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RASSEGNA STAMPA
giovedì 19 febbraio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Articolo 21 del 18/02/15
Arci: Libia, necessari canali d’ingresso
umanitari
In queste ore sull’Europa e sul Mediterraneo soffiano pericolosi venti di guerra. La
situazione drammatica che si è venuta a determinare in Libia rischia di coinvolgere tutta
l’area del Mediterraneo, peraltro già teatro di molti e terribili conflitti. Siamo convinti che
non potrà essere un nuovo intervento militare a riportare la pace in Libia e la stabilità nel
Mediterraneo.
Le recenti esperienze, in primo luogo proprio quella in Libia nel 2011, hanno dimostrato
che la guerra aumenta l’instabilità e allontana le soluzioni, oltre che provocare morti e
ingiustizie. Tuttavia fermare la violenza e l’orrore fondamentalista è compito non rinviabile
della comunità internazionale che ha gli strumenti per farlo, se c’è la volontà politica di
utilizzarli.
L’Europa e l’occidente tutto non possono sconfiggere il terrorismo e le mire
espansionistiche dell’IS con un nuovo conflitto e con una soluzione repressiva. Avrebbe
senso una missione di peacekeeping sotto l’egida delle Nazioni Unite, fondata su un
accordo da raggiungere e su cui vigilare. Una missione che parta dal dialogo e dalla
ricomposizione della società civile, che coinvolga tutte le comunità locali libiche e che
abbia tra gli obiettivi anche quello di mettere in discussione le royalties del petrolio, che
deve diventare una fonte di ricchezza per tutte le comunità e non la condanna di quel
paese.
Si apre, insomma, anche per l’Italia, la possibilità di ridare fiato seriamente a un lavoro,
seppur difficilissimo, di diplomazia internazionale. E pensiamo sia ancora possibile
restituire forza e legittimità al ruolo delle Nazioni Unite. In questo quadro complesso
abbiamo di fronte un’emergenza umanitaria che rischia di coinvolgere in poche ore
centinaia di migliaia di persone che si sommeranno ad altre centinaia di migliaia di civili in
fuga da Siria, Afganstan, Iraq, Eritrea. Bisogna ricordarsi e ricordare alla comunità
internazionale che chi soffre di più, le principali vittime di questa crisi, sono coloro che
subiscono il giogo delle violenze e delle persecuzioni. Famiglie, uomini e donne, costrette
a fuggire, di cui l’Europa deve farsi carico e non rispondere con le bombe e i
respingimenti, come pretenderebbe qualche predicatore d’odio come Salvini.
Pensiamo che sia indispensabile e urgente riattivare l’operazione Mare Nostrum e allo
stesso tempo aprire, ricorrendo all’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati
(UNHCR), canali umanitari dai Paesi confinanti la Libia. Mare Nostrum, a differenza
dell’operazione Triton, era dotata di strumenti e personale per soccorrere i profughi,
evitando ricatti armati da parte dei trafficanti, come quello che si è verificato nei giorni
scorsi. Due interventi, Mare Nostrum e canali d’ingresso umanitari, che possono e
debbono essere promossi e sostenuti dall’Unione Europea e dalla comunità internazionale
tutta, prevedendo un sostegno ai principali paesi confinanti con la Libia, in primo luogo
Egitto e Tunisia, che saranno senz’altro coinvolti nella gestione dei flussi di profughi e che
corrono il rischio di un’estensione dell’intervento dell’IS nel loro territorio.
http://www.articolo21.org/2015/02/arci-libia-necessari-canali-dingresso-umanitari/
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Da LoSpazioBianco.it del 18/02/15
Online il bando di selezione di “Mediterranea
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Bjcem e il Comune di Milano promuovono Mediterranea XVII Biennale Giovani Artisti, un
evento internazionale multidisciplinare che si svolgerà a Milano, Italia, presso la Fabbrica
del Vapore, dal 22 al 25 ottobre 2015, e che prevede la partecipazione di oltre 300 artisti.
Nata nel 1985, la Biennale si svolge ogni due anni in una città diversa del Mediterraneo,
concentrandosi su giovani artisti e creatori. La Bjcem è una rete internazionale con 58
membri e partner provenienti da Europa, Medio Oriente e Africa, che, con il loro sostegno,
rendono possibile l’evento stesso garantendo la partecipazione degli artisti provenienti dai
territori da essi rappresentati.
ARCI Nazionale, membro della Bjcem, e Arci Comics invitano a partecipare al bando per
artisti di età inferiore ai 35 anni (nati entro il 31 dicembre 1980) che lavorano, studiano o
vivono in Italia per la selezione di un artista per la disciplina Fumetto e uno per la
disciplina Illustrazione. Il termine per la presentazione della candidatura è il 15 marzo
2015
Il bando è promosso in collaborazione con A.I. (Associazione autori di immagini), ANAFI
(Associazione nazionale amici del fumetto e dell’illustrazione), Centro Fumetto “Andrea
Pazienza”, Comicon –Salone internazionale del fumetto di Napoli, Fumettologica ,
Librimmaginari (festival di promozione del libro illustrato,), Lo Spazio Bianco, RUFA (Rome
University of Fine Arts), Scuola Internazionale di Comics, Arci Pescara.
Gli artisti devono presentare un progetto specifico in relazione al tema di questa edizione,
“NO FOOD’S LAND – il mondo dopo l’EXPO”. La partecipazione al bando è gratuita e
aperta a tutti, senza distinzioni di sesso, religione, comportamenti sociali e politici. Gli
artisti che abbiano partecipato a più di una edizione precedente non possono partecipare;
verrà data priorità agli artisti che non abbiano mai partecipato alla manifestazione.
Contatti per l’invio dei materiali e per informazioni:
ARCI Direzione Nazionale – Ufficio Cultura
Via dei Monti di Pietralata, 16 – 00157 Roma – RM
Tel. 06 41609501 – Fax 06 41609275 – Email [email protected]
Per ulteriori informazioni consultare i siti www.arci.it e www.bjcem.org.
http://www.lospaziobianco.it/141588-online-il-bando-di-selezione-di-mediterranea-17
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ESTERI
del 19/02/15, pag. 2
Qaedisti in azione. Quattro agenti uccisi
La Tunisia teme il “contagio” libico
Gina Musso
Rivendica la falange Okba Ibn Nafaa. E l’esercito sigilla la frontiera con
la Libia
Notizie a dir poco contrastanti arrivano dalla Tunisia in questi giorni. Tra le più «liete»
spicca l’annuncio che domani effettuerà il suo primo viaggio la «Rosa del deserto», un
treno turistico, ecologico e soprattutto vintage — investimento da 1,3 milioni di euro della
società francese Discovery Trains — con cui Le Ferrovie dello stato tunisine contano di
scarrozzare i turisti tra i vari siti naturali e archeologi del Paese, lungo la linea che unisce
Tunisi a Kasserine.
Proprio dal governatorato di Kasserine proviene viceversa la notizia di un attacco nel
quale sono rimasti uccisi quattro agenti impegnati in un’operazione di rastrellamento. È
accaduto martedì notte nel villaggio di Boulaaba, press il Monte Chaambi, in una zona al
confine con l’Algeria che è considerata la roccaforte del principale gruppo jihadista attivo
nel paese, la falange Okba Ibn Nafaa, legata alla galassia qaedista. Qualche ora dopo la
strage il gruppo qaedista ha rivendicato l’attacco con un tweet.
Il gruppo Okba Ibn Nafaa si è distinto in precedenza per azioni particolarmente violente
contro le forze armate tunisine. Nel luglio 2013 un attentato costò la vita a nove soldati,
mentre nel luglio dell’anno successivo i militari uccisi sono stati 14 e 23 i feriti.
L’organizzazione jihadista tunisina è guidata dall’algerino Lokman Abou Sakher, forse
l’uomo più ricercato di Tunisia. Anche se, secondo alcune fonti, sarebbe già stato arrestato
recentemente, in Libia, dalle forze fedeli al generale Haftar.
Della situazione esplosiva venutasi a creare nella confinante Libia ieri ha parlato anche
l’ambasciatore tunisino in Italia, Naceur Mestiri, secondo il quale il governo di coalizione in
carica «non è a favore di un intervento militare in Libia. Siamo per il dialogo — ha detto
l’ambasciatore — e per una soluzione pacifica».
In ogni caso una vasta operazione militare è scattata nelle ultime ore per sigillare la
frontiera libica. I profughi che l’hanno attraversata dalla caduta di Gheddafi a oggi sono
circa 1 milione e mezzo.
L’opinione pubblica tunisina però s’interroga sulla capacità dell’esercito di rispondere a un
eventuale “contagio” libico. Tranquilli, rispondono gli analisti più vicini al governo, le forze
armate tunisine sono disciplinate e soprattutto bene armate. L’Italia è sempre stata tra i
principali fornitori di armamenti del paese.
del 19/02/15, pag. 3
Gentiloni depone le armi
Andrea Colombo
ITALIA/LIBIA. Di fronte al parlamento il ministro degli esteri evita di
sbilanciarsi. E così mette tutti d’accordo
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Della Libia si doveva parlare, perché a fronte dell’allarme dei giorni scorsi il Parlamento
non poteva essere lasciato del tutto all’oscuro. Ma della Libia non si può parlare, perché la
situazione è tanto incerta quanto in divenire e chi nei giorni scorsi ha tentato di lanciarsi ha
combinato solo guai. Dunque il ministro Gentiloni parla di fronte al Parlamento, ma dice il
meno possibile. Di incisivo, casomai, c’è solo il gioco d’equilibrismo per evitare le accuse
opposte di non volersi esporre abbastanza o di volersi esporre troppo.
«L’Italia è pronta ad assumersi responsabilità di primo piano», tuona il ministro degli esteri.
Però attenzione, ciò non significa affatto «essere alla ricerca di avventure militari. Dire che
siamo in prima linea contro il terrorismo non è l’annuncio di crociate». Va da sé che il
termine non è affatto scelto a caso. Infatti, quando arriva il momento di declinare
«l’impegno dell’Italia», Gentiloni cancella ogni allusione all’uso delle armi: «monitoraggio
del cessate il fuoco, riabilitazione delle infrastrutture, ripresa del vasto programma di
cooperazione sospeso». La missione di san Francesco. Era il mandato assegnato da
Renzi a Gentiloni: l’Italia non deve apparire come un Paese che spinge verso la soluzione
militare ma, al contrario, come il più pacifico. Tanto poi, se si arriverà a una stretta, non
sarà certo il Parlamento italiano a decidere.
Certo, qualche tono allarmato il ministro che tre giorni fa scalpitava per salpare lo
mantiene: «Il tempo a disposizione non è infinito e rischia di scadere presto». Il rischio «di
saldatura tra i gruppi locali e Daesh (l’Isis)» ci sta tutto. Ma non è il caso di muoversi con
precipitazione, tanto meno di assumersi ruoli guida senza che nessuno ce li assegni. I
gruppi parlamentari concordano tutti. Di partire per la guerra, stavolta, non ha voglia
nessuno. Le critiche al governo, ad esempio quelle di Sel e dell’M5S per le incaute parole
dei «ministri marines», o quelle di Fi per il clima di scarsa collaborazione su altri fronti
instaurato dal governo muscolare, sono quasi repertorio, tanto per ricordare che sempre di
opposizione si tratta. Sul centro della discussione, non ci sono distinguo.
Vaghezza e dunque unanimismo sono conseguenze dirette della scelta, giusta e
giustificata, di Renzi: delegare ogni decisione alla comunità internazionale e muoversi solo
dietro lo scudo dell’Onu, dunque non solo degli Usa ma anche della Russia. I punti
nevralgici, per quanto riguarda lo specifico italiano, sono altri. Uno macroscopico:
l’emergenza immigrazione. L’altro di portata minore ma pur sempre di prima grandezza:
l’eventuale ruolo di Romano Prodi. Il fronte dell’immigrazione, già bollente, è stato
ulteriormente surriscaldato dalle notizie riportate dal Daily Telegraph, secondo cui
l’impennata degli sbarchi risponderebbe a una precisa strategia dell’Isis, che mira a
infiltrare i suoi uomini nella massa di migranti. In realtà, se strategia del califfo c’è, riguarda
più il progetto di destabilizzare l’Europa costringendola a confrontarsi con un esodo che il
vecchio continente non è in grado di gestire. La vera «bomba umana» è quella.
Sul fronte migrazione, Gentiloni ha adoperato i toni giusti, senza però accennare a seguiti
concreti degli stessi. Ha difeso Mare Nostrum, che in tutta evidenza non era affatto
responsabile dell’aumento degli ingressi. Ha ammesso la gravità della situazione, ma
ribadendo che «non possiamo voltarci dall’altra parte lasciando i migranti al loro destino:
non sarebbe degno dell’umanità e della civiltà che hanno fatto grande l’Italia». Qui
l’unanimismo si sgretola. A destra la Lega (ma toni molto simili campeggiano anche in Fi)
vuole il blocco navale per fermare gli sbarchi. A sinistra Sel propone più o meno il ripristino
di Mare Nostrum. Il M5S svicola affidando tutto al rafforzamento delle misure di sicurezza
interne. Il governo si tiene nel mezzo, assicurando fedeltà ai princìpi enunciati da Gentiloni
ma senza entrare nel merito di qualsivoglia proposta strategica. Anche questo, in realtà, è
tema che riguarda la Ue e non solo l’Italia, ma in questo caso dovrà essere il nostro Paese
a imporre che Bruxelles se ne occupi, e al momento della necessaria determinazione non
c’è traccia.
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Il caso Prodi rischia di trasformarsi in un incidente diplomatico. Maria Teresa Meli,
giornalista del Corsera molto informata sui segreti di palazzo Chigi, parla in tv di contatti in
corso tra governo e Professore per assegnare a quest’ultimo il ruolo di mediatore nel
puzzle impazzito della Libia. L’ex premier ovviamente smentisce. Non potrebbe fare altro,
dunque non è che ci sia da dargli troppo credito. Poche ore dopo la ministra della Difesa
Pinotti, in un forum di Repubblica Tv, va a un millimetro dall’ammettere la manovra per
sostituire l’inviato speciale dell’Onu per la Libia Bernardino Leon con Prodi. Poi si rende
conto della gaffe e tenta maldestramente di rimediare con un tweet: «Prodi figura
importante ma governo si muove con efficacia e autorevolezza sul piano internazionale».
Un salto dalla tragedia internazionale alla pochade nazionale.
Del 19/02/2015, pag. 1-2
LA GUERRA AL TERRORISMO
“No all’intervento militare in Libia” Per l’Onu
la soluzione è politica
Il Palazzo di Vetro: “Siamo fiduciosi” Obama al vertice contro la jihad
“Uniti per battere l’ideologia dell’odio”
FEDERICO RAMPINI
No all’intervento militare in Libia, non si «rifà il 2011», all’Onu passa la linea occidentale
che privilegia una soluzione politica. E l’inviato delle Nazioni Unite per la Libia Bernardino
Leon non nasconde il suo ottimismo: «L’Is ha trovato terreno fertile nell’instabilità del
Paese, ma il dialogo politico sta facendo progressi. Un accordo può essere raggiunto
presto». Nel frattempo Barack Obama ospita a Washington un summit senza precedenti:
dal mondo intero arrivano sindaci e intellettuali, politici ed esperti di terrorismo, per
prevenire l’avanzata del jihadismo in mezzo a noi, scongiurare attacchi come quello contro
Charlie Hebdo. Valorizzando, dice Obama, «il ruolo delle comunità locali, della famiglia,
della scuola, dei religiosi, per contrastare l’attrazione dell’estremismo verso i giovani
disadattati». C’è anche uno sforzo “linguistico”, che scatena le ire della destra americana:
Obama rifugge dall’espressione «estremismo islamico» perché vuole escludere che i
jihadisti rappresentino una religione. «Non siamo in guerra con l’Islam — dice — questo è
proprio ciò che vogliono far credere i jihadisti. Ma per isolare i terroristi, impedirgli di
reclutare fra i giovani, dobbiamo contrastare la narrazione diffusa in quel mondo, anche fra
i musulmani moderati, secondo cui l’Occidente è davvero in guerra contro di loro, e in
nome di recriminazioni storiche crea il terreno di coltura del radicalismo».
La giornata si alterna fra il Palazzo di Vetro a New York, e il vertice di Washington. Uniti da
un tema comune: la violenza che dilaga usando come terreno di coltura il
fondamentalismo islamico. All’Onu il Consiglio di sicurezza ha discusso l’emergenza di
una nuova minaccia: dopo Siria e Iraq, anche la Libia diventa un terreno di penetrazione
dello Stato Islamico; e da lì nuovi attacchi possono colpire anche degli obiettivi europei o
americani. Ma non è all’ordine del giorno un intervento militare in Libia, dopo le operazioni
aeree in atto in Siria e in Iraq. Ci ripensa perfino l’Egitto. Il presidente egiziano Abdel
Fattah Al Sisi aveva ordinato un raid della sua aviazione in Libia per vendicare i 21
egiziani di religione cristiana (copti) decapitati dai jihadisti. Poi Al Sisi aveva evocato la
necessità di un intervento militare contro le basi islamiste in Libia, con la legittimazione di
una risoluzione Onu. Si è accorto di non avere consensi sufficienti in seno al Consiglio di
sicurezza e neppure tra gli alleati arabi. Il progetto di risoluzione presentato dal gruppo di
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Paesi arabi all’Onu si limita a chiedere che siano tolte le restrizioni sulle forniture di armi al
governo libico riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale. Si chiede
anche «una accresciuta vigilanza sui mari e nei cieli, per impedire che arrivino armi alle
milizie dello Stato Islamico». Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e
Spagna in una dichiarazione comune hanno ribadito la necessità di lavorare a una
«soluzione politica del conflitto». L’Italia ha aggiunto un’urgenza particolare: «Il tempo è
contato ». L’ambasciatore egiziano all’Onu ha definito «inconcepibile che lo Stato Islamico
venga contrastato con determinazione in Siria e Iraq, mentre viene ignorato in Libia».
L’Egitto ne attribuisce la responsabilità ai paesi europei che furono protagonisti
dell’intervento militare per deporre Gheddafi nel 2011 e poi «hanno lasciato la missione
incompiuta, abbandonando il popolo libico alle milizie estremiste ».
