo ad altre tre regioni meridionali: Basilicata, Calabria e Sardegna. La media italiana mostra un valore pari a 4,66 componenti mentre le regioni con le famiglie più numerose si trovano al centro Italia: Umbria (5,35) e Toscana (5,21) e superano i cinque componenti anche le famiglie in Emilia Romagna (5,09) e nelle Marche (5,04). StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 Tabella 3 - Componenti medi della famiglia per alcune regioni Regioni 1861 1891 1921 1951 2001 Lombardia Veneto Emilia Romagna Toscana Umbria Lazio Campania Puglia Sicilia 4,96 n.d 4,70 5,17 4,38 5,56 3,64 4,70 2,46 2,62 5,09 5,21 5,35 n.d 4,47 4,42 4,25 4,77 4,92 5,06 4,69 4,10 4,12 4,10 4,91 4,78 5,10 4,23 4,30 4,04 4,00 4,01 3,93 4,56 3,96 4,43 4,27 3,91 2,40 2,50 2,62 2,55 3,06 2,91 2,78 Italia 4,66 4,47 4,38 3,97 2,60 Fonte: Elaborazioni su dati Istat La Sicilia mantiene una dimensione media inferiore a quella italiana sino al censimento del 1961 quando si colloca a 3,68 componenti a fronte dei 3,63 nazionali e toccando la massima divergenza negativa nel 2001: 2,78 nella regione e 2,60 in Italia. Guardando l’indicatore in serie storica si evidenzia una comune flessione in tutte le regioni ma con pendenza accentuata per tutte le regioni del nord e del centro della penisola e meno inclinata per le regioni del sud. Un ideale punto d’incrocio può essere letto al momento del passaggio dal regno alla repubblica, con i dati del censimento del 1951. Confrontando ad esempio l’intero percorso della Sicilia con quello della Toscana (figura 2) l’intersezione risulta particolarmente evidente. Figura 2 – Componenti medi della famiglia in Sicilia, Toscana e Italia 5,5 Sicilia 5 Italia 4,5 Toscana 4 3,5 3 2,5 2 1861 1871 1891 1901 1911 1921 1931 1936 1951 1961 1971 1981 1991 2001 Fonte: Elaborazioni su dati Istat StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 Si noti per inciso che anche in questo caso la credenza nella (odierna) relazione tra sviluppo e dimensione familiare, ovvero il considerare la presenza di famiglie nucleari o uni personali come indicatori di società maggiormente progredita, non “funziona” con i dati di metà Ottocento. Certo ancora una volta si potrebbe evidenziare come la sola dimensione media familiare può essere considerata un indicatore un po’ rozzo per studiare il fenomeno famiglia. Sul fronte metodologico certamente le diverse definizioni utilizzate ai censimenti giocano un ruolo importante ma è anche vero che esse si contrappongono a molti studi storici sulle famiglie che indicano come queste, in economie agricole, con alta mortalità infantile e necessità di braccia lavorative, presentino caratteristiche molto simili e, quindi, ad esempio, dimensioni medie analoghe. Ma la statistica mostrata non deve essere gettata via perché non corrisponde a quanto ci si aspettava. Infatti essa rappresenta molto più di quello che la sua semplicità (di calcolo e di risultato) sembra mostrare. La maggiore presenza di famiglie composte da parenti e anche da lavoratori ad essa annessi è l’espressione di un modello di comunità che integra struttura di produzione e reti di relazioni. È quel modello che oggi è noto come modello distrettuale che, ci hanno spiegato Becattini sul versante economico e Bagnasco su quello sociale, si è alimentato proprio dalla diversa struttura di relazioni tra individui. La famiglia allargata anche ad unità non strettamente parentali risultava funzionale alla organizzazione produttiva poderale che derivava dal passaggio della popolazione agricola da un tipo di insediamento prevalentemente accentrato ad uno sparso. Questo è vero nell’Italia del Centro Nord. Nell’Italia del Sud, dove diverso era il terreno e diverse le colture, si determina e realizza, come abbiamo già visto, un forte accentramento demografico. Peraltro la spiegazione delle differenze nella composizione della famiglia è già chiara anche ai redattori della relazione del primo censimento del secolo scorso e veniva chiaramente legata alla struttura produttiva locale. Le grosse famiglie si trovano particolarmente nel Veneto, in Toscana, nelle Marche e nell'Umbria, dove esistono molte aziende agrarie di grande estensione