attese - Edizioni Helicon

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attese - Edizioni Helicon
VALTER FERRARI
ATTESE
Raccolta di racconti
Prefazione di
Rodolfo Vettorello
edizioni
helicon
LE VOCI DEL SILENZIO
C’è un tempo per dire e un tempo per sentire, perché la
giovinezza vive di parole e la vecchiaia è fatta di silenzi.
Dello slancio di una volta, oltre le timidezze acerbe dell’età e delle ingenuità sottili singhiozzate nei primi appuntamenti, delle voci ribelli nelle scuole, degli slogan scanditi
nei cortei, delle canzoni sparate dalle radio libere, della
rabbia gridata, del metallico fragore dello scappamento del
motorino, dei signorsì impettiti alle divise, non sono rimaste che tracce, i solchi di un vecchio trentatré giri della
Ricordi, inciso di voci e di rumori, dimenticato, tra le cose
inutili e gli ideali spenti, nel soffitto di casa.
Adesso è arrivata l’ora di ascoltare, pur nel declino inesorabile dei sensi, ogni piccolo accento, certe sfumature un
tempo inafferrabili, l’esatta percezione delle parole e dei
suoni, una ragionevole indifferenza solleva le passioni e le
riflessioni avvicendano la spontaneità più vera.
Osservo nello specchio un’ombra svanita, come fosse di
polvere e riconosco a fatica, nelle pieghe fiacche e negli
zigomi sporgenti del volto, nei capelli innevati e stanchi,
nella luce opalina degli occhi, nel tremore delle carni, la
mia figura più intima, quasi fosse di un altro. E la casa, la
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nostra casa di sempre, sfiorisce nel silenzio, avvizzisce di
solitudine. Sono i miei passi lenti sul legno e i tocchi del
pendolo a darle vita, e sono le piogge nei canali o il ribollimento di una caffettiera sul fuoco, il crepitare di una
spaccatura sul muro, il tonfo di una porta, le sue uniche
voci.
Queste voci hanno sempre abitato la nostra casa. Resistono ai calendari, ai troppi capodanni, alle nascite felici e ai
dolorosi addii.
C’erano già allora, ma non le sentivamo, e si perdevano
nelle nostre parole accese, tra i pianti dei bambini e i loro
giocattoli - lo sferragliare composto di un trenino, il rimbalzo di una palla - nell’abbaiare cocciuto del cane, nei
battibecchi dei grandi, nelle feste con gli amici, nelle musiche di Canzonissima alla televisione.
Le nostre parole celavano, soffocavano queste semplici voci
e noi non avevamo orecchio per sentire, così, anche nel
silenzio assoluto delle notti, non ci accorgevamo di loro.
Ora sono rimasto solo. A ottant’anni è una fortuna avere
ancora un po’ di ragione nella testa. Una figlia è andata
via, impetuosa come tramontana, sulle onde di uno sposo
marinaro e il mio gemello signorino sta in un letto di un
ospizio, con la bocca storta e un pannolino sempre pieno.
L’unico mio figlio vive lontano, molto lontano, perché ha
seguito l’istinto o forse strambe idee, l’abbaglio di un mestiere complicato, un’avventura, il desiderio di ricominciare dopo un matrimonio sciupato e qualche errore di
troppo.
Quando mi telefona, succederà un paio di volte l’anno,
dice di star bene, che non mi devo preoccupare, ma, dalle
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sue parole vuote e d’imbarazzo, credo sia ricaduto in altri
sbagli e non trovi più il coraggio di tornare.
Ho perso mia moglie da tempo e mi sono quasi dimenticato di lei.
È rimasta nelle fotografie sbiadite, incorniciata nei portaritratti d’argento sul cassettone, nei crisantemi e nei lumini accesi di novembre. Anche la sua voce sottile riempiva
queste stanze, vibrava nell’aria come melodia, carezzevole
d’amore, squillante nel crescendo delle arrabbiature.
Ho imparato ad ascoltare il silenzio. È fatto di suoni delicati, di leggeri segnali, di messaggi sussurrati.
