Atti del Convegno Internazionale

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Atti del Convegno Internazionale
UNIVERSITA’ DI CASSINO
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA E STORIA
UNIVERSITÀ DI NAPOLI FEDERICO II
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA MODERNA
Atti del Convegno Internazionale
Cassino, 27 e 28 aprile 2010-05-17
a cura di
TONI IERMANO E PASQUALE SABBATINO
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GIUSEPPE VARONE
LE SCRITTURE DELL’INVEROSIMILE:
CORREGGIO DI ALBERTO ARBASINO
Expect poison from the standong water1.
(W. BLAKE, Proverbs of hell)
(...) la perfezione non interessa in eterno. Una
volta abituati a essa, la nostra emozione si
spegne, e ci sentiamo allora attratti dallo
strabiliante, dall’inatteso, dall’inaudito.
(E.H. GOMBRICH, La storia dell’arte)
Su Correggio è un’intensa e singolare monografia dedicata da Alberto Arbasino
(Voghera, 1930) ad Antonio Allegri detto il Correggio (Correggio, 1489 ca. – 1534),
l’ultimo maestro del Rinascimento italiano. Un testo raro e prezioso pubblicato nel
2008 dalla casa editrice Electa2 nella collana Pesci rossi, riferimento all’opera di Emilio
Cecchi apparsa nel 1920 come racconto del quadro omonimo di Matisse e della mostra
che lo ospitava, e più in generale a quel tipo di saggi brevi illustrati e colte divagazioni
di cui la collana tenta di riproporre il tipico approccio e l’esclusiva tecnica di scrittura.
Come tale appare il saggio di Arbasino, per un totale di circa ottanta pagine costituenti
una lettura dei molteplici aspetti tratti dal personale e originale viaggio nella pittura del
Correggio, della quale viene fornita un’opportuna galleria di immagini a corredo della
seduzione del testo; un’avvincente esplorazione che lascia cogliere ancora una volta il
Nostro intento a giocare con il suo lettore, al quale ama tendere agguati, provocandolo e
sfidandolo con le armi dell’arguta intelligenza e della torbida scrittura, rischiando a
tratti di soffocare ogni intendimento in un eccesso di conoscenza e di sferzante humour,
aprendo indubitabilmente a nuovi e inattesi orizzonti emozionali e interpretativi.
Da tempo i viaggi dello scrittore di Voghera fanno parte dell’‘educazione sentimentale’
degli italiani: narratore e saggista eclettico, con Le piccole vacanze (1957), passando
per le tre stesure del poderoso romanzo di matrice odeporica Fratelli d’Italia (1963,
1976, 1993), ha ritratto la società italiana del pieno Novecento con un’andatura
coinvolgente, benché impietosa e mordace. Stravagante e poliedrico, nella sua copiosa
produzione ha fornito una cronistoria della realtà socio-culturale del suo tempo
misurandosi con diversi generi letterari, passando dalle tracce e impressioni di vita e di
cultura modellate nelle interviste e saggi di Parigi o cara (1960) – romanzo di
formazione secondo la formula editoriale di Giorgio Bassani – ai romanzi sperimentali
come L’anonimo lombardo (1959), fino alle prove dei “calchi d’autore” come La bella
di Lodi (1972), arrivando, mosso da un privato e profondo legame con la tradizione
civile e illuminista della letteratura lombarda, nonché da un europeismo assimilato nel
vivo della sua formazione e militanza culturale e professionale, ai testi saggistici de Le
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«Aspettati veleno dall’acqua ferma» (da Proverbi infernali).
Cammeo che ripropone La cupola del Correggio in S. Giovanni a Parma: dopo il restauro, edito da
Guanda nel 1990, con testi di Alberto Arbasino e Francis Haskell, con una nota di Bruno Zanardi.
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lettere da Londra (1997) fino a Paesaggi italiani con zombi (1998), tra altri. In ogni sua
prova letteraria, sempre personale mistione di generi letterari e paraletterari – diario,
lettera, enciclopedia, intervista, zibaldone, conversazione, recensione, taccuino di
viaggio e reportage culturale – Arbasino manifesta un’insolita capacità di traduzione
dell’immagine da trasferire sulla pagina, con una tenuta che le rende nel loro insieme
talvolta inevitabili e necessarie: per quel che riguarda lo specifico della Storia dell’Arte
e di quella rinascimentale in particolare, viene alla mente quanto accaduto con
L’Officina ferrarese (1937) di Roberto Longhi, il grande libro della pittura a Ferrara nel
XVI secolo. Accade il più delle volte con le opere di Arbasino e nel caso della lettura
correggesca in misura maggiore, sia perché risulta essere la prima monografia dedicata
al maestro emiliano – che usava firmare la sua opera con il latino Laetus (Allegro) –
trattato raramente e sovente in modo improprio, soprattutto a causa della penombra
nella quale lo hanno relegato i più tonanti Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Leonardo,
il quartetto che sembra aver consumato tutte le possibilità di far registrare meraviglia e
genialità3; sia perché la curiosità del vogherese oltrepassa ogni rigida e precostituita,
nonché deleteria categoria critico-metodologica, aprendo, con la sua scrittura-fiume, in
molteplici direzioni e possibilità di senso e di linguaggio.
