Atti del Convegno Internazionale
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Atti del Convegno Internazionale
UNIVERSITA’ DI CASSINO DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA E STORIA UNIVERSITÀ DI NAPOLI FEDERICO II DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA MODERNA Atti del Convegno Internazionale Cassino, 27 e 28 aprile 2010-05-17 a cura di TONI IERMANO E PASQUALE SABBATINO 1 GIUSEPPE VARONE LE SCRITTURE DELL’INVEROSIMILE: CORREGGIO DI ALBERTO ARBASINO Expect poison from the standong water1. (W. BLAKE, Proverbs of hell) (...) la perfezione non interessa in eterno. Una volta abituati a essa, la nostra emozione si spegne, e ci sentiamo allora attratti dallo strabiliante, dall’inatteso, dall’inaudito. (E.H. GOMBRICH, La storia dell’arte) Su Correggio è un’intensa e singolare monografia dedicata da Alberto Arbasino (Voghera, 1930) ad Antonio Allegri detto il Correggio (Correggio, 1489 ca. – 1534), l’ultimo maestro del Rinascimento italiano. Un testo raro e prezioso pubblicato nel 2008 dalla casa editrice Electa2 nella collana Pesci rossi, riferimento all’opera di Emilio Cecchi apparsa nel 1920 come racconto del quadro omonimo di Matisse e della mostra che lo ospitava, e più in generale a quel tipo di saggi brevi illustrati e colte divagazioni di cui la collana tenta di riproporre il tipico approccio e l’esclusiva tecnica di scrittura. Come tale appare il saggio di Arbasino, per un totale di circa ottanta pagine costituenti una lettura dei molteplici aspetti tratti dal personale e originale viaggio nella pittura del Correggio, della quale viene fornita un’opportuna galleria di immagini a corredo della seduzione del testo; un’avvincente esplorazione che lascia cogliere ancora una volta il Nostro intento a giocare con il suo lettore, al quale ama tendere agguati, provocandolo e sfidandolo con le armi dell’arguta intelligenza e della torbida scrittura, rischiando a tratti di soffocare ogni intendimento in un eccesso di conoscenza e di sferzante humour, aprendo indubitabilmente a nuovi e inattesi orizzonti emozionali e interpretativi. Da tempo i viaggi dello scrittore di Voghera fanno parte dell’‘educazione sentimentale’ degli italiani: narratore e saggista eclettico, con Le piccole vacanze (1957), passando per le tre stesure del poderoso romanzo di matrice odeporica Fratelli d’Italia (1963, 1976, 1993), ha ritratto la società italiana del pieno Novecento con un’andatura coinvolgente, benché impietosa e mordace. Stravagante e poliedrico, nella sua copiosa produzione ha fornito una cronistoria della realtà socio-culturale del suo tempo misurandosi con diversi generi letterari, passando dalle tracce e impressioni di vita e di cultura modellate nelle interviste e saggi di Parigi o cara (1960) – romanzo di formazione secondo la formula editoriale di Giorgio Bassani – ai romanzi sperimentali come L’anonimo lombardo (1959), fino alle prove dei “calchi d’autore” come La bella di Lodi (1972), arrivando, mosso da un privato e profondo legame con la tradizione civile e illuminista della letteratura lombarda, nonché da un europeismo assimilato nel vivo della sua formazione e militanza culturale e professionale, ai testi saggistici de Le 1 «Aspettati veleno dall’acqua ferma» (da Proverbi infernali). Cammeo che ripropone La cupola del Correggio in S. Giovanni a Parma: dopo il restauro, edito da Guanda nel 1990, con testi di Alberto Arbasino e Francis Haskell, con una nota di Bruno Zanardi. 2 2 lettere da Londra (1997) fino a Paesaggi italiani con zombi (1998), tra altri. In ogni sua prova letteraria, sempre personale mistione di generi letterari e paraletterari – diario, lettera, enciclopedia, intervista, zibaldone, conversazione, recensione, taccuino di viaggio e reportage culturale – Arbasino manifesta un’insolita capacità di traduzione dell’immagine da trasferire sulla pagina, con una tenuta che le rende nel loro insieme talvolta inevitabili e necessarie: per quel che riguarda lo specifico della Storia dell’Arte e di quella rinascimentale in particolare, viene alla mente quanto accaduto con L’Officina ferrarese (1937) di Roberto Longhi, il grande libro della pittura a Ferrara nel XVI secolo. Accade il più delle volte con le opere di Arbasino e nel caso della lettura correggesca in misura maggiore, sia perché risulta essere la prima monografia dedicata al maestro emiliano – che usava firmare la sua opera con il latino Laetus (Allegro) – trattato raramente e sovente in modo improprio, soprattutto a causa della penombra nella quale lo hanno relegato i più tonanti Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Leonardo, il quartetto che sembra aver consumato tutte le possibilità di far registrare meraviglia e genialità3; sia perché la curiosità del vogherese oltrepassa