Manghi Postilla a "Faites le ménage, pas l`amour" - Lacan-con

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Manghi Postilla a "Faites le ménage, pas l`amour" - Lacan-con
A PROPOSITO DI FAITES LE MENAGE,
PAS L’AMOUR, DI LUCIEN ISRÄEL
NOTA SULLA PRATICA DELLA TRADUZIONE COME AIUTO A SEPARARSI DAI FANTASMI
PIÙ COMUNI E COME PROPEDEUTICA ALLA FORMAZIONE DELLO PSICOANALISTA
Moreno Manghi
Per il nuovo presidente della S.P.I. Antonino Ferro, il programma di riforma
della formazione degli analisti italiani non può esimersi dal “rendere obbligatorio
lo studio della lingua inglese”, o meglio di quella sua variante americana che nella
nostra epoca si propone come il linguaggio in cui si scrive e comunica la moderna
ricerca scientifica, chiamata alla riscossa per svecchiare la psicoanalisi (e la Società
Psicoanalitica Italiana) dal vetusto retaggio freudiano. Non proseguirò questo
esergo nella direzione polemica che ci si può anche troppo facilmente aspettare,
per porre invece la questione: perché non la traduzione? Intendo: perché non
proporre, sebbene senza alcun obbligo scolastico, come uno dei cardini della
formazione degli analisti, proprio la pratica della traduzione?
Quando Lucien Isräel, in Faites le ménage, pas l’amour 1, a un certo punto ci
propone un esempio di amour che mai potrà essere confuso col ménage, parla
proprio della traduzione:
“Un giorno mi chiederò – adesso non ne ho il tempo – perché mi accade spesso di
tradurre in più lingue quello che dico. A mero titolo indicativo, è perché non si traduce
mai. Una traduzione non è un tradimento, una traduzione è sempre un poema che
aggiunge a una frase pronunciata in una qualsiasi lingua, a un testo pronunciato in una
qualsiasi lingua, che aggiunge tutte le armoniche, tutte le allusioni, tutto lo spessore
Trad. it. per nostra cura, “Fate le pulizie di casa, non l’amore”:
http://www.lacan-con-freud.it/clinica/nevrosi/israel_menage.pdf
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dell’altra cultura, della cultura annunciata dall’altra lingua; e con più questa lingua è
straniera, con più è diversa, tanto più il poema apporterà ciò che è il solo a poter
apportare. Se non si fa dell’amore un poema, non si capisce niente dell’amore.”
Una curiosa prerogativa degli editori italiani è di trattare (e di stimare) la
stragrande maggioranza dei traduttori, anche di ottimo livello, alla stregua di
correttori di bozze, con compensi proporzionali (comunque mai abbastanza equi,
anche se la traduzione fosse pagata a peso d’oro) e con tempi di lavoro pari a
quelli di una esperta dattilografa. Ne consegue, date queste condizioni, che la
traduzione – quando è commissionata dall’editore – è completamente affidata,
oltre che alla passione, allo spirito di sacrificio e all’ascesi dei singoli traduttori, a
quello che non esitiamo a definire il loro masochismo – insomma, alla loro
capacità di sopportare tutto, comprese le umiliazioni e l’immancabile disprezzo
del traduttore-supervisore di turno, e perfino di accettare la scomparsa del loro
nome dalle citazioni bibliografiche. Tutto ciò, per amore della traduzione. Per far
comprendere questo amore a chi non l’ha mai sperimentato, a chi non ne ha mai
sentito la necessità (fatto che, per quanto riguarda gli psicoanalisti, potrebbe avere
il valore di un sintomo), diciamo che la relazione tra il traduttore e la traduzione è
per molti versi simile a quella tra il poeta e la Domnei dell’amor cortese, anche se
siamo disposti a tollerarne tutte le raffinate crudeltà ma non il trasporto
idealizzante. Tutto al contrario, come vedremo.
Praticando la psicoanalisi, ho capito a un certo punto che la pratica della
traduzione non era solo un suo corollario, ma mi era necessaria. Non solo perché
si tratta di sottoporsi alla stessa disciplina o ascesi, senza di cui non è possibile
né fare sedute né tradurre, non solo perché si ha a che fare in entrambi i casi con
le parole e con un certo loro ascolto, ma soprattutto perché la traduzione, lo
spazio e il tempo del tradurre, hanno a che fare con il trasferirsi, con il “tradursi”
al di fuori di quello che gli psicoanalisti chiamano il “fantasma”.
Il “fantasma”, diciamo sbrigativamente, è una certa fantasia inconscia (per
cui non ne sappiamo assolutamente nulla) che ci fa agire (dire, fare, baciare,
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lettera, testamento), in particolare nei momenti cruciali della nostra vita, sempre
nello stesso modo (quello del posto che occupiamo e facciamo occupare all’Altro
in una certa scena), in un’implacabile ripetizione che si riduce in fondo a negarci
ogni volta il passaggio a uno “stato desiderante”, e la capacità di conservarlo 2.