Nel vorticoso allegro della sua stesura Arbasino cattura l’eccezionalità di Antonio
Allegri, artista “progressista” che nel sereno alveo di una Parma distante dai grandi
centri culturali del XVI secolo, nel pieno e ultimo Rinascimento smonta le strutture
della prospettiva modellando un immaginario risolutamente pre-barocco, anteponendo
all’esplosione del colore veneziano e al manierismo tosco-romano uno stile dolcemente
fluido, capace di creare un universo vorticoso, nuvolare e visionario che schiude le buie
e tenebrose cupole e volte delle cattedrali medievali, suscitando nei fedeli l’illusione
dell’immensa gloria dei cieli. Capolavori provinciali e internazionali per «l’assoluta
sovrana libertà e disinvoltura degli affetti e dei gesti: carezze padane e pagane, tenere e
intellettuali (...) estri e vocazioni per una bellezza confidenziale calda, capace di
grandiosità come di intimità, in un soffice fremito di vibrazioni dorate e rosate che
creano ed emanano luce» (C, 22), «finendo per congiungere la sensualità alla fede» con
la Danae, la Leda, l’Antiope e la Io, «inni al fascino della femminilità» (C, 23) come
non si erano mai visti prima nell’Europa cristiana.
Ingegnoso architetto dell’inverosimile, il Correggio – operoso quando Leonardo e
Raffaello erano già scomparsi e Tiziano aveva ormai guadagnato la sua fama – cancella
dalla complessità strutturale delle sue aeree composizioni, sia religiose sia profane
(come quelle dal travolgente splendore nel duomo di Parma4 o della Camera della
Badessa nel monastero di San Paolo), il disegno e dà forma ed equilibrio alle forme e
allo spazio mediante luce e colore: quando la pittura si avviava verso la ‘maniera’,
dunque, l’Allegri tracciava i contorni delle cose vive conservando nascosto il segno del
pennello, lasciando credere reale ciò che invece era dipinto.
Un riformatore il Correggio – «il pittore che dipingeva l’aria», artefice
dell’incomprensibile e del sublime, senza eguali nel toccare i colori con vaghezza e
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Scrive E. H. Gombrich: «Nelle città italiane, attorno al 1520, tutti gli amatori d’arte parevano concordi
nell’affermare che la pittura aveva raggiunto l’apice della perfezione. Uomini come Michelangelo e
Raffaello, Tiziano e Leonardo avevano effettivamente compiuto quello che era stato il tentativo delle
generazioni precedenti. Nessun problema di disegno sembrava loro troppo arduo, nessun soggetto troppo
complicato. Avevano mostrato come bellezza e armonia potessero combinarsi con l’esattezza, e avevano
perfino superato, così si diceva, le più celebri statue greche e romane» (Una crisi dell’arte, in La storia
dell’arte, Milano, Phaidon Press Limited, 2006, p. 273).
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Scrive Arbasino: «(...) qui si manifestano estri e vocazioni per una bellezza confidenziale calda, capace
di grandiosità come di intimità, in un soffice fremito di vibrazioni dorate e rosate che creano ed emanano
luce. E in seguito, il Rococò cosmopolita del Settecento ne verrà giudicato come “ricaduta” o “indotto”»
(C, p. 22).
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rilievo e nell’ammantare di morbidezza ogni lembo carnale e di grazia il tutto secondo
il Vasari, precursore della «grande immagine del Barocco» per Federico Zeri –,
paragonato da Arbasino ad altri artisti di diversa provenienza, epoca e linguaggio, come
si evince dal raffronto con un romanziere tra i più determinanti del XX secolo europeo:
[...] si intende un carattere del “nostro Antonio” in comune con gli autori “non ripetenti” che invece di
riscrivere tante volte lo stesso romanzo mutano continuamente le impostazioni tematiche e tecniche,
come per esempio Thomas Mann dai piccoli formati di Tonio Kröger e La morte a Venezia alle vaste
cupole con o senza pennacchi, quali Giuseppe e i suoi fratelli e il Doctor Faustus... [...] (C, 8)
Se nell’opera del Correggio – sorta di Edgar Alla Poe ante litteram – il raziocinio
convive con l’allucinazione, Arbasino si presta all’inseguimento febbrile delle sue
prospettive angolari, aprendo brecce su stanze laterali e inattese, intelligenti e prive di
pedanteria, fornendo possibili identikit la cui esattezza documentaria è velata da una
morbida, inebriante ambiguità interamente rinascimentale. Vi è un cursorio incontro
con l’autore tratto dal Dizionario Bompiani: «perfide trame rinascimentali di
libertinaggio signorile fra locande e palazzi emiliani; scontrosità bisbetiche con
Michelangelo e Giulio Romano in incognito; rustiche felicità domestiche, rivelazioni di
capolavori, agguati di banditi, e troppo tardi sopraggiunge un messo del Duca di
Mantova per invitarlo a Corte» (C, 15). Citazione affannosa che sbuca piuttosto per
comunicare il suo contrario, ovvero l’inconoscibile, il carattere sfuggente del soggetto
ricercato. Da qui l’occorso, eterodosso cimento con la filologia, l’esclusiva mise en