Ho compreso, pian piano, il suo linguaggio misterioso,
decifrandone le declinazioni e le sonorità, perché certi
rumori sono parole. Il fruscio di un tessuto pare una preghiera, il cigolio di un uscio è un lamento, lo scoppiettio
del fuoco, una risata e il gocciolio di un rubinetto, una
ninna nanna.
Quando esco in giardino ascolto le mie piante. È la betulla
la più loquace, quando d’estate bisbiglia con le fronde al
minimo respiro, inginocchiata al vento, flette le sue braccia
bianche come quelle di mia moglie, aveva pelle di latte,
e mi chiede di ballare e le sue foglie minute sembrano
coriandoli, quando cadono d’autunno, come un invito a
festa, il nostro fidanzamento tra le maschere di un vecchio
carnevale e, sotto il peso della neve, lo schianto lacero dei
rami è un grido disperato, come le sue ossa fragili assediate
dalla malattia.
E l’ulivo antico, addossato al muro, con il tronco diviso
quasi gemellare, contorto e ingobbito, ha chioma d’argento come mio fratello ed è come lui silenzioso e schivo.
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Crepita la corteccia ruvida al carico degli anni, s’incava,
come sventaglio di mitragliatrice, e mi racconta della sua
guerra, sulle montagne d’Albania e dello scorrere inquieto
della penna, in quelle lettere dal fronte, fitte d’amore e di
paura e perse in chissà quale cassetto di casa, che rinnovano memorie e vecchie cicatrici. L’ulivo è, come lui, un
maestro elementare accomodato su un’altura come fosse
su una cattedra, che insegna a scrivere sussurrando al vento
l’alfabeto, e i frutti sui rami sono le sfere di un pallottoliere
per saper contare e recita poesie nella brezza della sera, le
rime di Gozzano e i versi d’Ungaretti, così lievi da volare,
al lumeggiare bianco della luna.
Di nessun altro albero sento le parole. Talvolta mi pare di
cogliere un mormorio da una coppia d’abeti, interrati alla
nascita dei miei figli. Sono cresciuti a fatica, trascurati da
genitori distratti e quasi sradicati da una tempesta, dalla
furia del vento, tormentati dai fulmini durante i temporali.
Sono fragili, provvisori, inquieti.
So che i miei figli non torneranno più in questa casa. Lo
faranno solo il giorno del mio funerale, perché una ha
scelto il mare, lo sciabordio dell’onda, e l’ha fatto per amare e l’altro ha inseguito un sogno e adesso suona, per due
soldi, nei tunnel della metropolitana, dall’altra parte del
mondo. Però, a me piace pensare che l’albero della barca e
la cassa del violino siano fatti dello stesso legno degli abeti
in giardino.
Ho raccolto gli aghi delle loro foglie sofferte e ne ho intrecciato una ghirlanda per Natale, per sentirli vicino.
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L’ULTIMA NOTTE
Bannec è un’isola solitaria, scabra di pietra rosa, una conchiglia alla deriva, lontana dieci miglia da quella costa
tormentata e difficile che l’aveva, prima partorita, milioni
d’anni fa, e poi, abbandonata, come una madre degenere,
in mezzo all’oceano, per l’effetto erosivo, lento e implacabile, delle correnti, dei venti e delle maree.
Dalla rada di Brest, tra le falesie e gli obelischi di roccia, si
vede bene nelle poche giornate limpide e quiete di sole, in
estate, dopo le burrasche, quando la linea dell’orizzonte si
libera dall’offuscamento, di nebbia e di monotono grigiore, che la serra stabilmente. Scogli, infidi fondali, tempeste
improvvise, un’isola schiaffeggiata dalle onde, dimenticata
dai pescatori, lontana dalle rotte delle petroliere, ignorata dai turisti. Una volta, vantaggioso approdo per traffici
illeciti di briganti e contrabbandieri oppure di navi corsare; oggi, reclusorio di stato per ergastolani, anime nere
dimenticate tra le mura napoleoniche di un forte, umido
di mare e di salsedine, in celle buie, viscide di piscio, con
le coscienze cancellate e la dignità perduta. Pareti massicce
d’arenaria, contrafforti e barbacani di rinforzo, una merlatura di figure grottesche di diavoli e di dannati, la pianta
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chiusa a ferro di cavallo con i camminamenti di ronda, i
corpi di guardia, gli alloggi e le dispense, un unico accesso
chiuso da un portone ferrato, insormontabile.
