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RASSEGNA STAMPA Lunedì 1 settembre 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE ESTERI Del 01/09/2014, pag. 15 Dopo 73 giorni, peshmerga e soldati di Bagdad sfondano le linee dello Stato Islamico ed entrano in città Raid Usa decisivi, ma si continua a sparare. Si prepara il ponte umanitario per soccorrere migliaia di civili Amerli è libera, rotto l’assedio dell’Is PIETRO DEL RE I PESHMERGA sono entrati per primi, guardinghi, con i mitra spianati. Poi, sempre dal settore orientale sono arrivati i soldati iracheni e le milizie sciite. E’ finito così l’incubo di Amerli, cittadina di 20mila abitanti, 160 chilometri a nord di Bagdad, stretta dal 18 giugno scorso nel soffocante assedio degli squadroni dello Stato islamico. Ieri mattina, dopo 73 giorni vissuti nel terrore di finire in mano jihadista, l’accerchiamento di questa popolazione doppiamente “apostata”, perché turcomanna e perché sciita, è stato finalmente infranto. Appena ci saranno le condizioni per creare un corridoio umanitario, si spera nelle prossime ore, migliaia di bambini, donne e malati, che da settimane vivono con pochi viveri e pochissime medicine, saranno evacuati verso Erbil e Kirkuk. A rompere l’accerchiamento è stata un’operazione militare lanciata dagli uomini dell’esercito federale iracheno assieme ai combattenti curdi e alle milizie sciite, generosamente spalleggiati dai caccia iracheni e statunitensi. E’ quindi bastata la volontà di Washington e la concertazione tra eserciti locali per mettere fine a una tragedia che stava per trasformarsi in un ennesimo eccidio islamista. Ma sul terreno la situazione è ancora molto precaria, perché i fondamentalisti sono ancora accampati in alcuni settori della città, soltanto a pochi chilometri dal centro, e si continua a sparare. In queste settimane, armati dei loro vecchi kalashnikov o di arrugginite doppiette, gli uomini di Amerli hanno strenuamente difeso la loro città. Le poche volte che gli elicotteri iracheni lasciavano cadere viveri, loro inveivano alzando i pugni al cielo, perché al posto di taniche d’acqua e di razioni alimentari avrebbero preferito ricevere lanciarazzi e fucili di precisione. Chissà quanti di questi combattenti improvvisati sono eroicamente caduti sotto il piombo delle armi più sofisticate e potenti dei jihadisti. Da dieci giorni, stufo di tanta resistenza, soprattutto dopo l’inarrestabile avanzata nel nord dell’Iraq dello scorso giugno, lo Stato islamico aveva deciso di inviare alle porte di Amerli postazioni di mortaio. E da allora la cittadina e le sue barricate sono state pesantemente colpite dai loro colpi. L’intervento su Amerli è anche una vittoria per Marzio Babille, triestino, 62 anni, rappresentante Unicef in Iraq, che per primo, due settimane fa proprio su Repubblica, ha denunciato l’agonia dei turcomanni sciiti. Dice adesso Babille, che da giorni è in stretto contatto con il sindaco della città, Shalal Abdul, e con il capo delle milizie locali: «Al momento, nessun abitante di Amerli ha ancora potuto lasciare la città. Ma noi siamo pronti a intervenire massicciamente per evacuare 3500 bambini, appena vi saranno le condizioni di sicurezza necessarie a farlo. Abbiamo approntato il nostro piano da tempo, e ora aspettiamo solo di poter intervenire. Date le circostanze, il momento dovrebbe essere molto vicino». Sabato scorso, quando s’è messa in moto la macchina degli interventi militari e umanitari, Stati Uniti, Australia, Francia e Gran Bretagna hanno paracaduto circa 40mila litri d’acqua e 7mila pasti. In quel momento, le truppe di terra 2 cominciavano la loro avanzata verso Amerli, prima con la riconquista di una ventina di villaggi, poi con l’ingresso in città, dove i soldati di questa inedita alleanza sono stati acclamati come liberatori. Adesso sono tutti alla ricerca di mine anti-uomo disseminate dagli islamisti in fuga, ma per i soldati di Bagdad questa operazione segna il più grande successo militare dal momento in cui è partita l’offensiva dello Stato islamico. Del 01/09/2014, pag. 10 L’ambasciata americana di Tripoli occupata dalle milizie islamiche Era vuota da un mese. In un video i militanti in palestra e in piscina WASHINGTON — Tutti guardano, giustamente, all’Isis ma c’è un altro incendio, ancora più vicino, che non va sottovalutato. Quello che arde in Libia e si estende con nuovi fronti. Una milizia islamista ha annunciato di aver occupato, «da una settimana», l’ambasciata Usa a Tripoli. La sede diplomatica, evacuata il 26 luglio in seguito al conflitto civile, è ora in mano a militanti di «Alba di Libia», gruppo proveniente da Misurata. Uno dei dirigenti, Mussa Abu Zakia, ha spiegato la mossa come un tentativo di rendere «sicura» la rappresentanza ed ha anche aggiunto che i suoi uomini rispetteranno quanto c’è all’interno. Infatti, a parte qualche danno minore sembra che i miliziani non si siano abbandonati ai saccheggi. Però hanno trovato il modo di fare ginnastica in palestra e un bagno nella piscina, tra tuffi e risate documentati da un video. L’occupazione è un ulteriore schiaffo agli Stati Uniti che hanno dovuto assistere, nel settembre 2012, all’assalto al loro consolato di Bengasi e all’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens, insieme ad altri tre funzionari. Un attentato che ha poi condizionato la strategia successiva di Washington. Gli Usa hanno prima rafforzato le difese del compound diplomatico, poi hanno schierato unità speciali a Sigonella (Sicilia) nel caso fosse necessario un intervento di emergenza, quindi hanno monitorato la situazione sperando che migliorasse. Invece tutto è peggiorato e alla fine di luglio il personale dell’ambasciata, scortato dai marines, ha lasciato la Libia via terra. Gli osservatori non escludono che l’attacco sia legato alle tensioni affiorate tra gli islamisti dopo la conquista della capitale. I guerriglieri, che rispondono agli ordini di Shaaban Hadie, noto come Abu Obeida Al Libi, vorrebbero usare l’occupazione come forma di ricatto nei confronti di quei membri della Fratellanza Musulmana, che dopo le prese di posizioni internazionali a favore del Parlamento eletto io 25 giugno sembrano inclini ad un compromesso. Contrasti che hanno portato altri guai in un quadro instabile quanto violento con implicazioni regionali. I militanti di Misurata sono sostenuti dal Qatar, grande finanziatore della Fratellanza, e anche dalla Turchia. Due paesi che hanno forti responsabilità in quanto è avvenuto dopo la cacciata di Gheddafi, anche se si atteggiano a pompieri. Un ruolo che ha provocato la risposta di un altro Paese arabo, piccolo ma con grandi disponibilità finanziarie: gli Emirati. Lo stato del Golfo, rivale del Qatar e della Fratellanza, è entrato nella mischia mandando i suoi caccia a bombardare le linee islamiste attorno a Tripoli, un supporto diretto al filo-occidentale generale Haftar. Azione organizzata, tra le smentite, con l’aiuto dell’Egitto. Secondo una ricostruzione i jet avrebbero usato la base di Siwa, non lontana dal confine con la Libia. L’intervento è stato seguito da una seconda operazione, non meno interessata. Diversi cittadini libici sono stati arrestati dai servizi di sicurezza nell’Emirato. Le autorità li hanno accusati di aver riciclato ingenti somme di 3 denaro e di aver acquistato armamenti poi spediti alle milizie. Un’attività illegale che i sospettati avrebbero condotto con l’aiuto del Qatar. Dei sei arrestati cinque vengono da Misurata, personaggi che sembra fossero presenti da molto tempo negli Emirati. Guido Olimpio Del 01/09/2014, pag. 13 Fra le macerie di Gaza una ricostruzione da 5 miliardi La vita riprende fra case e negozi distrutti. Ma mancano i grandi donatori MAURIZIO MOLINARI INVIATO A GAZA Nel centro di Gaza City i vestiti da sposa sono tornati nelle vetrine, i soldati di Hamas in divisa verde hanno ripreso a sorvegliare gli incroci e il traffico di camion di beni alimentari in entrata dal valico di Keren Shalom suggerisce che il cessate il fuoco sta mantenendo la promessa sugli aiuti umanitari.Ma a 6 giorni dall’interruzione del conflitto con Israele il nodo più difficile da sciogliere è la ricostruzione. Per avere idea di cosa si tratta bisogna entrare in ciò che resta del Centro commerciale di Rafah, un grande magazzino che ospitava 50 negozi ed è in macerie. È qui che, ogni giorno all’ora del pranzo, si ritrovano i titolari dei negozi distrutti per discutere dell’incerto futuro. «I funzionari del municipio sono venuti - dice Ahmedan Abu Thara, 70 anni - e ci hanno spiegato che la ricostruzione prenderà cinque anni, ma in questo periodo le nostre 225 famiglie come vivranno?». L’interrogativo solleva brusii e malumori. C’è chi impreca contro «gli israeliani che hanno raso al suolo mezza Rafah» e chi se la prende con Hamas «perché qui nessuno fa la resistenza ma abbiamo pagato il prezzo più alto». A tentare di mettere ordine nella vivace discussione è Reduan Attuan, 60 anni, «ci risolleveremo solo con gli aiuti del mondo esterno, siamo pronti a riceverne da tutti, anche da ebrei o americani, ma sappiamo che i più efficienti sono gli europei». Fra i presenti c’è Ahmed Almugheri, 22 anni, che aggiunge: «Mio padre dice che gli europei sono meglio degli arabi quando si tratta di aiuti». Ma la conferenza sugli aiuti internazionali a Gaza, che Egitto e Norvegia co-presiederanno in settembre, è tutta in salita per le difficoltà economiche in cui versa l’Ue. «Questa volta non potremo essere noi a garantire gran parte dei finanziamenti» afferma un alto diplomatico europeo a Tel Aviv e la conferma arriva da fonti vicine al team del Segretario di Stato John Kerry impegnato a sondare i donatori: gli Usa daranno un «contributo significativo» ma le attese maggiori riguardano Turchia, Qatar e Arabia Saudita. D’altra parte Ankara è la capitale che nei primi giorni del post-conflitto ha fatto arrivare all’aeroporto Ben Gurion più aiuti umanitari per la Striscia e le controprove sono visibile: dalle piccole bandiere turche sulle moschee di Bayt Lahiya alle scritte in turco su autoambulanze e pacchi di farina. L’incertezza su chi fornirà gli aiuti si accompagna alle dimensioni di una ricostruzione «senza precedenti anche in una zona abituata a guerre e distruzioni come questa» assicura Nabil Abu Muaileq, presidente della «Palestinian Contractor Union» che riunisce i costruttori della Striscia. Abu Muaileq è nella sede dell’Undp - il Programma di sviluppo dell’Onu - per discutere «da dove iniziare a ricostruire» assieme a inviati del Palazzo di Vetro, di