scène dell’esercizio precipuo dell’erudizione storico-critica: la ricostruzione delle
vicende dell’opera. Uno spettacolare cammino a ritroso che investiga e documenta i
vari passaggi di proprietà delle opere – pratica invalsa e dal peso notevole nella cultura
anglosassone5 – componendo il loro tessuto storico su un manto di notizie inconsuete;
sì, perché peregrinanti, le opere correggesche, ora nel «triplo partenone museale di
Budapest», o a Berlino sulle tracce della «cara Leda» con il suo «“cygne d’autrefois”»
nei suoi svariati viaggi – a Mantova, Madrid, Praga, Stoccolma, Roma, Bracciano,
Parigi, Berlino e poi ancora Parigi; ora nell’Italia del dopoguerra che accoglie con
deferenza la seducente Danae alla Galleria Borghese di Roma, o nell’incanto per un
«viaggiatore sentimentale d’arte» della serie di affreschi della Camera della Badessa
nell’ex convento benedettino di San Paolo a Parma, «mentre i Martiri e i Cristi e le
Madonne d’Emilia risiedono accumulati o impilati in un cul-de-sac effimero e
metallico, alla Galleria Nazionale di Parma ristrutturata e rimansardata come un
Pavesini ove bisogna far chilometri di scalette e percorsi a U fra i topi gigi di peluche
per poter prendere un caffè» (C, 10). Un filologo sui generis, incline a passare con
molta facilità dall’avventura riflessiva dello storico alla sagacia dell’inviato speciale,
dispensatore di giudizi che rasentano talvolta quelli di un’implacabile guida turistica.
Arbasino critico, tuttavia, non perde la misura dell’opportuna distanza dall’autore, mai
5
Riguardo a ciò l’inglese Francis Haskell, storico dell’arte e autore con Arbasino de La cupola del
Correggio in S. Giovanni a Parma: dopo il restauro, promotore di una ricerca storica in cui la storia
dell’arte assume un ruolo importante e viceversa, sostiene: «“Oggi quando pensiamo al passato (...) lo
vediamo attraverso le immagini. Credo che centocinquanta anni fa lo avremmo visto attraverso la
letteratura, la poesia, i documenti. (...) La rivalutazione dell’immagine è un fenomeno settecentesco. (...)
la sola immagine ci può dare del passato un’idea falsa. (...) ci sono diversi tipi di testimonianze e tutte
vanno considerate insieme e valutate. L’immagine è solo una testimonianza.» (Francis Haskell. La storia
e le sue immagini, in F. VILLARI, Diario minimo. Ritratti londinesi, Roma, Edizioni Memori, 2006, pp.
44, 45, 46). Si intende qui rimandare, inoltre, a Le Muse a Los Angeles di Alberto Arbasino, brillante e
ironico Gran Tour americano del Nostro alla riscoperta delle opere d’arte cosiddette ‘emigrate’,
realizzato con atteggiamento provocatorio, poiché investigazione dall’andatura ironica e fissata da un
dettato che scompagina e mescola le due sfere del verbo e della forma, ottenendo un risultato paradossale
ed estraniante.
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ridimensionato per farlo meglio comprendere, mai ingigantito per farlo dominare
sull’intero orizzonte culturale di riferimento; preferisce piuttosto muoverglisi accanto
con curiosità senza piegarsi a cerimonie e a censure, evitando inoltre di confondersi con
la sua opera e cercando di afferrare tutto il visibile che gli si offre, raccontandolo in
controluce ai pensieri ingenerati, fluenti come fossero “dal vero”. Il suo io, di fronte
all’oggetto su cui scrive, ora si riduce a un minimo infinitesimale prossimo allo zero,
ora si dilata per coincidere con il divenire.
L’operazione che fa Arbasino si direbbe in prima istanza ascrivibile a una sensibilità
postmoderna: ammantato da un’idea pressoché apocalittica dell’epoca presente come
postuma rispetto a una estrema, culmine della modernità, lo scrittore, fatto preda di una
girobussola delirante, avvia una quête senza sosta e senza dogmi, tentando forme di
recupero del valore storico portato avanti come penetrazione conoscitiva entro gli strati
più profondi del passato alla ricerca dell’umano. Nelle vesti di secret sharer, pertanto,
il viaggiatore lombardo, muovendosi tra storia e cronaca, tra gioco e morale, tra
Stendhal, Heinse, Proust e Gadda, si fa latore di una sorta di alter-modernità, tradotta
nell’immagine di un Rinascimento come falda e piattaforma di quella stessa modernità
ricercata entro e non oltre l’inafferrabilità delle tiepide e voluttuose morbidezze
correggesche – figlie della lingua profana di una terra densa di nebbie spalmate su
campagne interminabili – colte in una sola unità espressiva, sempre contemporanea a sé
stessa, come l’Angelica del coevo Ariosto. Un testo indubbiamente moderno quello
arbasiniano, in quanto manipolato epitome del concetto stesso di modernità, al quale
l’uomo del XX secolo approda di riflesso e per adozione, dal Settecento in poi, in un
ininterrotto rinascimento: le sue verbali destrezze appaiono come ragguagli e formali
razionalizzazioni delle invenzioni correggesche stesse, per cui il testo appare come una
sorta di tête à tête attraverso il quale esemplificare l’opera del genio concorrendo con
essa6.