ogni rigida e precostituita, nonché deleteria categoria critico-metodologica, aprendo, con la sua scrittura-fiume, in molteplici direzioni e possibilità di senso e di linguaggio. Nel vorticoso allegro della sua stesura Arbasino cattura l’eccezionalità di Antonio Allegri, artista “progressista” che nel sereno alveo di una Parma distante dai grandi centri culturali del XVI secolo, nel pieno e ultimo Rinascimento smonta le strutture della prospettiva modellando un immaginario risolutamente pre-barocco, anteponendo all’esplosione del colore veneziano e al manierismo tosco-romano uno stile dolcemente fluido, capace di creare un universo vorticoso, nuvolare e visionario che schiude le buie e tenebrose cupole e volte delle cattedrali medievali, suscitando nei fedeli l’illusione dell’immensa gloria dei cieli. Capolavori provinciali e internazionali per «l’assoluta sovrana libertà e disinvoltura degli affetti e dei gesti: carezze padane e pagane, tenere e intellettuali (...) estri e vocazioni per una bellezza confidenziale calda, capace di grandiosità come di intimità, in un soffice fremito di vibrazioni dorate e rosate che creano ed emanano luce» (C, 22), «finendo per congiungere la sensualità alla fede» con la Danae, la Leda, l’Antiope e la Io, «inni al fascino della femminilità» (C, 23) come non si erano mai visti prima nell’Europa cristiana. Ingegnoso architetto dell’inverosimile, il Correggio – operoso quando Leonardo e Raffaello erano già scomparsi e Tiziano aveva ormai guadagnato la sua fama – cancella dalla complessità strutturale delle sue aeree composizioni, sia religiose sia profane (come quelle dal travolgente splendore nel duomo di Parma4 o della Camera della Badessa nel monastero di San Paolo), il disegno e dà forma ed equilibrio alle forme e allo spazio mediante luce e colore: quando la pittura si avviava verso la ‘maniera’, dunque, l’Allegri tracciava i contorni delle cose vive conservando nascosto il segno del pennello, lasciando credere reale ciò che invece era dipinto. Un riformatore il Correggio – «il pittore che dipingeva l’aria», artefice dell’incomprensibile e del sublime, senza eguali nel toccare i colori con vaghezza e 3 Scrive E. H. Gombrich: «Nelle città italiane, attorno al 1520, tutti gli amatori d’arte parevano concordi nell’affermare che la pittura aveva raggiunto l’apice della perfezione. Uomini come Michelangelo e Raffaello, Tiziano e Leonardo avevano effettivamente compiuto quello che era stato il tentativo delle generazioni precedenti. Nessun problema di disegno sembrava loro troppo arduo, nessun soggetto troppo complicato. Avevano mostrato come bellezza e armonia potessero combinarsi con l’esattezza, e avevano perfino superato, così si diceva, le più celebri statue greche e romane» (Una crisi dell’arte, in La storia dell’arte, Milano, Phaidon Press Limited, 2006, p. 273). 4 Scrive Arbasino: «(...) qui si manifestano estri e vocazioni per una bellezza confidenziale calda, capace di grandiosità come di intimità, in un soffice fremito di vibrazioni dorate e rosate che creano ed emanano luce. E in seguito, il Rococò cosmopolita del Settecento ne verrà giudicato come “ricaduta” o “indotto”» (C, p. 22). 3 rilievo e nell’ammantare di morbidezza ogni lembo carnale e di grazia il tutto secondo il Vasari, precursore della «grande immagine del Barocco» per Federico Zeri –, paragonato da Arbasino ad altri artisti di diversa provenienza, epoca e linguaggio, come si evince dal raffronto con un romanziere tra i più determinanti del XX secolo europeo: [...] si intende un carattere del “nostro Antonio” in comune con gli autori “non ripetenti” che invece di riscrivere tante volte lo stesso romanzo mutano continuamente le impostazioni tematiche e tecniche, come per esempio Thomas Mann dai piccoli formati di Tonio Kröger e La morte a Venezia alle vaste cupole con o senza pennacchi, quali Giuseppe e i suoi fratelli e il Doctor Faustus... [...] (C, 8) Se nell’opera del Correggio – sorta di Edgar Alla Poe ante litteram – il raziocinio convive con l’allucinazione, Arbasino si presta all’inseguimento febbrile delle sue prospettive angolari, aprendo brecce su stanze laterali e inattese, intelligenti e prive di pedanteria, fornendo possibili identikit la cui esattezza documentaria è velata da una morbida, inebriante ambiguità interamente rinascimentale. Vi è un cursorio incontro con l’autore tratto dal Dizionario Bompiani: «perfide trame rinascimentali di libertinaggio signorile fra locande e palazzi emiliani; scontrosità bisbetiche con Michelangelo e Giulio Romano in incognito; rustiche felicità domestiche, rivelazioni di capolavori, agguati di banditi, e troppo tardi sopraggiunge un messo del Duca di Mantova per invitarlo a Corte» (C, 15). Citazione affannosa che sbuca piuttosto per