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Formiche ‐ Analisi, commenti e scenari
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il futuro della stampa
Giovanni XXIII, idee ed eredità cinquant’anni dopo
08 ‐ 06 ‐ 2013Fabrizio Anselmo
Formiche.net ricorda la figura del beato Giovanni XXIII, nel
cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, in una conversazione
con il pronipote Marco Roncalli, storico e saggista.
Era il 3 giugno 1963 quando, poco prima delle ore 20, moriva
Giovanni XXIII. Terminava così un pontificato che, nelle intenzioni
dei cardinali che avevano eletto al Soglio di Pietro l’allora patriarca
di Venezia, avrebbe dovuto essere di transizione. Ma colui che è
passato alla storia come il “Papa buono” ha invece modificato
profondamente la Chiesa del tempo, lasciando sino ad oggi un segno
indelebile, ben riconoscibile nel Concilio Vaticano II. Di lui Papa
Francesco, in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo
anniversario della sua scomparsa, ha detto: “custodite il suo spirito,
imitate la sua santità, approfondite lo studio della sua vita”.
Formiche.net ricorda la figura del beato Giovanni XXIII in una
conversazione con il pronipote Marco Roncalli, storico e saggista,
che ha dedicato a Papa Roncalli due importanti opere, quali
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“Giovanni XXIII. Angelo Giuseppe Roncalli. Una vita nella storia” (Ed.
Lindau) e “A.G.Roncalli e G.B.Montini – Lettere di fede e di
amicizia” (Ed. Studium).
Il 3 giugno 1963 moriva Papa Giovanni XXIII. Ricorre, quindi, in
questi giorni il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa.
Quale, oggi, l’attualità del suo pensiero?
Il messaggio di Papa Giovanni XXIII è sempre attuale. E’ attuale, in
particolare, l’immagine di una Chiesa che deve essere misericordiosa;
è attuale l’invito ad impegnarsi nel dialogo, nel cammino ecumenico
tra i cristiani; è attuale l’invito ad un profondo rinnovamento della
Chiesa, alla pace ed alla giustizia. Mi sembra inoltre che abbia
mantenuto tutto il suo vigore il leit motiv del cammino di un Papa che
diceva “la mia persona conta niente, è un fratello che vi parla, un
fratello divenuto padre per volontà del Signore”. Sono proprio queste
le parole che Giovanni XXIII utilizzava per parlare di sé e che hanno
mantenuto tutta la loro attualità. Ma non è una questione di buonismo,
sentimentalismo e retorica, anche se a lungo Giovanni XXIII è stato
presentato solo con l’etichetta riduttiva di “Papa buono”, capace
tutt’al più di mandare carezze ai bambini.
In questi giorni ricorre anche il cinquantesimo anniversario di
quella che forse è stata la sua enciclica più importante, ovvero la
“Pacem in terris”. Un recente convegno, dedicato a questo tema,
aveva come titolo: “Pacem in terris: ottimismo razionale o visione
profetica”. Lei cosa risponderebbe?
Direi, se me lo consente, un po’ tutte e due le cose! Con una buona
dose di intuizioni, che se crede possiamo definire pure profetiche, la
Pacem in terris è proprio l’enciclica che ha attraversato, come in
filigrana, il primo messaggio Urbi et Orbi di Papa Francesco. Ora, da
quel documento, nato di fatto dopo l’appello papale risolutivo durante
la crisi di Cuba (e finalmente ci sono anche le carte a provare quanto
affermato), ci separa mezzo secolo. Un cinquantennio nel quale tante
cose sono cambiate, nuove tipologie di guerre sono comparse
all’orizzonte. Tuttavia, ritengo che possiamo trovare in quell’enciclica
qualcosa di importante ancora oggi: l’idea, in particolare, che ogni
guerra sia qualcosa di alienum a ratione, la distinzione tra l’errore e
l’errante (con quest’ultimo che è sempre, ed anzitutto, un essere
umano e conserva la sua dignità di persona), il riconoscimento dei
diritti umani, non solo quelli della persona. Resta oggi, quindi,
un’enciclica che, non a caso, Giorgio La Pira definì come “un
manifesto del nuovo mondo” e che ha rappresentato, secondo
monsignor Loris Capovilla (segretario di Giovanni XXIII, ndr),
“l’estremo servizio e l’estrema testimonianza di un padre che si
rivolge alla famiglia umana, invitando tutti gli uomini a riconoscersi
figli di Dio”. E’ quindi, senza dubbio, un’enciclica ancora valida e,
direi, profetica, che precorre la globalizzazione.