Ma a quale modernità si fa riferimento? Si direbbe quella storica, che è insieme sociale
e culturale, nondimeno concettuale: il XV e il XVI secolo, l’epoca degli esploratori,
degli scienziati, degli ingegneri, dei pittori, degli architetti, nonché dei filologi, dei
poeti, insomma, degli uomini che hanno concorso alla ‘rinascita’ dell’uomo. La nostra
modernità è la loro; la loro crisi è la nostra: crisi innescata attraverso quella particolare,
irripetibile attenzione posta all’uomo dall’uomo. Quale uomo? L’uomo che non
guardava più in alto alla ricerca di un Dio, ma di sé stesso riflesso in ogni cosa
costituente l’universo e l’universo mondo, che cercava di comprendere e soprattutto di
dominare guardando orizzontalmente: i personaggi ritratti, tersi nella loro melanconica
sospensione, ora provengono da un altrove dogmatico e verso di esso pare che
guardino, come spaventati di ritornarvi o sgomenti nel loro perderlo, un dove poco
discosto dalla linea dell’orizzonte, che adocchiano, terrestri, mentre indicano qualcosa
di spirituale a colui che li osserva7. L’uomo-artista rinasce nel momento in cui si
adopera per un progetto, specie se per sua natura irrealizzabile, giacché nel suo senso
come nel suo fare contempla la totalità, che in quanto tale tutto annulla, sebbene ogni
iniziativa, cultura e metodo consideri. Nello stesso Arbasino, pertanto, risulta
impossibile distinguere i suoi progetti dalle sue realizzazioni. Egli invoca il demone
della modernità affinché possa indovinare la sua lingua e rimuovere dal destino
dell’uomo l’inciso del nulla, dello svanire come la dantesca neve sotterrata o il racconto
ingannevole dell’esistenza onirica, poiché molto o tutto svanisce, dato che Krònos
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L’operazione arbasiniana risponde alla pratica. Secondo la definizione del Vocabolario della lingua
italiana Treccani, l’ècfrasi è la descrizione di un oggetto, di una persona, l’esposizione circostanziata di
un avvenimento, e più in particolare la descrizione di luoghi e opere d’arte fatta con stile virtuoso,
elegante ed elaborato, tale da gareggiare in forza espressiva con la cosa stessa descritta.
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Com’è intento a fare l’enigmatico San Giovanni Battista di Leonardo conservato al Louvre.
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inghiotte e scandisce la vita volta a togliere ciò che essa stessa dà. Ma molto è rimasto
anche dipinto e scritto e soprattutto da riscrivere in un eterno presente. Dopotutto, i testi
arbasiniani custodiscono sempre una storia e un passato fuoriusciti dalla memoria per
divenire presente assoluto, da cui, probabilmente, la sua precipua necessità di riscrivere
i suoi libri, con il fine di sincronizzarli al presente, sebbene questo finisca per essere
sempre e in ogni modo fuori dalla Storia. In questo senso, allora, Arbasino – con pochi
altri della sua generazione, tra i quali Goffredo Parise, Ottiero Ottieri, Giovanni Testori,
Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, accanto ad altri, come il comasco Giancarlo Buzzi –
è lo scrittore più emblematico del Terzo Novecento – gli anni successivi al ’68,
inaugurati con l’apertura allo sperimentalismo e al moderato espressionismo linguistico
– come dell’inizio del XXI secolo, poiché rappresentativo di quel caos voluto ordinato
e tradotto in immagine e memoria. Un’epoca senza fine, capace di sopravvivere a sé
stessa senza smettere mai di finire, anche se l’opera di Arbasino annuncia ed esibisce
che la Storia è finita e che il presente ininterrottamente ritorna, simulato e foggiato in
una enumerazione ed elencazione del disordine, principio di un viaggio intelligibile
nella sua riduzione a forma, gioco, parodia o mesta commedia dell’uomo moderno.
