Abbracciati davanti al buio - ASD Rugby Zogno Valbrembana

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Abbracciati davanti al buio - ASD Rugby Zogno Valbrembana
ABBRACCIATI DAVANTI AL BUIO
Si è conclusa venerdì 28 febbraio l’iniziativa, spalmata su tre incontri, pedagogico-culturale che
ogni anno vede protagonista il Rugby Zogno (quest’anno supportato nell’organizzazione
dall’associazione Rete del Volontariato). Il tema dell’ultimo incontro tenuto dal professor Raffaele
Mantegazza, docente alla ‘Bicocca’ e pedagogista, va oltre la semplice pedagogia. Dal titolo
‘Abbracciati davanti al buio. Parlare della morte’, l’incontro, tenutosi in un’affollatissima sala
dell’oratorio di San Pellegrino, ha suscitato interesse fra i presenti, sviscerando tematiche di
difficile inquadratura.
Come e perché parlare della morte, questa cosa tanto tragica e ricca d’incertezza, ad un bambino?
Perché educare i ragazzi ad un qualcosa di cui rappresentano l’opposto? Il relatore, prima di partire
nell’esplorazione dei concetti, ha fissato due domande preliminari: come fare ad educare mio figlio
ad una cosa che non ho ancora provato? E perché avvelenare la mente dei bambini con cose tanto
tragiche?
Domande che ritornano, nel corso della serata, prima della sintesi conclusiva che porta l’adulto a un
nuovo confronto con la morte, a riscoprirla nel suo significato più profondo, per poterla poi,
davvero, spiegare, raccontare, ai propri figli.
Ma che cos’è la morte? Banalmente: è l’unica cosa certa. Ma è altresì qualcosa di incredibilmente
incerto. Non sapremo mai né come né quando moriremo. Esistono si, in modo molto schematico,
due tipologie di morte: quella naturale (la fine del corso della nostra vita dopo la vecchiaia; lo
‘spegnimento’ per il quale siamo ‘programmati’) e quella accidentale, improvvisa (un incidente, una
malattia incurabile, il suicidio…). La morte quindi, sottolinea Mantegazza, è intorno a noi. Non
possiamo, né dobbiamo, nasconderla.
Purtroppo però la nostra società continua a non parlarne; ad allontanarla indefinitamente. Questo è
sorprendente in quanto la morte è un discorso costante di tutte le civiltà umane. Il paradosso però si
palesa proprio nella nostra società, sorta da un gigantesco momento di rottura storico-culturale
quale fu il cristianesimo: infatti, continua Mantegazza, il cristianesimo lancia un messaggio di una
potenza inaudita. L’appartenente alla religione cristiana è colui che crede che un uomo (Gesù) abbia
attraversato la morte, sconfiggendola. Nessun altro culto (pagano, ebraico…) prima di allora aveva
osato tanto (basti pensare al vero e proprio ‘culto della morte’ nella società egizia o alla divisione
perfettamente simmetrica nella civiltà greca fra i mortali, gli uomini, e gli dei immortali che non
hanno mai conosciuto, né conosceranno, la rottura antropologica della morte).
Noi però viviamo oggi in una società che ha smesso di educare alla morte, in quanto ha
‘trasformato’ la concezione stessa della morte. Se il cristianesimo ebbe il merito di cambiare, dopo
millenni, l’idea della morte, oggi ci troviamo immersi in un mondo che non considera più la valenza
educativa e culturale del fenomeno della morte. Non si muore più in casa, circondati da amici e
parenti, ma lontano da tutto, nel freddo ambiente dell’ospedale, a contatto solo col medico o col
tecnico che decretano l’ora del decesso.
Non esiste più quasi nemmeno il tempo materiale per educare alla morte. Il funerale si organizza
velocemente; al rito i bambini partecipano solo lontanamente; in cimitero si tende a nascondere il
morto, rendendolo praticamente invisibile (interessante la breve digressione, spiegata da
Mantegazza, sulla trasformazione visiva della tomba messa in moto a partire dal ‘600 circa).
In sostanza si è perso, se non tutto, molto. Si è persa la concezione collettiva e sociale del dolore (le
lamentatrici nell’Italia meridionale); smarrita è pure la tradizione di avvicinare i bambini alla morte
(portare i figli a salutare il nonno nei suoi ultimi momenti di vita o nella camera ardente). In questo
modo i bambini, oggi, non comprendono forse la lezione più importante: che la morte fa parte della
vita di ognuno di noi, rappresentando quel cerchio ideale con cui il nostro tempo, lineare, giunge al
suo naturale compimento.