comunicare il suo contrario, ovvero l’inconoscibile, il carattere sfuggente del soggetto ricercato. Da qui l’occorso, eterodosso cimento con la filologia, l’esclusiva mise en scène dell’esercizio precipuo dell’erudizione storico-critica: la ricostruzione delle vicende dell’opera. Uno spettacolare cammino a ritroso che investiga e documenta i vari passaggi di proprietà delle opere – pratica invalsa e dal peso notevole nella cultura anglosassone5 – componendo il loro tessuto storico su un manto di notizie inconsuete; sì, perché peregrinanti, le opere correggesche, ora nel «triplo partenone museale di Budapest», o a Berlino sulle tracce della «cara Leda» con il suo «“cygne d’autrefois”» nei suoi svariati viaggi – a Mantova, Madrid, Praga, Stoccolma, Roma, Bracciano, Parigi, Berlino e poi ancora Parigi; ora nell’Italia del dopoguerra che accoglie con deferenza la seducente Danae alla Galleria Borghese di Roma, o nell’incanto per un «viaggiatore sentimentale d’arte» della serie di affreschi della Camera della Badessa nell’ex convento benedettino di San Paolo a Parma, «mentre i Martiri e i Cristi e le Madonne d’Emilia risiedono accumulati o impilati in un cul-de-sac effimero e metallico, alla Galleria Nazionale di Parma ristrutturata e rimansardata come un Pavesini ove bisogna far chilometri di scalette e percorsi a U fra i topi gigi di peluche per poter prendere un caffè» (C, 10). Un filologo sui generis, incline a passare con molta facilità dall’avventura riflessiva dello storico alla sagacia dell’inviato speciale, dispensatore di giudizi che rasentano talvolta quelli di un’implacabile guida turistica. Arbasino critico, tuttavia, non perde la misura dell’opportuna distanza dall’autore, mai 5 Riguardo a ciò l’inglese Francis Haskell, storico dell’arte e autore con Arbasino de La cupola del Correggio in S. Giovanni a Parma: dopo il restauro, promotore di una ricerca storica in cui la storia dell’arte assume un ruolo importante e viceversa, sostiene: «“Oggi quando pensiamo al passato (...) lo vediamo attraverso le immagini. Credo che centocinquanta anni fa lo avremmo visto attraverso la letteratura, la poesia, i documenti. (...) La rivalutazione dell’immagine è un fenomeno settecentesco. (...) la sola immagine ci può dare del passato un’idea falsa. (...) ci sono diversi tipi di testimonianze e tutte vanno considerate insieme e valutate. L’immagine è solo una testimonianza.» (Francis Haskell. La storia e le sue immagini, in F. VILLARI, Diario minimo. Ritratti londinesi, Roma, Edizioni Memori, 2006, pp. 44, 45, 46). Si intende qui rimandare, inoltre, a Le Muse a Los Angeles di Alberto Arbasino, brillante e ironico Gran Tour americano del Nostro alla riscoperta delle opere d’arte cosiddette ‘emigrate’, realizzato con atteggiamento provocatorio, poiché investigazione dall’andatura ironica e fissata da un dettato che scompagina e mescola le due sfere del verbo e della forma, ottenendo un risultato paradossale ed estraniante. 4 ridimensionato per farlo meglio comprendere, mai ingigantito per farlo dominare sull’intero orizzonte culturale di riferimento; preferisce piuttosto muoverglisi accanto con curiosità senza piegarsi a cerimonie e a censure, evitando inoltre di confondersi con la sua opera e cercando di afferrare tutto il visibile che gli si offre, raccontandolo in controluce ai pensieri ingenerati, fluenti come fossero “dal vero”. Il suo io, di fronte all’oggetto su cui scrive, ora si riduce a un minimo infinitesimale prossimo allo zero, ora si dilata per coincidere con il divenire. L’operazione che fa Arbasino si direbbe in prima istanza ascrivibile a una sensibilità postmoderna: ammantato da un’idea pressoché apocalittica dell’epoca presente come postuma rispetto a una estrema, culmine della modernità, lo scrittore, fatto preda di una girobussola delirante, avvia una quête senza sosta e senza dogmi, tentando forme di recupero del valore storico portato avanti come penetrazione conoscitiva entro gli strati più profondi del passato alla ricerca dell’umano. Nelle vesti di secret sharer, pertanto, il viaggiatore lombardo, muovendosi tra storia e cronaca, tra gioco e morale, tra Stendhal, Heinse, Proust e Gadda, si fa latore di una sorta di alter-modernità, tradotta nell’immagine di un Rinascimento come falda e piattaforma di quella stessa modernità ricercata entro e non oltre l’inafferrabilità delle tiepide e voluttuose morbidezze correggesche – figlie della lingua profana di una terra densa di nebbie spalmate su campagne interminabili – colte in una sola unità espressiva, sempre contemporanea a sé stessa, come l’Angelica del coevo Ariosto. Un testo indubbiamente moderno quello arbasiniano, in quanto manipolato epitome del concetto stesso di modernità, al quale l’uomo del XX secolo approda di