Il Rinascimento, nell’opera vertiginosa di questo danzatore sui trampoli del sapere e
dei pentagrammi verbali, è uno sconfinato puzzle costituito da dipinti, affreschi e
aneddoti atti a rappresentare l’immagine fugata di un’epoca aperta; un pretesto per
mezzo del quale il Nostro si aggira funambolico tra letteratura, pittura, cinema – con
«La soffice Io in estasi come una Santa degli Orgasmi acchiappata dalla zampona
elastica di un King Kong di nuvola» (C, 7) in riferimento a Giove e Io (1531-1533,
Kunsthistorisches Museum di Vienna); «E circa gli “intriganti” viaggi del Correggio a
Roma o altrove, con quale gusto si rammenterebbero le controversie a proposito dei
viaggi di Luchino Visconti negli Stati Uniti, quando faceva regie talmente identiche ai
Tennessee Williams di Elia Kazan che la documentazione non poteva esser bastata» (C,
16), per riferire che già nel Rinascimento hanno «“azzeccato” visionariamente il
panorama (come Kafka che indovinò l’America senza esservi stato» (C, 20) – teatro,
musica, storia e critica ricreando uno zeitgeist non estraneo alla coscienza
dell’intellettuale contemporaneo che in essa si riconosce e insieme annulla,
ammantandosene. Annullamento che trova il suo sigillo in una scrittura
perentoriamente elusiva e per la quale non si può non scomodare quella sensibilità per
poco ancora postmoderna, dal momento che per capire e plasmare, riorganizzandolo, il
vuoto intorno a se occorre guardare lontano, nel molteplice, ripartendo da zero con
atteggiamento ironico e avventuroso. Ecco, allora, che lo scrittore di Voghera, alle
prese con la sua fiction, appare ai nostri occhi come il signor Aghios, il protagonista del
racconto sveviano Corto viaggio sentimentale, il quale ci viene presentato intento a
porre in ordine le tasche e a conservare in una di esse un registro contenente la pianta
delle tasche stesse e l’elenco degli oggetti in esse contenuti.
Il rapporto Arbasino/Correggio è pari al rapporto Proust/Vermeer, ed entrambi
presumono un’apologia dell’imprecisione8, come metro del percorso che il pensiero
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Nella Recherche di Proust vi è un passo nel quale l’anziano pittore Bergotte visita una mostra d’arte
olandese e nella contemplazione di un particolare della Veduta di Delft di Vermeer colto da un malore
muore. Nei pensieri del morente vi è un “petit pan de mur jaune”, ma ci si chiede quale sia nel quadro il
“piccolo lembo di muro giallo” di cui Proust scrive. Dalla ricerca di questo dettaglio si sviluppa la
riflessione del linguista Lorenzo Renzi sul senso della critica nel volume Proust e Vermeer. Apologia
dell’imprecisione (Il Mulino, 1999). La questione, come si evince dal testo, è molto complessa, dal
momento che rispondere all’esigenza di identificare con certezza a quale particolare del dipinto del
pittore olandese Proust si riferisca può contribuire a mostrare il procedimento per mezzo del quale la
realtà venga manipolata per trovare una sua collocazione nell’opera letteraria. Renzi, dunque, si immerge
nello studio della pittura olandese e nell’analisi delle pagine in cui viene narrata la morte di Bergotte, alla
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compie dagli stimoli forniti dalla realtà del mondo alla manipolazione e collocazione di
questi nell’opera, a motivare la possibile assenza di quel dettaglio o figura esistente
solo nella pagina, e che i nostri occhi, perciò, non possono cogliere.
Il plot arbasiniano, dunque, appare come un catalogo surreale fitto di emozioni, mentre
la memoria dello scrittore l’inadeguato inventario dei valori e degli effetti al quale si
affida la tradizione; e il Rinascimento è una tradizione che si rinnova attraverso la
scrittura e la memoria, e dal momento che la coscienza spirituale è nella lingua e non
mediata da questa, la ricerca sia espressiva sia critica riguarda una certa questione della
lingua: vale a dire che ciò che resta vivo e s’intende recuperare di una data epoca
storico-culturale, come quella rinascimentale, è il suo canone9. Arbasino sembra quasi
voglia riferire che nella storia del Correggio e delle sue opere possa consistere la silloge
stessa del ’500: un secolo di geni fuori dal quale l’artista emiliano vive l’infausta
ventura di essere accantonato per la sua maniera considerata troppo leziosa e manierata,
nonostante dalla provincia, alla periferia dell’universo rinascimentale – «in the petty
municipalities of Emilia» (C, 17) – ne costituisca una parte viva, giacché geni sono
innanzitutto coloro nei quali la comprensione, l’intuizione e il sentire coincidono con la
semplice, ingenua e debole innocenza nella vita, che li rende il più delle volte estranei e
refrattari alle sue regole. Al di là della accorata visione del romantico danese Adam
Oehlenschläger, che scrive: «Caduto sotto il peso del bisogno / e dell’invidia il martire
là giace... E sol da morto a vivere comincia... Troppo mite e gentil per questo mondo»
(C, 15), incalzano altri enigmi: per Berenson, nell’alveo della prosa d’arte antica, ad
esempio, «“pressoché inevitabile”» era «un’emersione di Michelangelo a Firenze,
un’apparizione di Raffaello in Umbria, un’emergenza di Tiziano a Venezia. Ma per
niente affatto era prevedibile, “in the petty municipalities of Emilia” – appunto – (...) “il
delizioso flusso che conosciamo come Correggio”», dove lo “stream” (non sempre,
come in questo caso, “of consciousness”) sta a significare getto consistente, definibile
miracoloso, perlopiù anomalo, in luoghi periferici in quanto “uninspiring” (C, 17).