Hamas e di Abu Mazen, e leader locali. «Ci troviamo davanti ad un compito immane - spiega - perché gli edifici distrutti sono 9000, quelli molto danneggiati 8000 e 4 quelli che hanno bisogno solo di riparazioni 43000, sono danni superiori a quelli subiti nei conflitti del 2008 e del 2012» e per ricostruire «servono almeno 5 milioni di tonnellate di materiale» per un valore di circa «5 o 6 miliardi di dollari». Le stime dell’Ufficio coordinamento umanitario dell’Onu (Ocha) ritengono che potrebbero bastare in realtà 600 milioni di dollari ma la valutazione dei danni agli edifici è molto simile a quella del ministero dell’Edilizia palestinese. Fra Onu a palestinesi c’è disaccordo sull’entità degli aiuti, non sulla vastità della ricostruzione. Durante la riunione nella sede dell’Unpd si discute in libertà sul ruolo di Turchia e Qatar «legati ad Hamas» e dell’Arabia Saudita «che ha promesso ad Abu Mazen 500 milioni di dollari» arrivando ad ipotizzare un «equilibrio politico fra chi darà quanto» ma la maggiore preoccupazione, spiega Abu Muaileq, è «creare un sistema efficace per far arrivare gli aiuti a destinazione». L’ipotesi è affidare i fondi raccolti al Cairo a tre gestori: Unpd, Unrwa (l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) e Autorità nazionale palestinese. Ma basta evocare il ruolo di Abu Mazen per innescare ironie e malumori. «Durante 51 giorni di guerra non si è mai rivolto alla nostra gente - dice un rappresentante di Khan Younis - ma ora vuole arrivare e gestire tutti i soldi che ci daranno, un presidente si comporta così?». L’altro interrogativo riguarda Israele. «Il mondo ci può anche coprire di dollari ma se Israele non aprirà i varchi alle merci la ricostruzione non decollerà» osserva Abu Muaileq, secondo il quale «mentre Israele vuole accatastare i materiali edili sul suo territorio e poi, progressivamente, farceli arrivare assai meglio sarebbe tenerli tutti nella Striscia, sotto il controllo di Abu Mazen, per poi affidare all’Autorità palestinese le decisioni su cosa usare, quando e come». Dimensioni dei danni, carenza dei fondi, tensioni inter-palestinesi e il conflitto con Israele suggeriscono un cammino a ostacoli per la ricostruzione. «Se tutto funzionasse alla perfezione, e da subito, ci servirebbero 3 anni di tempo per far tornare Gaza allo scorso 8 luglio - conclude il capo dei contractors palestinesi - ma poiché non sarà così, potrebbero non bastare 30 anni». Ecco perché dentro le rovine del centro commerciale di Rafah Muhammed Abu Taha, 22 anni, commenta: «Mi sono appena sposato, non posso aspettare una vita per riaprire il negozio distrutto, se l’Europa non ci aiuta, affonderemo tutti». Del 01/09/2014, pag. 2 Il Cremlino all’Ucraina: «Subito trattative sullo status dell’Est» E zar Vladimir evoca un nuova «statalità» MOSCA — Un concetto espresso male o, forse, una frase buttata lì per far capire all’Europa e all’Ucraina che la Russia potrebbe anche alzare la posta. In una intervista televisiva, Vladimir Putin ha sostenuto la necessità a questo punto che si aprano trattative vere per parlare anche della «statalità del Sud Est dell’Ucraina». E tutti hanno subito pensato che il presidente russo avesse aperto la questione della creazione di uno Stato indipendente, staccato da Kiev, comprendente le regioni di Donetsk e Lugansk e, magari, quella fascia di territorio lungo la costa del Mar d’Azov che i ribelli stanno conquistando e che potrebbe unire la Russia alla Crimea. Ma non era così, si è affrettato a precisare Dmitrij Peskov, attento portavoce di Putin. Per Mosca, questa zona che i ribelli oramai chiamano Novorossiya (nuova Russia) con un termine zarista rilanciato dallo stesso Putin, deve continuare a far parte dell’Ucraina. 5 E allora? Il problema è che il Cremlino vuole che inizino negoziati diretti tra il governo centrale e i ribelli, cosa che Kiev ha sempre rifiutato, per arrivare a uno Stato federale. Ora che i filorussi sono all’offensiva, è venuto il momento di risolvere le cose con i negoziati, visto che militarmente la rivolta di queste regioni non può più essere domata. Anzi. Sul terreno la situazione per le forze regolari si sta facendo disastrosa dopo che i ribelli hanno ricevuto uomini e mezzi passati attraverso la frontiera. È per lo meno molto probabile che si tratti di aiuti russi diretti (la Nato parla di ben più di mille uomini con tank e blindati), ma oramai non è più questo il punto. Nel settore di Lugansk i governativi hanno dovuto abbandonare un importante centro riaprendo il collegamento con i valichi di frontiera (da dove possono arrivare nuovi aiuti). Hanno subìto ingenti perdite e sono quasi in rotta. A Donetsk i filorussi si apprestano a riconquistare l’aeroporto, anche se la battaglia sarà durissima. Nel sud, lungo la costa, è atteso da un momento all’altro l’attacco a Mariupol; dopodiché la via per la Crimea sarà aperta. Kiev spera nell’assistenza militare europea ma è chiaro che l’idea di vincere sul terreno è del tutto velleitaria. Oggi c’è in Bielorussia una riunione del gruppo di contatto, del quale fanno parte anche i ribelli, ma il presidente Petro Poroshenko non vuole discutere con loro. Il suo piano di pace prevede che depongano le armi e poi inizino a trattare una qualche autonomia. Posizione non più difendibile, almeno secondo Mosca. Kiev, dice Putin, deve discutere direttamente con i capi di Novorossiya. «E non su questioni tecniche, ma sull’organizzazione politica della società e sulla statalità del Sud Est dell’Ucraina». Putin da sempre spinge per uno stato federale, con larga autonomia per queste regioni. Ipotesi che ora trova consensi anche in Europa, dove sabato si è solo deciso di preparare entro una settimana un pacchetto di nuove sanzioni (ma non di attuarle). Ci sono paesi che si oppongono, come la Slovacchia, e altri che vogliono l’esclusione dei propri contratti militari (la Francia). Per molti (Italia in testa, visto che dipende fortemente da Russia e Libia) c’è la questione del gas che in inverno sarà essenziale. Kiev sta riempiendo i depositi e quindi se Gazprom continuerà a immettere metano, questo arriverà anche in Europa. Ma Russia e Ucraina non riescono a risolvere la disputa sul prezzo e sugli arretrati e se a monte il gas diretto all’Ucraina verrà fermato, allora il flusso diretto a noi sarà fortemente ridotto, come è avvenuto in passato. Fabrizio Dragosei Del 01/09/2014, pag. 9 Le prime mosse della nuova lady Pesc, tra crisi Ucraina, flessibilità e sfide familiari “Putin si sta allontanando dagli impegni presi, ma per Kiev la soluzione è politica, sanzioni comprese, non militare” “Ora mi farò sentire anche sui conti vorrei la famiglia con me a Bruxelles” Federica Mogherini LAVINIA RIVARA È stata dura, ma ieri mattina la rivincita di Federica Mogherini era lì, stampata nero su bianco sui giornali tedeschi. “Fresch approach”, la sua è “freschezza, non inesperienza” scriveva la Sueddeutsche Zeitung. Per lo Spiegel la nuova lady Pesc e il neo presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, sono addirittura “la coppia più bella del mondo”. Lei mantiene l’ormai proverbiale aplomb: «È 6 normale che sulla stampa escano articoli più favorevoli, altri meno. È il gioco democratico». Ma ci tiene a smentire le voci che hanno raccontato la sua nomina come una delle più contrastate: «Quello che conta è che non ho mai sentito venir meno il sostegno del governo tedesco alla mia candidatura, da Steinmeier alla Merkel. De resto con loro in questi mesi abbiamo sempre lavorato in sintonia». E se sabato al momento dell’incarico ufficiale si è commossa, lo scossone emotivo non le ha impedito di passare una notte tranquilla nel suo hotel di Bruxelles. «Ho dormito benissimo » racconta. Poi, la mattina dopo, «l’abbraccio collettivo» con un gruppo di italiani che erano nel suo stesso albergo: «Le foto insieme, gli applausi. Non sempre la politica suscita reazioni entusiaste e sincere come quelle. C’era affetto e stima vera». Ne è convinta, così come le hanno fatto piacere le centinaia di messaggi arrivati dalla diplomazia di tutto il mondo, a partire dal dipartimento di Stato americano. E D’Alema? No, l’ex premier, che probabilmente ambiva ad una carica nell’Unione, non l’ha chiamata. Via twitter invece sono arrivati gli auguri di Enrico Letta, altro ex presidente del Consiglio italiano dato come suo possibile concorrente. Acqua passata per lei, come le critiche sulla sua inesperienza e le accuse di una politica troppo filo Putin piovute dai Paesi dell’Est europeo. Federica è fatta così, dicono dal suo staff, serena di natura, impermeabile alle polemiche, cui non risponde e che contrasta con i tanti attestati di stima ricevuti per la sua preparazione, sia in Europa sia negli Usa, dove coltiva, non da oggi, stretti rapporti con l’amministrazione Obama. Ma nessuno le farà sconti quando dovrà affrontare come Alto rappresentante i conflitti internazionali che scuotono il mondo dall’Ucraina al Medio Oriente, o la difficile trattativa europea sulla flessibilità innescata da Italia e Francia. Ma valeva la pena? Per molti la carica di lady Pesc è tutta apparenza e poca sostanza, in assenza di una politica estera comune dell’Europa. All’Italia non conveniva di più puntare su altri ruoli, come quello di commissario agli Affari economici? Mogherini non la pensa così e assicura che intende dire la sua anche sui temi spinosi della finanza. «La politica estera è centrale nella maggior parte dei dossier, anche economici. E l’Alto rappresentante è anche primo vice presidente della Commissione. Una carica che comporta molte responsabilità in molti settori. E che — scandisce — intendo esercitare pienamente». Anche a costo di trasferire tutta la famiglia a Bruxelles, come sta valutando di fare. Se infatti in questi sei mesi alla Farnesina è riuscita a tenere insieme gli impegni da ministro degli Esteri e quelli che comportano due bambine piccole ora, con la nuova impegnativa carica e una sede all’estero, le cose si complicano. «È difficile, come per tutte le donne» ammette. Ma aggiunge subito: «E credo anche per moltissimi uomini». Suo marito, Matteo Rebesani, è uno che ha scelto di sostenerla e dedicarsi quasi a tempo pieno alla famiglia. Ma adesso potrebbe non bastare più e un trasloco in Belgio è una ipotesi allo studio. Intanto a Bruxelles un primo sopralluogo Mogherini lo ha già fatto. Nella sua prima giornata da lady Pesc designata ha trascorso la mattinata nella nuova struttura che dovrà guidare. Quasi un passaggio di consegne. Due ore di colloquio con