Nel summit anti-terrorismo convocato a Washington, Obama ha invocato l’unione di un
ampio fronte per «screditare e delegittimare » gli estremisti, affrontando alla radice le
condizioni che permettono di propagare le loro «ideologie dell’odio». Riferendosi proprio ai
bombardamenti che la US Air Force sta conducendo in Siria e Iraq, Obama ha detto che
«non possono essere la sola risposta alla violenza estremista ». La peculiarità del summit
di Washington sta in questo approccio e nell’arco di forze che riunisce. È il tentativo di
costruire una risposta da “soft power”, una battaglia delle idee, per una nuova egemonia
culturale che estirpi le radici del jihadismo. Obama ha radunato a Washington
rappresentanti della società civile, sindaci di città americane e straniere, tra cui Anne
Hidalgo, sindaco di Parigi. Lo scopo è scambiare esperienze comuni, esplorare le
iniziative che si sono rivelate più utili per integrare gli immigrati di religione islamica e
sottrarli ai richiami dell’estremismo, costruire fiducia reciproca, vaccinare i giovani dalla
violenza. «Noi dobbiamo affrontare gli estremisti violenti — ha detto Obama — anche
quando non sono implicati direttamente in atti terroristici, ma incitano altri a farlo.
Dobbiamo dare nuovi mezzi a quelle comunità che sono prese di mira».
Oggi e domani ai lavori del vertice interverranno anche molti rappresentanti di governi di
tutto il mondo, ma per ragioni di sicurezza la Casa Bianca ha deciso che ne diffonderà
l’elenco solo all’ultimo.
Del 19/02/2015, pag. 2
Petrolio e veti incrociati bloccano le grandi
potenze solo gli sceicchi possono sciogliere i
nodi della crisi
VITTORIO ZUCCONI
ULTIMA dea sempre invocata e mai ascoltata, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite
è stato chiamato ancora una volta a coprire con la propria bandiera blu azioni e decisioni
prese da altri. Ma sotto la bandiera, niente. Di fronte alla disintegrazione della Libia e
all’infezione dell’Is, che si diffonde lungo la Grande mezzaluna araba dal Golfo Persico
all’Atlantico, regnano l’indecisione e il dissenso sotterraneo fra i cinque membri
permanenti del Consiglio, Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, quelli che contano,
nascosti da appelli e moniti senza denti.
Scontate la condanna e l’esecrazione per la violenza degli assassini con la bandiera nera,
non esiste, e non è stato prodotto neppure da questa riunione di emergenza chiesta da
Egitto e Francia, invocata dall’Italia sull’orlo del panico e accettata da un’America
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riluttante, un consenso fattivo sulle azioni da lanciare per fermare la marcia dell’Is. È il
limite strutturale, si potrebbe dire la tara genetica, dell’Organizzazione che in questo 2015
compie 70 anni e li dimostra tutti, questa incapacità di passare dalle parole ai fatti e
all’”enforcement”, al rispetto delle proprie risoluzioni spesso serenamente e impunemente
ignorate dai destinatari. Un limite aggravato dal confronto con un’entità indefinibile, amorfa
e transnazionale come il cosiddetto Stato islamico che Stato non è, e dunque non può
neppure essere condannato, isolato o sanzionato come una nazione canaglia.
In più, nel caso della Libia, una tragedia in corso che investe da vicino l’Italia ma che sfiora
soltanto marginalmente quattro delle cinque potenze con il diritto di veto, la cronica
impotenza dell’Onu è intessuta delle lunghe code di paglia che proprio coloro che le
dovrebbero sciogliere hanno invece trascinato. Nessuno dei “top player”, dei giocatori
chiave, non gli Usa, non la Russia, non la Francia, non il Regno Unito e neppure la Cina,
avviata a diventare il primo importatore di petrolio nel 2025 e dunque attentissima al
destino politico del grandi bacini del greggio, può dirsi estraneo, disinteressato o con la
coscienza limpida. Il Gheddafi che fu abbattuto dall’aggressione franco-britannica del
2011, ha ricordato la folle Guerra di Suez contro Nasser nel 1956, ultimo spasmo
dell’eurocolonialismo che saldamente collocò, insieme con Israele, l’Europa sul fronte
nemico del nazionalismo arabo allora in chiave socialista. Fu fermata soltanto dalla
saggezza di Dwight Eisenhower e dalla minaccia di un intervento dei sovietici, che
avevano fatto dell’Egitto, come della Siria, nella Guerra fredda uno dei protetti del
Cremlino, in chiave cinicamente anti Nato e antiamericana. Washington, protagonista della
follia reaganiana del 1986 con il bombardamento degli accampamenti del raìs condotto
aggirando l’opposizione degli alleati Nato come Spagna e Italia, sa di avere contribuito alla
disgregazione della Libia e alla crescita dell’Is, dalle sventurate guerre bushiste per
«cambiare i regimi» all’indecisionismo obamiano di fronte alla Siria, all’Iraq e al Kurdistan.
L’unica nazione araba amica rappresentata soltanto come membro non permanente nel
Consiglio, è la Giordania che ha già da tempo lanciato la propria vendetta contro l’Is in
Siria, dopo la morte atroce del pilota catturato, senza preoccuparsi di Onu e di sanzioni.
Appellarsi alle Nazioni Unite per giustificare eventuali operazioni militari volte a stabilizzare
la Libia e a smontare la macchina dell’efficace propaganda sanguinolenta dell’Is diventa
un alibi per non fare niente, o per sentirsi autorizzati, come gli egiziani e i giordani, a
muoversi come cavalieri solitari. O per aspettare che siano, come sempre, gli Stati Uniti a
riempire di sostanza quel sacco vuoto che è il Palazzo di vetro. Ma per lo scandalo e gli
anatemi della destra repubblicana, puntellata dalla propaganda di network televisivi e dei
soliti falchi da teleschermo come il senatore McCain — già patrono proprio dei jihadisti
quando sembravano utili — Obama esita e svicola. Apparentemente è più preoccupato di
quanto accade fra Siria e Iraq anziché della catastrofe libica o dei barconi di profughi
spiaggiati in attesa di lanciarsi verso l’Italia. Degli europei Obama non si fida come gli
europei non si fidano di lui, e la Casa Bianca non ha alcun desiderio di farsi risucchiare in
un’altra guerra per il petrolio libico, essendo gli Stati Uniti ormai sempre più vicini
all’autonomia energetica. Il Pentagono, che soltanto con le sue dieci portaerei nucleari in
servizio attivo capaci di lanciare complessivamente fino a mille cacciabombardieri
potrebbe sbriciolare le città costiere della Libia, sa perfettamente di essere il solo ad avere
le forze per dare senso a un intervento militare che non siano le punture di spillo egiziane.
Ma sa anche, come sa Obama, che ovunque l’America intervenga, i cocci — secondo la
famosa formula del generale Colin Powell — saranno suoi, e la responsabilità di un altro
fallimento e di altre maree di antiamericanismo, sarà sua.
Le sole nazioni che potrebbero detenere le chiavi di una soluzione, almeno temporanee,
non erano e non sono presenti al Consiglio di sicurezza, e sono l’Arabia Saudita e gli
Emirati del Golfo. Come già avvenne in Iraq, quando il disastro parve temporaneamente
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fermarsi, non furono i proiettili e i missili americani a scuotere i clan sunniti, ma le bordate
di dollari che piovvero su di loro sganciate dai Sauditi. Le risoluzioni del Consiglio di
sicurezza, figlie di intenzioni nascoste, di code di paglia, di calcoli cinici come quelli di
Putin, ben lieto di vedere gli europei e gli americani impigliati in un problema che allontana
l’attenzione dall’Ucraina e dall’espansione dei confini russi verso Ovest, serviranno
soltanto se nel caos libico, nel crogiolo dei due governi, dei due parlamenti, degli almeno
14 clan che si contendono la Libia, pioveranno carote, prima che bombe. Ma non
accusiamo l’Onu di impotenza e di inefficacia. Le Nazioni Unite restituiscono soltanto
quello che ci investiamo in volontà politica. Molto poco.
del 19/02/15, pag. 4
CHI VINCE IN LIBIA SI PRENDE ROMA
IN BALLO 11 MILIARDI DI AFFARI. DIETRO 7.700 KM DI FIBRA OTTICA
IN ITALIA C’È LA FRATELLANZA MUSULMANA
di Camilla Conti
Milano
Gli affari della Libia? Di fatto sono congelati, la situazione è troppo complicata, ogni giorno
si rischia la vita negli uffici. Hanno altro cui pensare che alle partecipazioni...”. Così
descriveva la situazione libica al Corriere della Sera un banchiere nell’ottobre del 2013,
due anni dopo la morte di Muammar Gheddafi. Oggi il copione si ripete. Le speranze della
primavera libica si sono spente tra la violenza delle milizie e l’indifferenza dell’Occidente,
lasciando il terreno ai jihadisti dell’Isis. Gran parte degli affari beduini se ne sono andati
con il colonnello, ma quel che resta dell’antico impero finanziario libico, stando ai
documenti ufficiali più recenti, ha ancora un piede nel capitale di alcune importanti società
italiane. Il fondo sovrano Libyan Investment Authority possiede l’1,15% dell’Eni e il 2% di
Finmec - canica, mentre la Central Bank of Libya sfiora il 3% di Unicredit dove fino a
quattro anni fa esprimevano addirittura un vicepresidente nella figura di Omar Farhat
Bengdara, allora governatore della Banca centrale. Non solo. La Libyan Post
Telecommunications Information Technology Company possiede attraverso una società
lussemburghese il 14,78% di Retelit , società quotata a Piazza Affari che si occupa di
telecomunicazioni gestendo in Italia 7.700 chilometri in fibra ottica. Il vertice del gruppo
Lptic è considerato vicino alla fazione dei Fra - telli Musulmani (islamisti in Egitto ridotti al
silenzio dalla dittatura dei generali) e sarebbe intenzionato a tenere aperto il canale d’affari
con l’Italia. Lptic è anche socio al 45% della joint venture Sirt con l’Italiana Sir ti (al 55%).
I padroni dell’oro nero e la fuga a Malta del governatore della Banca centrale
Il problema è: chi controlla o controllerà, in mezzo al caos, le quote libiche rimaste in
pancia alle big tricolori? Alla comunità degli affari manca un quadro chiaro delle strategie e
soprattutto l’interlocutore. Il fondo Lia, gestore dal 2006 degli immensi profitti del petrolio
del Paese e controllato per anni da Gheddafi, ha cambiato più volte il suo timoniere negli
ultimi anni. A luglio del 2014, il fondo ha infatti nominato Abdurahman Benyezza come
presidente e amministratore delegato ad interim. Benyezza, era stato in precedenza
ministro del petrolio e del gas e ha preso il posto di Abdulmagid Breish (in passato ai
vertici dell’Arab Banking Corporation , istituto finanziario del Bahrain controllato dalla
Banca centrale libica). A sua volta, però, Benyezza è stato sostituito alla fine dell’anno
scorso da Hassan Ahmed Bouhadi, come nuovo presidente, mentre l’incarico di
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amministratore delegato è stato affidato a un ex funzionario della Banca Mondiale, Ahmed
Ali Attiga. Segno che l’instabilità del Paese si riflette su quella delle poltrone. Anche la
Bank of Libya a luglio del 2013 si è messa a cercare un nuovo governatore attraverso un
semplice annuncio di lavoro online. Oggi il governatore è Saddek Omar Elkaber e risiede a
Malta per motivi di sicurezza dopo che il governo di Tobruk- Bayda ha cercato di sostituirlo
per prendere il controllo delle banca centrale. Ma Elkaber si è rifiutato di dimettersi e ha
mantenuto la sede della banca a Tripoli. Il governatore è anche volato a Washington nei
mesi scorsi per incontrare i diplomatici americani e britannici, dimostrando così che
l’Occidente continua a considerarlo come il legittimo presidente della Central Bank of
Libya. La Farnesina ha fatto sapere che al momento non c’è nessun soggetto legittimato a
rappresentare il governo libico. Certo, le autorità italiane possono “sterilizzare” eventuali
effetti indesiderati di queste posizioni. Ma regna l’incertezza.
La conciliazione di B. e quei 400 chilometri
Alle partecipazioni libiche in società italiane si aggiungono inoltre gli affari stretti sul fronte
delle infrastrutture, dell’energia e delle telecomunicazioni. L’interscambio complessivo è di
quasi 11 miliardi di euro (ma ai tempi di Gheddafi superava i 15), siamo al primo posto
come cliente e fornitore della Libia che a sua volta occupa il dodicesimo posto come
fornitore e il 33° come cliente della Penisola. La ragion di Stato in tempo di crisi ha spinto il
piede sull’acceleratore delle alleanze soprattutto per la massa di appalti promessi dalla
riconciliazione fra Gheddafi e Berlusconi, nel 2008. Loro, i libici, i soldi, noi il know how. E
adesso le macerie. I rischi maggiori li corre l’Eni che potrebbe vedersi stoppare la
produzione dalla National Oil Corporation se ci saranno incidenti o minacce agli impianti.
In Libia “stiamo continuamente monitorando la situazione; la nostra priorità è garantire la
sicurezza dei lavoratori e le installazioni e al momento non risultano impianti danneggiati”,
ha assicurato ieri l’amministratore delegato Claudio Descalzi aggiungendo che il 2014 è
stato chiuso con una produzione media di 240 mila barili al giorno “e in queste settimane
stiamo producendo vicino ai 300 mila barili al giorno”. Anche Salini Impregilo ha relazioni
di affari con la Libia: è a capo di una cordata che si era aggiudicata nel 2013 un contratto
da 963 milioni per realizzare 400 chilometri di autostrada costiera. Ma al momento è tutto
fermo.
Del 19/02/2015, pag. 6
L’Eni fa rientrare il personale italiano
Allerta difesa aerea
Non ritenuta credibile la minaccia dai barconi
ROMA La decisione è stata presa dopo l’attentato all’Hotel Corinthia di fine gennaio, ma
era nell’aria già da settimane. L’Eni ha ritirato tutto il personale italiano dalla Libia per
motivi di sicurezza e lo stesso hanno fatto le altre aziende che continuano a operare nello
Stato africano, affidandosi però a dipendenti locali e addetti alla vigilanza stranieri.
Tra i possibili obiettivi dei terroristi dell’Isis gli impianti petroliferi ed energetici sono inseriti
in cima alla lista, dunque la scelta di alleggerire le presenze rientra in una strategia che
mira a ridurre al minimo il rischio nella consapevolezza che riuscire a uccidere gli italiani,
sia pur all’estero, sarebbe comunque una vittoria dei fondamentalisti. Soprattutto nel pieno
di una campagna mediatica scatenata dai jihadisti che continua a salire di livello e punta a
Roma come bersaglio costante.
La difesa aerea
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Quale sia il clima lo si è ben compreso qualche giorno fa, quando il sistema di difesa
aerea è entrato in stato di massima allerta per un avviso trasmesso dai servizi segreti. La
segnalazione parlava di alcuni aerei pronti a decollare da Sirte per colpire il nostro Paese.
Non c’è stato alcun riscontro, ma la tensione rimane altissima perché forte continua ad
essere il rischio di un attentato compiuto da «lupi solitari» proprio come già accaduto a
Parigi e poi a Copenaghen. È questa la vera preoccupazione dei responsabili della
sicurezza e lo conferma il sottosegretario alla presidenza con delega ai Servizi, Marco
Minniti, quando parla di «massima imprevedibilità della minaccia che per questo non ha
precedenti e tiene insieme la capacità simmetrica e asimmetrica in quanto può fare sia
campagne militari sia terroristiche», rilancia la necessità di «avere una raccolta dati
capillare» e insiste sull’urgenza di introdurre a livello europeo il Pnr, il codice passeggeri
che fornisce notizie su tutti i voli incrociando informazioni preziose sui «sospetti», perché
«non va sospeso Schengen, ma è indispensabile il controllo di chi si sposta verso i teatri di
guerra» e talvolta decide poi di tornare indietro.
Il flusso dei migranti
Nessuna attendibilità viene data dagli analisti alla notizia rilanciata dal quotidiano
britannico Daily Telegraph che pubblica documenti compilati da Abu Arhim al Libim,
ritenuto uno dei leader dell’Isis secondo il quale «grazie alla vicinanza della Libia con gli
Stati crociati» i jihadisti potrebbero «utilizzare e sfruttare in modo strategico i tanti barconi
di immigrati per colpire le compagnie marittime e le navi dei Crociati».
Gli esperti ritengono che si tratti di pura propaganda, escludono che i terroristi possano
confondersi tra i disperati che tentano di raggiungere l’Europa, mentre continuano ad
avvalorare l’ipotesi che i fondamentalisti utilizzino i flussi proprio per mettere in ginocchio
l’Europa anche provocando divisioni tra gli Stati della Ue che devono gestire l’emergenza.
Nelle ultime ore c’è stata una riduzione degli sbarchi, ma nessuno si fa illusioni sulla
possibilità che questa situazione possa durare più di un paio di giorni.
Militari e scorte
Di fronte alla possibilità che l’azione diplomatica per trovare una situazione alla crisi libica
vada avanti per settimane, sembra indispensabile prevedere un dispositivo di protezione
più snello, soprattutto non concentrato soltanto su quelli che sono i bersagli più prevedibili.
E dunque si è deciso di dislocare le camionette dei militari anche in luoghi
apparentemente più defilati non escludendo che possano essere ritenuti più facili da
attaccare. E questo naturalmente costringe a rivedere l’elenco delle personalità scortate,
tenendo conto delle carenze in organico delle forze dell’ordine, come denunciano da mesi
i sindacati di polizia come Sap e Silp Cgil che chiedono l’assunzione di almeno mille
agenti. Ma anche a rimodulare i piani di intervento sul territorio con la vigilanza dinamica
molto più frequente soprattutto nei centri storici delle città.
Del 19/02/2015, pag. 4
LA GIORNATA
L’Egitto lancia il primo raid di terra
Blitz nella città libica di Derna con truppe ed elicotteri dei soldati del Cairo contro le
postazioni jihadiste Uccisi oltre 150 miliziani. Al Baghdadi nemico numero uno nella
lista Usa dei terroristi da uccidere
VINCENZO NIGRO
L’ESCALATION egiziana in Libia continua incessante, ma la libertà di manovra del
generale Al Sisi inizia a provocare reazioni contrarie. Ieri per la prima volta le forze speciali
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egiziane hanno lanciato un attacco via terra a Derna, il caposaldo dell’Is in Libia. Dopo
giorni di attacchi aerei, i soldati egiziani, assistiti dall’ intelligence americana, hanno
attaccato basi e installazioni dei miliziani passati con il Califfo Al Baghdadi: Il Cairo
sostiene di aver ucciso 155 jihadisti e di averne arrestati 55, ma non è chiaro come. Si
parla di un’operazione con elicotteri partita dalla base militare di Marsa Matrouh.