Ancora: l’Ardinghello e le Isole Felici. Una storia italiana del Cinquecento (1787) di
Wilhelm Heinse, è un viaggio-conversazione preromantico attraverso l’Italia
rinascimentale dei «“tre grandi apostoli dell’arte, Raffaello, Tiziano e Correggio», tra
cittadine ricche soltanto di qualche opera “celestiale” di Raffaello o di Correggio, e per
questo soltanto capaci di brillare come stelle di fronte all’immensa ricchezza del Nord,
come nel caso di Parma, accogliente il Cristo Morto del Correggio, opera (Compianto
sul Cristo morto, 1522-1525, Parma, Galleria Nazionale) che Heinse sostiene abbia
«superato tutti», compreso Raffaello e la sua Deposizione; proprio Raffaello, aggiunge,
che nulla può neanche dinanzi alla caratteristica voluttuosità correggesca, poiché mai
colto nella facoltà di esprimere «la delizia dell’amore (...) con la profonda armonia
dell’anima e con la serena fantasia che manifestò nella sua Io il grande Lombardo,
senza fama in vita e vicino di Ariosto». Considerazioni di Heinse, che tuttavia, in
ricerca di quel “muretto” di Vermeer che è diventato il “muretto” di Proust, un dettaglio che esiste solo
nella pagina di quest’ultimo.
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Prova inoltre risolutamente profetica quella arbasiniana se misurata con il bisogno attuale di un «Terzo
Rinascimento», con Urbino come sede di partenza. L’insieme indistinto di stili, gusti e consumi ha
generato nel Terzo Millennio l’esigenza di una ridefinizione dei canoni espressivi e le basi di partenza
per la costituzione di un edificio solido non può non rifarsi ai meccanismi di energia propulsiva
sviluppatasi nel corso del Rinascimento. L’energia umanistico-rinascimentale è considerata una sorta di
autorità estetica e metodologica assoluta e impareggiabile, dunque il punto cardine di tutte le esperienze
artistiche successive e potenzialmente di quelle a venire. Con il superamento della concezione dell’arte
come imitazione della natura e dopo l’esperienza del vuoto e della frammentazione espressionistica
dell’identità individuale, si delinea nuovamente una nuova autonomia del soggetto, in quanto genio
creatore, come indiscutibile fulcro del creato e protagonista dell’atto creativo.
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conclusione, virano in direzione di quell’«idea fissa», deplorevole dall’angolo visuale
di Arbasino, ovvero: «“Ah, se si potessero unire in un solo essere la verità del colore di
Tiziano, la luce e le ombre del Correggio, l’alto spirito di Raffaello e la conoscenza del
corpo umano di Michelangelo, avremmo indubbiamente l’ideale di pittore» (C, 13).
L’esploratore Arbasino vuole tracciare sulla sua mappa segni indelebili, costituiti dalle
opere e dai fatti più che dall’intento di circoscrivere intenzionalmente l’idea di
un’epoca nella silhouette di un genio supremo e della sua biografia: il Rinascimento è
l’idea stessa di modernità e ogni opera arbasiniana risponde all’urgenza di dare forma
alle idee, con o senza personaggi e notabili trame a sostenerle. Un’impresa speciale e
difficile nella cosiddetta «epoca dei procuratori», nella quale l’arte ha perduto le sue
attrattive e gl’intenditori sembrano non occuparsi già più dei quadri e dei libri ma di
coloro che li hanno prodotti, quindi, della loro vita10.
Eccolo allora preferire l’Ardinghello che sostiene quanto «“La cupola del Correggio
che racchiude l’Ascensione in cielo di Cristo nella chiesa di San Giovanni a Parma
appartiene a un genere particolare di tattica pittorica ed è un’opera a sé che per effetto
pittoriale non è possibile paragonare a quella di Raffaello senza fargli torto. Si resta
stupefatti (...)”», in contrapposizione al «giudizio morale» del caustico Burckhardt –
che anteponeva, in altre sedi, «“Il diritto di detestarlo”» – pronto invece a parlare di
quel «“fascino demonico”» di buon grado ripreso da Longhi (C, 17). Da Longhi
Arbasino sembrerebbe prendere le distanze, poiché sempre intento, il critico
piemontese (come i suoi «fedeli»), a individuare e a descrivere con priorità l’opera del
Correggio nella sua visione ricolma di «angelotti teneri, torbidi, turbativi», e per la
quale tira in ballo una «sarabanda critica documentata» che invalidi l’idea di una
«“sensuosa sublimità, qualche volta un po’ turbativa”», con le «“sue grazie labili”»,
fino a citare divertito, tra altri, John Addington Symonds, per il quale la cupola
correggesca del Duomo sembrerebbe «“un paradiso erotico mussulmano” con “angeliefebi quali urì”», commentando, poi, a proposito dei suoi colleghi incapaci di
interpretazioni “epicureistiche” o “anti-trascedenti” e di “illuminata struttura mentale”:
«“ma che cosa attendersi da un terreno dove sempre lussureggiava il bosco dell’eterna
arcadia italiana, sebbene drappeggiata in costumi di tardo romanticismo?”» (C, 21, 22).
Eppure Longhi, accanto a Federico Zeri, Mario Praz e Giovanni Macchia tra altri, in
«un’Epoca Critica e della Critica» – come la definisce Alfonso Berardinelli – è
l’origine, il presupposto essenziale senza il quale l’esperienza arbasiniana non avrebbe
avuto probabilmente origine e sussistenza.