l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, l’uscente Catherine Ashton, nei suoi uffici della capitale belga. La baronessa britannica, che aveva già incontrato a Milano poche ore prima della nomina, le ha presentato il suo staff e illustrato l’organizzazione dei rapporti con la Commissione e con il Parlamento europeo. Dove peraltro Mogherini esordirà domani con una audizione presso la commissione Esteri, fissata per discutere del semestre di presidenza italiano. Il secondo impegno della giornata è stata una riunione in Moldavia del gruppo di azione europea della Repubblica di Moldova. C’erano praticamente tutti i ministri degli esteri dei Paesi anti-russi dell’est europeo, dai polacchi agli estoni fino ai lituani. La Mogherini ha voluto esserci, mantenere l’impegno, magari per smentire quella presunta linea filo- russa che le era stata imputata e che ha condotto proprio la presidente lituana Dalia Grybauskaite a votarle contro nel vertice di lunedì. Cerca forse di scrollarsi di dosso 7 quei sospetti? Lei dice di no. «Ho davanti 5 anni e il mio lavoro non è confermare o smentire giudizi. È affrontare le crisi che ci sono e sono tante. E costruire un Europa capace di rispondere alla crisi economica e occupazionale». Ma il miglior banco di prova per smontare quelle accuse sarà la delicatissima crisi Ucraina. La linea della nuova lady Pesc è prudente, come quella della Germania. Però un monito al presidente russo non manca. «L’escalation di queste ore in Ucraina segna una distanza con gli impegni presi, anche da Putin ». E tuttavia le spinte di Cameron per la creazione di una forza militare europea non trovano sostegni in Mogherini. «La soluzione può essere solo politica e diplomatica, comprese le sanzioni alla Russia, ma non militare». Del 01/09/2014, pag. 8 Schulz e le altre cariche “Poche 4 donne su 28 l’europarlamento dirà no” ANDREA BONANNI BRUXELLES Presidente Schulz, l’Europa ha scelto le ultime due poltrone ai vertici delle istituzioni comunitarie. Non è stata una decisione facile. Secondo lei l’immagine dell’Unione esce rafforzata o indebolita dopo le nomine approvate dal Consiglio europeo di sabato alla fine di un così lungo braccio di ferro? «Decisamente rafforzata. Il premier Tusk e il ministro Mogherini sono due politici di altissimo livello. Tusk è un primo ministro in carica di un grande paese, la Polonia, che accetta di lasciare quel ruolo per presiedere il Consiglio europeo. Federica Mogherini è un ministro degli affari esteri di un paese membro del G7. Difficile trovare candidati di maggior peso». Sarà. Però rimane l’impressione di un mercanteggiamento, di un metodo Cencelli europeo, in cui colori politici, interessi, uguaglianza di genere e equilibrio geografico dovevano essere preservati. Le sembra bello? «In un’Unione basata sulla solidarietà è non soltanto normale, ma anche giusto tentare di trovare un equilibrio politico, geografico e di genere nella europea. Le istituzioni devono essere rappresentative dell’Unione europea nel suo insieme. La sfida per la Presidenza della Commissione ha dimostrato quale sia il percorso da perseguire per una vera competizione politica europea in un ambito sopranazionale. L’elezione del Presidente del Consiglio europeo e la nomina dell’Alto rappresentate si iscrivono invece ancora nell’ambito intergovernativo. In quest’ottica è normale assistere a negoziati complessi». Però questa unità è stata sofferta. Come rispondere alle numerose critiche contro Federica Mogherini, accusata di essere filorussa e priva d’esperienza? «Mi sembrano critiche pretestuose e prive di fondamento. Federica Mogherini ha un curriculum di primissimo livello. Il fatto che sia riuscita ad arrivare così in alto così giovane è una prova delle sue qualità: è un merito, non un difetto. Anche le critiche sulle relazioni con la Russia sono fuorvianti. Come ha spiegato lei stessa in conferenza stampa: il suo primo viaggio all’estero come ministro degli Esteri italiano è stato a Kiev. L’incontro con Putin tanto criticato è stato un tentativo di negoziato, concertato con Catherine Ashton. Cercare il dialogo non vuol dire non riconoscere le responsabilità russe nel conflitto ucraino, ma semplicemente perseguire la de-escalation del conflitto. Era un tentativo che andava fatto, anche se Putin si è dimostrato sordo a ogni mediazione». 8 Si dice che, dopo lo stallo al Consiglio europeo di luglio, la Mogherini sia stata nominata solo perché Tusk, popolare e polacco, è stato scelto come presidente del Consiglio europeo per tacitare i Paesi dell’Est. Non le sembra un prezzo da pagare troppo alto per voi socialisti e non le sembra che ora la leadership europea sia squilibrata? «La candidatura di Mogherini era molto solida indipendentemente dalla scelta del Presidente del Consiglio europeo. I popolari hanno un numero di seggi solo leggermente più alto dei socialisti. Questo equilibrio dev’essere rispecchiato nella leadership europea, ma sarà soprattutto l’equilibrio politico all’interno della Commissione a determinare o meno il voto positivo del Parlamento europeo». A proposito di Commissione, lei ha denunciato il rischio di avere una collegio con poche donne, spiegando che potrebbe essere bocciato dal Parlamento in nome della parità di genere. Ma davvero gli eurodeputati potrebbero votare contro la Commissione Juncker? «Ancora una volta: le istituzioni europee devono essere rappresentative di tutti i cittadini. Non possiamo accettare una Commissione europea in cui ci siano 4 donne commissario su 28. Che messaggio stiamo dando agli europei? Con che credibilità possiamo parlare di uguaglianza di genere nei consigli d’amministrazione di società quotate, quando poi questa non si applica alle nostre istituzioni?. Su questo punto c’è grande convergenza tra i gruppi politici. Se la rappresentanza femminile della prossima Commissione sarà troppo bassa, il rischio di un voto contrario sarà forte. Juncker ne è pienamente cosciente. Diciamo che, se Juncker non riuscirà a convincere gli Stati Membri, ci penserà il Parlamento europeo ad aiutarlo». Del 01/09/2014, pag. 7 Bce: nessun dissidio Sulla flessibilità la linea non cambia Oggi l’incontro con Hollande ROMA — Mario Draghi per ora non replica. Si limita a a far sapere che non c’è stato alcuno scontro. «Noi non commentiamo le conversazioni confidenziali del presidente, e in ogni caso il resoconto fatto è inaccurato». Ed è soprattutto «inesatta l’affermazione che Angela Merkel si sia lamentata delle dichiarazioni del presidente della Bce», hanno detto all’Eurotower, all’apparenza irritati dall’insistenza con cui la stampa tedesca da giorni, all’indomani dell’incontro di Jackson Hole, batte contro quel riferimento alla flessibilità di bilancio fatto da Draghi nel suo intervento americano. Difficilmente, comunque, qualunque sia stato il tenore della telefonata con la cancelliera e di quella con il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schauble, il banchiere centrale italiano ha ritrattato le cose dette negli Usa, peraltro curate nel dettaglio nei giorni precedenti. Piuttosto è più probabile che abbia sottolineato ai suoi interlocutori tedeschi, come le sollecitazioni fatte siano nell’interesse dell’Europa intera e non solo di uno o altro Paese e, come in ogni caso, l’esortazione alla maggiore flessibilità sia nell’ambito delle regole già previste. Draghi, nel suo intervento a Jackson Hole aveva, infatti, in particolare, sollecitato la «flessibilità esistente nell’ambito delle regole» che «potrebbe essere utilizzata per affrontare meglio la debolezza della ripresa e per fare spazio ai costi delle necessarie riforme strutturali» e aveva fra l’altro invitato i governi a «sfruttare gli spazi di manovra necessari a una composizione delle politiche fiscali più favorevole alla crescita». Il suo è 9 stato un discorso di ampia portata, da una parte diretto alla presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, che ha in mano le redini del dollaro il cui rafforzamento sarebbe benefico per l’euro e per l’economia europea. E dall’altra ai governi europei, nell’ambito di un confronto in cui trova posto lo scambio, non si sa quanto difficile, di vedute con la cancelliera tedesca e l’incontro in programma per oggi con il presidente della repubblica francese, Francois Hollande, anche in vista dei meeting europei milanesi di metà settembre. Giovedì prossimo, nel corso della conferenza stampa al termine della riunione del consiglio direttivo, che dovrebbe annunciare un nuovo timing , più ravvicinato, delle iniziative della Bce, Draghi avrà, comunque,modo di tornare sui temi del rigore e della flessibilità. Ovviamente dopo aver illustrato le prossime mosse di politica monetaria. Sui mercati è iniziato il conto alla rovescia per la riunione di giovedì: l’attesa, altissima, per un intervento deciso e straordinario di Francoforte in grado di invertire la rotta dell’inflazione, è peraltro mitigata dall’incertezza sul timing delle iniziative. Di sicuro la discussione tra i governatori delle banche centrali dell’eurozona, a partire dalla cena di lavoro di mercoledì, sarà più lunga e approfondita del solito visto che le cifre hanno rivelato sul fronte della congiuntura e delle previsioni, una situazione in rapido peggioramento. Nonché uno scenario, che giustificherebbe appieno il rispetto dell’impegno assunto e ribadito, all’unanimità dal Consiglio di intervenire con misure non convenzionali nel caso di necessità. I tempi però non sembrano maturi per l’annuncio di un intervento immediato (ma c’è chi se lo aspetta da qui alla fine dell’anno) di quantitative easing , cioè di acquisto di titoli privati e pubblici sul modello Usa e giapponese, chiesto da più parti per ridare slancio all’economia e per allontanare il pericolo di deflazione. Anche se la Bundesbank e il suo presidente Jens Weidmann, il più restio, ma non il solo, ad interventi straordinari, dopo il dato che ha segnalato come anche l’economia della Germania non stia ,a dispetto delle stime fatte a suo tempo dalla stessa banca centrale tedesca, è rimasto per ora in silenzio. A differenza del ministro delle Finanze e della Cancelliera del suo Paese. In agenda c’è, comunque, l’importante partenza della prima operazione di Tltro, cioè di prestiti a medio termine alle banche destinati a finanziare famiglie e imprese (esclusi i mutui immobiliari): le banche sarebbero pronte a chiedere almeno 114 miliardi, di cui 75 le italiane. E potrà esserci l’annuncio di una decisa accelerazione del programma di acquisto di Abs, cioè titoli bancari cartolarizzati, rappresentativi di