Le ventiquattro gabbie dei detenuti, un solo ospite per gabbia, si affacciano sul cortile interno, cupo e perennemente
in ombra, unica angusta soffocante prospettiva di libertà,
perché le finestre e le feritoie, rivolte al mare, erano state,
crudelmente, murate e rese cieche, per sempre, dall’ordine
di un governatore, senza cuore, intollerante e vendicativo. Un porticciolo d’attracco difeso da due frangiflutti in
disfacimento, l’imboccatura coi fanali rossi e verdi, l’andirivieni delle motonavi e delle corvette, le scorte ai prigionieri, incatenati come belve, trasferiti sulla terraferma, gli
arredi, le vettovaglie, i fornimenti, le casse con i documenti
e i registri, a stipare la pancia del traghetto bianco azzurro
della ditta di traslochi Duvivier.
Uno smantellamento annunciato, da tempo, sui manifesti
ufficiali affissi alle bacheche delle capitanerie, negli articoli
dei quotidiani aperti sui tavolini dei bistrot e nelle notizie
di coda dei telegiornali. Una spogliazione meticolosa, graduale, iniziata dalla cella numero uno, quella occupata, per
consuetudine, dall’ultimo ergastolano arrivato sull’isola.
Le guardie chiamano quel carcere “l’orologio”, per la sua
cinica precisione. Nessuno degli ospiti, in quasi cent’anni di storia, si era mai sottratto alla regola ferrea di non
arrivare alla cella ventiquattro. I carcerati erano spostati,
ogni notte di San Silvestro, alla cella successiva, per cui il
numero della stessa finiva per indicarne gli anni di detenzione. Difficilmente raggiungevano la numero venti. Suicidi, morti naturali, tentativi d’evasione finiti nel sangue,
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lo impedivano.
Pascal Perinaud, contro ogni previsione, abita la gabbia
ventitré. A quarantadue anni, durante una rapina, aveva accoltellato a morte, nel retrobottega della loro gioielleria,
sulla Canebiere di Marsiglia, due anziani coniugi di origine algerina. Un gesto di disperazione, dalle tragiche conseguenze, per un uomo soffocato dai debiti e dagli usurai,
una famiglia dissipata dalle incomprensioni e dai rancori,
un lavoro al porto, come scaricatore, svanito nel fallimento
della cooperativa di facchinaggio nella quale aveva creduto,
una casa modesta, quella che gli aveva lasciato suo padre,
sulle alture tra gli ulivi e i limoni, perduta nelle bische, con
l’inganno e le macchinazioni indegne di qualche mascalzone, l’avvilimento e le umiliazioni annegate coi franchi,
elemosinati davanti alle chiese, e gettati sui banconi dei
caffè a bere pernod e cognac.