riflesso e per adozione, dal Settecento in poi, in un ininterrotto rinascimento: le sue verbali destrezze appaiono come ragguagli e formali razionalizzazioni delle invenzioni correggesche stesse, per cui il testo appare come una sorta di tête à tête attraverso il quale esemplificare l’opera del genio concorrendo con essa6. Ma a quale modernità si fa riferimento? Si direbbe quella storica, che è insieme sociale e culturale, nondimeno concettuale: il XV e il XVI secolo, l’epoca degli esploratori, degli scienziati, degli ingegneri, dei pittori, degli architetti, nonché dei filologi, dei poeti, insomma, degli uomini che hanno concorso alla ‘rinascita’ dell’uomo. La nostra modernità è la loro; la loro crisi è la nostra: crisi innescata attraverso quella particolare, irripetibile attenzione posta all’uomo dall’uomo. Quale uomo? L’uomo che non guardava più in alto alla ricerca di un Dio, ma di sé stesso riflesso in ogni cosa costituente l’universo e l’universo mondo, che cercava di comprendere e soprattutto di dominare guardando orizzontalmente: i personaggi ritratti, tersi nella loro melanconica sospensione, ora provengono da un altrove dogmatico e verso di esso pare che guardino, come spaventati di ritornarvi o sgomenti nel loro perderlo, un dove poco discosto dalla linea dell’orizzonte, che adocchiano, terrestri, mentre indicano qualcosa di spirituale a colui che li osserva7. L’uomo-artista rinasce nel momento in cui si adopera per un progetto, specie se per sua natura irrealizzabile, giacché nel suo senso come nel suo fare contempla la totalità, che in quanto tale tutto annulla, sebbene ogni iniziativa, cultura e metodo consideri. Nello stesso Arbasino, pertanto, risulta impossibile distinguere i suoi progetti dalle sue realizzazioni. Egli invoca il demone della modernità affinché possa indovinare la sua lingua e rimuovere dal destino dell’uomo l’inciso del nulla, dello svanire come la dantesca neve sotterrata o il racconto ingannevole dell’esistenza onirica, poiché molto o tutto svanisce, dato che Krònos 6 L’operazione arbasiniana risponde alla pratica. Secondo la definizione del Vocabolario della lingua italiana Treccani, l’ècfrasi è la descrizione di un oggetto, di una persona, l’esposizione circostanziata di un avvenimento, e più in particolare la descrizione di luoghi e opere d’arte fatta con stile virtuoso, elegante ed elaborato, tale da gareggiare in forza espressiva con la cosa stessa descritta. 7 Com’è intento a fare l’enigmatico San Giovanni Battista di Leonardo conservato al Louvre. 5 inghiotte e scandisce la vita volta a togliere ciò che essa stessa dà. Ma molto è rimasto anche dipinto e scritto e soprattutto da riscrivere in un eterno presente. Dopotutto, i testi arbasiniani custodiscono sempre una storia e un passato fuoriusciti dalla memoria per divenire presente assoluto, da cui, probabilmente, la sua precipua necessità di riscrivere i suoi libri, con il fine di sincronizzarli al presente, sebbene questo finisca per essere sempre e in ogni modo fuori dalla Storia. In questo senso, allora, Arbasino – con pochi altri della sua generazione, tra i quali Goffredo Parise, Ottiero Ottieri, Giovanni Testori, Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, accanto ad altri, come il comasco Giancarlo Buzzi – è lo scrittore più emblematico del Terzo Novecento – gli anni successivi al ’68, inaugurati con l’apertura allo sperimentalismo e al moderato espressionismo linguistico – come dell’inizio del XXI secolo, poiché rappresentativo di quel caos voluto ordinato e tradotto in immagine e memoria. Un’epoca senza fine, capace di sopravvivere a sé stessa senza smettere mai di finire, anche se l’opera di Arbasino annuncia ed esibisce che la Storia è finita e che il presente ininterrottamente ritorna, simulato e foggiato in una enumerazione ed elencazione del disordine, principio di un viaggio intelligibile nella sua riduzione a forma, gioco, parodia o mesta commedia dell’uomo moderno. Il Rinascimento, nell’opera vertiginosa di questo danzatore sui trampoli del sapere e dei pentagrammi verbali, è uno sconfinato puzzle costituito da dipinti, affreschi e aneddoti atti a rappresentare l’immagine fugata di un’epoca aperta; un pretesto per mezzo del quale il Nostro si aggira funambolico tra letteratura, pittura, cinema – con «La soffice Io in estasi come una Santa degli Orgasmi acchiappata dalla zampona elastica di un King Kong di nuvola» (C, 7) in riferimento a Giove e Io (1531-1533, Kunsthistorisches Museum di Vienna); «E circa gli “intriganti” viaggi del Correggio a Roma o altrove, con quale gusto si rammenterebbero le controversie a proposito dei viaggi di Luchino Visconti negli Stati Uniti, quando faceva regie talmente identiche ai Tennessee Williams di Elia Kazan che la documentazione non