prestiti a imprese e famiglie. Stefania Tamburello 10 INTERNI Del 01/09/2014, pag. 5 Renzi ora studia il rimpasto per la sfida dei "1000 giorni". Delrio in pole per il Viminale Alfano lascerebbe l'Interno per gli Esteri liberati da Mogherini. Giannini rischia il posto. Oggi la nuova agenda di governo "Vorrei rimescolare il puzzle". Matteo Renzi non usa le parole della vecchia politica, ma la sostanza non cambia. A Palazzo Chigi, dopo il successo della nomina di Federica Mogherini in Europa, si pensa un rimpasto e non a una semplice sostituzione del ministro degli Esteri. Cioè a un movimento di pedine più corposo in previsione di un mandato lungo "mille giorni", il programma che proprio oggi il premier presenterà alla stampa. Si capirà da lì che Renzi ha cambiato la velocità di marcia della sua azione di governo. Non più Speedy Gonzales con il rischio di qualche pericoloso scivolone, ma un ritmo più lento, che dia anche agli interlocutori europei il respiro di un cammino davvero realizzabile, di un'agenda concreta di riforme. Nell'illustrazione infatti si partirà dalle cose già fatte. Per spiegare come saranno davvero attuate la riforma del lavoro (la prima parte presentata da Poletti), le leggi sulla giustizia, il provvedimento sulla pubblica amministrazione. A questo, si aggiungeranno i progetti del futuro. E un nuovo sito, da affiancare a quello ufficiale del governo, consentirà una partecipazione dei cittadini e una verifica delle promesse mantenute o non mantenute. In questo programma non c'è il rimpasto, naturalmente. Renzi ripete a tutti i suoi interlocutori che c'è tempo per decidere chi prenderà il posto della Mogherini. Ma questo tempo serve anche ad aprire un tavolo con gli altri partiti della maggioranza per cercare di far girare la ruota anche in altri dicasteri. Si parte dalla Farnesina e si parte da Angelino Alfano. Il premier vuole convincerlo a lasciare la poltrona del Viminale. Aveva già provato a farlo al momento della formazione dell'esecutivo, a febbraio. Non riuscì nell'impresa evitando sola la conferma della carica di vicepremier. Adesso tornerà alla carica garantendo al leader di Ncd il ministero degli Esteri, cioè un posto di pari peso. "Proveremo a fare breccia", ha detto Renzi ai suoi collaboratori. È un dossier, quello del rimpasto, non ancora sul tavolo. Alfano per esempio non ha ancora ricevuto nessun segnale diretto da Renzi. Ma a Palazzo Chigi qualcuno ha già iniziato delle riflessioni. È vero che il Quirinale preferirebbe una semplice sostituzione. È la strada maestra, non si aprirebbe nemmeno la discussione sull'eventuale nuovo voto di fiducia a un governo rimpastato. Lo spostamento di Alfano alla Farnesina e la sua sostituzione agli Interni con Graziano Delrio sarebbe un normale avvicendamento interno alla stessa squadra di governo. Più delicata l'ipotesi di toccare altre caselle. Come l'Istruzione, dove Stefania Giannini appare in bilico. Dove Renzi vorrebbe mettere una donna del Partito democratico perché ai suoi colleghi di partito ha detto chiaramente: "La scuola deve diventare un tema costitutivo del Pd". Secondo lui Largo del Nazareno dovrebbe concentrare tutti i suoi sforzi sull'istruzione, farne il suo elemento identitario. Agli Esteri il favorito rimane Lapo Pistelli. Ma se Alfano fa un'apertura, quel posto è suo. Il titolare del Viminale oggi potrebbe aver cambiato idea. Dopo aver portato a casa l'operazione Frontex Plus per la questione degli sbarchi, aver coinvolto maggiormente l'Europa dopo mille appelli e allarmi, il ministro dell'Interno potrebbe essere tentato di lasciare una poltrona che scotta e che sarà chiamata ad affrontare ancora l'emergenza 11 immigrazione. In alternativa ci sono altre donne. Per Roberta Pinotti sarebbe solo un cambio dentro la stessa squadra e per la Difesa si fa ancora il nome di Alfano. Diverso il discorso per Marina Sereni, vicepresidente della Camera, e per Elisabetta Belloni, oggi direttore del personale della Farnesina. È solo un'illusione invece il coinvolgimento di Andrea Guerra. L'ex ad di Luxottica era stato chiamato a febbraio e disse no per rimanere in azienda. Oggi è libero, ma non sarà nel governo. Al di là delle formule politiche, e Renzi preferisce sicuramente l'inglese "reshuffle", sarà un vero e proprio rimpasto se si apriranno caselle slegate all'inevitabile sostituzione di Mogherini. Come quella dell'Istruzione. L'idea di un cambio della Giannini è apparsa evidentemente a tutti i partecipanti a una recente riunione con Renzi incentrata sulla scuola. C'erano i vertici del Partito democratico, i capigruppo e i parlamentari esperti. Il premier ha detto a tutti che per il Pd la battaglia della formazione era fondamentale, che doveva diventare una bandiera del partito. Chi è uscito da lì ha pensato: "Perché sia davvero una bandiera ci vuole un ministro del Pd". Naturalmente, la Giannini sconta anche il fatto di appartenere a un partito praticamente scomparso alle elezioni, Scelta civica, e che in alcune sue componenti appare ormai una corrente del Nazareno. È un discorso che vale per le percentuali ridotte del Nuovo centrodestra. Ma su questo Alfano pensa di avere le spalle coperte. Per ridurre la delegazione dell'Ncd (3 ministri) sarebbe inevitabile un passaggio parlamentare. Con tutti i rischi del caso per Renzi. Del 01/09/2014, pag. 4 Il Jobs Act è la chiave del governo per ottenere la flessibilità dall’Europa sul rispetto dei parametri Da giovedì la legge delega sarà in commissione al Senato, ma manca ancora l’accordo nella maggioranza Contratti e art.18, così la riforma del lavoro ROBERTO MANIA È quella sul lavoro la prossima partita chiave del governo Renzi. La partita decisiva, forse. Perché il presidente della Bce, Mario Draghi, pensava anche all’Italia se non soprattutto all’Italia quando dal vertice dei banchieri centrali sulle montagne americane di Jackson Hole, una decina di giorni fa, ha detto: «Le riforme strutturali sul lavoro non sono più rinviabili». Il governo ha già allungato i tempi, ma ora la strada non ha alternative. Da giovedì la Commissione Lavoro di palazzo Madama riprenderà l’esame del Jobs Act (la legge delega del governo firmata dal presidente Renzi e dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti) dopo aver accantonato prima della pausa agostana il capitolo sul riordino delle forme contrattuali (lì dove si scorge la sagoma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) per far spazio sì all’approvazione della riforma del Senato, ma anche per far decantare le divisioni nella maggioranza. Da giovedì tutto ritornerà a galla con il Pd (il partito del premier) restìo ad allargare il campo alla rivisitazione dello Statuto del 1970 e le altre forze della maggioranza (Ncd e Scelta civica) che propongono specificatamente di superare l’articolo 18 il quale, dopo la riforma Fornero di due anni fa, prevede il reintegro automatico nel posto di lavoro solo nel caso di licenziamento discriminatorio o di licenziamento economico insussistente. Pur tuttavia l’articolo 18 sembra di nuovo destinato a diventare l’oggetto del contendere. E i tempi stringono: entro la metà di settembre la Commissione, presieduta da Maurizio Sacconi (Ncd) dovrebbe concludere l’esame della delega ed entro la fine del mese dovrebbe arrivare il via libera del Senato. Poi il passaggio alla Camera con l’obiettivo di 12 chiudere tutto entro l’anno. Poletti sta già predisponendo i diversi decreti delegati perché tutto sia operativo entro la prima metà del 2015. Nei suoi sei articoli la legge delega non accenna nemmeno alla questione dei licenziamenti. Che però può rientrare attraverso, appunto il riordino dei contratti di lavoro. Ncd e Sc puntano a un contratto a tempo indeterminato con l’introduzione dell’indennizzo in caso di licenziamento senza giusta causa. Soluzione che piace anche alla Confindustria di Giorgio Squinzi («quella del contratto unico è la direzione giusta», ha detto ieri dalla Festa dell’Unità a Bologna). Il Pd propone un contratto di inserimento a protezioni crescenti nel quale non si applichi l’articolo 18 esclusivamente nei primi tre anni, considerato un lungo periodo di prova oltre il quale le regole devono uniformarsi. Il governo non ha ancora scoperto le sue carte. Dice che aspetta le decisioni del Parlamento. Ma sa che su questo si gioca un pezzo di credibilità sullo scenario europeo e che su questo, dunque, verrà valutato, dagli investitori finanziari, dai “guardiani” della Commissione di Bruxelles e dall’Eurotower di Francoforte, il grado discontinuità della sua azione. Un simbolo, nel bene e nel male. D’altra parte né Renzi né Poletti hanno mai detto che l’articolo 18 resterà così com’è. Hanno sostenuto che non è quello il cuore del Jobs Act che effettivamente ha l’ambizione di riordinare, e semplificare, le norme e le procedure sul lavoro, riducendo le attuali differenze tra lavoratori garantiti e outsider. E poi che hanno scelto di agire in due tempi: prima il decreto sulla semplificazione dei contratti a termine, poi la delega sul lavoro. Renzi ha però detto di più: ha spiegato che il governo intende riscrivere lo Statuto dei lavoratori «e riscrivendolo — ha aggiunto — pensiamo alla ragazza di 25 anni che non può aspettare un bambino perché non ha le garanzie minime». «Non parliamo solo di articolo 18 che riguarda una discussione tra destra e sinistra. Parliamo di come dare lavoro alle nuove generazioni». Da qui a fine anno si capirà come questi principi si tradurranno nella riforma. Perché la legge delega molto ampia e non stringente nei «principi e criteri direttivi » (qualche giurista ha già storto il naso) non fa presagire quali saranno le soluzioni definitive. E non sono affatto di secondaria importanza gli altri articoli della legge delega: riforma degli ammortizzatori sociali per introdurre tutele uguali per tutti; rilancio delle politiche attive per il lavoro con la costituzione di un’Agenzia nazionale per l’impiego; tutela per la maternità di tutte le donne lavoratrici indipendentemente dal contratto di lavoro. 