LavoroCosì si sgretola l`uomo di marmo

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LavoroCosì si sgretola l`uomo di marmo
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DOMENICA
18 DICEMBRE 2011
AGORÀIDEE
Capitale, manodopera,
tecnologie: un trinomio
che, nonostante le sostanziali
modificazioni introdotte
Il filosofo polacco, citato
spesso da Papa Wojtyla,
analizza la questione
del lavoro nella modernità
e individua tre tipi
di disgregazione
del suo ethos: la mancanza
di senso, lo sfruttamento
e quella che definisce
la «malattia del pensiero»
sulla fatica umana
IL TESTO E L’AUTORE
T
rent’anni fa,
l’estate di
Danzica e i
successivi
avvenimenti misero
davanti agli occhi
stupiti del mondo un
movimento di popolo
raccolto sotto il
nome-programma
Solidarnosc. A dare
uno sfondo etico
all’azione di
Solidarnosc, il
sindacato guidato da
Lech Walesa, c’era
Józef Tischner, il
prete e filosofo
polacco scomparso nel
2000 e spesso citato
da papa Wojtyla, che
con le sue riflessioni
indicava il senso di
quell’esperienza nata
dalla «sofferenza del
lavoro». Per l’uomo
schiacciato dalla crisi
economica che vede
crescere la povertà,
diminuire le
possibilità di lavoro,
mentre il grande
capitalismo
spadroneggia in barba
alle leggi dei singoli
Stati, le riflessioni di
Tischner possono
essere più che attuali.
Le edizioni Itaca
rieditano a distanza di
decenni i saggi di
Tischner su Etica della
solidarietà e del lavoro
(da cui abbiamo tratto
il brano pubblicato in
queste pagine) e
Roberto Formigoni –
governatore della
Regione Lombardia –
nella prefazione
scrive: «Nella bufera
economica e
finanziaria globale
che ci ha investito è
più che mai urgente
parlare del lavoro,
e parlarne
realisticamente. Non
solo del lavoro come
fattore produttivo, ma
nella sua dimensione
sociale e umana».
AGORÀIDEE
dall’era digitale, continua
a operare in forme nuove
ma ponendo antiche questioni
etiche. Scriveva Tischner
negli anni di Danzica: «Tutti
i mali della fabbrica
si manifestano con l’esperienza
di un impiego senza prospettiva.
È proprio di questo che parla
un detto divenuto popolare
nel mio Paese: lavoriamo al buio,
produciamo cioè senza speranza»
«Il corretto meccanismo
dei sistemi richiede
il giusto funzionamento
dei programmi informativi
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e la buona organizzazione
della catena di montaggio
che su essi si basa.
Ogni volta che tale processo
si è interrotto, s’è spezzato
anche l’ordine stabilito
e l’officina è andata in crisi.
Non è stata una mancanza
Lavoro
nelle sue energie, ma
del suo senso, un balbettio
sconnesso dal quale è
fuggita via la grammatica»
di Józef Tischner
Così si sgretola l’uomo di marmo
P
er capire la situazione etica del
lavoro, sarà bene affrontarla dal
punto di vista della malattia e non
della salute del lavoro. La malattia
e l’oscurità che circondano il
lavoro, la sterilità del lavoro, la
disgregazione del lavoro, i conflitti
nel lavoro, tutto questo ci parla del
lavoro con una forza di persuasione
molto maggiore dei suoi processi normali.
Che cosa ci dice sulla natura del lavoro la
sua malattia? Possiamo distinguere tre
tipi di disgregazione dell’ethos del lavoro.