L’Is non sta con le mani in mano. Proprio da Derna sarebbe partita una colonna di pick-up
di rinforzo con le bandiere nere che si è appostata nei dintorni di Sirte — la città che l’altro
ieri era stata circondata dalle Brigate di Misurata — ed è entrata in alcuni quartieri.
Secondo le fonti libiche, gli uomini sarebbero miliziani di Ansar Al Sharia: alcuni di loro si
sono piazzati tra l’ospedale Ibn Sina e lo Ouagadougou Conference Center, con cecchini
appostati sui tetti e posti di blocco per proteggersi dalle forze di Misurata.
Mentre a Tripoli la situazione è tornata alla tranquillità, a Tobruk invece continuano a
emergere tensioni all’interno dello schieramento filoegiziano. Il premier Al Thinni ha
ripetuto anche ieri che l’azione egiziana è «pienamente legittima» e che avviene in
coordinamento con le forze militari libiche. Ma a guidare l’operazione militare è il generale
exgheddafiano Haftar che da giorni chiede di essere nominato ministro della Difesa e capo
di un “Cconsiglio militare supremo”; per raggiungere questo obiettivo ha fatto scendere in
strada in molte città della Cirenaica i suoi sostenitori, che hanno protestato contro il
governo di Thinni. L’Egitto sa bene che Haftar è visto dal 90 per cento dei rivoluzionari
libici come una marionetta del Cairo, ma soprattutto come uno degli ex-gheddafiani che
sta provando a reinserirsi nel gioco. Il Cairo ha appoggiato e armato l’esercito di Haftar,
tanto che ieri il presidente Al Sisi ha fatto il punto sulla situazione al confine fra i due Paesi
con il capo di stato maggiore libico Abdul Razzak Al Nazhuri e quello delle forze aeree
Saqr Geroushi. Razzak ha ringraziato apertamente Al Sisi per i 400 container di armi
inviati per combattere in Cirenaica. Questo attivismo dell’Egitto inizia a provocare sospetti.
Il portavoce del ministero degli Esteri algerino ieri ha accusato gli egiziani di «gettare
benzina sul fuoco». Abdelaziz Ben Ali Cherif ha confermato che l’Algeria è contraria a
qualsiasi operazione militare e vorrebbe inviare in Libia soltanto aiuti alimentari.
Intanto il Pentagono ha elaborato una “kill-list”, una lista di terroristi di spicco da eliminare,
primo in testa il califfo Al Baghdadi, che figura anche “Jihadi John”. Mancano solo i “mazzi
di carte” come ai tempi dell’invasione nell’Iraq di Saddam Hussein e il tuffo nel passato in
questa eterna guerra al terrorismo è garantito.
Del 19/02/2015, pag. 6
Il rappresentante italiano presso il Palazzo di Vetro, Sebastiano Cardi, ha spiegato
ieri che il nostro paese intende “contribuire al mantenimento della pace”. Il premier:
“È un successo che l’Onu se ne occupi”
“Italia pronta a un ruolo guida”
La scommessa di Renzi e il mandato delle
Nazioni unite
Il rischio dei terroristi sui barconi
FRANCESCO BEI
«La riunione del Consiglio di sicurezza sulla Libia, al di là dei contenuti della dichiarazione,
è un chiaro successo italiano. Finalmente stanno aprendo gli occhi. Ora bisogna fare un
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passo in avanti». Renzi guarda con soddisfazione a quanto accaduto al palazzo di vetro.
Convinto che senza la costante pressione italiana i Quindici non avrebbero nemmeno
iscritto la questione all’ordine del giorno, ora il premier punta al traguardo successivo: un
«investimento politico al massimo livello» nella missione diplomatica delle Nazioni Unite
per arrivare a un accordo anti-Is tra le fazioni libiche. Il che, fuori dal linguaggio felpato
delle diplomazie, significa una cosa sola. Bernardino Leon, l’inviato speciale di Ban-KiMoon, ha fatto il massimo che poteva fare, ha operato bene. Ma ora serve «un upgrade».
Una personalità riconosciuta in tutto il mondo che sappia farsi sentire.
La missione Onu, se si vuole scongiurare davvero un intervento militare che, come ha
detto Massimo D’Alema ieri a Otto e mezzo, rischia di apparire «una nuova crociata contro
i musulmani », deve essere forte, credibile. Guidata da una leader che possa alzare il
telefono e parlare direttamente con tutti i raìs dei paesi limitrofi, con le potenze europee,
con Obama e con Putin. «Uno come Solana, come Blair, come Clinton», spiegano fonti del
governo italiano tanto per far capire la caratura adatta. «Con tutto il rispetto per il buon
lavoro di Leon, adesso il futuro della missione va lasciato nelle mani di qualcun altro».
Attenzione però. Questo Mister X, per palazzo Chigi non può essere Romano Prodi. O
meglio, l’Italia non ha alcuna intenzione in questa fase di avanzare candidature proprie, un
errore tattico che potrebbe pregiudicare tutta l’operazione facendo scattare sospetti e veti
incrociati. Non è un caso allora se Roberta Pinotti, correggendo l’impressione di un
endorsement al Professore bolognese, con un tweet ha precisato ieri il senso della sua
intervista a Repubblica tv: «Prodi figura importante ma Governo si muove con efficacia su
piano internazionale». Ovviamente l’ex leader dell’Ulivo sa bene che il premier non sta
pensando a lui per quell’incarico. Tanto più che i rapporti personali sono vicini allo zero,
come ieri hanno potuto testimoniare i presenti all’ultimo saluto per Michele Ferrero. Nella
cattedrale di San Lorenzo a Alba il premier era seduto in prima fila e Prodi al secondo
banco. Ma hanno entrambi evitato di scambiare anche un solo sguardo.
Ora l’attenzione è spostata sul 13 marzo, quando il Consiglio di sicurezza dovrà decidere
sul rinnovo della missione Unsmil affidata a Leon. «Noi stiamo lavorando - ha annunciato
ieri in aula il ministro Gentiloni - perché la missione venga dotata di un mandato, dei mezzi
e delle risorse in grado di accelerare il dialogo politico». Il ministro degli Esteri non ha
minimamente accennato alla possibilità di una nuova guida per questa “Unsmil II”. Ma si
capisce che a Roma sperano che l’occasione del 13 marzo possa essere sfruttata anche
per un cambio di «inviato speciale » oltre che di mandato. «Tutti si rendono conto che
serve un pezzo da novanta». Oltre ai giochi diplomatici, resta aperta la partita sul terreno.
Gli occhi e le orecchie dei Servizi italiani restano aperti, tra i pochi ad avere canali diretti in
loco. «Il punto cruciale — spiega una fonte di palazzo Chigi — è che la presenza di Is ha
prodotto un effetto per noi molto importante: tutte le parti in causa sono adesso
preoccupate per un attore troppo ingombrante, che le mette nelle condizioni di scomparire
o conformarsi». Esattamente come accaduto un anno fa in Siria, quando gli uomini
dell’allora Isis erano solo una piccola componente della galassia che combatteva l’esercito
di Assad. Salvo poi prenderne la leadership e addirittura utilizzare la Siria per estendersi in
Iraq e proclamare il Califfato. Quanto al ruolo dell’Italia il governo, se non reclama una
candidatura per sostituire Leon, di certo non accetta di fare da spettatore in panchina per
una crisi che si svolge a 300 chilometri dalle sue coste. «L’Italia è pronta ad assumere un
ruolo guida nella cornice dell’iniziativa Onu», ha ribadito ieri al Consiglio di Sicurezza
Sebastiano Cardi, il rappresentante italiano. «L’Italia — argomenta il sottosegretario con
delega ai Servizi, Marco Minniti — non vuole a tutti i costi un ruolo rilevante, ma la Libia ci
chiama in causa ogni giorno. La Libia è storicamente uno specchio dell’Italia: se le cose
vanno male lì, prima o poi vanno male anche da noi. E viceversa. Parafrasando
Clemenceau, è bene che gli italiani si occupino della Libia, altrimenti sarà la Libia a
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occuparsi di noi». Questo non vuol dire farsi prendere dall’ansia e andar dietro a ogni
nuova folata di terrore. L’intelligence italiana non ritiene al momento fondata, tanto per fare
un esempio, la notizia — rilanciata ieri dal Daily Telegraph — di terroristi jihadisti pronti a
mischiarsi nei barconi dei disperati che tentano la sorte nella traversata del Mediterraneo.
Per gli uomini del Califfo ci sono modi meno rischiosi per arrivare in Italia, senza contare la
certezza di essere controllati al momento dello sbarco. Su quale possa essere, oltre alla
guida politica della nuova fase, il supporto dell’Italia alla «stabilizzazione » libica, ancora
poco si sa. E tuttavia qualcosa si riesce a capire dalle parole di Gentiloni in Parlamento.
«Monitoraggio del cessate il fuoco»; «Mantenimento della pace»; «Riabilitazione delle
infrastrutture»; «Addestramento militare»; «Ospedali ». Osservatori, Carabinieri
addestratori, Genio, Sanità, magari anche caschi blu per il peacekeeping. Ma nessun
reparto d’attacco.
del 19/02/15, pag. 4
Nel 2013 record di esportazioni di armi in
Maghreb
L’ULTIMA RELAZIONE sulle esportazioni di sistemi militari inviata dal governo alle
Camere è relativa al 2013. Per quanto opaco e approssimativo, il documento certifica che
nel 2013 non c’è stato alcun crollo nelle esportazioni di sistemi militari italiani come
sovente sostenuto dalle imprese e da ambienti della Difesa: sono stati infatti spediti nel
mondo armamenti italiani per oltre 2,7 miliardi di euro. È record di autorizzazioni e di
esportazioni di sistemi militari proprio nella zone di maggior tensione del mondo. Su un
totale di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, oltre un terzo (709 milioni) sono
state rilasciate in Medio Oriente e Nord Africa. Anche il 29,4% dei sistemi d’armamento,
per una cifra pari a 810 milioni di euro, sono stati effettivamente esportati verso questi
Paesi.
del 19/02/15, pag. 8
Palestina solare
Michele Giorgio
GAZA CITY
Gaza. Un ingegnere palestinese e alcuni scienziati italiani hanno
completato, con un finanziamento dell'ong Sunshine4Palestine, il
progetto che grazie all'energia fotovoltaica garantisce per quasi tutto il
giorno corrente elettrica a un intero ospedale. Ora puntano ad
illuminare una strada del campo profughi di Shate e propongono
progetti "verdi" per acqua e depuratori.
L’ingegnere Haitham Ghanem ha avuto una vita più o meno simile a quella di tanti altri
palestinesi profughi. Costretto a lasciare il Kuwait durante la prima guerra del Golfo tra
l’Iraq e gli “Alleati” — la prima delle tante coalizioni messe in piedi da Washington per le
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sue guerre in Medio Oriente — Ghanem con pochi soldi in tasca arriva in Giordania, dove
conosce sua moglie, per poi approdare, dopo una parentesi di studi negli Usa, in quel
fazzoletto di terra palestinese che è la Striscia di Gaza. Da allora ha vissuto assieme agli
altri abitanti di Gaza tre grosse offensive militari israeliane e un numero elevato di attacchi
più contenuti, ma non per questo poco devastanti e letali. L’ingegnere Ghanem comunque
non si dispera. Ama descrivere agli stranieri che vanno a trovarlo le straordinarie capacità
dei palestinesi di Gaza, quello sanno fare, costruire e realizzare, nonostante le difficoltà
quotidiane, la mancanza di mezzi, il blocco imposto da Israele, l’isolamento praticato
dall’Egitto. Sono davvero tante le eccellenze di Gaza, ma di loro si parla ben poco.
Maryam Abu Eatewi, ad esempio, una ragazza fresca di laurea in informatica all’Università
Islamica, con un piccolo finanziamento di Google, ha realizzato una app per smartphone,
Wasslni, per la razionalizzazione dei trasporti in taxi nei centri urbani e da una città
all’altra. In pochi mesi Wasslni ha raccolto l’interesse di importanti società tra la Giordania
e gli Emirati e Maryam, assieme a ragazzi come lei, ha prontamente aperto “Gaza Sky
Geeks”, start up a sostegno della “impreditoria digitale”.
«Le eccellenze sono tante ma a Gaza i problemi purtroppo sono enormi e tra quelli più
gravi c’è la poca energia elettrica disponibile», ci spiega Ghanem mentre con un taxi
collettivo ci muoviamo assieme verso il quartiere di Shujayea, uno dei più devastati dai
bombardamenti israeliani della scorsa estate. «Abbiamo una sola centrale elettrica che
riusciva a coprire solo parte del fabbisogno – prosegue -, uso il passato perchè è stata
colpita (la scorsa estate) dagli israeliani ed ora è ferma. La poca energia elettrica, poche
ore al giorno a rotazione tra le varie aree di Gaza, arriva da Israele e dall’Egitto. È un
problema enorme che colpisce tutta la popolazione e crea grandi difficiltà ai servizi
pubblici, a cominciare da quelli sanitari». Ghanem per lungo tempo ha studiato le
possibilità tecniche per aiutare gli ospedali, costretti a ricorrere a costosi generatori
autonomi per garantirsi l’energia necessaria per rimanere operativi. «La svolta à avvenuta
nel 2011 – ci dice — grazie a un incontro in internet tra scienziati. Ho avuto modo di
conoscere gli italiani Barbara Capone e Ivan Coluzza, ricercatori dell’università di Vienna».
Da quel giorno Ghanem e i suoi colleghi italiani hanno stretto, oltre ad sodalizio molto
produttivo, una sincera amicizia. Sino ad oggi però l’ingegnere palestinese i suoi amici ha
potuto vederli solo attraverso skype, perchè non ha ancora ottenuto un permesso, da
egiziani e israeliani, per lasciare Gaza, mentre gli scienziati italiani non hanno avuto il via
libera per entrare nella Striscia.
La distanza non ha impedito la realizzazione del primo progetto congiunto, al quale ha
direttamente lavorato Haitham Ghanem, con un finanziamento di Sunshine4Palestine
(S4P) — l’ong messa in piedi da Barbara Capone e Ivan Coluzza — frutto di varie
donazioni, tra le prime quella di Vik Utopia Onlus, la Fondazione dedicata a Vittorio
Arrigoni, un nome che a Gaza non dimenticheranno mai. Grazie a Sunshine4Palestine, il
Jenin Charitable Hospital di Shujayea, dove Ghanem ci ha portato, è diventata la prima
struttura pubblica di Gaza alimentata al 100% dall’energia solare. «Un bel risultato –
commenta soddisfatto l’ingegnere — abbiamo costruito sul tetto (dell’ospedale) un
impianto fotovoltaico, completato lo scorso novembre». Muovendosi con passi veloci
all’interno della struttura, Ghanem ci spiega che l’impianto consente all’ospedale,
specializzato in ostetricia e ginecologia, di avere energia elettrica dalle 7 alle 24, tutti i
giorni dell’anno. Gli accessi al Jenin Hospital nel mese di dicembre, il primo periodo nel
quale il sistema fotovoltaico ha funzionato a pieno regime, sono aumentati del 63%
rispetto allo stesso mese del 2013. In un anno l’impianto, anche con un funzionamento
parziale, ha consentito un aumento del 170% del numero di pazienti. E il 2015 non potrà
che vedere crescere questi numeri in un’area, Shujayea, che ha pagato a caro prezzo
l’offensiva israeliana di luglio e agosto.
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Non è stato facile raccogliere i 100 mila euro necessari per l’acquisto dei pannelli solari, di
tutte le componenti dell’impianto e per eseguire i lavori, incluso l’adeguamento del sistema
elettrico dell’ospedale. Ma le idee non mancano al gruppo di scienziati «Lo scorso
novembre – ci racconta Barbara Capone — abbiamo completato l0’installazione grazie ad
un concerto realizzato in collaborazione con Stefano Bollani al Teatro Argentina di Roma.
Con i proventi abbiamo provveduto alla fornitura delle batterie che hanno permesso
l’accensione di tutti e quattro gli inverters che costituiscono il modulo, portando l’impianto
da 4 a 16kWp».
La fame, si sa, vien mangiando e Sunshine4Palestine ha cominciato ad elaborare altri
progetti per la fornitura di energia solare, pulita, direttamente alla popolazione di Gaza.
«Osserva questa strada», ci dice Haitham Ghanem. Siamo all’ingresso orientale del
campo di Shate, dove vivono 80 mila profughi. «Si chiama Via al Qouthi e va avanti per
800 metri fin dentro il campo profughi. Di sera è completamente buia e chi vi abita affronta
molti disagi, donne e bambini preferiscono non uscire di casa dopo il tramonto. La
illumineremo tutta». S4P, assieme alle associazioni Liter of Light Italia e Oltre il Mare,
realizzerà un “Tree of Light” fotovoltaico, composto di 12 pannelli, ognuno dei quali
produrrà 300W per un picco totale di produzione di 3.6KWP. Non solo, sarà realizzato un
laboratorio polifunzionale per spiegare ai profughi come costruire a uso domestico
lampade solari a led con materiali riciclati (tipo le bottiglie di plastica). L’aerea interessata
verrà riqualificata e sarà creato anche un parco multi-tematico. «Non ci fermiamo a questo
– promette Barbara Capone — Come Sunshine4Palestine proponiamo alternative al
progetto di costruire un singolo desalinizzatore a Gaza». Grazie alle nuove tecnologie,
come le membrane a grafene, la cosiddetta blue energy (l’estrazione di corrente dallo
scambio ionico tra acqua dolce ed acqua salata), S4P progetta la riqualificazione di alcune
centrali di desalinizzazione esistenti e la loro conversione in centrali completamente
fotovoltaiche. Ognuno di questi centri di desalinizzazione potrà soddisfare i bisogni di una
popolazione di 5.000–6.000 persone. «Proponiamo anche – continua la ricercatrice —
l’estrazione di acqua dall’umidità dell’aria attraverso sali igroscopici per rendere autonomi
ed off-grid edifici come scuole e palazzi. Con i nostri progetti vogliamo piantare i semi per
l’uso sistematico del sole, delle risorse pulite di energia a servizio della popolazione,
colpita gravemente dalla mancanza di corrente elettrica e dalla scarsità di acqua».
Nuove forze si sono unite a S4P per la realizzazione dei nuovi progetti: Emanuela Bianchi,
Peter Van Oostrum, Safaa Ghanem e Patrizia Cecconi. E Barbara Capone e Haitham
Ghanem erano stati invitati a spiegare i loro progetti a un importante seminario sui diritti e i
bisogni del popolo palestinese delle Nazioni Unite, previsto al Cairo il 23 e il 24 febbraio.
Per la prima volta i due colleghi avrebbero potuto incontrarsi di persona e stringersi la
mano, oltre ad avere l’occasione per far conoscere il loro lavoro a una platea vasta.