13 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 01/09/2014, pag. 16 LA GIORNATA Minacce a don Ciotti solidarietà bipartisan Grasso: siamo con te Telefonata di Renzi dopo le intercettazioni di Riina Boldrini: parole che preoccupano ma non sorprendono EMANUELE LAURIA PALERMO Dal premier Matteo Renzi ai presidenti delle Camere, dagli uomini di Chiesa alle associazioni antimafia. È un fiume di solidarietà e affetto, quello che raggiunge don Luigi Ciotti all’indomani della pubblicazione, su Repubblica , delle intercettazioni in cui Totò Riina, in carcere, parla del fondatore di Libera come di «un prete da uccidere» alla stregua di padre Puglisi. E, mentre don Ciotti reagisce dicendo che per lui «l’impegno contro la mafia è un atto di fedeltà al Vangelo», centinaia di interventi a sua difesa affollano i social e le agenzie. Il primo a chiamare il sacerdote, ieri mattina, è stato Renzi, che gli ha manifestato la sua «solidarietà e vicinanza». Più tardi è arrivato, via Facebook, il messaggio del presidente del Senato Piero Grasso: «Caro Luigi, siamo tutti al tuo fianco». La presidente della Camera Laura Boldrini ha poi aggiunto che «le parole di Riina preoccupano ma non sorprendono», ricordando l’impegno di don Ciotti per il riutilizzo a fini sociali dei beni delle cosche. Il capo della commissione antimafia, Rosy Bindi, ha chiesto ai magistrati «che tipo di messaggio voglia inviare il capo di Cosa nostra mentre inveisce contro un sacerdote così esposto». È un sostegno bipartisan, quello per don Ciotti, che coinvolge Nicola Zingaretti e Ignazio Marino e ricomprende Vendola, Migliore, Paolo Ferrero, il Nuovo centrodestra di Dorina Bianchi (Ncd) e la forzista Maria Stella Gelmini. Fuori dal parlamento, ecco la Cgil ma anche Confindustria, Legambiente, l’Arci e la Lega delle cooperative siciliane. E poi magistrati come Roberto Tartaglia, pm del processo Trattativa, che invita gli uomini di Chiesa ad avere don Ciotti come modello. Da Torino la rassicurazione dell’arcivescovo Cesare Nosiglia: «Sosterremo don Ciotti in ogni modo». Mentre il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, preferisce non commentare: «Non faccio da cassa di risonanza a Riina». Del 01/09/2014, pag. 1-16 Ciotti: “Non ho paura di Riina però nessuno mi ha allertato” SALVO PALAZZOLO PALERMO NON temo le minacce di Riina. Non sono rivolte a me ma a tutte le persone di Libera. Nessuno mi ha avvertito. Mi sembra anche una mancanza di rispetto per i due poliziotti che mi seguono ogni giorno». Parla così don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, dopo le rivelazioni sulle conversazioni in carcere di Totò Riina, ora depositate al processo sulla 14 trattativa. «Riina dice che sono come don Pino Puglisi — sussurra Luigi Ciotti — ma io non oso paragonarmi, sono solo un uomo piccolo e fragile». Fa una pausa e riprende: «Però io mi riconosco nella Chiesa che immaginava don Pino, una chiesa che interferisce, come l’ha definita un ex mafioso pentito». Ora, il tono della voce di don Luigi si fa energico: «Una chiesa che accoglie, che tiene la porta aperta a tutti, anche a chi, criminale mafioso, è mosso da un sincero, profondo desiderio di cambiamento, di conversione». Riina la paragona a don Puglisi e dice che dovrebbe fare la stessa fine. Cosa ha pensato quando ha saputo di queste minacce di morte, che risalgono al settembre 2013? «Solo sabato pomeriggio ne sono venuto a conoscenza. E cioè quando lei mi ha telefonato per informarmi che stava scrivendo un articolo, mi ha spiegato che i magistrati avevano depositato quelle intercettazioni nel processo trattativa. E mi ha anche detto che all’epoca i pm di Palermo avevano subito informato il Viminale, per far scattare le misure di protezione più adeguate. Ma nessuno mi ha avvertito delle minacce di Riina. Lo trovo singolare, mi sembra anche una mancanza di rispetto per i due poliziotti che mi seguono ogni giorno». Ieri mattina, dopo l’uscita di “Repubblica”, qualcuno l’ha chiamata per affrontare il tema della sua sicurezza? «Il primo a telefonarmi, di buon mattino, è stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Mi ha ribadito la sua solidarietà e la sua vicinanza». E, poi, chi le ha telefonato? «Tanti amici corleonesi, che è il nome di un popolo, non di un clan». Cosa ha letto in quelle frasi pronunciate dal capo di Cosa nostra in carcere? Ha paura? «Le minacce di Riina sono molto significative ma non temo nulla. Perché quelle parole non sono rivolte solo a Luigi Ciotti, ma a tutte le persone che in vent’anni di Libera si sono impegnate per la giustizia e la dignità del nostro Paese. Cittadini a tempo pieno, non a intermittenza. Solo un noi, non mi stancherò di dirlo, può opporsi alle mafie e alla corruzione. Libera è cosciente dei suoi limiti, dei suoi errori, delle sue fragilità, per questo ha sempre creduto nel fare insieme, ho creduto che in tanti possiamo fare quello che da soli è impossibile». Perché proprio in questi ultimi mesi Riina lancia parole di odio contro la Chiesa che ha fatto santo il parroco ucciso dai boss? «Perché le mafie sanno fiutare il pericolo. Sentono che l’insidia, oltre che dalle forze di polizia e da gran parte della magistratura, viene dalla ribellione delle coscienze, dalle comunità che rialzano la testa e non accettano più il fatalismo, la sottomissione, il silenzio. Le minacce di Riina sono la prova che questo impegno è incisivo, graffiante, toglie la terra da sotto i piedi. Però non basta». Cosa manca alla lotta alla mafia? «La politica deve sostenere di più questo cammino. La mafia non è solo un fatto criminale, ma l’effetto di un vuoto di democrazia, di giustizia sociale, di bene comune. Ci sono provvedimenti urgenti da intraprendere e approvare senza troppe mediazioni e compromessi ». Quali? «Innanzitutto, quelli riguardanti la confisca dei beni, che è un doppio affronto per la mafia, come anche le parole di Riina confermano. Tanto bisogna fare anche contro la corruzione, che è l’incubatrice delle mafie» Quali priorità intravede? 15 «C’è una mentalità che dobbiamo sradicare, quella della mafiosità, dei patti sottobanco, dall’intrallazzo in guanti bianchi, dalla disonestà condita da buone maniere. La corruzione sta mangiando il nostro Paese, le nostre speranze ». Ora, Papa Francesco dice che l’impegno contro la mafia è una priorità per la Chiesa. Non sono davvero parole scontate. Appena vent’anni fa, don Puglisi fu ucciso perché era solo. Cos’è l’impegno antimafia per don Luigi Ciotti? «È da sempre un atto di fedeltà al Vangelo, alla sua denuncia delle ingiustizie, al suo stare dalla parte delle vittime, degli esclusi. Al suo richiamarci a una fame e sete di giustizia che va vissuta a partire da qui, da questo mondo». Citava le parole del mafioso pentito sulla chiesa che “interferisce”. «È una chiesa che non smette di ritornare — perché è lì che si rinnova la speranza — al Vangelo, alla sua essenzialità spirituale e alla sua intransigenza etica. Una Chiesa che cerca di saldare il cielo alla terra, perché, come ha scritto Papa Francesco: una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo». Del 01/09/2014, pag. 17 I commenti su Giovanni Paolo II: un carabiniere, voleva farci pentire Poi parla delle sue proprietà segrete: le gestisce Messina Denaro Il tesoro del superboss “Sono ancora ricchissimo” E su Wojtyla: era cattivo PALERMO Solo per un momento, mentre pedala sulla cyclette, dice di pensare alla vecchiaia e alla morte. Ma è solo un momento. Poi, torna baldanzoso, commentando l’ultimo programma visto in Tv: «Quel papa polacco era proprio cattivo, era un carabiniere, voleva farci pentire tutti. Ma noi siamo gente educata». All’epoca, nel settembre dell’anno scorso, Papa Francesco non aveva ancora rilanciato l’anatema contro le cosche pronunciato da Giovanni Paolo II ad Agrigento. E dunque Riina diceva: «Invece questo papa è buono, è troppo bravo ». E il suo compagno di ora d’aria, il pugliese Alberto Lorusso, annuiva. In attesa di un altro racconto sui misteri della mafia siciliana. L’ultimo che è finito nelle intercettazioni disposte dai pm di Palermo non riguarda però il passato, è storia attualissima: «Se recupero pure un terzo di quello che ho, sono sempre ricco», sussurra il padrino di Corleone, che non sembra affatto fiaccato da vent’anni al carcere duro. Anzi, sembra avere ancora contatti con l’esterno, tramite i familiari. «Io ho delle proprietà — dice a Lorusso il 4 settembre 2013 — queste proprietà metà sono divise ogni mese, ogni mese ci vanno... perché? Perché sanno che è mio nipote... queste proprietà sono mie e di mio nipote, metà mia e metà di mio nipote ». Dove sono le proprietà che lo Stato non è ancora riuscito a sequestrare al capo dei capi? Riina si vanta di poter contare su un manager d’eccezione per gestire i suoi beni: «Una persona responsabile ce l’ho e sarebbe Messina Denaro». Ovvero, il superlatitante condannato all’ergastolo per le stragi del 1993, imprendibile da vent’anni. Riina loda le capacità del suo fidato, ma si lamenta perché da tempo non ha sue notizie: «Però che cosa fa per ora questo Messina Denaro che non so più niente?». I PRESTANOME MISTERIOSI Così, negli ultimi mesi, le intercettazioni di Riina disposte dal pool “trattativa” si sono intrecciate con le indagini sulla primula rossa di Castelvetrano, coordinate dal procuratore aggiunto Teresa Principato. Riina parla di un patrimonio ingente ancora a disposizione dei suoi familiari: «Io investivo da far tremare i muri. La città tremava... picciotti io prendevo, 16 prendevo ed investivo magazzini a questo, magazzini a quello ». E ora è nuovamente caccia al tesoro di Riina, fra Palermo e Corleone. Caccia agli insospettabili prestanome che non sono stati mai smascherati. Per Totò Riina è l’ennesimo vanto: «La svegliatezza mia è un fenomeno. Sono troppo sveglio, è una materia che tutti non la possono avere». LE RIFORME CRIMINALI Naturalmente, Riina resta comunque preoccupato per l’evolversi delle indagini. È per questo motivo che invoca una riforma della giustizia, a modo suo. «Contro la dittatura assoluta di questa magistratura», spiega a Lorusso. Dice che le sue speranze erano tutte riposte in Berlusconi. «Aveva il 66 per cento, doveva mandare alla fucilazione i magistrati». Il padrino di Corleone non riesce a darsi pace: «Però in qualche modo mi cercava, si mise a cercarmi. Poi mi ha mandato a questo, per incontrarmi. E mi cercava». Il riferimento, ancora una volta, è all’ex senatore Marcello Dell’Utri. IL DELITTO ALFANO Nei dialoghi intercettati, dall’agosto al novembre 2013, Riina si attribuisce omicidi, le stragi Falcone e Borsellino, trame e complicità. Solo per un delitto si tira indietro, chiamando piuttosto in causa il suo complice di sempre, Bernardo Provenzano: il delitto del giornalista Beppe Alfano, il corrispondente del quotidiano “La Sicilia” ucciso a Barcellona Pozzo di Gozzo l’8 gennaio 1993. «Arrivò u scimunitu — dice Riina riferendosi a Provenzano — questo è veramente scimunito. E l’hanno fatto ammazzare… non mi piace questa canzone». Riina parla di «latitanti nella zona di Messina», Alfano aveva scoperto che nella sua città si nascondeva Leoluca Bagarella. Le parole di Riina restano misteriose. LA MAFIA DI DOMANI Ora, il padrino pensa alla successione. «Mio padre era una persona perbene, non era un delinquente. Io già a vent’anni parlavo con persone… li pesavo tutti. Questa personalità mi venne da solo… potrebbe succedere che un altro… io spero in questi giovani. Ma al presente non ce n’è… i giovani hanno bisogno di pezzi grossi». Le parole di Riina sono materia preziosa per entrare nella mente dei mafiosi, vecchi e nuovi. «Intanto, io ho fatto il mio dovere. Ma continuate, continuate. Non dico magari tutti, ma divertitevi». Ed elogia tutti i criminali: «Oggi la capitale del crimine è Milano». A Riina piacciono anche gli scafisti del Canale di Sicilia: «Si guadagnano il pane». 