Tuttavia, prosegue ancora il relatore, per quanto si possa tenere lontana la morte da noi, questa
ritorna sempre. Sia in veste metaforica che, chiaramente, reale. Qualche esempio per capire. Gli
adolescenti leggono Dylan Dog, guardano i film horror e ascoltano gruppi heavy metal. Perché lo
fanno? Sentono dentro di sé un bisogno, quasi naturale, di avviare un discorso sulla morte; e altresì
vedono come questo discorso sia privo di riferimenti adulti. Pertanto cercano vie alternative,
simboliche per lo più, per sondare l’argomento.
A questo punto Mantegazza riprende il filo del discorso, tornando alle due domande iniziali: Perché
avvelenare la vita dei bambini con cose tanto negative quali la morte? E Come posso educare mio
figlio a qualcosa che non ho ancora sperimentato?
Alla prima il pedagogista risponde che le ‘cose negative’ come la morte aiutano, il ragazzo e il
genitore, a definire invece gli elementi positivi che ci circondano. Le ‘cose positive’ non si possono
costruire o delineare senza tener presente il concetto del ‘fallimento’ e della ‘sconfitta’ e quindi
della morte. In questo lo sport, che ha a che fare con la morte metaforica spessissimo, insegna
molto. La morte sportiva si manifesta in diverso modo (un goal al 90’ della finale di
Champions…o, diremmo noi tifosi di rugby, il drop all’80’ che consegna alla Scozia le chiavi della
salvezza ai danni dell’Italia nel 6 Nazioni); ma proprio lo sport, dopo la caduta, insegna a rialzarsi e
a concepire la sconfitta come funzionale alla ripresa (Perdo la finale di Champions al 90’? Bene: da
domani lavorerò per tornarci l’anno prossimo e vincerla).
La risposta alla seconda domanda si articola sul concetto del ‘non siamo mai morti’. Il che è vero:
chi è in vita non ha mai conosciuto, sperimentandola su sé stesso, la morte corporale. Tuttavia
esistono diverse tipologie di morte: l’uomo muore ogni volta che entra in una fase nuova della sua
vita (il pensionato non è più lavoratore; il professore non è più studente; l’allenatore non è più
giocatore). La morte si può sperimentare anche nelle relazioni sociali (il divorzio; una rottura
particolarmente forte con un amico…).
Certo, sottolinea Mantegazza, è vero che però prima o poi la morte, quella vera, arriva. Allora come
educare i nostri figli alla morte e perché farlo? Emerge la necessità di raccontare ai bambini la
morte, come accadeva in passato. Educare alla morte diventa fondamentale per spiegare ai nostri
figli, che ne sono il più gioioso opposto, la debolezza insita nell’essere umano; la sua fragilità
interiore ed esteriore. È forse la lezione più importante perché permette al bambino di vedere, di
toccare con mano, il cerchio della vita che, prima o poi, necessariamente, si interrompe.
A fine serata il professor Mantegazza ha poi risposto alle numerose domande della platea. Tra i temi
sollevati ci è parso interessante sottolineare i seguenti: la preferenza per la cremazione rispetto alla
sepoltura (un anticipare i tempi, un rendere me stesso, morto, ancora protagonista di ciò che mi
accadrà); il reale bisogno dei ragazzi di sentir parlare della morte; l’età a cui far avvicinare un
bambino alla morte, parlandogliene. Ma tra tutti, forse, il più difficile da analizzare è stato il tema
sulla tragedia dei suicidi degli adolescenti: quando un giovane, persi tutti i riferimenti adulti intorno
a lui, decide di compiere questo passo estremo, allora prende forma la completa sconfitta dell’adulto
che non ha saputo intercettare, comprendere e rispondere alla disperata richiesta di aiuto espressa
dal ragazzo.
La serata si è infine conclusa con un aneddoto sulla Shoa, uno dei tanti campi di specializzazione
del professor Mantegazza. Il relatore ha salutato i presenti con una storia, vera, del rapporto fra un
ragazzo e un anziano, entrambi ebrei di Praga, prima deportati nel ghetto, poi in seguito nei lager e
infine miracolosamente sopravvissuti al male assoluto del nazismo. Nel ghetto il ragazzo, sempre
solo in casa (i genitori uscivano per lavorare o prendere l’elemosina), si divertiva a fare scherzi
telefonici all’anziano (anche lui solo in casa, con la moglie fuori alla ricerca di lavoro). Uno scherzo
ripetuto più volte al giorno. Dopo l’Olocausto, tornato dal lager, il ragazzo, rimasto orfano,
ricompose lo stesso numero, ormai imparato a memoria, per vedere se dall’altra parte della cornetta
il vecchio amico avrebbe risposto. L’anziano rispose e, rimasto vedovo, invitò il giovane a
mangiare insieme a lui quell’uovo che era sempre stato l’oggetto misterioso dei loro scherzi
telefonici in passato.
GRUPPO RUGBY ZOGNO VALBREMBANA