All’improvviso le autorità egiziane hanno cambiato idea, comunicando ai numerosi invitati,
solo un paio di giorni fa, che preferirebbero posticipare la riunione, a causa di non meglio
precisate “ragioni logistiche”. Il repentino passo indietro è misterioso. Qualcuno sussurra
che la partecipazione al seminario di palestinesi di Gaza non era stata ben vista al Cairo.
Altri che l’Egitto, coinvolto militarmente nella crisi libica, vuole evitare o posticipare eventi
che richiedono l’adozione di strette misure di sicurezza.
del 19/02/15, pag. 9
PETIZIONE · Raccolta firme contro i crimini di Israele da parte della Rete
Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese
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L’Ue collabori col tribunale internazionale per
la Palestina
Petizione all’Alto Rappresentante della Politica Estera Europea Federica Mogherini; Al
Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker; All’Alto Rappresentante per
i Diritti Umani UE Stavros Lambridinis; Ai Ministri degli Esteri Ue Perché firmare? Per dire
no alla continuazione dei crimini di Israele. L’impunità di Israele sembra non finire mai.
Sono trascorsi, infatti, più di 67 anni da quando, prima ancora che l’Onu adottasse nel
1947 la Risoluzione 181 sulla spartizione della Palestina storica e vi fosse, nel 1948, la
dichiarazione unilaterale di istituzione dello Stato di Israele, iniziarono in Palestina, ad
opera di formazioni paramilitari, poi confluite nell’esercito israeliano, aggressioni armate,
espropriazioni, distruzioni, eccidi che portarono alla deportazione e al trasferimento forzato
della popolazione. (...) Da allora non c’è stata più pace in Palestina, nonostante le
numerose risoluzioni Onu di condanna. Nei decenni seguenti Israele ha proseguito nelle
sue politiche di discriminazione razziale, di apartheid, di espulsione degli abitanti storici e
naturali, di espansione territoriale fino ad incamerare circa l’80% della Palestina contro il
55% assegnato dall’Onu. (...) Con la decisione nel 2012 da parte dall’Assemblea Generale
Onu di elevare la Palestina a «Stato osservatore, non membro », il presidente palestinese
Mahmoud Abbas ha potuto presentare, il 31 dicembre 2014, il documento di adesione al
Trattato di Roma e alla Corte Penale Internazionale (CPI). (...) Il percorso che si è aperto
con la decisione di aderire alla CPI, tuttavia, è irto di ostacoli e pericoli per i palestinesi,
che dovranno fronteggiare la rabbia di Israele che, disperatamente, vuole mantenere il
proprio regime coloniale e di apartheid. E infatti Israele ha già messo in atto diverse
manovre e minacce, che vanno ben oltre il trattenimento di milioni di dollari provenienti
dalle tasse raccolte per conto della Autorità Nazionale Palestinese. Perciò tale percorso va
sostenuto e incoraggiato, soprattutto da parte degli Stati aderenti alla CPI, ai quali
chiediamo di cooperare pienamente, con la stessa. E’ l’applicazione del diritto l’unico
strumento che può veramente mettere in discussione l’impunità di Israele e portare
giustizia in Palestina. Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese (http://
www.reteromanapalestina.it/)
Primi firmatari:
Cesare Antetomaso, Avvocato, Frank Barat, Coordinatore Tribunale Russell sulla
Palestina; Presidente, Palestine Legal Action Network, Mons. Hilarion Capucci,
Arcivescovo Emerito di Gerusalemme in esilio (le altre firme sono sul sito internet
ilmanifesto.info)
del 19/02/15, pag. 5
La mano tesa di Draghi
Antonio Sciotto
La difficile trattativa. La Bce prolunga di due settimane i finanziamenti: è
il viatico all’accordo con la Ue. Oggi Varoufakis proporrà un testo per
un compromesso, ma la Germania insiste: "Le riforme sono
necessarie". Dagli Usa arriva un monito ad Atene: "Intesa o
conseguenze dure"
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Sembra che il segnale di via libera alla possibilità dell’accordo questa volta non sia venuto
da Bruxelles, ma direttamente dall’Eurotower di Francoforte: ieri il presidente Mario Draghi
ha superato le contrarietà dei paesi più rigoristi, a partire dalla Germania, e ha deciso di
concedere altro credito alla Grecia: per altre due settimane, elevando il tetto del
programma Ela da 65 a 68,3 miliardi, ma sono soldi preziosi. Ed è prezioso anche il
messaggio rivolto all’Europa.
Sì perché questa decisione di Draghi è arrivata nel momento di massima tensione
all’interno della trattativa, tuttora aperta, tra Atene e Bruxelles: sempre ieri il ministro
dell’Economia grsco, Yanis Varoufakis, aveva confermato di star preparando una lettera di
richiesta di altri sei mesi di finanziamento da parte della Ue, testo che però dovrebbe
escludere la sottomissione alle rigide direttive della troika.
Sulla linea, per capirci, del documento Moscovici, quello sostituito all’ultimo momento da
uno più duro, scritto dal presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, e che aveva
determinato lunedì scorso la rottura. La proposta del commissario francese, più morbida,
era sicuramente piaciuta di più ai greci, e sarà proprio su quella linea che Atene chiederà
alle cancellerie europee, oltre che alla Commissione, di venirle incontro.
L’incontro decisivo, per discutere delle richieste greche e delle controproposte di
Bruxelles, potrebbe essere già quello di oggi: tutto dipenderà da come verranno scritti i
documenti, da entrambe le parti, per arrivare a una possibile sintesi: da parte greca si
punta a dare l’impressione (soprattutto all’opinione pubblica interna) che non si è tornati ad
accettare diktat rigidi come quelli della troika, ma da parte europea si dovrà dimostrare che
non si è ceduto troppo: altrimenti non potrebbe arrivare un ok dalla Germania. Paese che,
come si sa bene, conta eccome.
Intanto ieri Berlino ha tenuto a sottolineare le proprie posizioni: un’estensione degli aiuti
alla Grecia è «inscindibile» dall’impegno a completare le riforme, ha detto il portavoce del
ministero delle Finanze tedesco, Martin Jaeger. Ribadendo quanto detto negli ultimi giorni
dall’inflessibile Wolfgang Schaeuble.
Ma il monito più rilevante è arrivato da Washington: il segretario al Tesoro Usa Jack Lew
ha chiesto alla Grecia di trovare velocemente un «percorso costruttivo» per un accordo
con l’Europa e l’Fmi. Secondo quanto riportano i media greci, Lew in una telefonata con
Varoufakis ha espresso le sue preoccupazioni per l’attuale fase di stallo, che crea
incertezze all’Europa. In mancanza di un accordo, ha detto il segretario al tesoro
statunitense, la Grecia si troverebbe ad affrontare difficoltà immediate. Lew ha anche detto
a Varoufakis che incoraggerà i creditori internazionali della Grecia a trovare un accordo.
Varoufakis a sua volta ha dichiarato che il monito non è rivolto solo alla Grecia, ma anche
alla Ue: «Il segretario del Tesoro Usa mi ha effettivamente detto che un mancato accordo
danneggerebbe la Grecia», ma «ha aggiunto che danneggerebbe anche l’Europa. Un
avvertimento a entrambe le parti», ha scritto il ministro ellenico in un tweet.
Subito, a ruota, è arrivata quindi una dichiarazione di Angela Merkel. Che se può essere
considerata come un’apertura alla Grecia, una conferma che dall’azione di Draghi in poi si
è imboccata la via per un’intesa, dall’altro lato precisa che non tutto è concesso: «Se
alcuni Paesi sono in difficoltà, allora daremo loro la nostra solidarietà — ha detto la
cancelliera a un congresso del suo partito — Ma la solidarietà non è una strada a senso
unico. Piuttosto, con gli sforzi dei paesi, è una faccia della stessa medaglia e sarà sempre
così».
Infine è da segnalare un inatteso endorsement pro-Grecia del Bild, il settimanale più letto
in Germania, in mano all’editore conservatore Axel Springer, supporter di Merkel: «Cara
Grecia — scrive in un editoriale — se perdiamo te, non se ne vanno in fumo solo i nostri
miliardi di euro, ma anche il nostro cuore. Il greco si parla da 4.000 anni. Dobbiamo
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salvare la Grecia: se salviamo la Grecia salviamo noi stessi. Che cosa sono i miliardi
contro Omero, Aristotele, Socrate? La Grecia vale più di tutti i miliardi».
del 19/02/15, pag. 5
233 voti, Pavlopoulos è il nuovo presidente
Pavlos Nerantzis
ATENE
Alexis Tsipras è pronto a firmare una soluzione di compromesso con i partner europei. Il
suo staff economico ha già preparato una proposta che oggi sarà discussa alla riunione
dell’ Euroworking group a Bruxelles e domani, qualora sarà ritenuta compatibile con le
condizioni poste alla Grecia, verrà esaminata in un’altra riunione dell’ Eurogruppo che
dovrà decidere di conseguenza.
La proposta è stata elaborata da Atene in base alla bozza del commissario per gli Affari
economici, Pierre Moscovici, considerata più vicina alle posizioni del governo greco e non
a quella presentata dal presidente dell’Eurogruppo, Dijsselbloem, che esprime le posizioni
degli «irriducibili» con a capo Wolfgang Schauble. Secondo fonti di Megaro Maximou,
sede del governo greco, Tsipras chiede l’ estensione di sei mesi del «contratto di prestito»
con condizioni da trattare, ma non la proroga dell’ intero programma firmato tra i governi
precedenti e i creditori internazionali (Fmi, Ue, Bce). Il ragionamento — e tutto sommato
questa retromarcia– di Atene, dopo l’ ultimatum imposto da Bruxelles, è semplice: «siamo
pronti a pagare ciò che la Grecia deve ai suoi creditori, ma l’ austerità è finita».
La Grecia, inoltre, si impegna a non prendere iniziative unilaterali che potrebbero
appesantire il bilancio dello Stato e a concordare le proprie mosse con i partner europei.
Prenderà, invece, misure che non costano alle casse dello Stato per far fronte alla difficile
crisi umanitaria.
Ieri, infatti, la vice ministra dell’economia, Nadia Valavani, ha presentato in parlamento le
nuove misure che permetteranno ai cittadini che hanno accumulato debiti verso lo Stato, di
poter regolarizzare la loro posizione ricorrendo sino a cento rate mensili. Un’ulteriore
segnale per mostrare che il paese ha bisogno di respirare, di liberarsi dalla pesantissima
cappa creata dall’austerità.
Il problema greco per l’Eurogruppo, invece, e inanzitutto per Berlino ha una sola soluzione:
l’estensione del programma di aiuti nella sua interezza, cioè in grado di consentire all’Ue di
verificare gli impegni prima di versarle gli aiuti.
Uno spiraglio per trovare una soluzione di compromesso entro il 28 febbraio lo danno
cinque paesi (Italia, Francia, Belgio, Austria, Cipro) che pur chiedendo l’estensione del
programma attuale, lasciando aperta l’eventualità di un alleggerimento, si schierano a
favore di concedere maggior tempo alla Grecia. «Un piano B non c’è» avverte Pierre
Moscovici, in sintonia con gli altri rappresentanti delle istituzioni Ue, disposti a concedere
flessibilità ma solo in cambio del rispetto degli impegni.
Da notare che nonostante l’impasse, nessuno dei politici evoca il rischio «Grexit», ma
nonostante questo, ieri, gran parte della stampa internazionale riferiva di un possibile
ritorno della Grecia alla dracma.
E ieri — intanto — con una larga maggioranza è stato eletto il candidato presidente della
Repubblica, proposto dal Syriza-Anel, nonostante le lamentele di alcuni dirigenti in seno
alla sinistra radicale. Prokopis Pavlopoulos ha raccolto 234 voti sui 300, ottenuti da Syriza,
gli Indipendenti greci (Anel), Nea Dimokratia. To Potami (Il Fiume) ha proposto come
candidato presidente della Repubblica, il costituzionalista Nikos Alivizatos, proveniente
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dall’area del centro-sinistra, appoggiato pure dai socialisti del Pasok. Il loro candidato ha
ottenuto 30 voti.
I parlamentari di Chrysi Avghì (Alba Dorata), il partito nazista, così come i comunisti del
Kke hanno deciso di astenersi. Da registrare, inoltre, il tentativo fallito dell’ ex premier
Antonis Samaras di formare in chiave anti-Syriza «un fronte comune tra le forze filoeuropee», come le ha definite.
Evanghelos Venizelos, leader del Pasok e Stavros Teodorakis, presidente del «Fiume»
hanno risposto che preferiscono per il momento di tenere una posizione di attesa. Il
premier greco ha informato ieri ambedue i leader dell’ opposizione sull’andamento delle
trattative con i partner europei.
del 19/02/15, pag. 1
L’appello degli intellettuali europei
Sulla Grecia l’Ue cambi rotta
La richiesta dell’Unione europea alla Grecia di proseguire con le catastrofiche politiche di
austerity degli ultimi cinque anni, è uno schiaffo alla democrazia e ai sani criteri economici.
Il popolo greco attraverso elezioni democratiche ha rifiutato queste azioni, che hanno
portato alla contrazione del 26% della propria economia, al 27% del tasso di
disoccupazione e hanno portato il 40% della popolazione a vivere sulla soglia di povertà.
Continuare con l’austerity significa tradire la Ue e tradire i principi di democrazia,
prosperità e solidarietà. Il rischio è che l’austerity finisca per dare fiato a forze
antidemocratiche tanto in Grecia, quanto in altri paesi.
Chiediamo alla leadership europea di rispettare la decisione del popolo greco e di
concedere al nuovo governo il tempo per rimediare alla crisi umanitaria e ripartire con la
necessaria ricostruzione della devastata economia nazionale.
Costas Douzinas, Jacqueline Rose, Giorgio Agamben, Slavoj Zizek, Lynne Segal, Gayatri
Spivak, Etienne Balibar, Judith Butler, Jean-Luc Nancy, Chantal Mouffe, David Harvey,
Eric Fassin, Joanna Bourke, Immanuel Wallerstein, Wendy Brown, Sandro Mezzadra,
Marina Warner, Drucilla Cornell
del 19/02/15, pag. 7
Da Atene a Budapest, la rete di Putin
Dopo le offerte di aiuto alla Grecia, l’intesa e la piena sintonia con
l’ungherese Orban Il capo del Cremlino trova sponde nella Ue e mette in
difficoltà i fautori delle sanzioni
Tonia Mastrobuoni
Hanno usato persino lo stesso termine, «spararsi sui piedi», per commentare la decisione
di imporre sanzioni alla Russia. Alexis Tsipras, che guida da fine gennaio la «strana
maggioranza» rosso-nera che governa la Grecia, e Viktor Orban, l’aspirante autocrate
ungherese che dice di ispirarsi alla «democrazia illiberale» russa, sono la prima linea di un
fronte che Vladimir Putin vorrebbe allargare per ottenere la spaccatura in Europa cui
aspira da tempo. E i due Paesi potrebbero diventare il ventre molle di un’Europa che è
stata sinora miracolosamente unita nelle decisioni che riguardavano, ad esempio, le
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sanzioni contro Mosca. Se la situazione in Ucraina dovesse precipitare di nuovo,
potrebbero essere l’avanguardia di una resistenza crescente alla linea dura contro «l’orso
russo».
Il palcoscenico
Non a caso, martedì Orban ha offerto a Putin il palcoscenico per una prima, clamorosa
rentrée nella «vecchia Europa» da quando la Russia è stata cacciata dal G8 e la Ue ha
imposto il giro di vite più severo sulle sanzioni. E la giornata, per il premier magiaro, è
stata fruttuosa, dal punto di vista economico. Ma secondo la rivista «Foreign Affairs», la
sintonia con Mosca si coglie anche nel tentativo di Orban di destabilizzare i Paesi vicini
sobillando le minoranze magiare. Dal 2012 ha concesso loro il passaporto e il diritto di
voto. E un anno fa, ha avvertito l’Ucraina che «gli ungheresi dei Carpazi orientali meritano
la doppia cittadinanza, diritti e autonomia». Un Putin in salsa europea.
La Grecia strizza l’occhio
In Grecia, la situazione è più complessa: s’intreccia con il difficile negoziato sugli aiuti
europei e la troika. I partiti al governo, la sinistra estrema di Syriza e la destra di Anel,
hanno entrambi una posizione filorussa. E il governo non ha mai nascosto le offerte di aiuti
provenienti da Mosca, per ostentare un’alternativa, al tavolo con i partner europei. Un
gioco che provoca un’enorme irritazione soprattutto a Berlino, ma che dà conto di un
rapporto privilegiato con Putin cui i greci difficilmente vogliono rinunciare, in questo
momento.
Europei in ordine sparso
Ma se questi sono casi estremi, altri Paesi europei hanno sempre avuto una posizione
dialogante, con Mosca, anzitutto per interessi economici e, in particolare, energetici. La
Germania e l’Italia, in primo luogo. Con il nostro Paese piuttosto defilato nella partita
ucraina. E, sia detto per inciso, per la prima volta in una vicenda così importante per il
futuro dell’Europa, lo è anche la Gran Bretagna, da sempre più muscolare sui dossier
internazionali.
Angela Merkel, al contrario, ha avuto un ruolo di primissimo piano. Berlino è intervenuta
dal primo momento delle proteste di Maidan, allo scoppiare della rivolta ucraina, con la
Francia e, inizialmente la Polonia, per risolvere la crisi. Poi ha sempre cercato di
mantenere aperto un dialogo con Putin e respingere le istanze più aggressive dei Paesi
baltici e degli Stati Uniti.
La svolta, per la cancelliera, è arrivata a luglio dell’anno scorso, con il crollo dell’aereo
malese, abbattuto dai missili dei separatisti russi mentre sorvolava l’Ucraina. Un incidente
che ha indurito notevolmente la sua posizione e ha portato all’inasprimento delle sanzioni
europee. Tuttavia, anche il tentativo di inizio mese di sventare una guerra precipitandosi a
Mosca con François Hollande per parlare direttamente con Putin, cercando di tenere a
bada l’impazienza degli americani che vorrebbero mandare aiuti militari a Kiev, è
l’attestazione del tentativo perenne di mantenere un filo di comunicazione con Putin. Ne è
scaturito un cessate il fuoco a dir poco fragile. Ma come disse Merkel alla Conferenza di
Monaco, «per noi ne è valsa comunque la pena». Quando si dice il dialogo.