con ampie case coloniche che ricettano anche numerosi servi di campagna, oppure dove si sono mantenuti più stretti i vincoli di sangue. Al contrario, in Basilicata, Calabria, Puglie e Sicilia, le famiglie sono più piccole, sia perché i membri adulti di esse si recano in gran numero all'estero, sia perché la coltivazione meno intensiva del suolo non richiede l'opera di grosse famiglie coloniche. [9, p. XXXIII] Con la rivoluzione industriale si compone una diversa organizzazione produttiva e sociale. La famiglia comincia a nuclearizzarsi. Una causa ed al contempo un effetto del fenomeno sono le pratiche di assistenza non più legate alla famiglia di origine ma pubbliche o legate alle associazioni operaie o professionali che si andavano costituendo all’interno di una sfera sociale sempre più pubblica. Anche in questo caso si vuole evidenziare come la definizione di famiglia non è sconnessa con il sentire di chi studia la società e come nelle statistiche del XIX secolo il garzone o l’attendente o il bracciante facevano parte della famiglia, ed era naturale che così fosse. L’elemento cognitivo, e quindi interpretativo, della realtà ancora una volta non può essere disgiunto dalla modalità di rilevazione che non è sbagliata perché non corrisponde più agli attuali parametri di spiegazione dei fenomeni. In realtà tra le famiglie “naturali” non c’erano particolari differenze nella divisione dei compiti tra il Nord ed il Sud. Ma differenze emergono e vengono puntualmente tracciate dalle informazioni numeriche, quando si fa riferimento alla struttura produttiva dei luoghi4. 4 Non si è usato a caso il termine “luoghi” perché essi non sono solo lo spazio nel quale si muove l’attività umana ma sono lo spazio delle relazioni e delle compresenze umane, come ha spiegato approfondendo le riflessioni sui distretti industriali Giacomo Becattini, quello spazio che l’economista toscano arrivò infatti a definire grumo sociale, per indicarne la indivisibilità e l’immersione nel contesto sociale oltre che economico. StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 5 Conclusioni Con il tasso di urbanizzazione, oltre a visualizzare una differenza strutturale tra Sicilia e media italiana, si è cercato di mostrare le difficoltà nel dare significato ad un dato, nell’assegnare ad un valore statistico una portata che probabilmente non può avere. Il semplice algoritmo è: lo sviluppo porta alla maggior dimensione cittadina, la maggior dimensione cittadina può essere misurata attraverso la quota di popolazione residente in città rispetto alla popolazione totale, quindi il tasso di urbanizzazione misura lo sviluppo. Il percorso logico che legava l’incivilimento del Romagnosi al tasso di urbanizzazione e quello che oggi lega il concetto di società avanzata al livello di pil pro capite è esattamente lo stesso. Anzi nella crescita continua della popolazione si cercava la garanzia e la conferma del progresso così come oggi ci si preoccupa di avere persistenti tassi di crescita positivi del pil. Nella relazione al censimento del 1861 ad esempio si legge Il giorno in cui venissero ridati all’Italia i suoi confini naturali, molte delle piaghe che l’afflissero fin qui risanerebbero, come del resto ce ne è pegno l’indirizzo presente, e nuove vie si aprirebbero all’attività sociale ed all’industria degli Italiani, di guisa che l’accrescimento annuo medio della sua popolazione, il quale in ragione di ciò che si osserva nel nuovo regno, è del 7 per 1000 abitanti, supererebbe la stessa proporzione del Belgio, paese già popolatissimo e vecchio in civiltà, il quale nel decennio del 1846 al 1856 crebbe solo in ragione del 4 per 1000 all’anno. [5, p. 41] Il secondo indicatore analizzato riguarda il livello di istruzione della popolazione. La variabile istruzione non esiste perché non rientrava nell’orizzonte dei fenomeni rilevanti per conoscere la società. Semplicemente il titolo di studio non era rilevante per definire la forza e la potenzialità di una società. In questo caso l’indicatore statistico avrebbe potuto esistere ma non apparteneva al panorama di chi studiava la società. La differenza tra Sicilia e resto del Paese certamente