Il primo è noto col nome di sfruttamento
del lavoro, il secondo tipo dovrebbe
essere chiamato non senso del lavoro. Il
terzo tipo ha uno statuto tutto
particolare: è innanzitutto una malattia
del pensiero sul lavoro e solo attraverso il
pensiero sul lavoro c’è una malattia del
lavoro. Essa dà segni di sé soprattutto
nelle epoche di intenso lavoro sul lavoro,
e dunque anche nel nostro tempo. Il
pensiero sul lavoro fa parte integrante del
lavoro sul lavoro. Quando riflettiamo sul
lavoro, ci serviamo di una determinata
idea di lavoro. Ebbene, la terza malattia
del lavoro è una malattia dell’idea di
lavoro, una malattia del pensiero sul
lavoro. Una cosa va sottolineata: tutti i
mali del lavoro di cui abbiamo parlato si
manifestano con l’esperienza del lavoro
senza speranza. È proprio di questo lavoro
senza speranza che parla un detto
divenuto popolare da noi in questi ultimi
tempi: lavoriamo al buio. Lavorare al buio
è lavorare senza speranza. L’ingiustizia si
manifesta innanzitutto sulla linea del
rapporto datore di lavoro-lavoratore. A un
dato momento il lavoratore si sente
sfruttato per via del compenso, che a lui
sembra troppo basso, ricevuto in cambio della
fatica che fa prestando la propria opera al
datore di lavoro. Questo è il caso più
frequente. Ciò non esclude peraltro una
situazione nella quale il datore di lavoro si
senta sfruttato per il troppo poco lavoro che
riceve in cambio del compenso offerto al
lavoratore. In un caso e nell’altro una cosa è
però sicura: lo sfruttamento qui è una
malattia (un’oscurità) del rapporto tra datore
di lavoro e lavoratore. Tutto intorno, nel
mondo del lavoro, c’è chiarezza, solo qui
regna l’oscurità. Resta infatti intatto il
rapporto che lega l’operaio all’altro operaio, e
anche il rapporto tra l’operaio e il destinatario
dei frutti del suo lavoro. Ci possiamo
rappresentare la questione in questi termini:
nelle vetrine dei negozi vediamo una grande
quantità di merci, di frutti del lavoro cioè,
però le nostre tasche sono vuote. Vedendo la
grande varietà di merci esposte, ci rendiamo
conto della molteplicità e della forza dei
nostri bisogni; mettendo la mano in tasca, ci
rendiamo conto del torto che ci è fatto. Le
merci sono segno del lavoro che porta frutti,
le tasche vuote invece dimostrano che la
giustizia è priva di forza. Da qui nasce la
convinzione che abbiamo diritto a un
compenso proporzionale a questi bisogni che
avvertiamo dolorosamente. Descrizioni di
ingiustizie di questo tipo sono note
principalmente dal Capitale di Marx. L’idea di
ingiustizia è presente in Marx nella forma del
concetto di pluslavoro, cioè del lavoro che
serve unicamente alla moltiplicazione della
ricchezza del datore di lavoro capitalista. Per
il pluslavoro l’operaio non riceve alcun
compenso. Leggiamo in Marx: «Il capitale non
ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte
della società possegga il monopolio dei mezzi
di produzione, il lavoratore, libero o schiavo,
UNA SCENA DEL FILM «L’UOMO DI MARMO», OPERA DEL REGISTA POLACCO ANDRZEJ WAJDA (1976)
D
omina la convinzione che nonostante
tutto l’uomo sia al di sopra del
sistema e non il sistema al di sopra
dell’uomo. Uomini buoni sarebbero in
grado di costruire un sistema buono.
Si pone allora la questione: in che
modo si possono rendere migliori gli
uomini? Si ravvisa la possibilità di
salvarsi dal male del sistema nel
cambiamento morale dell’uomo. Sebbene Marx
affermi che il cambiamento morale non porta
a nulla, gli uomini vivono nella speranza. C’è
bisogno di tanto poco per cambiare tante
cose! Nascono utopie sociali, programmi,
strategie. Il marxismo stesso ne è un esempio.
Scoppiano scioperi e rivoluzioni. Ciò porta a
cambiamenti parziali. Le tasche degli operai si
riempiono, ma passa poco tempo e le merci
rincarano, oppure compaiono articoli più di
lusso, e allora le tasche tornano a vuotarsi.
Non c’è nulla di irragionevole in questo:
l’uomo che lavora deve avere davanti a sé un
traguardo concreto che lo stimoli a produrre
uno sforzo. La distanza tra quello che si ha in
tasca e quello che si vede in giro come
ricchezza del mondo è il presupposto
fondamentale di un regolare funzionamento
di questo sistema di lavoro. La distruzione
del lavoro può assumere anche un’altra forma.
Vediamo concretamente: sono fermo davanti
a quello che si chiama comunemente un
negozio, questa volta con le tasche piene di
soldi, ma quello che vedo è il negozio vuoto.
«L’epoca moderna ha operato
la divisione del lavoro in settori,
per moltiplicarne la quantità
e migliorarne la qualità
A un certo punto avviene qualcosa
di strano: le parti cessano
di adattarsi l’una all’altra,
c’è l’orchestra ma i suoni individuali
non si amalgamano in una sinfonia
Il senso dell’opera è andato
smarrito. In tale situazione
ogni fase parziale è soltanto
spreco di energie e di materiali»
Un negozio senza merce è il segno eloquente
del fatto che il lavoro ha cessato di produrre
frutti. Ciò non significa però che il lavoro sia
scomparso del tutto. La gente si reca sul
posto di lavoro e vi svolge coscienziosamente
il proprio compito. Il suo lavoro individuale
porta frutto. Però gli effetti individuali del
lavoro non concorrono a formare un tutto.
