Cortés incontra Montezuma

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Cortés incontra Montezuma
Unità
13
I TEMI: avventure nella storia
Manuela Botto – Maria Fortunato
Cortés incontra Montezuma
1 salmerie: i carri usati dagli eserciti per trasportare armi, bagagli ed equipaggiamenti.
2 piroghe: piccole imbarcazioni simili a canoe.
3 palanchino: portantina.
Sul far del giorno, Cortés era in piedi, intento a riunire i suoi soldati.
Svegliati dal suono bellicoso della tromba che, diffondendosi sulle
acque, si perdeva negli echi lontani delle montagne, essi corsero a
schierarsi, pieni d’entusiasmo, sotto le rispettive bandiere.
Cortés, alla testa del suo piccolo corpo di cavalleria, costituiva una
specie di avanguardia. Veniva poi la fanteria spagnola che, durante
una campagna estiva, aveva acquisito la disciplina e l’aspetto severo
delle vecchie bande. Le salmerie1 occupavano il centro, e l’oscura colonna dei guerrieri tlaxcalani chiudeva la marcia. Questo piccolo esercito non contava nemmeno settemila uomini, di cui neppure quattrocento Spagnoli. Esso seguì per un certo tempo lo stretto istmo che
separa le acque di Tezcuco da quelle di Chalco, poi s’addentrò sulla
lunga diga che, ad eccezione di un gomito che descrive all’inizio, corre in linea retta sino alle porte della capitale, attraverso le acque salate di Tezeuco. È lo stesso argine che forma ancor oggi la base del
grande viale di Città del Messico dal lato sud. Ovunque i conquistatori rilevarono i segni di una popolazione numerosa e fiorente, che
superava tutto quanto avevano visto prima. La superficie dell’acqua
scompariva sotto sciami di piroghe2 piene d’Indiani che, inerpicandosi sulla scarpata dell’argine, contemplavano gli stranieri con un misto
di curiosità e di stupore. Anche qui gli Spagnoli ebbero occasione di
ammirare quelle fiabesche isole di fiori, isole galleggianti, a volte ombreggiate da grandi alberi, che s’alzavano e s’abbassavano alternativamente a seconda del movimento ondulatorio delle acque.
Ad una mezza lega dalla capitale gli Spagnoli incontrarono varie centinaia di capi aztechi venuti ad accoglierli e ad annunciare loro l’approssimarsi di Montezuma. L’armata proseguì la marcia senz’altra
interruzione, sino ad un ponte prossimo alle porte della città. Questo
ponte, allora di legno e sostituito più tardi da un ponte di pietra, era
gettato su un’apertura della diga, per far defluire le acque agitate dai
venti e gonfiate, nella stagione delle piogge, da qualche piena improvvisa. Era un ponte levatoio e gli Spagnoli, attraversandolo, si resero
conto che questa volta si mettevano nelle mani di Montezuma, il
quale poteva, tagliando loro le comunicazioni con l’esterno, trattenerli prigionieri nella capitale.
Mentr’essi si abbandonavano a queste riflessioni, scorsero il brillante
corteo dell’imperatore, che stava sboccando dalla grande arteria che
attraversava, ieri come oggi, il centro della città. Al centro di una folla di nobili e di capi indiani, preceduti da tre ufficiali che portavano
bacchette d’oro, si distingueva il palanchino3 reale, risplendente d’oro
brunito. Montezuma indossava la cintura e l’ampio mantello quadra-
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to (tilmatli) della sua nazione. Questo mantello era tessuto di cotone
finissimo e le estremità ricamate formavano un nodo intorno al suo
collo. I piedi erano protetti da sandali dalle suole d’oro, e le cinghie
di cuoio che li fissavano erano parimenti adornate d’oro a sbalzo.
Tali sandali, come del resto il mantello, erano disseminati di pietre
preziose, fra cui lo smeraldo e il chalchilvitl, pietra che gli Aztechi stimano più di ogni altra. Sulla testa non portava altro ornamento che
un pennacchio di piume verdi che ricadevano sulle spalle, insegna più
del rango militare che della dignità reale.
Montezuma aveva allora circa quarant’anni. La sua figura era alta e
slanciata. La sua capigliatura, nera e liscia, era piuttosto lunga: i capelli molto corti non erano considerati convenienti per persone distinte.