Del 19/02/2015, pag. 19
La resa di Debaltsevo i soldati di Kiev
lasciano la città ai ribelli filorussi
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Ora sul centro ferroviario sventola la bandiera della “Novorossia” La
condanna degli Usa: “Tregua violata”
PIETRO DEL RE
Esausti, con il volto sfatto e la barba incolta, i soldati di Kiev hanno cominciato il ritiro da
Debaltsevo dopo aver resistito più di una settimana senza né munizioni né viveri, perché
circondati dalle truppe ribelli filorusse. Per loro sono stati giorni d’inferno, sotto
bombardamenti potentissimi e incessanti, in cui molti hanno perso la vita. È verosimile che
per i settemila soldati ucraini rimasti intrappolati nei loro trinceramenti di Debaltsevo, la
resa fosse l’unica soluzione auspicabile e che quindi abbiano accolto con grande sollievo
l’ordine del loro presidente, Petro Poroshenko, di abbandonare le posizioni conquistate lo
scorso giugno. A mezzogiorno, nel centro di questo strategico snodo ferroviario tra
Donetsk e Lugansk, i capoluoghi delle due auto-proclamate repubbliche indipendentiste,
già sventolava la bandiera della “Novorossia”, in riferimento alla regione a Nord del Mar
Nero sottratta dalla Russia all’Impero ottomano, stendardo ampiamente usato dalla
propaganda guerresca del Cremlino. Adesso tutti si chiedono se, in barba al cessate il
fuoco entrato in vigore sabato notte, i ribelli continueranno o meno la loro offensiva per la
conquista di altri territori, quali il grosso porto industriale di Mariupol. Intanto, il governo
tedesco ha vivamente criticato la presa di Debaltsevo da parte dei filorussi, definendola
molto «nefasta» per le speranze di pace. «La nostra è una condanna ferma
dell’operazione militare dei separatisti. È stata una massiccia violazione del cessate il
fuoco e va contro le speranze di pace nell’Ucraina orientale», ha detto il portavoce della
cancelliera Angela Merkel, Steffen Seibert. Simile la reazione dell’Unione europea, che per
bocca del suo ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ha accusato i miliziani filorussi di
una «chiara violazione» dell’accordo di Minsk, mentre il Segretario generale della Nato,
Jens Stoltenberg, ha intimato alla Russia di ritirare le sue forze in Ucraina orientale e di
smetterla di aiutare i separatisti. Anche gli Stati Uniti hanno «condannato con forza la
violazione della tregua da parte delle forze separatiste in concerto con le forze russe » e
hanno avvertito che «i costi per la Russia aumenteranno». La risposta di Mosca è giunta
attraverso il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, secondo cui «l’attuale linea del
cessate il fuoco si trova fuori da Debaltsevo, perché questa linea è controllata dalla milizia
». In una telefonata, con il suo omologo americano, John Kerry, Lavrov ha anche
sottolineato l’importanza di un «dialogo diretto tra Kiev, Donetsk e Lugansk » e ha
ricordato gli «obblighi delle autorità ucraine sulla riforma costituzionale e sul
riconoscimento di uno status speciale per il Donbass». Con la “rotta” ucraina di Debaltsevo
si sono subito riattivate le cancellerie nel tentativo di salvare quanto era stato concordato
nella capitale bielorussa il 12 febbraio, dopo una maratona negoziale di 17 ore tra il
presidente russo Vladimir Putin, il presidente ucraino Poroshenko, la cancelliera Merkel e
il capo dello Stato francese François Hollande. E, ieri sera, la questione Debaltsevo è
stata lungamente discussa durante la conference call del cosiddetto “quartetto di
Normandia”, per far ripartire l’attuazione di una road-map di pace nel Donbass.
Del 19/02/2015, pag. 1-31
Le armi spuntate dei vecchi stati
Venti di guerra alle frontiere e nel cuore dell’Europa. Conflitti che oppongono Stati, al
Nord; conflitti che nascono dall’assenza o dalla fragilità di Stati, al Sud. Soluzioni che
mostrano l’incompletezza della cooperazione europea, da un lato; conflitti ai quali si cerca
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una soluzione nell’ambito di una cooperazione ancora più ampia, internazionale, dall’altro.
Guerre guerreggiate da una parte; attacchi terroristici dall’altra.
Agli antichi conflitti si aggiungono nuovi conflitti, che cambiano il paradigma tradizionale,
quello di una nazione armata in guerra contro un’altra nazione armata (o di coalizioni di
nazioni da una parte e dall’altra). Cambiano le scene dei conflitti, i protagonisti, i metodi e
la natura stessa dei conflitti. La scena, in Libia e nei territori iracheni e siriani occupati
dall’Isis, è quella di Stati falliti o fragili, dove si affrontano gruppi non statali, o per la
conquista di un territorio, o per attaccare in altri territori.
I protagonisti non sono più solo gli Stati. Entrano in ballo le Nazioni Unite, già impegnate in
Africa e nel Medio Oriente in 16 operazioni di mantenimento della pace, con quasi 130
mila persone e un costo di circa 8 miliardi di dollari per anno; l’Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa, già impegnata in molti Paesi dell’Europa centrale
con quasi 3 mila persone e un costo di quasi 150 milioni di euro per anno; l’Unione
Europea, protagonista debole, perché con poche competenze in campo militare; infine lo
«Stato islamico», che è in realtà una forma non statale di potere pubblico, sviluppatosi nel
territorio di altri Stati (Siria e Iraq), ma con una proiezione internazionale.
Infine, cambia la natura del conflitto e diventa difficile distinguere tra insorti e nemici e tra
operazioni belliche e operazioni di polizia, come ben sanno gli americani fin dal momento
in cui il presidente Bush lanciò la war on terror , definita guerra, ma non rivolta ad uno
Stato–nazione nemico, bensì ad una organizzazione di natura terroristica con legami
globali. Se in molti casi queste non sono guerre come quelle di una volta, è naturale che
le nazioni siano incerte nell’affrontarle e che si rivelino tutte le debolezze di uno spazio che
è divenuto globale, senza che vi sia un ordine globale.
Innanzitutto, nei territori non governati, deve essere sempre chiamato l’Onu a ricostituire
unità statali stabili ed è accettabile questa forma di nation building dall’alto?
In secondo luogo, fino a quando è possibile che un gigante economico e politico come l’Ue
continui ad essere un nano dal punto di vista militare, sotto il peso del lontano fallimento
della Comunità europea di difesa (1950-1954), per cui, quando c’è rumore di armi, come
nei giorni scorsi a Minsk, la parola passa agli Stati? In terzo luogo, come si coniuga il
ripudio costituzionale della guerra (ricordo che l’art. 11 della Costituzione italiana dispone
che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali») con la necessità di compiere
operazioni belliche a tutela della sicurezza, dove il confine tra polizia e guerra e tra
controversia internazionale e conflitto interno è molto incerto? Infine, come contrastare
operazioni terroristiche o belliche compiute a mezzo di organizzazioni di dimensioni
globali, quando gli Stati sono ancora prevalentemente ordinati su base nazionale? La
risposta a queste domande è andata maturando, negli ultimi anni, nella comunità
internazionale. O l’Onu, o sistemi di alleanze regionali (come da ultimo proposto da Henry
Kissinger nel suo libro World Order ) dovrebbero essere i garanti supremi delle formazioni
statali deboli, controllandole e appoggiandole, in modo che le loro forze interne non
deflagrino, portando disordine e terrore in altri territori. È tempo che l’Unione Europea
diventi un potere pubblico altrettanto forte in campo militare quanto lo è nel campo
economico e politico. Nell’agenda della comunità internazionale dovrebbe essere scritta in
permanenza anche la competenza a svolgere azioni di polizia internazionale, una funzione
in parte bellica, in parte diretta al mantenimento della sicurezza e dell’ordine. Infine, anche
fuori dei confini nazionali c’è bisogno di maggiore unione. Se i problemi sono globali (e tali
sono il terrorismo e le controversie sulle zone di influenza), le soluzioni non possono che
essere anche esse globali.
Sabino Cassese
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Del 19/02/2015, pag. 19
Giovane uccisa
Le donne turche sfidano Erdogan
Manifestazioni da giorni in tutte le città
Soltanto donne a portare la bara e nelle prime file al funerale, soltanto donne a seppellirla.
Sfidando la tradizione e i moniti dell’imam della cittadina turca di Mersin, le donne questa
volta si sono rifiutate di stare dietro agli uomini. Nessuna mano maschile doveva più
toccare Aslan Özgecan dopo che la scorsa settimana la sua giovane vita è stata
brutalmente stroncata dall’autista del pulmino che la portava a casa dall’università. Aslan,
20 anni, studentessa di psicologia, aveva cercato di resistere all’uomo che voleva
violentarla. Si era difesa con uno spray al peperoncino che teneva in borsetta come fanno
migliaia di donne nel Paese guidato dai filoislamici dove le violenze di genere sono
schizzate: +400% in 13 anni, da quando è al potere il partito islamico Akp di Erdogan,
stima il quotidiano Taraf ; +40% di donne uccise nel 2014, per Aysenur Islam, unica
ministra.
I dettagli dell’uccisione di Aslan sono raccapriccianti: le mani amputate, le pugnalate, il
corpo dato alle fiamme, i suoi resti carbonizzati sulle sponde di un fiume con l’aiuto del
padre e di un amico dello stupratore assassino, già arrestato.
Aslan è stata messa a tacere per sempre ma ora migliaia di donne dopo anni di silenzio
hanno trovato la voce. La barbara fine della studentessa ha innescato una mobilitazione di
massa. L’ondata di proteste e indignazione da Mersin, nel sudest del Paese, si è
propagata a decine di città, Istanbul e Ankara comprese. Con decine di migliaia di donne
vestite di nero in strada che fino a ieri scandivano slogan come: «Non camminerai più da
sola», «Non stiamo piangendo, ci stiamo ribellando», «lo stupro è un crimine contro
l’umanità». Si sono vestiti di nero anche studenti e studentesse a scuola e in università,
donne e uomini al lavoro con il fiocco nero. La rabbia e lo sdegno sono corsi sui social.
Sotto l’hashtag sendeanlat (raccontaci la tua storia) personalità e migliaia di donne comuni
hanno condiviso storie personali di abusi.
Anche Erdogan è intervenuto: l’assassino «merita il massimo della pena», «seguirò il caso
personalmente» ha twittato. E ieri ha promesso pene più severe. Il caso ricorda quanto
accaduto in India dopo il brutale stupro di una studentessa di 23 anni su un bus di Delhi.
Qui l’indignazione ha portato a un inasprimento delle pene, non sufficiente però per
contrastare il fenomeno anche per la diffusa impunità e la radicata cultura patriarcale, che
la Turchia conosce bene. Ancora martedì Erdogan ha dichiarato che «le donne si devono
affidare agli uomini» facendo infuriare le attiviste, che già lo criticavano per il suo rifiuto
dell’uguaglianza tra i generi.
Ma le turche non sono sole. Nuove proteste sono in programma nel fine settimana, con un
raduno di uomini in minigonna a Istanbul. «D’ora in poi le donne non si dividono più tra
turche e curde, tra musulmane e non — dice la scrittrice Elif Shafak — ma tra chi difende il
silenzio e chi rifiuta di stare zitta».
Alessandra Muglia
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INTERNI
del 19/02/15, pag. 3
Avremo 90 F-35 senza motore e senza
conoscerne il prezzo
Manlio Dinucci
Armi. Pinotti conferma lo shopping militare, su Twitter
Joe Della Vedova, portavoce dell’ufficio del Pentagono responsabile del programma F-35,
ha comunicato che «l’Italia rimane impegnata nel programma e ad acquistare, in tale
quadro, 90 caccia F-35». Solo dopo che la sua dichiarazione è stata riportata dall’agenzia
Reuters, la ministra della Difesa Roberta Pinotti ha confermato, con un messaggio su
Twitter, che «il numero di 90 è stato stabilito dal precedente Governo. Il programma
prosegue secondo l’illustrazione data al Parlamento».
Dimentica di dire, però, che il governo Renzi si era impegnato cinque mesi fa, in base a
una mozione Pd, a «riesaminare l’intero programma F-35 per chiarirne criticità e costi con
l’obiettivo finale di dimezzare il budget» da 13 a 6,5 miliardi di euro, cifra con cui — si
stima — si potrebbe acquistare, oltre ai 6 già comprati, al massimo una ventina di F-35.
Da qui la notizia, allora diffusa dai media, del «dimezzamento» degli F-35. Smentita ora
dall’annuncio che l’Italia mantiene l’impegno ad acquistarne 90, fatto che non ci sorprende
dato che sul manifesto abbiamo sempre sostenuto che il governo Renzi non aveva alcuna
intenzione di ridurre tale numero. L’Italia si impegna ad acquistare 90 caccia F-35 della
statunitense Lockheed Martin — 60 a decollo e atterraggio convenzionale e 30 a decollo
corto e atterraggio verticale — senza conoscerne il prezzo. Una recente stima del
Pentagono quantifica in 98 milioni di dollari il costo unitario della prima versione e in 104
milioni quello della seconda versione.
Specifica però che il costo è relativo all’aereo «motore non incluso» (come sentirsi dire da
un concessionario che nel prezzo dell’auto non è compreso il motore). Una stima di
massima si può ricavare dal bilancio del Pentagono, che prevede per l’anno fiscale 2015
uno stanziamento di 4,6 miliardi di dollari per l’acquisto di 26 F-35, ossia 177 milioni di
dollari — equivalenti a circa 140 milioni di euro — per ogni caccia.
La Lockheed assicura che, grazie all’economia di scala, il costo unitario diminuirà. Tace
però sul fatto che, come avviene per ogni sistema d’arma, l’F-35 subirà continui
ammodernamenti che faranno lievitare la spesa. Alla quale si aggiungeranno gli enormi
costi operativi per il mantenimento e l’armamento di una flotta di F-35. Sempre con denaro
pubblico, sottratto alle spese sociali
L’impianto Faco di Cameri, scelto dal Pentagono quale «polo di manutenzione dei velivoli
F-35 schierati in Europa, sia di quelli acquistati dai paesi europei sia di quelli Usa operanti
in Europa», già costato all’Italia un miliardo di euro, dà lavoro a meno di mille addetti che,
secondo Finmeccanica, potrebbero arrivare solo a 2500 a pieno regime.
E, nell’annunciare la scelta di Cameri, il generale Usa Christopher Bogdan ha chiarito, in
previsione di ulteriori spese per lo sviluppo dello stabilimento, che «i paesi partner del
programma F-35 si fanno carico degli investimenti per tali impianti».
I portavoce statunitensi, intervistati dalla Reuters a Roma e a Washington, si
complimentano col governo Renzi perché, «nonostante le pressioni politiche», è riuscito a
mantenere l’impegno ad acquistare 90 cacciabombardieri F-35, il «numero giusto» per
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assicurare la partecipazione industriale italiana al programma e, allo stesso tempo, «la
difesa del paese».
Ritengono di grande importanza che «l’Italia rimpiazzi la sua obsoleta forza di
cacciabombardieri» (definizione in cui collocano non solo i Tornado ma anche i più recenti
Eurofighter Typhoon), «nel momento di crescenti tensioni internazionali per i membri della
Nato, con ribelli pro-russi che combattono il governo ucraino e, subito al di là del
Mediterraneo, con militanti dello Stato islamico che stanno avanzando».
Confermano così che l’F-35 è particolarmente importante per subordinare ancor più l’Italia
ai piani di guerra del Pentagono.
Del 19/02/2015, pag. 10
Il Pd si divide sulla Palestina il governo
blocca il riconoscimento “Non è il momento
migliore”
La mozione alla Camera sullo Stato palestinese alla fine è stata rinviata.
Scontro nei dem tra favorevoli e contrari. L’ira di Israele. D’Alema: “Gli
ultimi a fare questo passo”
GOFFREDO DE MARCHIS
Due mozioni per il riconoscimento dello Stato di Palestina, il Pd spaccato e il governo che
frena. «Lo capite da soli. Quantomeno la tempistica è completamente sbagliata», confida il
ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ad alcuni deputati amici. Con l’Isis a 200 miglia dalle
coste italiane, con la complicatissima mediazione sulla Libia, il voto sulla legittimità di
un’autorità palestinese in questo momento sarebbe stato veramente il colmo. Ci ha
pensato un po’ il destino e un po’ la contrarietà di Palazzo Chigi a risolvere il problema
salvando anche il Pd dalla storica frattura tra filo-israeliani e filo-arabi. Oggi infatti gli ordini
del giorno saltano per via della fiducia sul Milleproroghe (che si approva stasera
interrompendo i lavori in aula) e slittano a chissà quando, perché non sono provvedimenti
urgenti. Finiranno in fondo a un fitto calendario, forse tra un mese. O più.
Il caso comunque scoppia e non evita la divisione nel Pd. All’assemblea del gruppo il
deputato di religione ebraica Emanuele Fiano avvisa: «Se si vota questa roba, rivendico la
libertà di coscienza ». Walter Verini chiede il rinvio. Pippo Civati invece si schiera a favore
del riconoscimento: «Lo chiedo anche intellettuali ebrei come David Grossman ».
L’ambasciata israeliana, con un comunicato, avverte: «Rischiate di incoraggiare i
palestinesi a rifiutare i negoziati. State allontanando la pace». Ma il Pd, a quel punto, ha
già raggiunto il punto di rottura. Sono 15 le firme di deputati dem sotto la mozione di Sel
che invoca un riconoscimento pieno della Palestina. E addirittura 31 deputati Pd
sostengono il testo della socialista Pia Locatelli che impegna l’esecutivo a un via libera
«definitivo» alla Palestina. Ci sono, tra gli altri, la bindiana Miotto, i bersaniani Fassina,
Zoggia, Damiano e Giorgis, Civati e Sandra Zampa. Palazzo Chigi e la Farnesina
ufficialmente non intervengono. «È una materia parlamentare», spiega Renzi ai suoi
collaboratori. Aggiungendo: «La materia è molto scivolosa». In realtà, il governo corre ai
ripari e affida la “toppa” al responsabile Esteri Enzo Amendola. Amendola riceve il
mandato a scrivere una mozione del Pd, che escluda il voto alle altre. Una mozione che
usi i toni felpati della diplomazia e si muova cautamente sulla linea di “due popoli, due
stati”. Alla fine, il voto salta e così il testo. Se ne riparla tra qualche settimana. Resta una
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certezza. Il governo Renzi non ha alcuna intenzione di impegnarsi al riconoscimento della
Palestina. Negli uffici del ministro Gentiloni si fa notare che i parlamenti di molti Paesi
europei hanno votato risoluzioni sul Medioriente, dal Regno unito alla Francia, dallo stesso
Europarlamento all’Onu. Ma solo in Svezia, tra le nazioni del nucleo storico Ue, quel tipo di
mozione è stata poi adottata dal potere esecutivo. Come dire: Montecitorio agisca a suo
piacimento, poi il governo non compirà alcuna scelta affrettata. Non è la linea di Massimo
D’Alema che a Otto e mezzo invita a tenere conto del voto di quei parlamenti: «Se non
diamo speranza alle leadership arabe moderate, non stupiamoci se lì vincono
fondamentalismo e terrorismo».