Papa Giovanni XXIII sarà sempre ricordato per essere stato il “Papa
del Concilio”. Un Concilio, però, portato a termine dal suo
successore, Paolo VI. Ritiene che Papa Montini abbia portato a
compimento l’opera iniziata da Giovanni XXIII rispettando quelle
che erano le sue intenzioni iniziali?
Roncalli e Montini erano legati da una stima reciproca ed un’amicizia
discreta, come ho recentemente documentato con la pubblicazione del
loro carteggio. Paolo VI è stato improvvisamente chiamato a portare a
compimento il Concilio Vaticano II e lo ha fatto in piena sintonia con le
intenzioni del suo predecessore assumendosi, però, le decisioni
richieste dall’evoluzione della dinamica conciliare e rispondendo alle
questioni nuove sollevate nel corso dei lavori. In Paolo VI, quindi, vi è
continuità con Papa Giovanni ma, al contempo, vi è anche la novità di
dover concludere qualcosa da lui non iniziato. Condivido, quindi,
quanto detto da monsignor Maffeisha nel corso di un convegno
dedicato alla figura di Giovanni XXIII: “L’azione di Paolo VI si pone nel
Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile.
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segno di un’intenzionale continuità con l’eredità raccolta da Giovanni
XXIII e, insieme, risponde all’esigenza di una più precisa
determinazione del progetto conciliare per poterlo portare a
compimento”. E condivido anche quanto affermato dal padre gesuita
Giacomo Martina, secondo il quale Paolo VI non è stato né colui che ha
affievolito l’ispirazione iniziale roncalliana, né l’autore di un
salvataggio provvidenziale di un’assemblea che rischiava di
naufragare.
Papa Giovanni XXIII ha mostrato grande attenzione, anche prima di
salire al Soglio di Pietro, per il mondo operaio e per la questione
sociale. In quale modo ha mostrato questa sensibilità?
Credo che per rispondere a questa domanda sia sufficiente riportare
brevemente quanto scrisse nel 1909 sostenendo lo sciopero di Ranica
insieme al suo vescovo: “La pace è la missione del sacerdote. Ma la
pace è la tranquillità dell’ordine e ordine vuol dire rispetto della
giustizia e dei diritti di ciascuno. Noi siamo tutt’altro che amici di
qualunque sciopero, ci auguriamo che questo sia l’ultimo, perché lo
sciopero è la guerra, e la guerra è sempre terribile e dannosa. Ma
quando non ci fosse altro mezzo per ricondurre la pace e fosse
apertamente violata la giustizia, rivendichiamo il nostro diritto di dire
la verità a tutti, di chiamare giusta e santa la guerra, legittimo lo
sciopero, e di aiutare chi combatte per ricomporre quell’ordine
sociale di cui si avvantaggiano insieme il capitale ed il lavoro”. Ecco,
trovo che in queste parole pronunciate da un giovane Roncalli vi sia
tutto il suo pensiero e la sua vicinanza alle questioni sociali.
Quale era il legame tra Papa Roncalli e la sua terra d’origine in
provincia di Bergamo?