Certo è che Arbasino scrittore ubbidisce a sé stesso come ai suoi antenati maestri e
amici, appartenenti perlopiù alle memorie giovanili, obbedendo all’idea di quanto di più
valido e più vicino alle sue occorrenze la letteratura abbia prodotto in un passato più o
meno recente; per questo tesse una conversazione intima con quegli autori letti nella
solitudine giovanile del ricetto sotto un cielo di ordigni, lontano dalle strade di sangue e
guerra, come Persio, Petronio, Parini, con Palazzeschi e l’ingegnere in blu, e rimpiange
gli amici più prossimi con i quali sperava di poter discutere litigiosamente in vecchiaia,
Pasolini, Parise, Ottieri e Testori11, membri di un arcadia transitoria e conclusa, perché
gli avvolgono le spalle come una liseuse che dà calore a un’attività che esiste ancora ma
senza più la forza di comunicare. In sostanza, «nella sua saggistica narrativa e nei suoi
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Vd. M. KUNDERA, Che resterà di te, Bertolt?, in Un incontro, Milano, Adelphi, 2009, p. 159.
Si vuole qui ricordare che l’attività del poeta, narratore, drammaturgo e critico d’arte milanese
Giovanni Testori sarà determinante per lo sviluppo degli studi sull’arte in area lombarda per quel che
riguarda la fucina di Longhi, del quale era stretto collaboratore e vivace promotore nella sua natura di
ricercatore e osservatore “scarrozzante”, da cui deriverà, poi, l’importante lavoro del 1953 I pittori della
realtà in Lombardia, tra altre rilevanti esperienze.
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romanzi-saggio Arbasino conversa con una società senza conversazione. La sua
conversazione è costretta al monologo»12.
Un soliloquio, tuttavia, costantemente rivolto a un tu: nelle prime battute del saggio
Arbasino riprende la considerazione invalsa che vuole il Correggio troppo grazioso,
lezioso, sdolcinato, smanceroso, manierato e religioso sotto forma di interrogazione
rivolta al potenziale lettore, al quale di contro propone l’entusiasmo che trascinò già
Stendhal – il quale scrive invece di grazia seducente e celeste, di miracolo: ravissant,
étonnant, charmant, adorable, irresistible, sublime (C, 7)13 – e che nelle prime pagine
de La Badessa di Castro, capolavoro del romanzo breve, scrive di quella «passione»
che in Italia ha prodotto personalità come Raffaello, Giorgione, Tiziano e Correggio.
Nel testo arbasiniano, marcato dal capoverso, un perentorio «piuttosto» pone in essere i
termini della questione, ovvero se non si tratta invece di «gran morbidezza non
disgiunta da vera grandiosità» (C, 7). Sin dalle prime battute e per l’intero prosieguo
dell’opera Arbasino catapulta il lettore nell’universo autre dell’opera correggesca, della
quale pone in rilievo la famosa luce, raccontando della capacità di questa di «diffondere
un incanto musicale e un tepore poetico sempre meno garbato, o corrivo», consentendo
al lettore-spettatore di viaggiare, attraverso i suoi occhi, per i cieli del settentrione
europeo, tra Vienna, Londra, Dresda e Berlino, tra «pinacoteche illustri (....) intiepidite
oltre che illuminate» da quella. Nonostante la morbida folata dell’opera del Correggio
abbia trovato un ostacolo nei grandi promontori dei geni rinascimentali, ugualmente
questa ha proseguito la sua irrefrenabile corsa portando nei polmoni d’Europa il respiro
della sua seducente modernità.
Ad ogni pagina visiva del Correggio corrispondono immagini verbali circostanti che
racchiudono l’idea di un’epoca post-artistica, osservata con inclinazione poematica nei
suoi valori e caratteri essenziali; valori che conducono all’opera di Leonardo14 e che da
quest’ultimo a tratti si muovono, in quanto varco per una nuova, diversa modernità,
quella che fa dell’oscurità la cifra espressiva dell’universo non più divino ma umano,
dell’artista il «padrone di tutte le cose» e della pittura un inganno15. Inganno dall’iter
scientifico, che accade però solo per «esperienza, senza la quale nulla dà di sé
certezza»16:
(...)
12
A. BERARDINELLI, Come convivere con Arbasino, «Il Foglio», 28 ottobre 2009.
Scrive Nicola Gardini: «Stendhal ha del Rinascimento un’immagine molto più articolata e sostanziale,
e sentita. (...) La sua opera (...) brulica di riferimenti al “sedicesimo secolo”. Stendhal lo amava
profondamente. Non sarebbe esagerato sostenere (...) abbia nutrito la stessa Weltanschauung di Stendhal
romanziere e che proprio attraverso il romanzo stendhaliano un certo sentire rinascimentale (...) sia
penetrato nell’immaginario moderno (...)», in Breve storia di una metafora, in Rinascimento, Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino, 2010, p. 41. Per quel che riguarda lo specifico della città di Parma, invece,
Guido Piovene scrive: «Il Correggio corrisponde a Parma: con la sua sensualità intensa, ma che si versa
nello sfumato, nel morbido, nel capriccioso, e si adagia in una ovattatura femminea. [...] donne e putti del
Correggio girano ancora nelle strade di Parma. [...] Stendhal amava Parma, e con La Certosa di Parma
ne fece l’immaginario tetro di uno dei suoi romanzi più celebri» (in Viaggio in Italia, L’Emilia, Milano,
Baldini Castoldi Dalai, 2007, pp. 251, 248.