L’epoca moderna, come è noto, ha operato la
scomposizione del lavoro in parti, per
moltiplicare in questo modo la quantità e
migliorare la qualità del lavoro. A un certo
punto avviene qualcosa di strano: le parti
cessano di adattarsi l’una all’altra, ci sono i
frammenti, ma non c’è unità, c’è un’orchestra,
ma i suoni individuali non si amalgamano a
formare una sinfonia. Che cosa è successo? Si
è avuta una disgregazione della struttura
fondamentale del lavoro, il senso del lavoro è
andato smarrito. In tale situazione ogni
lavoro parziale è soltanto uno spreco di
energie e di materiali. La ruota costruita in
una fabbrica non si adatta all’asse costruito
in un’altra fabbrica. I macchinari promessi
per la fabbrica in costruzione arrivano sì alla
data stabilita, ma la costruzione non è ancora
terminata, e allora le macchine restano ad
arrugginirsi alla pioggia e sotto la neve. Ogni
GIOVANNI
LINDO
FERRETTI
DAL
CRINALE
SANTA LUCIA,
NOTTE MISTERIOSA
CHE RICAPITOLA
LE GIOIE E I DOLORI
U
lavoro che esiga la collaborazione di più
persone e un ritmo che deve essere
assolutamente rispettato, si ammala.
Resistono solo i lavori semplici, antichi,
primitivi. Il progredire della malattia del
lavoro si manifesta in questo convincimento,
che lavoriamo al buio, senza un senso.
Ancora una volta si pone la domanda: di chi è
la colpa? La risposta adesso non è così
semplice come prima. Prima i sospettati
erano noti, avevano un nome e un cognome,
a volte dei marchi di fabbrica. Qui il soggetto
della responsabilità è invece un grande
pseudonimo. Là era possibile segnare a dito,
qui resta solamente il sospetto. Là la colpa
assumeva il carattere di una colpa morale, qui
alle colpe strettamente morali si è aggiunto
un difetto mentale. Là la modalità della
riflessione sul lavoro era l’accusa mossa ai
colpevoli, qui è una sospettosità diffusa.
Questo è il segno che ci muoviamo nel buio.
Si può parlare ancora, in questo caso, di
sfruttamento? Se sì, in ogni caso non nel
senso in cui ne parlavamo prima. Infatti qui è
stato violato non tanto il principio della
giustizia, quanto la verità della convivenza
tra gli uomini. Sappiamo bene che negli
ultimi decenni si è verificato un enorme
progresso del lavoro, consistente nel fatto
che nel lavoro è diminuito il peso della fatica
fisica ed è cresciuto quello mentale, o meglio
è cresciuta l’importanza dell’informazione. Il
corretto funzionamento dei sistemi di lavoro
richiede il corretto funzionamento dei sistemi
informativi e della buona organizzazione del
lavoro che su di essi si basa. Tutte le volte
che l’informazione si è interrotta, si è
spezzata anche l’organizzazione e il lavoro è
andato in crisi.
deve aggiungere al tempo di lavoro necessario
al suo sostentamento tempo di lavoro
eccedente per produrre i mezzi di
sostentamento per il possessore dei mezzi di
produzione». Nell’antichità, però, l’aspirazione
ad aumentare il pluslavoro non aveva toni
così estremi (a parte situazioni eccezionali)
come nell’epoca moderna. Continuiamo a
leggere: «Però, appena popoli la cui
produzione si muove nelle forme inferiori del
lavoro degli schiavi, della corvée ecc.,
vengono attratti in un mercato internazionale
dominato dal modo di produzione
capitalistico, il quale fa evolvere a interesse
preponderante la vendita dei loro prodotti
all’estero, allora sull’orrore barbarico della
schiavitù, della servitù della gleba ecc. si
innesta l’orrore civilizzato del sovraccarico di
lavoro. Perciò, negli Stati meridionali
dell’Unione americana, il lavoro dei negri
conservò un carattere patriarcale moderato,
finché la produzione fu prevalentemente
orientata sui bisogni locali immediati. Ma,
nella stessa misura in cui l’esportazione del
cotone divenne interesse vitale di quegli
Stati, il sovraccarico di lavoro del negro, e
qua e là il consumo della sua vita in sette
anni di lavoro, divenne fattore d’un sistema
calcolato e calcolatore. Non si trattava più di
trarre dal negro una certa massa di prodotti
utili. Ormai si trattava della produzione del
plusvalore stesso». Nell’immagine etica di
questo mondo l’oscurità è mescolata alla
chiarezza. Un certo grado di ingiustizia qui è
inerente al sistema. Tuttavia è chiaro che il
lavoro porta frutti. L’oscurità si manifesta là
dove ci sono degli uomini: datori di lavoro e
lavoratori. Il male non compare come errore
delle regole del gioco, perché il gioco corre,
ma assume forma umana. E allora per gli uni
sarà l’ingordo capitalista che cerca il massimo
profitto, per gli altri sarà l’operaio sfaticato
che dà troppo poco e chiede troppo. Tutto
porta a concludere che la colpa non è del
sistema, ma degli uomini.