poteva esser bastata» (C, 16), per riferire che già nel Rinascimento hanno «“azzeccato” visionariamente il panorama (come Kafka che indovinò l’America senza esservi stato» (C, 20) – teatro, musica, storia e critica ricreando uno zeitgeist non estraneo alla coscienza dell’intellettuale contemporaneo che in essa si riconosce e insieme annulla, ammantandosene. Annullamento che trova il suo sigillo in una scrittura perentoriamente elusiva e per la quale non si può non scomodare quella sensibilità per poco ancora postmoderna, dal momento che per capire e plasmare, riorganizzandolo, il vuoto intorno a se occorre guardare lontano, nel molteplice, ripartendo da zero con atteggiamento ironico e avventuroso. Ecco, allora, che lo scrittore di Voghera, alle prese con la sua fiction, appare ai nostri occhi come il signor Aghios, il protagonista del racconto sveviano Corto viaggio sentimentale, il quale ci viene presentato intento a porre in ordine le tasche e a conservare in una di esse un registro contenente la pianta delle tasche stesse e l’elenco degli oggetti in esse contenuti. Il rapporto Arbasino/Correggio è pari al rapporto Proust/Vermeer, ed entrambi presumono un’apologia dell’imprecisione8, come metro del percorso che il pensiero 8 Nella Recherche di Proust vi è un passo nel quale l’anziano pittore Bergotte visita una mostra d’arte olandese e nella contemplazione di un particolare della Veduta di Delft di Vermeer colto da un malore muore. Nei pensieri del morente vi è un “petit pan de mur jaune”, ma ci si chiede quale sia nel quadro il “piccolo lembo di muro giallo” di cui Proust scrive. Dalla ricerca di questo dettaglio si sviluppa la riflessione del linguista Lorenzo Renzi sul senso della critica nel volume Proust e Vermeer. Apologia dell’imprecisione (Il Mulino, 1999). La questione, come si evince dal testo, è molto complessa, dal momento che rispondere all’esigenza di identificare con certezza a quale particolare del dipinto del pittore olandese Proust si riferisca può contribuire a mostrare il procedimento per mezzo del quale la realtà venga manipolata per trovare una sua collocazione nell’opera letteraria. Renzi, dunque, si immerge nello studio della pittura olandese e nell’analisi delle pagine in cui viene narrata la morte di Bergotte, alla 6 compie dagli stimoli forniti dalla realtà del mondo alla manipolazione e collocazione di questi nell’opera, a motivare la possibile assenza di quel dettaglio o figura esistente solo nella pagina, e che i nostri occhi, perciò, non possono cogliere. Il plot arbasiniano, dunque, appare come un catalogo surreale fitto di emozioni, mentre la memoria dello scrittore l’inadeguato inventario dei valori e degli effetti al quale si affida la tradizione; e il Rinascimento è una tradizione che si rinnova attraverso la scrittura e la memoria, e dal momento che la coscienza spirituale è nella lingua e non mediata da questa, la ricerca sia espressiva sia critica riguarda una certa questione della lingua: vale a dire che ciò che resta vivo e s’intende recuperare di una data epoca storico-culturale, come quella rinascimentale, è il suo canone9. Arbasino sembra quasi voglia riferire che nella storia del Correggio e delle sue opere possa consistere la silloge stessa del ’500: un secolo di geni fuori dal quale l’artista emiliano vive l’infausta ventura di essere accantonato per la sua maniera considerata troppo leziosa e manierata, nonostante dalla provincia, alla periferia dell’universo rinascimentale – «in the petty municipalities of Emilia» (C, 17) – ne costituisca una parte viva, giacché geni sono innanzitutto coloro nei quali la comprensione, l’intuizione e il sentire coincidono con la semplice, ingenua e debole innocenza nella vita, che li rende il più delle volte estranei e refrattari alle sue regole. Al di là della accorata visione del romantico danese Adam Oehlenschläger, che scrive: «Caduto sotto il peso del bisogno / e dell’invidia il martire là giace... E sol da morto a vivere comincia... Troppo mite e gentil per questo mondo» (C, 15), incalzano altri enigmi: per Berenson, nell’alveo della prosa d’arte antica, ad esempio, «“pressoché inevitabile”» era «un’emersione di Michelangelo a Firenze, un’apparizione di Raffaello in Umbria, un’emergenza di Tiziano a Venezia. Ma per niente affatto era prevedibile, “in the petty municipalities of Emilia” – appunto – (...) “il delizioso flusso che conosciamo come Correggio”», dove lo “stream” (non sempre, come in questo caso, “of consciousness”) sta a significare getto consistente, definibile miracoloso, perlopiù anomalo, in luoghi periferici in quanto “uninspiring” (C, 17). Ancora: l’Ardinghello e le Isole Felici. Una storia italiana del Cinquecento (1787) di Wilhelm Heinse, è un viaggio-conversazione preromantico