13
14
Si ignora quanto o cosa il Correggio conoscesse dell’arte del suo tempo, ma ebbe probabilmente
occasione di studiare nei vari centri dell’Italia Settentrionale le opere di qualche allievo di Leonardo Da
Vinci, avvalendosi, in tal modo, del particolare trattamento del chiaroscuro, campo nel quale l’emiliano
elaborò effetti del tutto nuovi per le scuole posteriori.
15
Vd. M. ALINEI, Il sorriso della Gioconda, Bologna, Il Mulino, 2006.
16
L. DA VINCI, Se la pittura è scienza o no, in Trattato della pittura, Roma, G. T. E. Newton, 1996, p.
4.
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La mente del pittore si deve del continuo trasmutare in tanti discorsi quante sono le figure degli obietti
notabili che dinanzi gli appariscono, ed a quelle fermare il passo a notarle, e far sopra esse regole,
considerando il luogo, le circostanze, i lumi e le ombre.
(...)
Se noi vediamo la qualità de’ colori esser conosciuta mediante il lume, è da giudicare che, dove è più
lume, quivi si vegga più la vera qualità del colore illuminato, e dove è più tenebre, il colore tingersi nel
colore d’esse tenebre. Adunque tu, pittore, ricordati di mostrare la verità de’ colori sulle parti illuminate.
(...)
L’OMBRA, nominata per il proprio suo vocabolo, è da esser chiamata alleviazione di lume applicato alla
superficie de’ corpi, della quale il principio è nel fine della luce, ed il fine è nelle tenebre17.
La scrittura ingannevole di Arbasino – mescolanza di trasposizioni discorsive e
impressioni sensoriali inserite in un ingranaggio automatico che sfiora il cut-up di
Burroughs – ha come presupposto non il divertissement, tanto meno il meraviglioso
(anzi), bensì l’esistenza stessa di ciò di cui scrive: egli scrive per esistere e per far
esistere, poiché reagendo al mondo che osserva e indovina dà voce e forma al sublime
fluire del nulla, conservando il tempo passato entro un orizzonte espressivo-narrativo e
senza abbandonare i suoi personaggi nel vuoto dove la loro voce non sarebbe più
udibile. Con la sua opera Arbasino prevede sempre una “terza lettura”, come sintagma
narrativo di quel Terzo Novecento che è chiamato a rappresentare, e il suo Correggio ci
appare, a torto o a ragione, del Rinascimento stesso la “terza via”. Al Nostro interessa
in prima istanza rafforzare il tempo del Correggio nella Storia della cultura e della
società, e la sua arte in un preciso momento della stessa senza la pretesa di farne un
macroparametro interpretativo. Il tempo dell’Allegri è il Rinascimento, un’epoca che
sulle basi del fenomeno umanistico ha espresso nuova fiducia nel mondo e nell’uomo, e
in special modo nelle potenzialità conoscitive e creative di quest’ultimo. Il Medioevo,
dunque, finisce con la rappresentazione di Dio simile quasi in tutto all’uomo, divino
artefice del suo mondo e del proprio destino18.
All’operazione arbasiniana, pertanto, sembra esservi sottesa una nuova teoria della
critica d’arte, poiché perdendosi nel mare magnum delle affermazioni, delle citazioni e
dei fatti riportati in modo frammentato e insolito, ci si ritrova disorientati, a
testimonianza forse della indicibilità e incomprensibilità di quel meraviglioso visibile
parlare che lascia tralucere in superficie solo sbalordente bellezza, come quella
dell’Angelica ariostesca sempre inafferrabile o della Leda correggesca fatalmente
inverosimile, nel modo in cui lo sono le scritture che tentano di narrare la realtà come
appare all’occhio.
17
Rispettivamente In che modo deve il giovane procedere nel suo studio; Come il bello del colore
dev’essere ne’ lumi; Che cosa è ombra, ivi, pp. 35, 82, 179.
18
Il termine Rinascimento indica reviviscenza, idea già diffusa al tempo di Giotto. Nel corso del
Trecento in Italia si riteneva che le arti e le scienze, quindi la cultura fiorita in epoca classica, fosse stata
annientata dall’arrivo dei Barbari e che fosse giunto il tempo di consentire a quell’epoca di rinascere,
facendo rivivere quel glorioso passato in un’epoca nuova, moderna. Questa esigenza si tradusse in una
progressiva ricerca e conquista della realtà, razionalizzata nella nuova arte della prospettiva come
nell’invenzione della pittura a olio, ma in special modo nelle rappresentazioni semplici e grandiose,
sincere e commoventi, quasi tangibili e intelligibili come quelle di Masaccio, capace di stupire con le sue
figure quasi vere, quasi vive, ammirate con la drammaticità che fu già dell’osservato Giotto.
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