Tra Giovanni XXIII ed il suo paese natale, Sotto il Monte, vi era un
legame molto forte. Direi quasi un attaccamento inspiegabile al paese
natale, ai luoghi delle prime finestre sul mondo ed anche ad una certa
geografia spirituale. Un legame molto forte anche con la famiglia,
allentato un po’ solo dopo la sua salita al Soglio di Pietro, quando
affermò che “la famiglia del Papa era il mondo”. Un legame nel quale
io intravedo una certa riconoscenza verso le sue radici povere, verso i
genitori, verso il suo primo parroco.
Quali somiglianze vede tra Papa Giovanni XXIII e Papa Francesco?
Innanzitutto mi lasci dire che l’udienza di Papa Bergoglio di qualche
giorno fa con la diocesi di Bergamo è un grande segno di attenzione e
un omaggio alla terra che ha dato i natali al beato Giovanni XXIII. Non
vi è alcun dubbio che vi siano diverse analogie tra Roncalli e Papa
Francesco. Si vedano, infatti, certi accenti sul primato petrino quale
servizio, l’opzione preferenziale per i poveri, la misericordia. Un po’
come ai tempi di Giovanni XXIII si vede oggi una Chiesa più ottimista e
più vicina a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Sono tanti ad
avere accostato Papa Francesco a Giovanni XXIII. Il cardinale Bagnasco,
ad esempio, ha dichiarato di vedere in Francesco “lo stile, la
semplicità, la bontà, ma anche la capacità di governo di Giovanni
XXIII” mentre l’africano Robert Sarah ha definito Papa Francesco come
una “figura buona come il pontefice Angelo Giuseppe Roncalli”. E’
ovvio che vi siano anche alcune differenze, essendo molto diversi i
percorsi biografici e i contesti da loro attraversati. E questo non tanto
nelle radici quanto piuttosto nella formazione e nelle differenti
esperienze. Ad ogni modo vorrei precisare che il vero banco di prova
del paragone tra Francesco e Giovanni XXIII (che era terziario
francescano e prima del Concilio andò a pregare sulla tomba di San
Francesco), si vedrà tutto nell’esercizio del governo del neovescovo di
Roma. A riguardo, Giovanni XXIII si era imposto il suo programma con
queste parole: “Lasciar fare, dar da fare e far fare”.
Un’ultima domanda. E’ vero quanto recentemente affermato da
monsignor Capovilla secondo il quale Papa Giovanni XXIII avrebbe
chiesto di essere sepolto a San Giovanni in Laterano? Per quale
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motivo?
Certamente. E non si tratta solo di una testimonianza orale, dal
momento che sono stato io stesso a darne conto sul Corriere della Sera
pubblicando il documento che esprimeva tale desiderio. Papa Giovanni
XXIII, infatti, immaginò che le sue spoglie potessero riposare per
sempre in Laterano, presso l’arcibasilica che è madre di tutte le
Chiese di Roma e del mondo. L’abbozzo di un documento autografo
del 1962 non lascia alcun dubbio. Dopo aver dato il proprio consenso
ad essere sepolto nelle grotte vaticane, Papa Roncalli ha aggiunto:
“esprimo il desiderio, e la fervida preghiera, che, quando riesca
felicemente il progetto della trasformazione del Palazzo Lateranense
in sede del Vicariato di Roma, le mie povere ossa vengano
pietosamente trasferite dalla cripta di San Pietro alla cappella interno
dello stesso Vicariato”. Oggi, a distanza di cinquant’anni, Papa Roncalli
riposa nella basilica di San Pietro ed è bene che le sue spoglia non
vengano mosse, nonostante il pensiero da me citato. Il desiderio di
Giovanni XXIII, però, rimane oggi a dimostrare il grande amore del
Papa per il Laterano, in quanto sede da lui voluta del Vicariato, ed
esprime una valenza simbolica espressa dalla suggestione di questo
“ritorno” là dove c’era stata la residenza ufficiale dei sommi pontefici
sino al trasferimento ad Avignone e, successivamente, in Vaticano. Una
diversa residenza che corrispondeva anche ad una diversa visione
ecclesiologica.
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