esisteva (e si può rilevare dai pochi dati riportati) ma essa non veniva messa in risalto e analizzata. Il messaggio che in questo intervento si vuole comunicare attraverso l’indicatore presentato è che il dato statistico non è un elemento naturale ma una costruzione sociale: il punto di vista sociale assume una caratteristica di necessità per la produzione di un indicatore quantitativo. Come si espresse in modo chiaro De Finetti: I concetti vengono inventati da noi […] chiedersi, con spirito critico, quale sia il significato di un determinato concetto, vuol dire semplicemente analizzare i motivi profondi ed essenziali che hanno costituito, sia pure inconsciamente, lo scopo per cui quel concetto è stato introdotto e che spiegano la ragione intima della sua utilità. [4, p. 84]. Questo è vero anche per il concetto che manca poiché l’esistenza del fenomeno non è mai un elemento sufficiente per una sua misura. Cercare di comprendere un fenomeno del tempo passato come allora veniva interpretato è anche sapere che non si possono utilizzare alcuni concetti oggi consueti. Nell’analisi della dimensione familiare è stato messo in evidenza come il termine famiglia rimane costante per tutti e quindici i censimenti ma che la definizione ad essa assegnata è notevolmente cambiata. Nonostante ciò e nonostante la dimensione “grezza” di questo indicatore esso ha rappresentato, nel senso teatrale del termine, un segno importantissimo, una traccia vivissima di alcuni fenomeni storici che sono risultati significativi addirittura per costruire un paradigma economico come quello dei distretti industriali. StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012 Spesso gli indicatori non servono a mostrare quello che gli analisti vorrebbero. D’altra parte a volte gli indicatori possono aprire vie di fuga da confini concettuali chiusi. La forza del numero, quando il numero è fatto bene, è un elemento imprescindibile della riflessione intellettuale. Per concludere, lasciando le riflessioni di metodologia e tornando alla domanda iniziale se sono sempre esistite le differenze tra la Sicilia e le altre regioni italiane, ci sia permesso terminare richiamando una frase di un grande statistico del XIX secolo, Angelo Messedaglia che, nel discorso di apertura del corso di statistica presso la facoltà di giurisprudenza di Roma il 15 gennaio 1879, disse di osservare un Paese in condizioni sociali cotanto svariate siccome il nostro, e dove all’unità politica da poco tempo compiuta è lungi ancora da corrispondere in modo adeguato l’unità economica e sociale. [6, p. 106] Bibliografia Becchio C. e Bertone C., 2008, Neuroscienze, in Storia dell’ontologia, Ferraris M. (a cura di), Bompiani, Milano. D’Addario R., 1932, L’agglomeramento della popolazione nei Compartimenti italiani, Annali di statistica, Serie VI, Vol. XVI, Istat, Roma Daniele V., Malanima P., 2011, Il divario Nord-Sud nella storia d'Italia, Rubettino, Catanzaro De Finetti B., 2006, L’invenzione della verità, Cortina, Milano Istat, 1958, IX Censimento generale della popolazione, vol. VIII, Atti del censimento, Roma Messedaglia A., 1879, La statistica della criminalità. Prelezione al corso di statistica presso la Real Università di Roma, 15 gennaio 1879, riportato anche in Favero G., Le misure del regno. Direszione di statistica e municipi nell’Italia liberale, Il Poligrafico, Padova, 2001 (pp. 40) Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 1864, Popolazione. Censimento generale. Volume I, Tipografia Letteraria, Torino Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 1874, Popolazione presente ed assente per Comuni e frazioni di Comune, Vol. I, Roma Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Direzione Generale della Statistica, 1904, Censimento della popolazione del Regno d’Italia al 10 febbraio 1901, Vol. V, Relazione sul metodo di esecuzione e sui risultati del censimento, raffrontati con quelli dei censimenti italiani precedenti e di censimenti esteri, Roma Romagnosi G., 1834, Dell’indole dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia, Stamperia Patti, Firenze StrumentiRes - Rivista online della Fondazione Res Anno IV - n° 2 - Maggio 2012