Del 19/02/2015, pag. 14
Berlusconi, guerra a Fitto Lui: “Non ci
spaventi” Rischio disfatta in Veneto Salvini:
“Mai con Alfano”
L’ex premier ordina l’epurazione dei ribelli anche dalle liste. Santanchè
nel mirino
TOMMASO CIRIACO
Annichilire Raffaele Fitto, così ha ordinato Silvio Berlusconi. L’epurazione iniziata con la
scelta di commissariare gli azzurri in Puglia proseguirà nelle prossime settimane con la
rimozione di ogni dirigente fedele al capo dei frondisti. E sarà completata da Maria Rosaria
Rossi, antifittiana convinta con il potere di firma delle liste. «Se Raffaele non capisce che
deve andare via - ha urlato l’ex Cavaliere al telefono con uno dei dissidenti - gli lascio
Forza Italia e lancio “Forza Silvio” o “Azzurra libertà”. La gente vota me, mica il simbolo».
Il primo atto della guerra intrapresa da Berlusconi è la nomina in Puglia di Luigi Vitali. Uno
sgarbo che ha provocato la controffensiva del capo dei dissidenti: «Ho cercato di fermare
lo scempio della riforma elettorale e la risposta è stato il commissariamento: è una cosa
che non si può sentire». La richiesta è sempre quella di azzerare gli incarichi. «E qui precisa - non si spaventa nessuno». Il rischio, però, è che la frantumazione si concretizzi
presto. Con la convention organizzata sabato dai “Ricostruttori” fittiani la tensione è
destinata a salire. Il resto lo farà il repulisti dell’ex Cavaliere. Nel mirino del cerchio
magico, infatti, è finita Daniela Santanché, vicinissima a Denis Verdini e responsabile del
found rasing. Vogliono rimuoverla, così come intendono conquistare la poltrona del
responsabile organizzazione di FI, fino all’altro ieri occupata proprio dal big toscano.
Il leader di Arcore, intanto, è alle prese con il rebus veneto. Ha ormai stretto un patto per le
Regionali con il Nuovo centrodestra e prega Matteo Salvini di superare il veto sull’Ncd. È
disponibile addirittura ad ospitare i centristi nelle proprie liste, ma deve scontrarsi con il
niet del segretario padano: «Mai con Alfano, Berlusconi scelga». Solo un incontro in
Brianza potrebbe sciogliere il nodo, ma intanto la preoccupazione cresce: «Se in Veneto la
Lega dimostra di essere autosufficiente, è la fine». Anche il numero uno del Carroccio, a
dire il vero, deve risolvere una grana fastidiosa. Flavio Tosi insiste per presentare liste
civiche a sostegno di Luca Zaia, ma sbatte contro il muro di Salvini. Per questo, non
esclude uno scontro fratricida contro il governatore uscente. A quel punto la “lista Tosi”
sarebbe sostenuta, clamorosamente, proprio da FI e Ncd.
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Del 19/02/2015, pag. 20
Suicidio in cella, agenti esultano sul web
Commenti shock nella pagina Facebook del sindacato di polizia
penitenziaria dopo che il detenuto si era tolto la vita a Opera: “Uno in
meno” Il ministro della Giustizia convoca il capo del Dap: “Individuate
12 persone, ora provvedimenti severi”. La difesa: “Siamo pochi e sotto
stress”
GIULIANO FOSCHINI
MARCO MENSURATI
Una dozzina di persone già identificate. Un provvedimento disciplinare pronto e anche la
possibilità di una segnalazione all’Autorità giudiziaria per istigazione al suicidio. Il Dap
(Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), ha deciso di fare sul serio contro quegli
agenti che su Facebook hanno festeggiato il suicidio di un detenuto rumeno nel carcere di
Opera. La notizia, resa nota ieri da repubblica. it, ha scatenato indignazione anche della
politica: il ministro della Giustizia Orlando ha convocato per oggi Santi Consolo, capo del
Dap, per avere notizie sull’inchiesta interna immediatamente avviata. Il Dipartimento ha
infatti già individuato i profili, una quindicina circa, e segnalato quanti tra questi
appartengono ad agenti in servizio. «Saremo durissimi» dicono. Tutte le sigle sindacali
esprimono la propria «vergogna per quanto scritto da pochi colleghi che non sono degni di
portare la divisa».
Il caso nasce dalla pagina Facebook dell’Alsippe, piccolo sindacato di agenti. È lì che il 15
febbraio viene postata la notizia del suicidio di un uomo di 39 anni, Ioan Gabriel Barbuta,
romeno, detenuto nel carcere di Opera dopo la condanna all’ergastolo (giugno 2013) per
l’omicidio di un vicino di casa. Una storiaccia, purtroppo non rara nelle carceri italiane dove
le condizioni — come ha certificato anche l’Unione europea — sono disumane. Ma
disumani sono anche i commenti apparsi sotto la notizia. «Meno uno!», ha scritto per
primo un agente di Castelvetrano, G.C., con una serie di colleghi che si sono detti subito
d’accordo, tra cui per esempio un dirigente del sindacato Osapp. C’è poi chi ha rincarato:
«Solo uno?», chiede I.L. «Giustizia fu fatta. Ora ci sarà giustizia divina a fare il resto»,
commenta invece un dirigente toscano dell’Alsippe (che dopo la denuncia di repubblica.
itha cancellato i post parlando di «strumentalizzazione »), mentre un altro agente
consigliava di «mettere a disposizione più corde e sapone ».
«Questo è il risultato» spiega a Repubblica P.C., agente in un carcere del centro Italia che aveva commentato la notizia con un tremendo «nessuno piangerà più di tanto» - «di
anni di lavoro in condizioni vergognose. Siamo arrabbiati, ci costringono a questo ». «Le
frasi sono efferate», spiega il senatore Luigi Manconi, da sempre in prima linea sulla vita in
carcere. «Ma è una conferma che il carcere è una macchina disumana per tutti: per i
detenuti e per chi ci lavora. Sono spinti al degrado, non aiutati da piccoli segmenti
corporativi che conservano una tenace omertà e si oppongono a ogni rinnovamento. È
quello il punto da combattere». Tra l’altro gli ignobili commenti sul detenuto suicida non
sono una rarità. Sulla stessa pagina Facebook un agente scrive, a proposito del detenuto
che non rientra dal permesso: «Sparargli a vista, no eh?». E ancora, quell’altro che
postando le nuove misure del decreto sicurezza sul terrorismo si chiede: «Una volta in
carcere li trattiamo con i guanti bianchi?», e nel giro di pochi minuti nde un collega gli
risponde: «E non direi amico...», con tanto di emoticon ammiccante. Questi agenti ora
rischiano: dalla sospensione dal servizio al licenziamento. E per alcuni potrebbe anche
scattare la denuncia penale: il Dap sta valutando per quegli agenti che lavorano
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abitualmente a contatto con i detenuti, se quelle frasi possano far scattare la denuncia per
istigazione al suicidio. Il ministro ha poi convocato tutte le sigle sindacali per la prossima
settimana. «Dobbiamo evitare assolutamente — dice — che simili inqualificabili
comportamenti possano ripetersi». Per questo si sta studiando un codice di
comportamento per gli agenti sui social network .
Del 19/02/2015, pag. 21
Davigo e la responsabilità dei giudici: «È
incostituzionale»
L’ex pm di Mani pulite: la legge servirà a liberarsi di magistrati scomodi.
Riunione d’urgenza dell’Anm
ROMA L’approvazione della responsabilità civile dei giudici si avvicina, e fra le toghe
cresce la preoccupazione per una riforma che non piace e crea allarme. L’Associazione
nazionale magistrati ha convocato d’urgenza un comitato direttivo straordinario, sabato
prossimo, per affrontare l’argomento prima del dibattito alla Camera, che potrebbe essere
l’ultimo se passerà il testo già varato dal Senato. A sollecitare questa riunione è stato
Piercamillo Davigo, l’ex pm di «Mani pulite» e leader della neonata corrente Autonomia e
indipendenza, gli scissionisti del gruppo conservatore Magistratura indipendente. Secondo
Davigo il momento è grave, e tocca all’Anm sottolineare «alcuni punti fermi e presupposti
costituzionali a tutela dell’indipendenza della magistratura» intaccati dal disegno di legge
in via di approvazione. Il primo argomento è la bugia di fondo ribadita a fondamento della
riforma, e cioè che la richiesta viene dall’Unione europea; non è così, perché la corte di
giustizia esige solo di inserire «la violazione manifesta del diritto dell’Unione» tra le cause
di colpa grave di cui i magistrati devono essere chiamati a rispondere. La legge che sta
per essere votata, invece, è andata molto più in là. Per esempio eliminando il filtro del
tribunale sull’ammissibilità delle richieste di risarcimento. È una delle novità introdotte per
impedire la «sostanziale inaccessibilità del rimedio».
Davigo ricorda una sentenza della Corte costituzionale secondo cui «la previsione del
giudizio di ammissibilità della domanda garantisce adeguatamente il giudice dalla
proposizione di azioni manifestamente infondate che possano turbarne la serenità,
impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la
ricusazione». Senza il filtro, infatti, si metterebbero giudici e pm a rischio di azioni
presentate al solo fine di creare condizioni di incompatibilità per liberarsi del magistrato
sgradito. «L’abolizione del filtro di ammissibilità è quindi all’evidenza costituzionalmente
illegittima», sentenzia Davigo, oggi giudice di Cassazione. Non solo: «L’introduzione del
travisamento del fatto e delle prove in termini» tra i nuovi motivi per promuovere l’azione
civile contro i giudici, presenta «aspetti di incertezza che rischiano di creare altri gravi
problemi». Davigo poi suggerisce di pretendere da subito una limitazione dei «carichi
esigibili» di un lavoro che «diventa più rischioso e faticoso», anche a causa della nuova
legge sulla responsabilità civile. Una rivendicazione che mette in luce l’aspetto più
sindacale che politico della vicenda, da parte della corrente più a destra dei giudici. Ma
sulla denuncia dei rischi della riforma sono allineati tutti i gruppi. Compreso quello di
sinistra di Area, dall’interno del quale però arriva l’invito a evitare iniziative che
rischierebbero di rivelarsi controproducenti, come lo sciopero o lo sciopero bianco.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 19/02/15, pag. 15
Ciancio: giornali, affari & Cosa Nostra
L’EDITORE RISCHIA IL PROCESSO PER CONCORSO ESTERNO.
POTRÀ NON RISPONDERE ALLA COMMISSIONE ANTIMAFIA
di Sandra Rizza
E ora Mario Ciancio, l’editore de La Sicilia di Catania, sotto inchiesta per i suoi presunti
rapporti con Cosa Nostra, potrà rifiutarsi di rispondere quando, la prossima settimana,
sarà convocato davanti alla Commissione parlamentare Antimafia per parlare dei
condizionamenti sui cronisti bersagliati dai boss.
LA PROCURA DI CATANIA ha depositato, infatti, l’avviso di conclusione dell’indagine per
concorso esterno in associazione mafiosa nei suoi confronti: dopo che i pm in passato
avevano chiesto per ben quattro volte l’archiviazione della sua posizione, sul tavolo di
Ciancio adesso è arrivata quella che, di fatto, è l’anticipazione di una richiesta di rinvio a
giudizio. L’av - vocato Carmelo Peluso, difensore dell’editore catanese, ancora non ci
crede: “Sono molto sorpreso – ha detto – è del tutto evidente la stranezza di questo
mutamento di opinione da parte della Procura”. Il patron de La Sicilia ha adesso 30 giorni
di tempo per presentare una memoria difensiva o per farsi interrogare, nel tentativo di far
cambiare idea ai pm. Ma nel frattempo cambiano completamente le modalità della sua
attesissima deposizione a San Macuto fissata dal vicepresidente Claudio Fava per il
prossimo 25 febbraio: il principale azionista di quotidiani e tv del Mezzogiorno, che è stato
ai vertici della Fieg e dell’Agenzia Ansa, a questo punto potrà tranquillamente presentarsi
all’Antimafia in compagnia del suo legale e addirittura avvalersi della facoltà di non
rispondere.
ALCUNE DELLE ACCUSE mosse dai pm di Catania costituiscono, infatti, l’oggetto delle
stesse domande che i parlamentari, da mesi al lavoro sul corposo dossier “mafia e
informazione’’, vorrebbero porre all’editore sotto inchiesta. Quali? In primo luogo, i
chiarimenti su quei 52 milioni di euro, che sarebbero stati depositati in Svizzera e non
dichiarati in occasione dei precedenti scudi fiscali, così come risulta dagli atti dell’indagine.
A San Macuto, il gruppo coordinato da Fava è alle battute finali del primo “libro bianco”
che tenta di radiografare l’influenza delle mafie sulle redazioni di tutto il Paese: minacce ai
giornalisti, pressioni sugli editori, ricatti e precariato, sono gli argomenti che promettono di
rendere “rovente’’ il rapporto sull’in - formazione che sarà presentato in plenaria a marzo.
E conterranno, stavolta, anche le nuove risultanze dell’inchie - sta su Ciancio. Negli ultimi
due anni, infatti, i pm catanesi hanno accumulato nuove prove sul conto del patron
dell’editoria in Sicilia. E tra le carte dell’indagi - ne sarebbero confluite anche le motivazioni
della sentenza di primo grado, che condanna l’ex Governatore Raffaele Lombardo a 6
anni e 8 mesi per concorso esterno a Cosa Nostra.
IN QUELLE 325 PAGINE, il gup Marina Rizza più volte fa riferimento a Ciancio,
sottolineando come “attraverso i contatti con Cosa Nostra di Palermo”, l’editore “avrebbe
apportato un contributo concreto alla famiglia catanese”. Il riferimento è alle varianti
urbanistiche che avrebbero fatto schizzare il valore di alcuni terreni a Catania di proprietà
di Ciancio, in società con Tommaso Mercadante, (figlio di Giovanni, ex deputato regionale
di Fi, condannato in appello a 10 anni e 8 mesi per concorso in mafia) e con Giovanni
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Vizzini, fratello del senatore Carlo, Psi, ex Psdi, ed ex presidente della commissione affari
costituzionali.
DALL’UFFICIO INQUIRENTE etneo, diretto da Giovanni Salvi, nelle ultime ore è partita
una nota nella quale si fa esplicito riferimento proprio all’esistenza di quei “conti bancari
con ingenti somme di denaro (52.695.031 euro), che non erano state dichiarate in
occasione di precedenti scudi fiscali’’.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 19/02/15, pag. 6
Sbarchi e centri, l’immigrazione costa almeno
un miliardo l’anno
La macchina dell’accoglienza assorbe 600 milioni, poi ci sono i controlli
roma
L’immigrazione costa alla finanza pubblica almeno un miliardo di euro l’anno. Una cifra
approssimata per difetto ma con un alto tasso di variabilità e una prospettiva comunque al
rialzo. La verità è che fronteggiare gli sbarchi, fare i controlli di polizia, dirottare nei centri
di assistenza, accogliere e poi, magari, integrare i migranti, costa un sacco di soldi. Ma i
soldi non bastano mai. La quota di Stato impegnata su questo fronte è molto ampia: oggi,
nonostante la rincorsa alla spending review, è arduo se non impossibile ipotizzare una
riduzione - e la conseguente diminuzione dei costi - degli uffici in campo. Al ministero
dell’Interno di Angelino Alfano ci sono almeno due dipartimenti in prima linea: quello
Libertà civili e immigrazione, guidato da Mario Morcone, e la Pubblica sicurezza diretta da
Alessandro Pansa. Morcone coordina e governa l’accoglienza, l’assistenza, l’integrazione:
una montagna di procedure e percorsi che fanno i conti con i prefetti in sede, sindaci e
politici locali - spesso, questi ultimi, resistenti e polemici - la ricerca a volte di un alloggio
da trovare quasi all’ultimo minuto. Per un onere complessivo a carico dello Stato stimato
per quest’anno in circa 600 milioni. Salvo sorprese, revisioni e integrazioni. Il direttore del
Dipartimento Ps, peraltro, ogni giorno ha sul tavolo i dossier della direzione centrale polizia
delle frontiere e dell’immigraziome - circa 2mila agenti - guidata da Giovanni Pinto. Con i
controlli effettuati, le situazioni più a rischio, le verifiche con i colleghi delle forze dell’ordine
degli altri Stati. Senza contare le migliaia di poliziotti delle questure impegnati nelle
pratiche di permesso e rinnovo di soggiorno: l’ipotesi di passare i fascicoli agli enti locali come sarebbe ovvio e logico - liberando risorse per la pubblica sicurezza, tentata da
diversi ministri, ha sempre incontrato il no vincente dei Comuni. Non è finita: carabinieri e
agenti Ps sono impiegati in attività di ordine pubblico durante i trasporti, i controlli e
l’accoglienza degli immigrati. Con i costi relativi di straordinari e missioni. Dipartimento
Libertà civili e Ps, la parte preponderante delle grandi voci di impegno statale sul fronte
immigrazione, può essere stimata con un costo complessivo annuo di oltre un miliardo.
Numeri molto più piccoli, ma significativi, sono quelli delle altre forze impegnate. La
Guardia costiera, intanto, in prima linea ogni giorno e spesso costretta a situazioni
estreme. Come i turni di 36 ore senza mai dormire su una motovedetta, che parte per il
soccorso dei naufraghi - magari a un centinaio di miglia di distanza - e deve tornare con il
mare, com’è accaduto di recente, forza 8: un lavoro a rischio concreto della vita. L’attuale
dispositivo della Guardia costiera per l’emergenza migranti di sbarchi non solo in Sicilia,
ma anche in Puglia e Calabria, annovera 5 navi, 66 motovedette d’altura e costiere,tre
velivoli Atr 42 MP e quattro elicotteri AW139. Oltre agli uomini d’equipaggio ci sono, per
forza di cose, altri 600 militari impegnati a terra nelle sale operative, nel servizio supporto
di manutenzione navale e aerea, logistico, scorte e profilassi sanitaria. Senza contare il
mezzo milione di euro al mese per l’acquisto di generi alimentari di prima necessità per i
migranti, dispositivi di protezione individuale e vestiario per il personale militare, le mense
e gli straordinari. E il milione al mese necessario a pagare carburante e manutenzione dei
mezzi aeronavali. In attività di controllo anti-scafisti e contro lo sfruttamento
dell’immigrazione clandestina è impegnata, invece, la Guardia di Finanza, con tre
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guardacoste, un aereo e due elicotteri, con un’attività di polizia giudiziaria spesso preziosa
per le procure. Sulla voce costi pubblici sono venuti meno, certo, gli oneri - circa 9 milioni
al mese - della missione umanitaria Mare Nostrum, durata un anno con l’impegno
straordinario della Marina Militare e sostituita da quella europea di pattugliamento Triton.