17 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 01/09/2014, pag. 19 Cinque Navi, Due Aerei e più Fondi il Piano per Impedire i Naufragi Immigrazione, le richieste di Alfano all’Europa. Le resistenze di Berlino e Madrid Almeno cinque navi e due aerei per pattugliare il Mediterraneo e affiancare i mezzi che già ci sono in modo da disporre di una flotta di dieci unità in mare e quattro in aria. Il Viminale mette a punto il piano di intervento da sottoporre all’Europa per affrontare l’ondata migratoria sempre più imponente. E calcola pure lo stanziamento economico necessario a sostenere la missione che dovrà sostituire «Mare Nostrum», garantendo il soccorso di quelle persone che si affidano agli scafisti e sempre più spesso non ce la fanno a coprire la traversata dal Nordafrica all’Italia. Il rischio altissimo è infatti quello di trasformare «Frontex Plus» in una operazione esclusivamente di polizia che mira a respingere, anziché accogliere i migranti. E invece quanto fatto finora — con una missione costata all’Italia 300 mila euro al giorno — ha dimostrato l’importanza di creare una linea avanzata di controllo per cercare di evitare i naufragi. Anche se questo comporta un impegno per l’accoglienza che non ha precedenti e che la stessa Unione Europea è stata costretta a riconoscere dopo aver sottolineando le difficoltà di farsene carico direttamente. Nuovo allerta per altri 10 mila posti L’ultimo telegramma spedito due giorni fa dal Viminale allerta i prefetti per l’assistenza degli immigrati, ormai ben oltre la soglia delle 115 mila persone. Stranieri, la maggior parte richiedenti asilo, che il responsabile del Dipartimento Immigrazione Mario Morcone deve sistemare nelle strutture messe a disposizione dagli enti locali, tra mille difficoltà e resistenze. Gli sbarchi non accennano in alcun modo a fermarsi e anzi rischiano di aumentare nelle prossime settimane con l’acuirsi delle situazioni di crisi in Africa e Medio Oriente. Ormai la media è di 5 mila arrivi a settimana, ben 70mila sono stati i migranti sbarcati sulle nostre coste tra giugno e agosto. I «bilaterali» con Spagna e Germania Il negoziato del ministro dell’Interno Angelino Alfano con gli Stati europei comincia domani con la missione a Berlino e Madrid. Obiettivo del ministro è quello di «ottenere il consenso politico a una condivisione tecnica dell’emergenza in modo da creare un dispositivo stabile e dunque efficace». La Francia ha già risposto positivamente alla richiesta di partecipazione alla missione, con Germania e Spagna la strada potrebbe essere più in salita. L’atteggiamento del governo spagnolo è infatti di «chiusura» rispetto ai flussi che arrivano dal Nordafrica, mentre i tedeschi hanno più volte sottolineato di aver già il proprio carico di stranieri, dovendo fronteggiare gli arrivi attraverso le frontiere terrestri. Non a caso la strategia italiana è quella di sollecitare uno sforzo anche minimo che però consenta di poter contare sulla partecipazione di tutti gli Stati confinanti. Resta però da sciogliere il nodo di chi ha raggiunto alcuni Paesi europei senza essere stato «identificato» dalle nostre autorità attraverso il «fotosegnalamento». Nei giorni scorsi le autorità della Svezia e della Svizzera affiancate da quelle di Germania e Francia, hanno annunciato la volontà di applicare il trattato di Dublino e riaccompagnare alla frontiera italiana gli stranieri richiedenti asilo che erano approdati sulle nostre coste e poi avevano varcato il confine senza un documenti di identificazione, cioè il permesso provvisorio che viene rilasciato a chi presenta istanza di asilo. La decisione, che dovrebbe essere 18 discussa nei prossimi giorni cercando di arrivare a una mediazione sulla distribuzione dei profughi, riguarda tra i 5mila e i 10mila migranti. Il costo delle navi: 500 euro l’ora La trattativa che impegnerà Alfano a partire da domani riguarderà anche gli stanziamenti economici che ogni Stato e più in generale l’Unione Europea sono disponibili ad affrontare per gestire il problema dei profughi. Anche tenendo conto che le stime degli analisti non prevedono alcuna diminuzione dei flussi per le prossime settimane. Il progetto studiato dal Viminale prevede di impiegare i mezzi navali e aerei attualmente impegnati nelle spedizioni «Hermes» (nel tratto di mare antistante la Sicilia) ed «Eneas» (che coinvolge la zona di fronte alla Calabria) attualmente finanziati dall’Ue, che scadono il 30 novembre. Gli esperti coordinati da Giovanni Pinto, il direttore dell’Immigrazione e della polizia di frontiera, hanno calcolato che ai sei mezzi navali e ai due aerei già utilizzati si dovrebbero aggiungere dalle tre alle cinque navi oltre a due aerei che possono sorvolare l’area spingendosi in prossimità delle coste africane. Il costo stimato per la messa in mare dei mezzi è di 500 euro l’ora e su questo è presumibile si scatenerà la battaglia più pesante all’interno dell’Unione visto che il commissario per gli Affari interni Cecilia Malmström aveva già evidenziato la mancanza di fondi. Proprio per tentare di aggirare queste resistenze Alfano appare intenzionato a trattare direttamente con i governi la messa a disposizione degli stanziamenti. Consapevole che l’esito positivo appare tutt’altro che scontato. Fiorenza Sarzanini Del 1/9/2014 – pag. 3 L’EUROPA NON BASTA “Mare Mio”: 300 migranti salvati dalla missione privata di Chiara Daina Martedì 25 agosto, dall'isola di Malta è salpata la prima nave privata in soccorso dei migranti in pericolo, finanziata da un'imprenditrice italiana, Regina Catrambone, e dal marito americano Christofer. Phoenix I, questo è il nome dell'imbarcazione, è lunga 40 metri, con un team di 16 persone, due gommoni, due droni che pattugliano il mare, cibo, bevande e coperte a bordo. Sabato ha messo in salvo 300 migranti, di cui la maggior parte in fuga da Siria e Palestina, e un centinaio dall’Africa sub-sahariana. Ieri mattina sono stati tutti trasferiti sulla nave italiana “San Giusto” per sbarcare sulle nostre coste. MA IL MINISTRO dell’Interno Angelino Alfano, preso dalla fretta di chiudere Mare Nostrum e di scaricare la gestione dell'emergenza profughi all'Ue, troppo abituato a lamentarsi che l'Italia da sola non è in grado di farsi carico dei “barconi della morte”, non si è minimamente preoccupato dell’iniziativa. Eppure costituisce un esempio virtuoso di collaborazione tra pubblico e privato per far fronte alle tragedie nel Mediterraneo. E una mano tesa al nostro Paese. “Abbiamo incontrato due volte l’ambasciatore italiano a Malta per avvisarlo del progetto e tentare di coinvolgere il governo italiano - spiega Catrambone, che da sette anni vive sull’isola maltese occupandosi di assicurazioni-, ma nessuno ci ha mai risposto”. Non poteva essere il silenzio intorno a frenare la missione che avevano in mente. Battezzata Moas (Migrant offshore aid station), per adesso potrà durare settanta giorni, cioè fino alla data di inizio di Frontex Plus, la versione europea di Mare Nostrum 19 annunciata mercoledì dal commissario Malmström. L’idea del Moas risale all’anno scorso, quando il Papa lanciò un appello per i migranti da Lampedusa. Regina Catrambone e il marito l’hanno preso alla lettera. In meno di un anno hanno messo a punto il progetto. “Non è un’impresa impossibile. È vero, abbiamo delle disponibilità economiche che non tutti hanno, ma ce ne sono altri come noi, e più di noi, che se lo potrebbero permettere”. La coppia ha investito circa 800 mila euro. La nave è a noleggio e un’equipe di esperti legali e umanitari li ha seguiti passo passo. Chi fosse interessato a contribuire alla missione con delle donazioni può farlo sul sito web Moas.eu. A guidare la missione è Martin Xuereb, ex-capo di stato maggiore delle forze armate di Malta: “Ci muoviamo nelle acque internazionali di competenza maltese, in tutto 250mila km quadrati, dove è attivo anche Mare Nostrum, e se avvistiamo vite umane in pericolo allertiamo subito la centrale operativa della guardia costiera dell’isola”. Alla domanda “chi glielo ha fatto fare?”, l’im prenditrice risponde: “Noi non rappresentiamo nè Malta, ma nemmeno l’Italia. Ma non è giusto che l’Italia rimanga sola a gestire le morti in mare. Noi dimostriamo che anche il privato può andarle incontro”. INFORMAZIONE Del 1/9/2014 – pag. 4 Crollano gli ascolti della tv generalista, sempre meno incassi e meno possibilità di creare. Ci si aggrappa ai soliti talk, a scapito del resto La nuova gloria arriva dal web di Luca Raimondo Spose a caccia dell’abito perfetto, grandi obesi che perdono 100 chili grazie a un severo, ma amorevole personal trainer e ancora cucine da incubo, hotel allo sfascio, gatti indemoniati. Poi si cambia canale e gli avventurieri del sofà possono essere proiettati tra combattimenti, viaggi estremi, macchine superveloci, sfide al limite del possibile. E non dimentichiamo i masterchef grandi e piccini, i boss delle torte e, quando l’ora si fa tarda, anche le gole profondissime e il sesso da pronto soccorso. È la televisione dell’eter - no cazzeggio, in cui prima o poi tutti s’imbattono per non abbandonarla più. Ma canali come Real Time e DMax, visibili sia sul satellite che sul digitale terrestre, sono la punta dell’iceberg di un nuovo modo di vedere la tv che sta progressivamente mandando in pensione i canali generalisti, ormai territorio protetto per talk show politici sempre più noiosi e autoreferenziali, che interessano un pubblico sempre più anziano e meno numeroso. Intanto, chi ha meno di 30 anni –ammesso che la accenda: di sicuro preferisce fare tutto da telefono o tablet – la tv la usa nella sua versione “smart” (collegata a internet, per vedere film e serie rubate dal web e i video preferiti su YouTube ) che, come ha spiegato