di
DOMENICA
18 DICEMBRE 2011
N
on è stata una crisi delle sue
energie, ma una crisi del suo senso.
Il lavoro si è trasformato in un
balbettio sconnesso dal quale è
fuggita via la grammatica. C’è
ancora posto, qui, per una
speranza? Sembra a volte che forse
sia il caso di far ritorno al lavoro
primitivo, il quale non ha bisogno
di informazioni e organizzazioni così
complesse: ritornare alle falci, ai deschetti da
ciabattino, all’incudine del fabbro ferraio. Ma
la cosa è veramente possibile? Anche il lavoro
primitivo aveva un proprio mondo entro il
quale veniva praticato, e questo ambiente era
un elemento specifico di esso. Oggi questo
mondo non c’è più. C’è ancora, qua e là,
qualche ciabattino, ma non c’è più chi fa lo
spago da calzolaio e i chiodi per scarpe.
L’uscita da questa crisi deve dunque essere
un’altra. Occorre fare un salto verso l’alto e
non verso il basso. Infatti dal balbettio al
discorso di parole non si giunge attraverso la
quantità, ma attraverso la qualità: non è
sufficiente moltiplicare le parole, occorre
trovare un livello diverso. Questo può essere
fatto soltanto compiendo un lavoro sul
lavoro. Il compito fondamentale del lavoro è
la riflessione sulla storia in atto del lavoro, la
valutazione della situazione del lavoro nello
stadio di sviluppo nel quale esso oggi si trova
[...]. Siamo invischiati giorno dopo giorno in
un lavoro stravolto, in un balbettio senza
grammatica, passiamo da un incontro all’altro
col nonsenso. E che cosa udiamo all’orecchio?
Quale ideale di lavoro sul lavoro? Udiamo il
linguaggio dell’assurdo. Ogni minatore e ogni
operaio dei cantieri lo sa: l’assurdo è che le
ragioni politiche sono al tempo stesso ragioni
etiche, e infatti contro questa identificazione
protesta ogni monumento innalzato negli
ultimi tempi alle vittime delle repressioni
antioperaie. Lo sa ogni operaio, ogni
contadino: l’assurdo è che la colpa più grande
dell’uomo sia la colpa dell’individualità,
perché le grandi individualità sono non
soltanto santuari dell’umanità, ma anche
autori del nostro progresso del lavoro.
L’assurdo è la presunzione che il ritmo
comune del lavoro salvi il nostro lavoro,
poiché la sua malattia non è la mancanza di
forza, ma di senso. L’assurdo è che il lavoro di
per se stesso umanizzi l’uomo, poiché la
verità è che il lavoro senza senso disumanizza
l’uomo. L’assurdo è che ciò che è più umano
sia fuori dall’uomo, perché la verità è che la
più umana delle cose umane si trova
nell’uomo ed è l’onestà umana. L’assurdo è
anche che si possa trasformare il campo del
lavoro in un sanatorio del lavoro. All’origine
dell’assurdo sta la tesi che il lavoro non sia
altro che lotta. No, mai nessuno sarà capace
di costruire l’ethos del lavoro sull’ethos della
lotta. Eppure questo è il linguaggio che
sentiamo parlare sopra le nostre teste. Ecco
dunque qual è il nostro paesaggio oggi: dal
basso il nonsenso, dall’alto l’assurdo.