Ma uno dei problemi veri e continui di chi deve gestire l’immigrazione è l’estrema difficoltà
di programmare e pianificare, vista l’imprevedibilità dell’andamento dei flussi e degli
sbarchi. Certo l’esplosione degli sbarchi all’inizio del 2015 non promette nulla di buono.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 19/02/2015, pag. 22
Il premier: “Ci sono università di serie B”
“Un errore pensare che siano tutte di serie A, sarebbe antidemocratico.
Occorre una marcia in più per imporsi sullo scenario mondiale” La
protesta degli studenti: “Sembra di sentir parlare la Gelmini”. La Crui:
“Ma la qualità media degli atenei deve restare alta”
Il presidente del Consiglio si presenta al Politecnico di Torino, ateneo dell’eccellenza
italiana dove il 91 per cento degli ingegneri lavora un anno dopo la laurea, e chiaramente
dice: «Negare che vi siano diverse qualità nell’università italiana è ridicolo. Ci sono
università di serie A e B nei fatti e rifiutare la logica del merito e la valutazione dentro le
facoltà, pensare che tutte possano essere uguali, è antidemocratico, non solo
antimeritocratico ». Matteo Renzi, quando era sindaco di Firenze, diceva cose anche più
dure: «Il ministro Gelmini avrebbe dovuto avere il coraggio di chiudere la metà delle
università italiane: servono più a mantenere i baroni che a soddisfare le esigenze degli
studenti». Era febbraio del 2011. Oggi, alla vigilia della chiusura del decreto “La buona
scuola” e dell’apertura della “Buona università”, il presidente del Consiglio abbassa il livello
formale ma non la sostanza del suo pensiero: «Non possiamo pensare di portare tutte le
novanta università italiane nella competizione globale, così ci spazzerebbero via tutti
quanti ». Ancora: «Un grande ateneo ha il compito di stare non sul mercato, ma nello
scenario internazionale. Ci serve un passo in più affinché le grandi realtà non siano
stritolate dai confini amministrativi. Non si può gestire il Politecnico di Torino come fosse
un comune di cinquemila persone». Il 2015 sarà un anno costituente per il mondo
accademico, dice. Il rettore dei rettori, Stefano Paleari, presidente della Crui, è vicino a
Renzi mentre lui dichiara. E successivamente preferisce non aprire un fronte polemico, ora
che potrebbero tornare i soldi per l’università italiana. «Non ho letto aggressività nelle
parole del premier», dice Paleari, «le università di A e B sono un modo per dire che ci
sono funzioni diverse nei diversi atenei. Alcuni stanno sul mercato internazionale, curano
le eccellenze, altri sono veri e propri insediamenti sociali in territori difficili. Resta il fatto
che la qualità media di tutti deve restare buona». Crede nell’anno costituente, Paleari:
«Nelle ultime cinque stagioni ci sono stati sottratti 800 milioni, abbiamo perso diecimila
ricercatori e tutti i docenti sotto i quarant’anni. L’inversione di tendenza è obbligatoria, ma
non sarà necessario chiudere atenei. Il mondo accademico è cambiato dal 2011 a oggi.
Non riceviamo più finanziamenti a pioggia, non abbiamo più rettori a vita. Io ho 50 anni e a
fine anno torno a fare il professore e il ricercatore nella mia università di Bergamo».
Il rettore del Politecnico di Torino, Marco Gilli, già aveva confermato fedeltà al governo
durante l’inaugurazione dell’anno accademico: «Siamo certi che l’azione riformatrice
avviata saprà affrontare le principali criticità del nostro sistema e saprà creare le condizioni
perché le università possano avviare in tempi brevi un significativo ricambio
generazionale. Premier, le assicuriamo piena collaborazione».
A fine mese si apre il viaggio politico-amministrativo della Buona università. Questi i
cardini della futura legge: uscita dei lavoratori degli atenei dalla pubblica amministrazione,
creazione di un comparto autonomo con un contratto unico e poi, sulla strada del Jobs
Act, tutele crescenti per i precari e soprattutto i ricercatori, quindi superamento del sistema
ingabbiante dei punti organico. Le uniche parole conflittuali arrivano dagli studenti, già
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critici rispetto alla Buona scuola. «Dichiarazioni chiare e preoccupanti quelle del premier»,
scrive l’Unione degli universitari, «ricordano le politiche della Gelmini che l’università l’ha
distrutta. Le parole di Renzi esprimono un’idea di università diametralmente opposta a
quella della nostra Costituzione che chiede luoghi accessibili a tutti, strumenti di ascesa
sociale, motori culturali e di rilancio per il Paese tutto. Oggi proseguire gli studi sta
diventando impossibile per chi non ha mezzi in partenza: il numero di laureati, infatti, è il
più basso d’Europa. Antidemocratico e antimeritevole è un diritto allo studio inesistente».
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CULTURA E SPETTACOLO
del 19/02/15, pag. 11
Editoria, questa liberalizzazione è fuori
misura
Roberto Ciccarelli
ROMA
Ddl Concorrenza. Nella bozza del Disegno di legge che domani andrà
all'esame del Consiglio dei Ministri una norma che abolirà la legge Levi
sul prezzo dei libri. Una scelta che penalizzerà gli editori e i librai
indipendenti. Cresce la protesta: "Il governo vuole la legge del più forte"
Librai indipendenti, piccoli e medi editori, sindacati e rappresentanze di categoria sono sul
piede di guerra contro il governo Renzi. In una bozza del Ddl sulla concorrenza circolata
nelle ultime due settimane è prevista la cancellazione della legge Levi che prevede un
tetto massimo di sconto del 15% applicabile sulla vendita dei libri. Il provvedimento
coordinato dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi dovrebbe approdare nel
Consiglio dei ministri monstre previsto domani e consiste nella consueta lenzuolata di
liberalizzazioni: dalla riforma dell’assicurazione auto alle società multidisciplinari per gli
avvocati. La bozza prevede anche l’abolizione del prezzo imposto dall’editore, una
decisione che porterà a rincari anche nel settore scolastico, e la liberalizzazione dei punti
vendita di quotidiani e periodici.
Se approvate, queste misure produrranno uno sconvolgimento del mercato editoriale
italiano: «Di fatto questa è una liberalizzazione del prezzo di copertina dei libri che andrà
unicamente a vantaggio delle concentrazioni verticali della filiera editoriale, della grande
distribuzione e dei grossi rivenditori online» scrive in un comunicato l’Osservatorio degli
Editori Indipendenti (Odei). Varata nel 2011 a seguito delle prese di posizioni dei piccoli
editori e dei librai indipendenti, questo provvedimento viene definito uno «strumento
ancora insufficiente» dall’Osservatorio. Ma è l’unico oggi a disposizione per opporsi alle
distorsioni di un mercato editoriale «già fortemente asimmetrico nel garantire le stesse
condizioni di accesso a editori e librai».
Lasciando liberi i grandi editori e le librerie di catena di fare le politiche del prezzo, questo
mercato farebbe piazza pulita di molti attori minori, e di qualità, che lavorano nell’editoria
italiana. La liberalizzazione così concepita porterebbe a una drastica riduzione degli
editori, delle librerie e del pluralismo, oltre che della stessa concorrenza. Finirà così il
precario equilibrio garantito da una legge definita un «compromesso» dal suo primo
firmatario Ricardo Franco Levi, già sottosegretario all’editoria nel governo Prodi nel 2006.
Odei chiede al governo di tornare indietro sulle sue decisioni e propone una legge sul libro
per valorizzare la «bibliodiversità». Nel caso del via libera del decreto da parte del Cdm, gli
editori annunciano una mobilitazione. L’occasione per parlarne, e organizzarla, sarà la
fiera degli editori indipendenti Book Pride prevista a Milano dal 27 al 29 marzo.
Questa bozza ha allarmato anche il presidente dell’Associazione italiana editori (Aie)
Marco Polillo: «Tra grandi e piccoli editori c’è unità nel difendere la legge Levi – ha detto in
una dichiarazione a Il Libraio — Siamo contrari alla sua abrogazione». Reazioni sono
arrivate anche da parte di chi lavora a contatto diretto con i lettori. Quelle dei librai e
cartolibrai della provincia di Ravenna che hanno inviato un appello ai parlamentari eletti
nel loro collegio. «Queste ipotesi di riforma – hanno scritto – renderebbero
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economicamente insostenibile il lavoro quotidiano di chi svolge un servizio fondamentale
alla cittadinanza». Le librerie indipendenti sono «un luogo di divulgazione delle culture,
della letteratura e dell’arte, ma anche un punto di riferimento di quartiere che che favorisce
l’inclusione sociale attraverso la lettura».
I librai chiedono al governo di eliminare il paragrafo della bozza incriminata e discutere
un’«ipotesi ad hoc». Cristina Giussani, presidente del Sil-Confesercenti, ha ribadito la sua
contrarietà alla liberalizzazione definendola «sbagliata e incomprensibile».
Sinagi-Cgil, Snag Confcommercio e Usiagi-Ugl hanno inoltre inviato una lettera al
sottosegretario all’editoria Luca Lotti. Chiedono al governo di fermare il progetto di
«liberalizzare l’attività di vendita di quotidiani e periodici, trasformandola in un’attività
commerciale pura». Un provvedimento su questo settore andrebbe invece inquadrato
nella riforma organica dell’editoria alla quale il governo starebbe lavorando. Notizia
confermata dallo stesso Lotti in un messaggio inviato al recente congresso del sindacato
dei giornalisti Fnsi.
Del 19/02/2015, pag. 52
Mondadori vuole Rizzoli ecco il colosso dei
libri
SIMONETTA FIORI
CI siamo. Sta per nascere il temuto moloch dei libri che spadroneggerebbe su metà del
mercato editoriale italiano. Un passo avanti è stato compiuto nella giornata di ieri. Nel
tardo pomeriggio un lancio di agenzia annuncia che «su richiesta della Consob, la Arnoldo
Mondadori informa di aver sottoposto a Rcs Media Group una manifestazione di interesse
non vincolante relativa a un’eventuale operazione di acquisizione di Rcs Libri». In
sostanza, la principale azienda editoriale italiana, di proprietà di Silvio Berlusconi, si sta
avvicinando a grandi passi verso l’annessione della Rcs Libri, il secondo gruppo dopo
Mondadori. Se l’operazione andasse in porto, ne risulterebbe la più grande concentrazione
libraria in Europa. Ma prima bisogna attendere le decisioni del consiglio di
amministrazione di Rcs, in cui non tutti sono d’accordo sulla cessione. Il dossier con la
proposta di acquisto da parte della famiglia Berlusconi circolava da mesi e se ne è parlato
nel dettaglio nell’ultimo cda di Rcs della scorsa settimana, tanto da convincere la Consob
a chiedere ai due gruppi di uscire allo scoperto. E così è accaduto ieri, con due mesi di
anticipo sul prossimo appuntamento che dovrebbe ridisegnare il board di Rcs. Ma perché
formulare un’offerta non vincolante? Secondo molti operatori, per esercitare pressione sui
consiglieri Rcs più riluttanti. Oppure perché la Mondadori vuole riservarsi la possibilità di
uscire dall’affare qualora emergessero elementi che non la convincono del tutto. Perché
naturalmente il punto ora sono i soldi. Quanto vale la Rcs Libri? La cifra massima è
stimata intorno ai 200 milioni di euro, ma un accordo si potrebbe trovare in una fascia di
prezzo assai più bassa che oscilla, secondo quasi tutti gli osservatori, tra i 150 e la cifra
più verosimile di 120 milioni. Una boccata di ossigeno e nuova liquidità per il gruppo
guidato da Pietro Scott Jovane (gravato da un indebitamento stimato sotto i 500 milioni a
fine 2014) e che eviterebbe un eventuale nuovo aumento di capitale. Ma si tratterebbe di
un’amputazione dolorosa. Dai libri, e dalla coraggiosa impresa del cavalier Angelo Rizzoli,
è nata l’azienda editoriale che oggi include anche un grande quotidiano, periodici, Tv e
web. «Non bisogna farsi prendere dalla fretta», dice Urbano Cairo, azionista di Rcs con il
3%. Ma quali potrebbero essere le conseguenze culturali del più potente matrimonio
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librario della storia italiana? Intanto la nascita di un gruppo editoriale che non ha eguali in
Europa. L’annessione di Rizzoli (11,7%) da parte della Mondadori (27%) significherebbe
l’occupazione di una fetta del mercato di poco inferiore al 40 per cento. In Spagna il primo
marchio è Planeta con il 24%, seguito da Penguin Random House (17). In Francia il più
grande tempio editoriale è Hachette (21), con Editis/Planeta al 16 e Gallimard/Flammarion
all’11. In Inghilterra il ruolo principe spetta a Penguin Random House (26) seguito da
Hachette (17) e Harper Collins (9). Anche in Germania il gigante Bertelsmann non supera
il 23%, seguito a distanza da Holtzbrink/Mac Millan (14). Quella italiana sarebbe dunque
un’assoluta anomalia, che pone interrogativi sul piano della libera concorrenza: quale
margine di azione avrebbero i competitor, ossia il gruppo Gems, Giunti, Feltrinelli e la
miriade di piccole e medie case editrici che costituiscono il tessuto culturale del paese?
Parliamo di libri, dunque di idee e di geografie intellettuali. Il nuovo gruppo sarebbe un
attore dominante nella produzione editoriale, con una forza difficilmente contenibile nella
campagna acquisti degli autori (pensiamo solo agli anticipi). Ma il ruolo egemone sarebbe
anche nella distribuzione e nel rapporto con le librerie, oltre che nel mercato del lavoro
editoriale. Un sovrano assoluto, il nuovo Mondazzoli o chissà come sarà chiamato (forse il
marketing è già al lavoro), capace di dettare legge in ogni passaggio della filiera del libro.
Anche il settore della scolastica ne potrebbe risentire: un manuale su quattro sarebbe
targato Mondadori/ Rcs. E che fine farebbero marchi come l’Adelphi di Roberto Calasso e
Marsilio, il feudo veneziano di Cesare De Michelis, dentro la nuova galassia? Non si
esclude che i padri titolari stiano lavorando per difendere i propri gioielli dalla fusione. E
molte domande rimbalzano sul destino dell’Einaudi, il blasone di cultura dentro Mondadori.
Cambieran- no gli assetti anche in via Biancamano? A Segrate il mutamento è recente,
con la brusca uscita di Riccardo Cavallero e l’arrivo al vertice di Ernesto Mauri con la
qualifica di presidente. Ma l’attenzione si concentra sul grande rientro di Gian Arturo
Ferrari, che appare il personaggio chiave. Editore di seconda generazione - non quella dei
padri ma nemmeno quella dei manager puri, profilo bifronte tra cultura e profitti - appare
l’uomo più adatto per gestire la complessa operazione. Mondadori-Rcs si distinguerebbe
dal resto di Europa anche per un’altra caratteristica, tutt’altro che irrilevante. Il suo padrone
sarebbe Silvio Berlusconi, l’ex premier che continua a condizionare la scena politica
nazionale. Ma davvero Berlusconi è interessato a guidare questa nuova grande macchina
dei libri o preferirebbe far cassa, vendendo alla migliore offerta? Già da tempo circola il
nome di Bertelsmann, ma potrebbe essere interessato anche Murdoch, se nel pacchetto
fosse presente anche un pezzo di Mediaset. Non è escluso che una proposta arrivi anche
dal gruppo svedese Bonnier. Fusione chiama fusione, secondo una vecchia regola del
mercato. Ma la regola è destinata a infrangersi nel mondo dei libri italiano, connotato da
una forte tradizione famigliare. I gruppi più esposti agli effetti della nuova concentrazione
sono Gems e Feltrinelli, imprese segnate da una cifra specifica e da equilibri difficilmente
modificabili. Al momento non resta che aspettare.
Del 19/02/2015, pag. RM IX
“Troppi cinema chiusi? Registi fuori dalla
realtà Si candidino a riaprirli”
LA POLEMICA/ ANEC E ANEM CONTRO L’APPELLO DI 19 ARTISTI
MAURO FAVALE
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I REGISTI, gli attori e i produttori che protestano contro le modalità con le quali la giunta
Marino vorrebbe avviare un percorso di “rigenerazione” per i 42 cinema chiusi nella
capitale sono «avulsi dalla realtà». Peggio, la loro lettera è frutto di una «reazione
idelogica» che «ignora l’andamento storico del mercato cinematografico».
Dopo la diplomatica precisazione del Campidoglio che due giorni fa ha risposto alla
letteraappello di 19 artisti (da Bernardo Bertolucci a Toni Servillo, da Paolo Virzì a Paolo
Sorrentino fino a Ettore Scola), ieri è arrivato il duro comunicato di Giorgio Ferrero e Carlo
Bernaschi, presidenti rispettivamente di Anec Lazio e Anem, le associazioni di categoria
delle sale cinematografiche. «Spiace osservare — scrivono — come ogni qual volta
l’amministrazione comunale attivi un percorso di rigenerazione urbana e di riconversione
delle sale in disuso, si levino da più parti alzate di scudo a difesa di un vincolo di
destinazione d’uso urbanistico senza tener conto di ciò che è avvenuto negli ultimi 30 anni
e dei processi di trasformazione culturali ed urbani che si sono avvicendati nella nostra
società». Secondo Anec e Anem, insomma, le critiche di registi e produttori al piano del
Comune sono «ingenerose»: «Varrebbe la pena ricordare che questi cinema chiusi sono
in gran parte di proprietà privata. Se qualcu- no ha interesse a riaprirli, potrebbe
tranquillamente avanzare concrete proposte, farsi avanti». Ferrero e Bernaschi, poi,
ricordano come dal 1985 a oggi, a Roma si è passati da 78 schermi a 350, «tutto ciò
mentre il numero degli spettatori è costantemente diminuito, passando dai 14 ai 12 milioni
di spettatori l’anno». Infine, concludono: «Da decenni a Roma ci sono decine di sale
chiuse perchè non hanno economicamente resistito alla flessione dei consumi e
all’aumento dei costi di gestione. Queste sale sono ancora vincolate ad una destinazione
d’uso che non ha più ragione d’essere.
del 19/02/15, pag. 12
Gli sguardi italiani indipendenti conquistano
il Cinéma du Reel
Cristina Piccino
Cinema. Presentato il cartellone del festival parigino del documentario.