attraverso l’Italia rinascimentale dei «“tre grandi apostoli dell’arte, Raffaello, Tiziano e Correggio», tra cittadine ricche soltanto di qualche opera “celestiale” di Raffaello o di Correggio, e per questo soltanto capaci di brillare come stelle di fronte all’immensa ricchezza del Nord, come nel caso di Parma, accogliente il Cristo Morto del Correggio, opera (Compianto sul Cristo morto, 1522-1525, Parma, Galleria Nazionale) che Heinse sostiene abbia «superato tutti», compreso Raffaello e la sua Deposizione; proprio Raffaello, aggiunge, che nulla può neanche dinanzi alla caratteristica voluttuosità correggesca, poiché mai colto nella facoltà di esprimere «la delizia dell’amore (...) con la profonda armonia dell’anima e con la serena fantasia che manifestò nella sua Io il grande Lombardo, senza fama in vita e vicino di Ariosto». Considerazioni di Heinse, che tuttavia, in ricerca di quel “muretto” di Vermeer che è diventato il “muretto” di Proust, un dettaglio che esiste solo nella pagina di quest’ultimo. 9 Prova inoltre risolutamente profetica quella arbasiniana se misurata con il bisogno attuale di un «Terzo Rinascimento», con Urbino come sede di partenza. L’insieme indistinto di stili, gusti e consumi ha generato nel Terzo Millennio l’esigenza di una ridefinizione dei canoni espressivi e le basi di partenza per la costituzione di un edificio solido non può non rifarsi ai meccanismi di energia propulsiva sviluppatasi nel corso del Rinascimento. L’energia umanistico-rinascimentale è considerata una sorta di autorità estetica e metodologica assoluta e impareggiabile, dunque il punto cardine di tutte le esperienze artistiche successive e potenzialmente di quelle a venire. Con il superamento della concezione dell’arte come imitazione della natura e dopo l’esperienza del vuoto e della frammentazione espressionistica dell’identità individuale, si delinea nuovamente una nuova autonomia del soggetto, in quanto genio creatore, come indiscutibile fulcro del creato e protagonista dell’atto creativo. 7 conclusione, virano in direzione di quell’«idea fissa», deplorevole dall’angolo visuale di Arbasino, ovvero: «“Ah, se si potessero unire in un solo essere la verità del colore di Tiziano, la luce e le ombre del Correggio, l’alto spirito di Raffaello e la conoscenza del corpo umano di Michelangelo, avremmo indubbiamente l’ideale di pittore» (C, 13). L’esploratore Arbasino vuole tracciare sulla sua mappa segni indelebili, costituiti dalle opere e dai fatti più che dall’intento di circoscrivere intenzionalmente l’idea di un’epoca nella silhouette di un genio supremo e della sua biografia: il Rinascimento è l’idea stessa di modernità e ogni opera arbasiniana risponde all’urgenza di dare forma alle idee, con o senza personaggi e notabili trame a sostenerle. Un’impresa speciale e difficile nella cosiddetta «epoca dei procuratori», nella quale l’arte ha perduto le sue attrattive e gl’intenditori sembrano non occuparsi già più dei quadri e dei libri ma di coloro che li hanno prodotti, quindi, della loro vita10. Eccolo allora preferire l’Ardinghello che sostiene quanto «“La cupola del Correggio che racchiude l’Ascensione in cielo di Cristo nella chiesa di San Giovanni a Parma appartiene a un genere particolare di tattica pittorica ed è un’opera a sé che per effetto pittoriale non è possibile paragonare a quella di Raffaello senza fargli torto. Si resta stupefatti (...)”», in contrapposizione al «giudizio morale» del caustico Burckhardt – che anteponeva, in altre sedi, «“Il diritto di detestarlo”» – pronto invece a parlare di quel «“fascino demonico”» di buon grado ripreso da Longhi (C, 17). Da Longhi Arbasino sembrerebbe prendere le distanze, poiché sempre intento, il critico piemontese (come i suoi «fedeli»), a individuare e a descrivere con priorità l’opera del Correggio nella sua visione ricolma di «angelotti teneri, torbidi, turbativi», e per la quale tira in ballo una «sarabanda critica documentata» che invalidi l’idea di una «“sensuosa sublimità, qualche volta un po’ turbativa”», con le «“sue grazie labili”», fino a citare divertito, tra altri, John Addington Symonds, per il quale la cupola correggesca del Duomo sembrerebbe «“un paradiso erotico mussulmano” con “angeliefebi quali urì”», commentando, poi, a proposito dei suoi colleghi incapaci di interpretazioni “epicureistiche” o “anti-trascedenti” e di “illuminata struttura mentale”: «“ma che cosa attendersi da un terreno dove sempre lussureggiava il bosco dell’eterna arcadia italiana, sebbene drappeggiata in costumi di tardo romanticismo?”» (C, 21, 22). Eppure Longhi, accanto a Federico Zeri, Mario Praz e Giovanni Macchia tra altri, in «un’Epoca Critica e della Critica» – come la definisce Alfonso Berardinelli – è l’origine, il presupposto essenziale