Marco Consoli sull’Espresso , ormai vanta nel mondo vere e proprie star in grado di guadagnare milioni, nate e cresciute sul portale di video comprato da Google nel 2006 per 1,65 miliardi di dollari. Si tratta di artisti, comici, ma anche cuochi o esperti di make-up; il trucco è avere un’idea originale e sperare che la rete la accolga. Più facile a dirsi che a farsi. È un nuovo artigianato che può ricordare la nascita delle radio libere negli anni ’70. Quando, con scarsissimi mezzi, migliaia di realtà in tutto il paese 20 iniziavano a trasmettere in modo improvvisato, se vogliamo anche dilettantesco, ma finendo per rompere il monopolio pubblico e cambiare per sempre il modo in cui ancora oggi ascoltiamo la radio. E infatti può succedere che dal video amatoriale di YouTube si arrivi al cast de Le Iene, come è accaduto a Frank Matano, diventato una star del web pubblicando i suoi scherzi telefonici, o Willwoosh, al secolo Guglielmo Scilla, che dagli sketch autoprodotti è passato alla radio, al cinema e ha persino pubblicato un libro. Anche se si può solo stimare un guadagno minimo e massimo che va da uno a 15 dollari ogni mille visualizzazioni, quelli che nel mondo sono in grado di fare guadagni a sei cifre sono ormai migliaia. Molto meno in Italia, dove somme di un certo livello sono raggiunte da non più di cinque o sei persone. Il mercato però è in vertiginosa ascesa. Sapere che la raccolta pubblicitaria di YouTube nel 2013 ha generato 5,6 miliardi di dollari, il 51 per cento in più rispetto al 2012, deve far rabbrividire Mediaset e Rai: il gruppo berlusconiano nel semestre gennaio-giugno ha chiuso con una raccolta di 1,1 miliardi di euro (-4 per cento rispetto al 2013), mentre il servizio pubblico è sceso in due anni di circa il 30 (da 964 a 682 milioni di euro). È l’ennesimo segnale che il nostro paese, soprattutto le giovani generazioni, abbandonano il piccolo schermo e parcellizzano l’ascolto in mille rivoli fatti di video postati sui social network, inoltrati su what - sapp, consigliati ad amici e parenti. Un passaparola che oggi si chiama “virale” e che concede alla tv tradizionale solo lo spazio per la clip della lite tra politici o la gaffe del conduttore, il giorno dopo. Una tendenza che mette ulteriormente in crisi la massa insostenibile di canali visibili in chiaro sul digitale terrestre. Come racimolare punti percentuale La nuova tecnologia ha infatti consentito a tutti gli operatori di poter ampliare l’offerta, ma il risultato sono share da prefisso telefonico che hanno ridotto drasticamente la redditività ; ad esempio – malgrado gli imponenti investimenti degli ultimi mesi – lo 0,57 per cento con un ascolto medio di poco superiore alle 60mila persone di Rai news24, certificato da un rapporto del Marketing di viale Mazzini su ascolto e gradimento dei canali del servizio pubblico nel primo semestre 2014. Rai news vale esattamente come Rai Gulp, la metà di Rai Yoyo ed è sempre in coda alla classifica dei canali digitali della Rai, dietro Rai4, Rai Movie, Rai Premium. Fa peggio solo Rai Storia allo 0,18 per cento e Rai Scuola allo 0,01 con 908 telespettatori. Non sono numeri molto diversi quelli dei tanti canali extra di Mediaset: ai tre storici si sono aggiunti La5, Italia2, Iris, Boing, Top Crime e anche l’allnews Tgcom24 (più quelli di Mediaset Premium, ma il digitale pay meriterebbe da solo un discorso a parte). Tutti navigano tra lo zero virgola o superano di poco l’1 per cento. Tante piccole gocce che perdono da un rubinetto principale, senza portare nulla in termini di ascolto, ma che tutte insieme rubano almeno un 10 per cento alle sorelle maggiori. Lo affermava lo sorso 9 luglio , durante un’audizione alla commissione Telecomunicazioni della Camera, Eric Gerritsen, vicepresidente esecutivo di Sky Italia: “Se le tv non fanno redditività è chiaro che c’è un problema. Quando c’è troppa offerta di frequenze vuol dire che c’è troppo stock di pubblicità e che il prezzo medio di quest’ultima cala troppo”. La soluzione? “Ridurre l’offerta, riportarla a un livello in linea con la media europea”. Infatti, la massa di canali free è un suicidio che non ha paragoni nel resto del continente. Paesi come Francia, Inghilterra o Germania, si sono guardati bene dall’au - mentare a dismisura l’offerta in chiaro. Chi dovesse limitarsi alle tv non a pagamento a Parigi, Londra o Berlino, potrebbe scegliere al massimo tra una quindicina di canali nazionali (nel caso della Germania hanno rilevanza anche le tv dei Laender, ma quello è sul serio un paese federalista). Persino negli Stati Uniti esistono pochi network nazionali, moltissime consociate locali e il gigantesco mondo delle pay-tv via cavo e satellite. Ma è proprio da oltreoceano che arriva la grande lezione su come far sopravvivere la cara vecchia televisione. È di pochi giorni fa la notizia dell’acquisto da 21 parte del colosso telefonico At&T del numero uno della televisione satellitare Direct Tv per la cifra monstre di 48,5 miliardi di dollari. Il via libera dell’antitrust USA è il segnale che aspettavano altri grandi gruppi pronti alla fusione, a cominciare da Comcast e Time Warner. Il mondo delle telecomunicazioni e quello della comunicazione e dell’intrattenimento sono sempre più legati a filo doppio, perché i sistemi con cui gli utenti si informano e seguono i loro programmi preferiti sono e saranno sempre più connessi. Ma in questa marea di cifre, percentuali, milioni e miliardi di dollari o di euro, i contenuti valgono ancora qualcosa? La risposta è sì. E lo dimostra ancora una volta la forza che su tutti i media, vecchi e nuovi, stanno avendo le serie tv. I premi Emmy, gli oscar della televisione assegnati la settimana scorsa, sono stati un evento a cui hanno assistito in America oltre 15 milioni di spettatori, malgrado la partita di football in contemporanea su un altro canale. Le star di Breaking Bad, di Sherlock, di Big Bang Theory o True Detective, sono delle icone mondiali grazie a internet. In molte parti del globo le serie sono già sui computer di milioni di fan i quali non aspettano che sia la tv del loro paese a mandarle in onda. Non a caso i produttori di House of Cards, grande sconfitto di questa edizione, non hanno perso tempo e il giorno dopo hanno postato su YouTube un divertente video di venti secondi con il gelido assistente di Frank Underwood/Kevin Spacey che chiama al telefono il suo contatto per sapere come mai “l’ac - cordo” per farli vincere non si sia concretizzato. Si perde la gara tradizionale, ma si vince quella della comunicazione. Netflix e le serie di successo E sarà pure vero, come è stato scritto, che è in questa edizione degli Emmy è stata bocciata Netflix, la web tv che produce House of Cards, come a dire che il mondo della tv tradizionale cerca di frenare l’avanzata di chi offre contenuti su piattaforme multimediali, ma a portarsi a casa il premio sono state serie straordinariamente innovative, nello stile e nelle tematiche. Con Breaking Bad vin - ce la storia di un uomo onesto e rispettato che sceglie la strada della produzione e dello spaccio di droga; con Modern Family la descrizione, in tutte le sue contraddizioni, della famiglia allargata sempre più tipica della società occidentale contemporanea. Grazie alle serie, la tv non muore ma si trasforma; se dieci anni fa i ragazzi parlavano degli ospiti della casa del Grande Fratello, oggi discutono del “Trono di Spade”, “The Walking Dead” e, finalmente, di un prodotto italiano straordinario come “Gomorra”. Perché la modernità porterà con sé programmi su malattie imbarazzanti e reality sui parrucchieri, ma anche grandi racconti che descrivono i mutamenti della nostra epoca meglio delle inutili chiacchiere di mille talk show. E solo quando la nostra “vecchia” tv ne capirà lo spessore, potrà vivere senza timore la concorrenza dei nuovi media e i profitti multimiliardari di You-Tube. 22 CULTURA E SCUOLA Del 01/09/2014, pag. 43 L’eclissi del modello capitalista secondo l’economista Usa Rifkin “Una Super Internet ci salverà” RICCARDO LUNA «CARI italiani, non c’è paese al mondo dove abbia trascorso più tempo in questi anni e quindi vi parlo col cuore. So bene in quale crisi economica vi troviate da tempo. Ora anche la recessione. Sembra che non ci siano soluzioni, molti lo pensano, e invece è un errore. È la scusa di non vuole cambiare niente. La tecnologia sta davvero creando un futuro migliore, una società più giusta dove la creatività e l’operosità saranno premiate. Nuovi posti di lavoro. Ma adesso, prima di ogni altra cosa, vi serve un elettrochoc. Una svolta psicologica. Dovete passare dal cinismo — che conduce alla disperazione — alla speranza — che fa muovere le cose in fretta e fa ripartire l’economia. Quella speranza si chiama Terza Rivoluzione Industriale e lo strumento per farla è la creazione di una Super Internet, una rete intelligente che consenta lo scambio non solo di informazioni, ma anche di oggetti, grazie alle stampanti 3D, e soprattutto di energia rinnovabile che tutti ormai possono produrre autonomamente. Le tre condizioni fondamentali per questo nuovo paradigma sociale sono già pronte, si tratta solo di collegarle e innescare il cambiamento. Credetemi, nessun paese al mondo è più indicato dell’Italia a prosperare in questa nuova era». Meno male che c’è Jeremy Rifkin, 69 anni, che ogni tanto arriva da Washington, dove vive, con un nuovo clamoroso libro ad annunciarci la lieta novella. La società a costo marginale zero. L'internet delle cose, l'ascesa del « commons » collaborativo e l'eclissi del capitalismo esce oggi in Italia per Mondadori ma è già stato un successo planetario: best seller negli Stati Uniti e in Europa per molte settimane, solo in Cina ha venduto oltre 400 mila copie. Ma più dei numeri conta chi lo ha letto: capi di Stato e di governo, leader in cerca di una ricetta per uscire dal tunnel della crisi. Accogliendolo a Venezia per una conferenza all’inizio di luglio, il presidente del consiglio Matteo Renzi lo ha omaggiato così: «Una generazione di italiani è cresciuta con i suoi libri e con le sue idee». Rifkin ha risposto da seduttore: «Spero che vi serva di ispirazione...». L’ultimo politico ad essersi innamorato delle teorie dell’economista americano è Sigmar Gabriel, ministro per gli affari economici e l’energia nel governo tedesco che si è profuso in lodi sperticate per il «grande scenario», «l’approccio visionario» e la capacità di sfidare «l’umore collettivo dominato dall’ansia per il futuro e dal pessimismo ». Detto dal vice cancelliere di Angela Merkel, è molto più di