In gara Giovanni Cioni, Mattia Colombo, Yuri Ancarani
Nei film in cartellone alla prossima edizione di Cinéma du reel (19–29 marzo) , il festival
parigino dedicato al documentario, i tre italiani sono tutti espressione di un cinema
«indipendente» nel senso cresciuto fuori dagli apparati convenzionali in quelle «periferie»
dell’immaginario che già negli anni passati, per esempio lungo il decennio dei Novanta,
hanno prodotto gli scossoni più forti al nostro cinema (pensiamo solo all’esperienza
siciliana di Ciprì e Maresco). E questa indipendenza non è solo questione di formazione o
di referenti produttivi ma riguarda soprattutto lo sguardo strabico e poco allineato di queste
opere nel modo di confrontarsi col mondo e di entrare nelle zone sensibili della realtà
contemporanea. Da qui, per fare ancora un esempio, arriva anche il film presentato al
Forum di Berlino (unico italiano dopo molti anni), Il gesto delle mani, premiato dalla
Fipresci, la critica internazionale, di Francesco Clerici.
Ecco dunque che nel concorso lungometraggi di Cinéma du Reel, considerato uno degli
appuntamenti «obbligati» dai documentaristi di tutto il mondo (lo dirige l’italiana Maria
Bonsanti) troviamo Giovanni Cioni, regista toscano che ha vissuto a lungo in Belgio — ora
abita a Barberino del Mugello dove organizza tra le altre cose laboratori di scrittura per
ragazzi — e che nei suoi film (era anche tra gli autori nel progetto del Cinema corsaro
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ideato da Giovanni Maderna) segue le tracce dei riti antichi nel presente (In Purgatorio) o
una comunità di tossicodipendenti senza la retorica del «marginale» (Per Ulisse). Al Reel
porta Del ritorno, coproduzione franco-italiana.
Nel concorso opere prime c’è Mattia Colombo con Voglio dormire con te – anche questa
coproduzione Italia/Francia. Una storia d’amore, o meglio un intreccio di variazioni
sull’amore oggi in tempi di sentimenti precari e incertezze divenute cifra del reale. Tra i
corti invece Yuri Ancarani, cineasta crossover, tra schermo e installazioni (spesso invitato
anche negli Orizzonti veneziani) col suo San Siro. Entrambi lavorano a Milano, il film di
Mattia Colombo è stato sviluppato nel laboratorio Nutrimenti terrestri, nutrimenti celesti
(organizzato dal festival milanese Filmmaker), attività di formazione e sviluppo dei progetti
continua col Network in cui si sono uniti i diversi festival del capoluogo lombardo, molto
attivo e costantemente presente sul territorio. I risultati provano che è la strada giusta.
Tra i film selezionati per il concorso lungometraggi (in tutto 11) Une jeunesse allemande —
ne abbiamo parlato da Berlino — di Jean Gabriel Périot, la storia della Germania nel dopo
guerra attraverso l’esperienza della Raf, la Rote Armee Fraktion, e di una generazione, i
figli della guerra appunto, il cui futuro non poteva esistere nella realtà di quella
ricostruzione. Joaquim Pinto e Nuno Leonel con Rabo de Peixe, diario d’archivio che
intreccia la vita dei cinasti e quella di un piccolo villaggio di pescatori nelle Azzorre dove
hanno vissuto alcuni anni. Africa 815 di Pilar Monsell, ancora un viaggio intorno a un
archivio di fotografie.
Philippe Rouy, regista sperimentale che ha lavorato a lungo sul dopo-Fukushima
osservando il deterioramente di edifici come riflesso di quello della società, presenta (nel
concorso francese) Fovea centralis. Mentre (nel concorso lunghi) la catastrofe nucleare in
Giappone torna in Nucleare Nation II di Atsushi Funahashi.
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ECONOMIA E LAVORO
del 19/02/15, pag. 6
Renzi-Marchionne a tutto gas
Mauro Ravarino
Fiat Chrysler. Il premier in tour in Piemonte, «gasatissimo» di fronte ai
progetti dell’ad. Visita blindata, e i sindacati non riescono nemmeno a
consegnare una lettera
«Gasatissimo». Il presidente del Consiglio Matteo Renzi non è mai parco di superlativi e
anche di fronte ai progetti, che gli ha presentato l’amministratore delegato di Fiat Chrysler
Automobiles Sergio Marchionne, si è lasciato andare al rituale entusiasmo. Il premier, ieri,
è stato protagonista di un tour de force in Piemonte, da Alba, per il funerale di Michele
Ferrero (il patriarca dell’azienda dolciaria), a Torino, un tempo città della Fiat, fino a
Moncalieri. Un tour atteso da mesi e continuamente rimandato. Blindatissimo, lontano
dalle contestazioni e dalle domande impertinenti. I delegati Fiom e Uilm della Genaral
Motors, che avevano preparato una lettera di critica al Jobs Act, non sono riusciti a
consegnargliela.
Renzi ha visitato, con i vertici di Fca — il presidente John Elkann e l’ad –, prima il Centro
Stile e poi lo stabilimento di Mirafiori, dove è in corso l’attrezzamento della linea di
montaggio del suv Levante, modello che gli è stato presentato in anteprima e del quale è
rimasto strabiliato: «Il rilancio di Fca sarà sorprendente non solo per i critici ma anche per
chi ha sostenuto quel cambiamento». Entusiasmo che non contagia, però, i lavoratori di
Mirafiori ormai abituati alla perenne cassa integrazione. «Speriamo — ha commentato a
caldo Federico Bellono, segretario torinese della Fiom — che i lavori per Levante, già
ampiamente pubblicizzati, si concludano rapidamente, in modo che il nuovo modello, già
in ritardo, vada effettivamente in produzione entro il 2015, alleviando almeno parzialmente
la cassa. Sottolineo ’parzialmente’ perché è evidente che il suv, parte di quel polo del
lusso che abbiamo sempre valutato positivamente, non sarà sufficiente a far rientrare tutti i
lavoratori». Corrono, intanto, voci che da Melfi possa arrivare a Mirafiori la Grande Punto,
ma se così sarà, sarà solo un tampone temporaneo, essendo un modello destinato al
lento esaurimento.
Nel tour di ringraziamento, il premier si è poi diretto nel cuore di Torino dove ha sede il
Centro studi di General Motors, concorrente diretto del Lingotto. Azienda in espansione
che in un quinquennio è passata da meno di 100 dipendenti a 650, nonostante ci fosse il
detestato (da Renzi) articolo 18. Diventando così un centro di eccellenza globale nello
sviluppo e sperimentazione dei motori diesel. Il premier anche qui se l’è cavata con una
battuta: «Siamo un paese manifatturiero, secondo alla Germania, ma li riprenderemo».
Terza e penultima tappa di Renzi, il Politecnico, per l’inaugurazione dell’anno accademico.
«Ci serve un passo in più – ha sottolineato – affinché le grandi università non siano
stritolate dai confini amministrativi. Lo dico a Sergio (Chiamparino, ndr): non si può gestire
il Politecnico come gestisci un comune di 5mila persone. Una grande università ha il
compito di stare non sul mercato ma nello scenario internazionale. Qui c’è il futuro del
made in Italy». A fine intervento uno studente, Livio Sera di Alter.Polis, collettivo di
Ingegneria, ha tentato di donare al premier un regalo poco gradito: «Contro questo
capolavoro di retorica mi prendo la responsabilità di consegnare questo cappello dal
giullare». Lo studente è stato allontanato dalla sicurezza. Durante la visita di Renzi al
Politecnico, all’esterno un presidio ha contestato le politiche del governo. Presenti diversi
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collettivi universitari, Fiom, Cub, Usb, Flc-Cgil, Rifondazione e Sinistra critica e qualche
bandiera No Tav. Un gruppo di studenti ha bloccato le strade intorno al Politecnico,
seguito passo a passo dalle forze dell’ordine in assetto antisommossa.
Infine, il premier si è recato a Moncalieri e tra le fabbriche ha scelto di visitare la Fissore
Ceramiche, azienda di famiglia della deputata Pd Elena Fissore. Una tappa non casuale,
in vista anche delle prossime elezioni amministrative nel comune piemontese. Applausi,
strette di mano, selfie e un «ciao a tutti, come state?» rivolto da Renzi ad alcune decine di
cittadini, soprattutto sostenitori, che lo hanno applaudito e chiamato a gran voce. Unico
strappo, ovviamente gradito al premier, al blindatissimo protocollo che l’ha protetto, per il
resto, da ogni contatto sociale.
del 19/02/15, pag. 6
Nel “bosco” di Poletti 45 contratti
Massimo Franchi
Jobs Act. Il ministro annuncia: «Via solo partecipazione e job sharing.
Stop a nuovi cocopro». Ma premette: «Deciderà Renzi». Cgil e Uil duri
Alla notizia che il «disboscamento» dei contratti del Jobs act si risolverà nel mantenimento
di ben 45 contratti su 47 esistenti, va fatta una premessa. Ed è una premessa negativa e
pessimistica. A farla è lo stesso ministro del Lavoro Giuliano Poletti durante l’incontro con
le parti sociali, poi ribadita ai giornalisti. «Io sono un ministro di questo governo, venerdì
(domani, ndr) in consiglio dei ministri vedremo se le nostre impostazioni verranno
mantenute o modificate». Sarà dunque — come sempre — Matteo Renzi a decidere.
E visto l’andazzo — oltre al «gasatissimo» riferito a Marchionne, ieri i presenti riferiscono
le parole del direttore dell’area lavoro e welfare di Confindustria Pierangelo Albini:
«Finalmente mi sento dalla parte giusta del tavolo» — è facile pronosticare che nel dubbio
il presidente del Consiglio darà ragione alle imprese e non ai lavoratori.
E nel primo da dipanare — dare ragione a Damiano che chiede di cancellare i
licenziamenti collettivi dal campo di applicazione del nuovo articolo 18 e gli appalti
dall’applicazione del nuovo contratto a tutele crescenti o a Sacconi e Ichino che chiedono
di mantenere entrambi — è chiaro che Renzi starà con Ncd e non alla sinistra Pd.
Torniamo dunque alle molte notizie date dal ministro Poletti. Innanzitutto cosa succederà
domani: «Approveremo definitivamente il decreto sul contratto a tutele crescenti e
(nonostante le titubanze sulle coperture, ndr) quello sulla nuova Aspi. In più presenteremo
il decreto sulla revisione dei contratti esistenti, mentre su agenzia unica ispettiva (oggi è in
programma un incontro coi sindacati di categoria dopo il vespaio di martedì sul
trasferimento di 1.746 lavoratori, ndr)), maternità e mansioni i materiali sono pronti ma non
sappiamo se un consiglio dei ministri con tanti temi ci consentirà di discuterli».
La grande attesa riguarda la promessa di Renzi: «Aboliremo i cocopro». E qua si capisce
subito che si tratta di un ennesimo spot sotto il quale si cela il nulla, o quasi.
«Bloccheremo la creazione di nuove collaborazioni — specifica Poletti — ma su quelle che
ci sono già occorre una modalità di gestione della transizione».
Niente cancellazione, dunque. Bensì «una nuova definizione del confine tra lavoro
autonomo e subordinato» che potrebbe partorire un nuovo contratto «come in Spagna
quello economicamente dipendente, ma se riusciamo a risolvere questo tema senza
introdurre una nuova formula contrattuale la evitiamo». Invece, per quanto riguarda i co.co
.co, Poletti ha sottolineato che «ci sono situazioni specifiche nel pubblico e nel privato e
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vanno valutate». Tutto molto oscuro e complicato anche perché «la delega del Parlamento
riguarda solo il lavoro subordinato e non quello autonomo».
Le uniche forme contrattuali che — come anticipato — verranno cancellate sono dunque
solo due fra le meno utilizzate: i circa 70mila lavoratori con l’associazione in
partecipazione — usato in alcuni casi per le commesse delle catene di calzifici — e del job
sharing — il lavoro condiviso usato in pochissimi casi. In più i voucher verranno perfino
allargati: il limite di applicazione annuale passerà dagli attuali 5 ad 8 mila euro.
L’annuncio fatto dai sindacati — sempre riferendo le parole del ministro — di una possibile
soluzioni sul caso dei lavoratori degli appalti — che con l’applicazione del tutele crescenti
ad ogni cambio di ditta perderebbero le tutele della cosiddetta clausola sociale e le
condizioni precedenti — è stata poi alquanto ridimensionata dallo stesso Poletti: «Stiamo
studiando cosa si possa fare per risolvere il problema sollevato dai sindacati», è la non
rassicurante spiegazione.
Parole che portano Cgil e Uil ad essere durissimi. «La montagna ha partorito il topolino —
commenta il segretario generale Uil Carmine Barbagallo — rimangono tutti i contratti
tranne uno e anche sul decreto Poletti sul tempo determinato rimangono i 36 mesi senza
causale. Resto alle riunioni per rispetto dei nostri iscritti, ma dovrei dire: con chi stiamo
parlando?».
Per Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil «più che un disboscamento dei
contratti c’è solo una manutenzione. Il ministro l’ha motivata col fatto che contro la
precarietà non si può usare il bazooka perché creerebbe un buco. Ma sui licenziamenti e
l’articolo 18 lo hanno usato senza problemi».
Molto più morbida la Cisl: «Bene il riordino delle tipologie, ma va cancellato il lavoro a
chiamata, e il tutele crescenti, ma vanno tolti i licenziamenti collettivi», dichiara il segretario
confederale Gigi Petteni.
del 19/02/15, pag. 8
Poletti: non cambia la durata di utilizzo - Resta il nodo dei licenziamenti
collettivi
Contratti a termine, tetto a 36 mesi
Il contratto a termine manterrà il limite di durata di 36 mesi. Lo ha
assicurato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, nell’incontro con le
parti sociali sui decreti attuativi. Il Consiglio dei ministri domani darà
l’ok definitivo ai contratti a tutele crescenti. Resta il nodo dei
licenziamenti collettivi.
ROMA
Per il contratto a tempo determinato resterà l’attuale limite massimo di durata di 36 mesi.
L’associazione in partecipazione sarà superata, così come il lavoro ripartito (job sharing),
mentre il tetto d’importo per i voucher sarà alzato, e con utilizzo della tecnologia il lavoro
accessorio sarà tracciabile. Si potranno continuare ad usare il contratto di
somministrazione (per lo staff leasing, ovvero la somministrazione a tempo indeterminato,
verranno tolte le causali) e il lavoro a chiamata. Quanto alle collaborazioni, non si potranno
fare nuovi contratti Cocopro, e nel periodo transitorio (potrebbe essere fissato al 1°
gennaio 2016) gli attuali Cocopro verranno portati a scadenza, in attesa di una
ridefinizione del confine tra lavoro subordinato e autonomo (con la predisposizione di indici
presuntivi relativi). Novità in arrivo anche per le mansioni: in presenza di una
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ristrutturazione o riorganizzazione aziendale l’impresa potrà modificare le mansioni del
lavoratore fino ad un livello, senza toccare il trattamento economico (in sede “protetta” il
margine d’azione potrà essere più ampio). Sull’apprendistato si punta a semplificare il
primo livello (per il diploma e la qualifica professionale) e il terzo livello (alta formazione)
per spingere sull’alternanza scuola-lavoro sul modello duale tedesco.
Sono questi i cardini del Dlgs sul riordino dei contratti, che si compone di una quindicina di
articoli, e che sarà approvato dal Consiglio dei ministri di domani, secondo quanto
illustrato dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, alle parti sociali nell’incontro di ieri
pomeriggio. Il ministro ha anche spiegato che quelli illustrati sono «gli orientamenti» del
suo dicastero, ed è possibile quindi che «siano tradotti diversamente nel Consiglio dei
ministri». Che, salvo sorprese, darà pure il via libera definitivo ai due Dlgs sul contratto a
tutele crescenti e sulla nuova Aspi, nonché il primo via libera al Dlgs sull’agenzia unica per
le ispezioni del lavoro (oggi Poletti vedrà i sindacati che sono fortemente critici), mentre
sembra in forse il Dlgs sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (restano da
sciogliere ancora alcuni nodi sulle coperture).
Sullo sfondo resta il nodo dei licenziamenti collettivi (si veda l’articolo qui sotto). Per i
contratti a termine, sul tavolo c’erano due ipotesi, quella di confermare l’attuale durata di
36 mesi, e quella di ridurla a 24 mesi (portando il tetto massimo delle proroghe da 5 a 3):
domani il ministro sosterrà la conferma dell’attuale disciplina, contenuta nel decreto Poletti
del maggio 2014. Si punta anche a favorire il ricorso al part time, stabilendo alcune regole
di base per i contratti che non lo disciplinano o per le imprese che non applicano il
contratto. L’obiettivo del Governo, ha spiegato Poletti, è quello di «spostare sul contratto a
tempo indeterminato il maggior numero di tipologie contrattuali esistenti oggi».
Al termine, commenti critici dalla Cgil: «Siamo sostanzialmente delusi - sostiene la
segretaria nazionale Serena Sorrentino - si tratta di un’operazione di sola semplificazione
e manutenzione, non quel disboscamento dei contratti e delle precarietà che il governo
aveva promesso». Drastico il giudizio del numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo: «La
montagna ha partorito un topolino: nel decreto non c’è niente contro la precarietà».
Positivo, invece, il giudizio della Cisl: «La direzione di marcia è quella giusta - afferma il
segretario nazionale Gigi Petteni - si incentiva il contratto a tempo indeterminato e si
contiene il precariato; anche se avremmo voluto un contrasto più forte, la filosofia è
condivisile. Sulle collaborazioni è positivo che si intervenga contro il falso lavoro
autonomo, ma dobbiamo lasciare che sia la contrattazione a trovare la soluzione più
efficace».
Per il presidente della Commissione lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ap), intervenuto
a un convegno di Adapt, «se confermato, l’annuncio del ministro Poletti di tenere in vita il
contratto a termine di 36 mesi e il lavoro intermittente è certamente positivo - ha detto - ma
anche collaborazioni e associazioni in partecipazione corrispondono, quando
correttamente utilizzati, a modi di produrre beni o servizi». L’auspicio invece del presidente
della Commissione lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), è che dal Cdm di domani
«esca una chiara indicazione delle forme di assunzione da cancellare, a partire dai
contratti coordinati e continuativi e a progetto» e il premier Renzi «si ponga il problema di
rendere strutturali gli incentivi per le tutele crescenti».
Giorgio Pogliotti
Claudio Tucci
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