Così, di fronte a qualsiasi occasione di apertura che il destino gli pone davanti – si
tratti dell’altro dell’amore o del nuovo e impensabile senso che un antico e
radicato pensiero può assumere per lui –, il soggetto, fedele “come un cane” al
suo padrone, cioè al suo fantasma, evocherà inesorabilmente, ancora una volta, il
silenzio sulla sua vita.
Non è certo questo il luogo per trattare, o anche solo per sfiorare quel che ne
è del “fantasma nella dottrina psicoanalitica” 3; qui ci preme solo osservare il
legame tra il fantasma e la rimozione, legame che si sostiene sul misconoscimento
di ciò che pure – e non può essere diversamente – è sotto gli occhi di tutti. In
effetti, la funzione del fantasma, nella sua universalità, e quotidianità, può essere
definita da detti del tipo: “hanno gli occhi per non vedere; hanno le orecchie per
non sentire, ecc.”. Ma questo può dirlo appunto solo chi ha gli occhi per vedere e
le orecchie per sentire: colui che si è separato dal fantasma. La pratica del tradurre
– è la mia tesi – può aiutarci nel realizzare questa separazione. Eccone due
esempi.
Ho sottoposto ad alcune persone la lettura e il commento di questo brano
di Faites le ménage, pas l’amour:
“L’espoir fait vivre, dit le bon peuple –, l’espoir est un symptôme hystérique pour
ceux qui croient encore aux symptômes, et de toutes façon le gens se figurent qu’il vaut
mieux avoir ça devant soi que derrière – je parle au point de vue temporel, pas au point
de vue spatial. »
Questo “stato desiderante” (il desiderio freudiano, o anche: la libertà), come lo chiama
Isräel, non si confonde assolutamente con il Wunsch, il voto, l’augurio che un desiderio possa
essere appagato, il quale, se così possiamo dire, è perfettamente nel ménage.
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Si veda per esempio l’ormai classico Moustapha Safouan, Il fantasma nella dottrina
psicoanalitica e la questione della fine dell’analisi, in Studi sull’Edipo, trad. it. di Gabriella Ripa di
Meana, Garzanti, Milano 1977 (ed. fr. Études sur l’œdipe, Seuil, Paris 1974).
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[“La speranza fa vivere, come dice la brava gente; la speranza è un sintomo isterico,
per coloro che credono ancora ai sintomi, e in ogni caso le persone s’immaginano che è
meglio averla davanti a sé che dietro di sé (mi riferisco al tempo, non allo spazio).”]
Ciò che è sfuggito a tutti (me compreso, mentre leggevo il testo francese,
prima di tradurlo) – e che sfugge tanto più in quanto non è proposto come un
brano isolato dal contesto ma come parte sequenziale dell’intero testo – è quel
“s’immaginano”. Ovvero che la speranza, in quanto è un sintomo isterico (poiché
l’isterica si definisce proprio per non rinunciare alla speranza di averlo, il fallo in
difetto), ci si immagina di averla sempre davanti a sé, come la vita, che non cessa
di alimentarla se, come si dice, “finché c’è vita c’è speranza”. Direi perfino che la
speranza, più che un sintomo è un fantasma isterico, anzi il fantasma isterico per
eccellenza, e come tale, uno dei fantasmi più radicati, più irriducibili dell’umanità.
Solo quando non immaginiamo più, solo quando siamo stati capaci di rinunciare
alla speranza, solo quando l’abbiamo dietro di noi, e non più davanti a noi, solo
quando il fantasma della speranza è distrutto possiamo realmente desiderare hic et
nunc, senza continuare a procrastinare, a differire il desiderio… nella speranza di
realizzarlo4. Solo allora non siamo più isterici. Non a caso, la tenacia di questo
fantasma è ben descritta da sentenze come: “la speranza è l’ultima a morire”,
“non ci resta che la speranza”, ecc. 5 Con la precisazione (per non cadere dal
fantasma isterico in quello ossessivo, cioè dalla padella nella brace) che la
distruzione del fantasma della speranza non comporta affatto il: “io non mi
aspetto più niente da nessuno”, cioè quell’etica della grettezza che – questa sì – è
il sintomo del rimanere chiusi e ostili a ogni rapporto, a ogni differenza, a ogni
alterità.
È appunto il senso del desiderio in quanto semplice Wunsch.