senza il quale l’esperienza arbasiniana non avrebbe avuto probabilmente origine e sussistenza. Certo è che Arbasino scrittore ubbidisce a sé stesso come ai suoi antenati maestri e amici, appartenenti perlopiù alle memorie giovanili, obbedendo all’idea di quanto di più valido e più vicino alle sue occorrenze la letteratura abbia prodotto in un passato più o meno recente; per questo tesse una conversazione intima con quegli autori letti nella solitudine giovanile del ricetto sotto un cielo di ordigni, lontano dalle strade di sangue e guerra, come Persio, Petronio, Parini, con Palazzeschi e l’ingegnere in blu, e rimpiange gli amici più prossimi con i quali sperava di poter discutere litigiosamente in vecchiaia, Pasolini, Parise, Ottieri e Testori11, membri di un arcadia transitoria e conclusa, perché gli avvolgono le spalle come una liseuse che dà calore a un’attività che esiste ancora ma senza più la forza di comunicare. In sostanza, «nella sua saggistica narrativa e nei suoi 10 Vd. M. KUNDERA, Che resterà di te, Bertolt?, in Un incontro, Milano, Adelphi, 2009, p. 159. Si vuole qui ricordare che l’attività del poeta, narratore, drammaturgo e critico d’arte milanese Giovanni Testori sarà determinante per lo sviluppo degli studi sull’arte in area lombarda per quel che riguarda la fucina di Longhi, del quale era stretto collaboratore e vivace promotore nella sua natura di ricercatore e osservatore “scarrozzante”, da cui deriverà, poi, l’importante lavoro del 1953 I pittori della realtà in Lombardia, tra altre rilevanti esperienze. 11 8 romanzi-saggio Arbasino conversa con una società senza conversazione. La sua conversazione è costretta al monologo»12. Un soliloquio, tuttavia, costantemente rivolto a un tu: nelle prime battute del saggio Arbasino riprende la considerazione invalsa che vuole il Correggio troppo grazioso, lezioso, sdolcinato, smanceroso, manierato e religioso sotto forma di interrogazione rivolta al potenziale lettore, al quale di contro propone l’entusiasmo che trascinò già Stendhal – il quale scrive invece di grazia seducente e celeste, di miracolo: ravissant, étonnant, charmant, adorable, irresistible, sublime (C, 7)13 – e che nelle prime pagine de La Badessa di Castro, capolavoro del romanzo breve, scrive di quella «passione» che in Italia ha prodotto personalità come Raffaello, Giorgione, Tiziano e Correggio. Nel testo arbasiniano, marcato dal capoverso, un perentorio «piuttosto» pone in essere i termini della questione, ovvero se non si tratta invece di «gran morbidezza non disgiunta da vera grandiosità» (C, 7). Sin dalle prime battute e per l’intero prosieguo dell’opera Arbasino catapulta il lettore nell’universo autre dell’opera correggesca, della quale pone in rilievo la famosa luce, raccontando della capacità di questa di «diffondere un incanto musicale e un tepore poetico sempre meno garbato, o corrivo», consentendo al lettore-spettatore di viaggiare, attraverso i suoi occhi, per i cieli del settentrione europeo, tra Vienna, Londra, Dresda e Berlino, tra «pinacoteche illustri (....) intiepidite oltre che illuminate» da quella. Nonostante la morbida folata dell’opera del Correggio abbia trovato un ostacolo nei grandi promontori dei geni rinascimentali, ugualmente questa ha proseguito la sua irrefrenabile corsa portando nei polmoni d’Europa il respiro della sua seducente modernità. Ad ogni pagina visiva del Correggio corrispondono immagini verbali circostanti che racchiudono l’idea di un’epoca post-artistica, osservata con inclinazione poematica nei suoi valori e caratteri essenziali; valori che conducono all’opera di Leonardo14 e che da quest’ultimo a tratti si muovono, in quanto varco per una nuova, diversa modernità, quella che fa dell’oscurità la cifra espressiva dell’universo non più divino ma umano, dell’artista il «padrone di tutte le cose» e della pittura un inganno15. Inganno dall’iter scientifico, che accade però solo per «esperienza, senza la quale nulla dà di sé certezza»16: (...) 12 A. BERARDINELLI, Come convivere con Arbasino, «Il Foglio», 28 ottobre 2009. Scrive Nicola Gardini: «Stendhal ha del Rinascimento un’immagine molto più articolata e sostanziale, e sentita. (...) La sua opera (...) brulica di riferimenti al “sedicesimo secolo”. Stendhal lo amava profondamente. Non sarebbe esagerato sostenere (...) abbia nutrito la stessa Weltanschauung di Stendhal romanziere e che proprio attraverso il romanzo stendhaliano un certo sentire rinascimentale (...) sia penetrato nell’immaginario moderno (...)», in Breve storia di una metafora, in Rinascimento, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2010, p. 41. Per quel che riguarda lo specifico della città di Parma, invece, Guido Piovene scrive: «Il Correggio corrisponde a Parma: con la sua sensualità intensa, ma che si versa nello sfumato, nel morbido, nel capriccioso, e si adagia in una ovattatura femminea. [...] donne e putti del Correggio girano ancora nelle strade di Parma. [...] Stendhal amava Parma, e con La Certosa di Parma ne fece l’immaginario tetro di uno dei suoi romanzi più celebri» (in Viaggio in Italia, L’Emilia, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, pp. 251, 248. 