Da ventitré anni stava nel carcere dell’isola di Bannec. C’era arrivato con una motovedetta, partita dalla baia di Douarnenez, una mattina d’aprile del settantasette, con i ferri
ai polsi e la giubba grigia a righe col numero di matricola
sul petto, marchiato a fuoco. Il capoguardia con i baffi neri,
ispidi e porcini, lo sguardo distaccato, il cappello calato
sulla fronte lo aspettava sulla banchina tra le rocce battute
dal vento impetuoso che soffiava dall’Atlantico; lo aveva
preso in consegna e con un frammento d’umana sensibilità – così era la prassi – lo aveva invitato a voltarsi a guardare il mare e il cielo per l’ultima volta, prima di entrare nel
buio senza speranza dell’orologio. Era invecchiato dentro
quel forte, di anno in anno aveva cambiato branda, latrina
e tavolaccio, superato febbri e infezioni, si era lentamente
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abituato al fetore del luogo, a cancellare le emozioni dalle
sue abitudini, alle brodaglie che uscivano dalla cucina, agli
ordini secchi dei secondini e alle loro gratuite malvagità,
a trattenere l’odio e la ribellione, alle urla strazianti di chi
aveva perso la ragione, al tramestio fastidioso delle notti,
alle luci accecanti dei fari d’emergenza e alle lettighe che
portavano via i corpi degli impiccati. Adesso era lì, l’ultimo degli ergastolani, come se qualcuno si fosse volontariamente dimenticato di lui e avesse aspettato anche l’ultimo
giorno per piegarne il carattere, per costringerlo ad una
resa estrema, obbligandolo, dopo tanti anni di resistenza, ad
una inutile attesa, perfida e snervante; l’aveva lasciato nella
sua cella numero ventitré fino alla fine, da solo; i compagni, da un pezzo, erano stati trasferiti in altri penitenziari.
Li avrebbe seguiti la mattina del trenta dicembre 1999,
così aveva stabilito il ministero, destinazione Bayonne,
un’ultima sottile beffa dei suoi aguzzini, la mano pesante
della giustizia a negargli, in tal modo, l’amaro piacere di
passare alla ventiquattro. Pascal non sa di quella decisione
e continua a segnare, con pazienza, i giorni, le settimane e
i mesi che scorrono e lo dividono da quel traguardo, grattando sul muro di pietra della sua cella, con un cucchiaio
arrugginito, un calendario senza fine. Si respira un’aria di
festa, in attesa del nuovo millennio, camminando sui viali
eleganti di Brest, tra palazzi di vetro e cemento, curiosando
nelle vetrine scintillanti del centro, un fervore di famiglie
entusiaste riempie le strade e i mercati; un gelido vento
martella furioso le scogliere, s’infiltra tra le case modeste
dei pescatori nei villaggi, scuote i graticci alle pareti e le luminarie appese alle cancellate, solleva le ghirlande d’alloro
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e di agrifoglio appoggiate ai sopraluce dei portoni, semina
fragranze di pesce fritto, di gallette saracene e di canditi, fa
oscillare i festoni colorati delle chiese e scolla dai muri le
locandine e i manifesti ammiccanti dei veglioni. Dal mare
arriva una pioggerellina fastidiosa, al largo il suono degli
avvisatori di un traghetto in arrivo dalla Cornovaglia e
l’intermittenza dei fari, sulle rocce, a squarciare le tenebre.
Si può immaginare che nella stessa direzione, nell’oscurità minacciosa di mare e di nebbia, segregato nella cella
ventitré, Pascal Perinaud consumi, in quel luogo e a sua
insaputa, l’ultima giornata e si prepari, quattro giorni dopo
Natale, come aveva fatto per tanti anni, ad una cena di
pane e minestra, umiliato da una pena equa che non ammette riscatto, ammansito dal tempo, sorvegliato da un’unica guardia. Solo due persone, il carceriere e il carcerato,
per l’ultima notte, l’ultimo giro dell’orologio. Pierre Bazet
a trentaquattro anni è ancora secondino di terzo grado.
È nel suo posto di guardia, comandato per quel servizio,
seduto sull’unica sedia rimasta, zoppa e scricchiolante, la
divisa verde pesante; ai piedi, sfilati gli scomodi stivali d’ordinanza, un paio di zoccoli foderati di pelo, tra le mani
una rivista d’enigmistica, intonsa come neve fresca, e una
matita spuntata; in un angolo, su un tavolino di fortuna, un
telefono e due borse del supermercato Leclerc, conforto
necessario per un omone di quasi cento chili dall’appetito
facile, una stufetta elettrica a scaldare le ossa. Come sempre, fa freddo nella cella di Pascal, l’umido sul pavimento
e sulle pareti, muschio nero negli angoli, le lenzuola e la
coperta sulle spalle, brividi nella carne, barba grigia sulle
guance. Strappa, paziente, seguendo le cuciture e la trama
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