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n cielo turchese, una spruzzata di neve
sulle cime come la manciata di farina che
si sparge sulle montagne, sagomate in
carta, del presepe. In un giorno così mia
madre, già vecchia, cominciò a parlare con parole
mai dette; posso visualizzarle: «Di tutti noi sei
l’unico a non avere conosciuto tuo padre, non ti
ha mai abbracciato e non hai mai sentito il suo
calore, non ti ha mai sollevato da terra ridendo,
non ha potuto insegnarti niente di ciò che è
importante. Pensavo che avrei dovuto fare io
alcune cose che lui avrebbe fatto per te ma mi
prendeva la disperazione, mi seccava il cuore in
petto, non riuscivo. Mi dispiace tanto». Lacrime
ormai pacificate le solcavano lente il viso, io
trattenevo il respiro. Il tempo del suo dolore
volgeva al termine, prosciugato dagli anni; con
la malattia avrebbe riacquistato occhi limpidi, da
bimba, serena e inconsapevole; avremmo
imparato a ridere insieme, lei con una tonalità
cristallina che non credevo possedesse, per
quello che io conoscevo le si addiceva il rigore,
la tristezza, il senso del dovere. «Per tuo padre la
notte di santa Lucia era festa grande, faceva in
modo di finire il lavoro in anticipo e con tuo
fratello, da che aveva cominciato a camminare,
erano impegnati in mille faccende: spazzavano
l’aia, spargevano paglia pulita, preparavano il
fieno e un pugno di biada, un secchio d’acqua.
Misteriosi e indaffarati addobbavano una finestra
con un lume, un tavolino con qualcosa da
mangiare, discutevano e modificavano la
sistemazione fino ad essere soddisfatti del loro
lavoro. Guardavo tuo
guardavo tuo
Allora viaggiatori fratello,
padre e vedevo la mia
importanti
gioia; c’eravamo
da ragazzi,
passavano verso piaciuti
fidanzati in segreto,
Betlemme dove, avevamo attraversato
la guerra tra paure e
s’avvicina
pericoli, lui al fronte
il tempo, nasce
in Albania, Grecia, in
il Salvatore.
Russia, ma la speranza
non ci ha mai
È mancanza
abbandonati: ci
di ragione e
saremmo sposati
d’immaginazione appena possibile.
Troppo poco insieme
non percepire,
ma siamo stati tanto
nella realtà dei
bene. Io con tuo padre
sono stata davvero
fatti, il mistero
felice». Per un attimo
della vita
abbiamo incrociato lo
sguardo ed io l’ho
ed è ben triste,
abbassato, per
prima ancora
riguardo. «Viaggiatori
che arrogante,
importanti passano
durante la notte di
trascorrerla
santa Lucia in viaggio
tra ansie
verso Betlemme dove,
s’avvicina il tempo,
da prevenzione
nasce il Salvatore del
e verifiche di
mondo. Tuo padre
piccoli tornaconti s’alzava nella notte,
quando anch’io
dormivo, e sistemava i
segni del loro passaggio: sulla tovaglia le briciole
e un boccone di pane, la buccia di una mela,
qualche crosta di formaggio; il fieno sparito, la
paglia sporca, il secchio vuoto. C’era un regalo
per tuo fratello di cui neanche io sapevo, così la
mia sorpresa si rispecchiava nella sua. Eravamo
felici, ogni giorno. La disgrazia ci ha travolti e
abbiamo rischiato di perderci ma adesso essere
qui, nella nostra casa, vederti uomo, indaffarato
e misterioso preparare il presepe, mi allarga il
cuore, mi fa rendere grazie per ciò che abbiamo
avuto. Gioia e dolore». Come in una partitura
musicale vibravano silenzi e accenti; echi di
pianto, bagliori di luce e di forza. È mancanza di
ragione e di immaginazione non percepire, nella
realtà degli accadimenti, il mistero della vita e
ben triste, prima ancora che arrogante,
trascorrerla tra ansie da prevenzione e verifiche
di tornaconti comunque spiccioli. L’immagine di
una madre con il figlio al seno, già segno di una
croce, è il cuore di ogni mistero che origina e
circonda l’uomo. Infiniti racconti lo illuminano a
tratti, uno dà senso al mio mondo, lo racchiude
aprendolo all’Eterno: «Al tempo di Erode, re della
Giudea, c’era un sacerdote di nome
Zaccaria, della classe di Abia, e
aveva in moglie…». Tra il caos
e il caso, suo anagramma, un
avvenimento áncora uomini e
donne, comunque figli, e i
loro figli generazione su
generazione, alla verità
che, sola, rende
liberi:
l’Incarnazione.
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