Al suo approssimarsi, l’esercito si era fermato. Cortés, sceso a terra e
gettate le redini a un paggio, si fece innanzi seguito da alcuni dei suoi
più eminenti cavalieri. Questo incontro doveva suscitare in entrambi
un enorme interesse. Cortés vedeva in Montezuma il signore delle
ampie contrade che aveva attraversate, il principe di cui aveva inteso
vantare ovunque il fasto e la potenza. Il monarca azteco contemplava
nello Spagnolo l’essere strano il cui destino sembrava così misteriosamente legato al suo, il conquistatore annunciato da uno dei suoi
oracoli, l’eroe le cui prodezze sembravano innalzarlo al di sopra
dell’umanità. Ma qualunque fossero in quell’occasione i sentimenti di
Montezuma, egli fu abbastanza padrone di sé per ricevere il suo ospite con cortesia regale ed esprimergli la soddisfazione che provava vedendolo nella sua capitale. Cortés rispose a quest’accoglienza protestando il più profondo rispetto e testimoniando la sua riconoscenza
per i doni con cui l’imperatore aveva provato agli Spagnoli la sua
munificenza. Infilò poi una catena di vetro colorato intorno al collo
di Montezuma, facendo in pari tempo un gesto come per abbracciare
il principe, ma fu trattenuto da due nobili aztechi, offesi nel vedere la
sacra persona del loro signore esposta a simile profanazione.
Dopo questo scambio di gentilezze, Montezuma incaricò suo fratello
di condurre gli Spagnoli agli alloggiamenti loro destinati e, rimontato
in palanchino, si fece portar via, con la stessa pompa, attraverso la
folla prosternata. Gli Spagnoli lo seguirono da vicino e fecero ben
presto il loro ingresso, a bandiere spiegate e al suono d’una musica
guerriera, nel quartiere meridionale di Tenochtitlan.
Ciò che fece più impressione agli Spagnoli fu questa immensa folla
nelle vie e sui canali, alle porte, alle finestre e sui tetti. “Ricordo perfettamente questo spettacolo, – esclama Bernal Diaz – dopo tanti anni
esso è così presente alla mia memoria come se fosse avvenuto ieri”.
Ma quali dovettero essere le impressioni degli stessi Aztechi alla vista
d’uno sfarzo guerriero così nuovo per loro, quando intesero per la
prima volta il selciato delle strade risuonare sotto i ferri dei cavalli,
quegli strani animali che la fama aveva circondato di terrori supersti-
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ziosi; quando contemplarono quei figli del mondo orientale, il cui
colorito chiaro rivelava l’origine celeste, quelle armi brillanti, quei
copricapi d’acciaio – metallo a loro sconosciuto – splendenti come
meteore al sole, mentre fluttuava nell’aria una musica che non sembrava appartenere alla terra, così differente com’era dal suono dei loro
grossolani strumenti!
Sfilando per le vie spaziose, le truppe attraversarono numerosi ponti
sospesi su canali, lungo i quali scivolavano rapidamente le piroghe
indiane, coi loro piccoli carichi di frutta e di verdure, destinate al
mercato di Tenochtitlan. Si arrestarono finalmente di fronte ad una
grande piazza, situata al centro della città, dove sorgeva il massiccio
edificio piramidale consacrato dagli Aztechi al dio della guerra.
Di fronte alla porta occidentale del recinto del tempio, si stendeva una
fila di basse costruzioni di pietra; si trattava del palazzo che si era fatto costruire, circa cinquant’anni prima, Axayacatl, padre di Montezuma. Era stato predisposto per servire da caserma agli Spagnoli. L’imperatore stesso li aspettava nel cortile.
Montezuma, infilando una ricca collana al collo del generale, gli disse:
“Questo palazzo appartiene a voi, Malintzin (era l’appellativo che gli
dava sempre quando gli parlava), ed ai vostri fratelli. Riposatevi dalle
vostre fatiche; tra poco ritornerò a trovarvi”. Con queste parole egli si
ritirò insieme al suo seguito, dimostrando così una rara delicatezza di
comportamento.
M. Botto – M. Fortunato, Dal vecchio al Nuovo Mondo, Mursia