una semplice recensione. L’economista americano a questo clamore è abituato e anzi è un maestro nel creare un cortocircuito virtuoso fra conferenze, consulenze e progetti, i famosi masterplan con i quali il suo team — il TIR Consulting Group — spiega agli amministratori pubblici come mettere in pratica la visione del guru: creare una Super Internet delle Cose in modo da far spazio ad una società “collaborativa” e superare il capitalismo. Accanto alle collaborazioni con Unione Europea, Germania, Danimarca e Cina, masterplan sono stati redatti per il principato di Monaco, Utrecht, Sant’Antonio, la Francia del Nord (Calais) e persino per la città di Roma, anche se quest’ultimo è finito in un cestino: «Peccato, era un piano dannatamente bello. Me lo aveva chiesto il sindaco Alemanno, spero che qualcuno lo riprenda in mano». Sono trascorsi 40 anni dal suo primo libro: How to Commit Revolution American Style . Era il 1973, lei aveva convinto migliaia di persone a bloccare il porto di 23 Boston contro le compagnie petrolifere. Sono seguiti ventidue libri, e ogni volta c’era un futuro a portata di mano: non la fa un po’ troppo facile? «Non ho rimpianti per quello che ho previsto. La vita è un percorso di apprendimento continuo e si impara più dai fallimenti che dai successi, ma credo di averci azzeccato spesso: la crisi dei combustibili fossili non me la sono inventata, e nemmeno lo sguardo critico sul biotech e gli Ogm. Quando poi ho scritto che con la robotizzazione un certo tipo di lavoro sarebbe scomparso, un celebre settimanale in copertina scrisse vedremo se ha ragione.Qualche anno dopo ha fatto un’altra copertina per dire aveva ragione. Eppure non sono un indovino». Non è neanche fortuna, immagino. «No, sono mindful. Sono attento ai particolari. Vedo le cose ovvie che altri sottovalutano. Vedo le opportunità. L’Internet delle Cose, per esempio, mica l’ho inventato io. Se ne parla da anni, ma nessuno aveva detto quali effetti comporterà per le nostre vite. Per esempio il fatto che da lì verranno i nuovi posti di lavoro che state cercando». Ma non c’è un eccesso di ottimismo nelle sue visioni? «Non credo. Basta essere determinati. E comunque ci saranno rallentamenti, passi falsi, problemi. Ma davvero qualcuno crede che possiamo restare gli stessi nei prossimi 50 anni? Che usciremo dalla crisi con le stesso modello economico con il quale ci siamo entrati? Che il petrolio e i combustibili fossili continueranno ad essere il motore del mondo? Le riforme di cui parlate in Italia e in Europa sono necessarie, ma non sufficienti a farvi ripartire. Serve una nuova visione del mondo che metta assieme i tre cambiamenti in corso. È sempre stato così del resto. Nella prima rivoluzione industriale furono decisivi il motore a vapore, il telegrafo e la ferrovia; nella seconda l’elettricità, il telefono e il petrolio. Anche adesso si sta verificando la convergenza di tre elementi: la comunicazione, l’energia rinnovabile e i trasporti guidati dai satelliti. Ma per entrare davvero nell’economia digitale, serve una infrastruttura potente, una Super Internet». Sembra un libro dei sogni. Realizzabili, forse, ma lontani no? «La Germania si sta muovendo molto aggressivamente in questa direzione: il 27 per cento della sua produzione di energia viene dalle rinnovabili. E in Cina si sono impegnati a spendere 82 miliardi di dollari in 4 anni per creare una Super Internet dell’energia. Milioni di cinesi produrranno la propria energia rinnovabile col sole o col vento e se la scambieranno come oggi ci scambiamo una email». Curioso che proprio in America lei oggi sia meno ascoltato da chi decide. «È una terribile ironia. Ma se uno va negli Stati Uniti oggi può sentire l’odore del vecchio mondo. Sembrano un paese stanco, che non ha più voglia di rischiare, terrorizzato di spendere soldi pubblici. Si sono innamorati dell’idea di estrarre energia fracassando le rocce, lo shale gas, invece che dalle fonti rinnovabili. Ma così facendo fra dieci anni diventeranno un paese di seconda fascia». Veniamo all’Italia: la sua rivoluzione costa e con il debito pubblico che abbiamo chi dovrebbe pagare la Super Internet? «Costa meno soldi di quel che immaginate. Molte cose già esistono, basta collegarle. E poi dire che non ci sono soldi per investimenti è una scusa. Ce ne sono tanti fra fondi europei, regionali, capitali privati. Basta indirizzarli in una visione. Fatelo e in 24 mesi vedrete i primi risultati». 24 Del 01/09/2014, pag. 49 La regista Suha Arraf “La mia storia palestinese che Israele vuole fare sua” MARIA PIA FUSCO VENEZIA DIFFICILE immaginare in un film palestinese una storia così classica, elegante, intimista come Villa Touma di Suha Arraf, in concorso alla Settimana della Critica. È una storia di tre sorelle palestinesi cristiane, vivono in una villa decadente di Ramallah che conserva i segni di un stile di vita alto e di un passato glorioso (loro e della città che una volta era la “piccola Parigi”) nel quale si sono chiuse, ciascuna con i suoi segreti, restando fuori dalla realtà. Finchè non arriva una nipote orfana, giovane, ribelle, che si innamora di un musulmano. Una vicenda così insolita per il cinema palestinese viene dal passato di Suha Arraf che faceva la giornalista prima di passare al cinema come sceneggiatrice – La sposa siriana e Il giardino dei limoni – per poi esordire nella regia con Villa Touma, un film che ha già sollevato polemiche in Israele. «C’è una ragione per cui ho fatto questo film. I palestinesi che si vedono al cinema sono vittime oppure eroi, non sono persone come tutti, con i loro lati buoni o cattivi. Con Villa Touma voglio raccontare i palestinesi solo come esseri umani». Perché le autorità israeliane protestano contro il film? «Mi avevano chiesto che il film rappresentasse Israele, perché è finanziato con il fondo del cinema israeliano. Ho rifiutato. E voglio spiegar bene perchè. Oggi i palestinesi vivono nelle West Bank, a Gaza, nei campi; io sono una palestinese nata in Galilea, mio nonno era lì nel ’48; oggi vivo all’interno di Israele e molti nel mondo non sanno che siamo un milioni e mezzo – gli israeliani ci definiscono arabo-israeliani – che abbiamo il passaporto e la cittadinanza israeliana, concessa dopo il 1967, che paghiamo le tasse come tutti...». E cosa c’entra con il film? «Avevo il diritto di accedere al Fondo per il cinema. Il progetto è stato approvato, ho avuto il finanziamento, pochi soldi, è un budget molto ridotto. Io sono palestinese, la storia è palestinese, lo sono gli interpreti, perché dovrei dire che il film è israeliano? La legge internazionale per altro dice che un’opera appartiene all’autore non al fondo finanziario». Quando è iniziato il dissidio con le autorità? «Quando il film è stato selezionato per Venezia. Le immagini che vengono da Gaza sono così terribili, hanno pensato che rappresentare Israele con un film come questo fosse una buona propaganda, un segno di democrazia. Ma quale? Due mesi fa a Tel Aviv parlavo al telefono in arabo e mi hanno gridato “sporca araba vattene da qui”. Ero su un treno e qualcuno ha gridato che non dovremmo viaggiare negli stessi vagoni. È un’atmosfera terribile, ci sono manifestazioni al grido di “Morte agli arabi”. Io sono stata accusata di aver rubato i soldi del governo». Che succederà al ritorno? «Intanto andrò a Toronto e in altri festival, e al ritorno continuerò la mia lotta per sostenere il mio diritto a quel finanziamento, anzi presenterò un altro progetto anche se sarò nella lista nera». 25 ECONOMIA E LAVORO Del 01/09/2014, pag. 4 QUESTO NON È UN PAESE PER GIOVANI ILVO DIAMANTI TEMO che l’immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo “giovane” e “giovanile”. Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare — e guardare — in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l’Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa. È UN Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l’è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l’età di accesso alla pensione si è “allungata”, per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l’ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto. Così la generazione dei padri — e, talora, dei nonni — sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) “quota 96”. Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l’annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po’ com’è avvenuto per gli “esodati”. Un’invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c’è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in “esodo” verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono “pensionandi”. In attesa che lo Stato trovi le risorse per “pensionarli” davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l’impresa. D’altronde, l’Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l’esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, «gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente». Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, “immaginare” il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell’Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D’altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell’Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente. I giovani: sono “esodati” anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch’essa s-perduta. Tra le pieghe dell’impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall’Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l’Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro “formazione” in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l’Italia è un Paese di pensionati dove i giovani “esodano”. Soprattutto i “laureati”. Che sono sempre meno. Il 26 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D’altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (—1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue. Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero “fregare”. In particolare, preoccupano — e spaventano — gli stranieri che affollano l’Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell’Africa. Non per “piacere”, ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza. Noi, l’estremo confine d’Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall’Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch’esso. E annebbiato. Come la memoria. Per questo la rappresentanza, o meglio, la “rappresentazione” offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la “crescita” se siamo in “declino” — demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto. 27