13 14 Si ignora quanto o cosa il Correggio conoscesse dell’arte del suo tempo, ma ebbe probabilmente occasione di studiare nei vari centri dell’Italia Settentrionale le opere di qualche allievo di Leonardo Da Vinci, avvalendosi, in tal modo, del particolare trattamento del chiaroscuro, campo nel quale l’emiliano elaborò effetti del tutto nuovi per le scuole posteriori. 15 Vd. M. ALINEI, Il sorriso della Gioconda, Bologna, Il Mulino, 2006. 16 L. DA VINCI, Se la pittura è scienza o no, in Trattato della pittura, Roma, G. T. E. Newton, 1996, p. 4. 9 La mente del pittore si deve del continuo trasmutare in tanti discorsi quante sono le figure degli obietti notabili che dinanzi gli appariscono, ed a quelle fermare il passo a notarle, e far sopra esse regole, considerando il luogo, le circostanze, i lumi e le ombre. (...) Se noi vediamo la qualità de’ colori esser conosciuta mediante il lume, è da giudicare che, dove è più lume, quivi si vegga più la vera qualità del colore illuminato, e dove è più tenebre, il colore tingersi nel colore d’esse tenebre. Adunque tu, pittore, ricordati di mostrare la verità de’ colori sulle parti illuminate. (...) L’OMBRA, nominata per il proprio suo vocabolo, è da esser chiamata alleviazione di lume applicato alla superficie de’ corpi, della quale il principio è nel fine della luce, ed il fine è nelle tenebre17. La scrittura ingannevole di Arbasino – mescolanza di trasposizioni discorsive e impressioni sensoriali inserite in un ingranaggio automatico che sfiora il cut-up di Burroughs – ha come presupposto non il divertissement, tanto meno il meraviglioso (anzi), bensì l’esistenza stessa di ciò di cui scrive: egli scrive per esistere e per far esistere, poiché reagendo al mondo che osserva e indovina dà voce e forma al sublime fluire del nulla, conservando il tempo passato entro un orizzonte espressivo-narrativo e senza abbandonare i suoi personaggi nel vuoto dove la loro voce non sarebbe più udibile. Con la sua opera Arbasino prevede sempre una “terza lettura”, come sintagma narrativo di quel Terzo Novecento che è chiamato a rappresentare, e il suo Correggio ci appare, a torto o a ragione, del Rinascimento stesso la “terza via”. Al Nostro interessa in prima istanza rafforzare il tempo del Correggio nella Storia della cultura e della società, e la sua arte in un preciso momento della stessa senza la pretesa di farne un macroparametro interpretativo. Il tempo dell’Allegri è il Rinascimento, un’epoca che sulle basi del fenomeno umanistico ha espresso nuova fiducia nel mondo e nell’uomo, e in special modo nelle potenzialità conoscitive e creative di quest’ultimo. Il Medioevo, dunque, finisce con la rappresentazione di Dio simile quasi in tutto all’uomo, divino artefice del suo mondo e del proprio destino18. All’operazione arbasiniana, pertanto, sembra esservi sottesa una nuova teoria della critica d’arte, poiché perdendosi nel mare magnum delle affermazioni, delle citazioni e dei fatti riportati in modo frammentato e insolito, ci si ritrova disorientati, a testimonianza forse della indicibilità e incomprensibilità di quel meraviglioso visibile parlare che lascia tralucere in superficie solo sbalordente bellezza, come quella dell’Angelica ariostesca sempre inafferrabile o della Leda correggesca fatalmente inverosimile, nel modo in cui lo sono le scritture che tentano di narrare la realtà come appare all’occhio. 17 Rispettivamente In che modo deve il giovane procedere nel suo studio; Come il bello del colore dev’essere ne’ lumi; Che cosa è ombra, ivi, pp. 35, 82, 179. 18 Il termine Rinascimento indica reviviscenza, idea già diffusa al tempo di Giotto. Nel corso del Trecento in Italia si riteneva che le arti e le scienze, quindi la cultura fiorita in epoca classica, fosse stata annientata dall’arrivo dei Barbari e che fosse giunto il tempo di consentire a quell’epoca di rinascere, facendo rivivere quel glorioso passato in un’epoca nuova, moderna. Questa esigenza si tradusse in una progressiva ricerca e conquista della realtà, razionalizzata nella nuova arte della prospettiva come nell’invenzione della pittura a olio, ma in special modo nelle rappresentazioni semplici e grandiose, sincere e commoventi, quasi tangibili e intelligibili come quelle di Masaccio, capace di stupire con le sue figure quasi vere, quasi vive, ammirate con la drammaticità che fu già dell’osservato Giotto. 10