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STUDIO DELL’AVVOCATO SALVATORE ORESTANO
PATROCINANTE DINANZI LE GIURISDIZIONI SUPERIORI
00186 ROMA – VIA DE’ PREFETTI N. 26 – TEL.: 06. 6833818; TELEFAX: 06. 6833752
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ASSOCIAZIONE CULTURALE ARTICOLO 111
CONVEGNO 10 GIUGNO 2016, NAPOLI
T.A.R. CAMPANIA
Sala Filangieri
Intervento dell’Avv. Salvatore Orestano, del Foro di Roma, in
rappresentanza dei “Comitati di azione per la giustizia”
I “Comitati di azione per la giustizia” sono stati costituiti il 21 febbraio
1989 con atto del notaio Domenico Sciumbata di Roma con la
partecipazione di Vittorio Martuscelli, magistrato a riposo, Adalberto
Abbamonte, magistrato in servizio quale consigliere dirigente della V
sezione penale della Pretura di Roma e gli avv.ti Alessandra Civello e
Salvatore Orestano del Foro di Roma, con lo scopo di promuovere le
iniziative opportune per la soluzione dei problemi attinenti al corretto e
democratico funzionamento della giustizia, secondo i principi e lo spirito
della Costituzione repubblicana nonché di partecipare attivamente ad
esse.
Nei 27 anni di vita, numerose sono le iniziative culturali di carattere
giuridico avviate dai Comitati, ovvero alle quali hanno preso parte.
Il convegno odierno tratta un argomento di fondamentale importanza per
la giustizia e per il corretto modo di fruirne da parte dei consociati; e
dunque la presenza dei Comitati d’azione, attraverso chi ha l’onore di
parlare, mira proprio a sottolineare l’importanza del tema prescelto.
Non vi è dubbio che l’attività del nostro legislatore è assoggettata al
controllo della Corte Costituzionale, la quale, a sua volta, nell’esercizio
dei poteri ad essa conferiti, non può omettere di “rapportarsi” non
soltanto alle prescrizioni della nostra Carta ma, altresì, a quelle contenute
nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
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fondamentali, sottoscritta dai governi dei Paesi membri del Consiglio
d’Europa il 4 novembre 1950, ed entrata in vigore il 3 settembre 1953.
Giustamente, dunque, il nostro legislatore costituente ha inteso – con la
legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, pubblicata in G.U. il 23
dicembre 1999, n. 300 – effettuare un raccordo di rilevante importanza, in
particolare, con l’art. 6 della Convenzione aggiungendo i primi 5 commi
all’art. 111 della Costituzione e introducendo così nel nostro ordinamento
il principio del “giusto processo”.
In forza di tali disposizioni, è ormai acclarato che esiste una riserva di
legge relativamente al “giusto processo”; va garantito il contraddittorio
tra le parti in condizioni di parità davanti a giudice terzo e imparziale.
Il secondo comma di detto art. 111, stabilisce che la legge assicura la
“ragionevole durata” del processo; in tale prospettiva fu emanata la legge
24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto) la quale anche in virtù delle
modifiche introdotte dalla legge di stabilità 2016, statuisce all’art. 2
comma 2 bis che si considera rispettato “il termine ragionevole” in parola
se il processo “non eccede la durata di tre anni in primo grado, omissis”.
A questo proposito va evidenziato che la Corte Costituzionale con la
sentenza n. 36 emessa alle date 13 gennaio – 19 febbraio 2016 (G.U. n. 8
del 24 febbraio 2016) ha dichiarato la illegittimità dell’art. 2, comma 2 bis
della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui si applica alla durata
del processo di primo grado prevista dalla citata legge n. 89 del 2001, e
ciò in quanto viene ad essere disatteso quanto stabilito dalla Corte
Europea che fissa in due anni il limite massimo di durata del primo grado
di un procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001; questo è un caso
di evidente collegamento, anche ermeneutico, tra il nostro ordinamento e
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le decisioni della Corte europea basate sulla Convenzione più volte sopra
menzionata.
Il “giusto processo”, pertanto, rappresenta ormai un fondamentale
principio di giustizia nel nostro ordinamento; tuttavia, perché esso possa
realizzarsi in pieno, è necessario che le strutture processuali, sia civili sia
penali, siano potenziate in modo da garantire il completo funzionamento
del medesimo, assicurando al tempo stesso una parità di condizioni tra i
protagonisti della vicenda processuale, gli avvocati ed i magistrati.
Ma tale situazione non è affatto garantita nel nostro Paese; basti leggere le
relazioni dei Procuratori generali delle Corti di appello italiane, svolte in
occasione della inaugurazione degli anni giudiziari, per comprendere
quanto lavoro debba ancora essere effettuato dagli Organi di governo,
onde assicurare in concreto il funzionamento del “giusto processo”. In
particolare, mi sembra opportuno evidenziare le “grida di dolore”
esternate da Luciano Panzani, Presidente della Corte di Appello di Roma,
il 24 gennaio 2015 alla Assemblea Generale della Corte, per comprendere
in pieno il significato di quel che in precedenza ho affermato, soprattutto
con riferimento alla carenza di personale amministrativo, comune a tutti i
servizi civili, penali e amministrativi, carenza destinata a crescere per il
pensionamento di molte unità lavorative non sostituite.
I ruoli del giudice e dell’avvocato sono tra loro complementari e,
ricordando quanto affermava Piero Calamandrei, perché si svolga un
processo in maniera corretta occorre in primo luogo che siano presenti
avvocati deontologicamente attrezzati e rispettosi delle funzioni
dell’organo giudicante, anche se, talvolta, l’attività del magistrato è
ritenuta non in linea con quanto auspicato nell’interesse della parte
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assistita. A tal proposito va ricordato il dettato dell’art. 53 del Codice
deontologico forense, approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella
seduta del 31 gennaio 2014, in vigore dal 16 dicembre 2014; con tale
norma si stabilisce che “i rapporti con i magistrati devono essere
importanti a dignità e al reciproco rispetto” (1° comma); inoltre,
l’avvocato non deve interloquire con il Giudice in merito al procedimento
in corso senza la presenza del collega avversario né deve approfittare di
rapporti di amicizia, familiarità o confidenza con i magistrati per ottenere
o richiedere favori e preferenze, né ostentare l’esistenza di tali rapporti
(commi 2 e 4). La violazione dei doveri e divieti di cui sopra comporta
l’applicazione di sanzione disciplinare (comma 6).
Ed allora, tirando le fila di quel che fin qui si è detto, può concludersi che
l’avvocatura e la magistratura italiane, nel reciproco rispetto delle proprie
funzioni, si attendono una maggiore attenzione per le aspettative di
giustizia dei consociati, e ciò attraverso la costituzionalizzazione del
concetto stesso di “durata ragionevole del processo”, affinché siano
garantite le situazioni e le aspettative di chi si rivolge al giudice per
conseguire quel che gli è dovuto, ovvero perché venga accertata la
infondatezza di pretese nei di lui confronti azionate nonché, in sede
penale, perché non si dilati oltre misura il tempo durante il quale si venga
ad essere destinatari della azione promossa dal pubblico ministero.
Infine, desidero sottolineare che – stante la riserva di legge contenuta nel
1° comma dell’art. 111 Cost. – la funzione nomopoietica della Consulta
deve svolgersi in modo tale da evitare sovrapposizioni rispetto all’attività
del legislatore, che altrimenti subirebbe una “invasione di campo”, oltre
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che non consentita, sicuramente fonte di ulteriori illegittimità che
nuocerebbero al corretto funzionamento del nostro ordinamento.
Roma – Napoli, 10 giugno 2016
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