Non si contano i libri – quasi tutti scritti in buona fede – dedicati alla speranza, che in
definitiva è un modo, non importa se inconsapevole, di tenere gli uomini nella schiavitù. Ultimo, il
recente Osare la Speranza (Chinaski, 2012), uscito a inizio dicembre 2013, libro di fotografie di
Pino Bertelli dedicato a Don Andrea Gallo. Il titolo dice tutto: dall’osare in quanto determinato
atto, rischioso, certamente non privo di conseguenze, si passa a osare la speranza: non è che ci
voglia poi molto.
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Ecco, sempre tratto dallo stesso testo, un secondo esempio, per cui valgono
le stesse condizioni e considerazioni:
“Donc, dressez les oreilles devant le: il n’y a rien de désirable. Mais c’est évident
qu’il n’y a rien de désirable. Regardez les couples chroniques ou éphémères qui vous
entourent. Mais, la plupart du temps, vous vous demandez : mais qu’est-ce qu’il ou
qu’est-ce qu’elle a bien pu lui trouver ? Rien. Il n’y a rien de désirable. Mais, lui ou elle
sont dans cet état de grâce qui est l’état désirant. Et c’est par ce désir qu’on va donner,
j’allais dire l’éclat du neuf tellement j’étais plongé dans le ménage, ou un éclat tout court,
un peu de lumière, un peu de soleil à cet autre qu’on a choisi. Comme chacun sait, le
soleil se couche aussi.
La dépression, c’est quand on n’est plus désirant.”
[“Dunque, drizzate le orecchie davanti al: non c’è niente di desiderabile. Ma è
evidente che non c’è niente di desiderabile. Osservate le coppie croniche o effimere che vi
circondano. La maggior parte del tempo non fate che chiedervi: ma che cosa, lui o lei, ha
potuto trovarci? Niente. Non c’è niente di desiderabile. Ma lui o lei sono in quello stato di
grazia che è lo stato desiderante. Ed è attraverso questo desiderio che si darà, stavo per
dire: lo splendore del nuovo, tanto ero sprofondato nel ménage, o un brevissimo lampo,
un po’ di luce, un po’ di sole a quell’altro che si è scelto. Come ciascuno sa, anche il sole
tramonta.
La depressione, è quando non si è più desiderante.”]
Qui tutto sembra chiarissimo, “splendido” fino ad abbagliare. Tuttavia, il
“non c’è niente di desiderabile” non è un contemptus mundi – il fatto che nel
mondo non ci sia niente che valga la pena –, ma il fatto che nessun “oggetto”
(incluso il soggetto) potrà mai essere causa del benché minimo desiderio, come
cerca di sostenere il perverso, e in massimo grado il feticista. Il ménage, in fondo,
è proprio il fantasma – letteralmente miserabile – che non c’è più niente di
desiderabile perché il mondo non ha, o non ha più niente da offrire. Eppure lo
stato di depressione viene inteso proprio in questo senso. Questo fantasma, che è
il fantasma per definizione, ci nasconde il contrario, ossia la verità che è solo dal
soggetto che il desiderio può nascere, e trasferirsi, nel suo “Hochglanz”, nel suo
splendore, sull’altro soggetto, rendendolo desiderabile. Ora, questa “traslazione”,
questa traduzione, questo transfert (qui i termini si sovrappongono), non è altro
che un fatto di linguaggio.
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Ci sono dei fantasmi – come quello della “mancanza del pene” nella donna,
in quanto si sostiene non su una pura differenza anatomica ma su un meno, su
un vuoto, su qualcosa che avrebbe dovuto esserci, che forse prima c’era, e che
invece non c’è o non c’è più; o come quello (conseguenza del primo) che
impedisce di comprendere che l’omosessualità (che non è un affare tra uomini o
tra donne, per la ragione che non conosce la differenza dei sessi) non è una
questione di genetica o di libera scelta ma di quello che Freud chiama “narcisismo
primario”, in cui si preferisce rimettere in questione l’intera cultura-civiltà umana
piuttosto che rinunciarvi–, ci sono dei fantasmi che per l’umanità sono irriducibili,
insuperabili. E che la psicoanalisi non ha neppure scalfito.
Allora, quando ci si separa da quella parte, da quel lato oscuro, the dark side,
del fantasma che è strettamente ancorato all’automatismo di ripetizione, al
godimento, causa di rimozione e di misconoscimento, e che fa del soggetto
un’anima che per essere bella non è meno assassina? 6 La mia risposta è, per
adesso, più che laconica: quando si comincia a smettere di avere paura.
La pratica della traduzione può aiutarci ad averne un po’ di meno, perché ci
permette di “tradurci” fuori dai fantasmi, almeno quelli più comuni.
(Febbraio 2013)
Si veda il nostro A tanto caro sangue (Aliquis sequitur):
http://www.lacan-con-freud.it/aiuti/dossier2/mm_a_tanto_caro_sangue.pdf
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