Nessuno ha detto niente (Racconti 2008-2013)
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Nessuno ha detto niente (Racconti 2008-2013)
Nessuno ha detto niente (Racconti 2008-2013) IL FARAONE di Carlo Simoni www.secondorizzonte.it Non l’avevo visto. Neanch’io. Eppure c’era sicuramente quando ero arrivato e mi ero seduto a uno dei bar all’aperto che davano sulla piazza. Erano due o tre ore che camminavo. In mezzo alla gente. E ogni tanto alzavo gli occhi a guardare i gabbiani: man mano che le rondini si facevano rade arrivavano loro, non i pipistrelli, come dalle mie parti. I gabbiani. Che forse, di certo anzi, c’erano anche prima, ma adesso erano di più, e soprattutto c’erano solo loro nel cielo che si faceva scuro. Loro e i loro gridi di bambini. Già un paio di volte mi ero seduto: un caffè, una sigaretta, poi, in un altro posto, un bicchiere di vino bianco, una bruschetta. Qualche pagina del romanzo che stavo leggendo, ma mi distraevo subito: la gente che passava, che parlava. E la musica. Musica dappertutto: la clarinettista, truccata come un clown, che suonava solo gli inizi di brani diversi, poi faceva un grande sbadiglio e rimaneva immobile, fino a che qualcuno non metteva un euro nel cappello vicino allo sgabello su cui stava: insert coin for music, c’era scritto sul cartello che aveva ai piedi. Credo di averle dato cinque euro, uno alla volta, per sentire quegli inizi, ma soprattutto per vedere il sorriso che li precedeva e lo sbadiglio che li concludeva. E poi via di nuovo, a camminare, a guardare la gente. Una sosta, sui gradini di una fontana. Il libro in mano, ma non occorreva leggere. Bastava continuare a seguire con gli occhi gli altri che camminavano, parlavano, ridevano, arrivavano nel bar dove c’erano amici che li aspettavano, o solo gente che conoscevano ma era come se fosse lì ad aspettarli. In una piazzetta c’era uno che cantava canzoni argentine, accompagnato da un giovane serio, che suonava una tastiera elettrica come fosse un pianoforte a coda. Mi sono seduto a un tavolino a due passi da loro. Han suonato anche cose che conoscevo, cose di Piazzolla. Ho pensato che il tango dice che non è vero che i giorni si ripetono, a caso, e le vite sono tutte più o meno uguali. Dice che invece sono diverse, che ognuno ha la sua, e ci sono giorni in cui succede qualcosa che bisogna prendere al volo, giorni diversi dagli altri, in cui la vita fa una svolta, e è per quei giorni che si vive. Anche uno che non ci crede lo deve ammettere che il destino c’è, nel tango almeno. Poi sono arrivati dei giocolieri e il chiasso dei loro fischi, tamburi e urli copriva il tango e i due argentini hanno smesso. Ma andava bene così. Il teatro è così: ogni tanto cambia scena, e tu non devi fare altro che star lì a vedere, e ascoltare. Adesso guardavo il cavallo del biroccio per turisti. Prima era dietro quelli del tango e non lo vedevo. Adesso era lì, fermo, con gli occhi bassi. In mezzo a migliaia di passi e di voci, ma lui guardava per terra. Non glieli si vedevano gli occhi. Il suo padrone stava sul biroccio, a fumare. In attesa, senza dire niente a quelli che per passare dovevano aggirare il biroccio ma era come se non lo vedessero. Ho pensato che forse ero solo io a guardare gli altri, tutti gli altri. Loro invece guardavano solo quelli con cui parlavano. E solo per caso si trovavano nella stessa piazza o nella stessa strada in cui ero io. E nel pensare così mi è sembrato che non ci fosse più niente e nessuno da star a guardare. Ecco, ho pensato, ci siamo: mi succede sempre così. Come se non ci si potesse accontentare. No: devo aspettarmi chissà quale novità, immaginare che stia succedendo qualcosa che da sempre doveva succedere e neanche so cosa sia. E così, dopo, accorgermi che non c’è poi ’ste gran differenza fra la mia città, che dopo le otto di sera è un deserto, e questa, dove invece sembra che stian fuori sempre. Tutti insieme. Insieme… non lo vedevo più tutto quello star iniseme. Adesso vedevo persone che erano nelle stesse piazze, nelle stesse strade ma avrebbero potuto essere altrove. Ognuna per conto suo magari. Non vedevo più quella specie di festa a cui mi era sembrato di poter partecipare anch’io, anche se stando sempre ai margini. Adesso non vedevo più nessuna festa che li tenesse insieme tutti. Anche me. E non è che fosse successo niente. Niente di diverso rispetto a prima. Stavo solo passando la sera, aspettando di essere abbastanza stanco da andare a dormire, anche se ero in quella città, in mezzo a quella gente. Nell’andar via ho toccato con la mano la fronte del cavallo, come faccio sempre quando ne incontro uno, in montagna. Mi è venuto in mente quello là che, in un’altra città, il cavallo l’aveva abbracciato: non mi sembrava poi ’ste gran pazzia. Non mi era mai sembrata. Adesso, a questo bar dove mi ero seduto, in quest’altra piazza, guardavo, continuavo a guardare, ma era tornato tutto come al solito. Persone, a due a due, o famiglie, o gruppi di amici, o di turisti, più la piazza che stavano attraversando, o il bar dove si fermavano: stasera come ieri sera come domani sera come il mese prossimo e l’anno venturo. Niente di nuovo. Niente di speciale. Nessuno che diceva niente. Chiacchieravano fra loro, certo. Ma io lo vedevo che anche qui era come se non dicessero niente. Non si parlassero davvero. Poi mi sono accorto di lui. Dell’uomo d’oro. Vestito come un faraone egizio. Come un faraone già nel sarcofago forse. Tutto d’oro. E immobile. Senza sguardo. Come il cavallo dell’altra piazza. Invisibili tutt’e due. Ma il faraone, se non faceva il minimo movimento, era proprio perché lo vedessero, e si fermassero e gli dessero una moneta. Invece, in un’ora ho visto solo una bambina, indecisa, che si voltava a guardare i genitori che le avevano dato il soldo, metterlo nella ciotola per terra davanti alla statua d’oro. E il faraone aveva fatto un lento piccolo inchino, per poi tornare immobile, le braccia conserte sotto la plastica dorata, una faccia neanche immaginabile dietro la maschera che la copriva. Se non ci fosse stato il faraone probabilmente me ne sarei andato. Era molto tardi ormai. Invece restavo lì a guardalo. Ho cominciato a chiedermi perché facesse quel mestiere: cosa riusciva a portare a casa in una sera? Ce n’erano decine che facevano la statua in giro per la città. Forse in altri posti riuscivano a farsi vedere. Ma lì, in quella piazza zeppa di gente… Mi sono accorto che solo a un altro tavolino del bar c’erano ancora un uomo e una donna che parlavano fitto senza guardarsi in giro. Litigavano forse. La gente che passava era sempre meno. Non sapevo più se stavo lì per il faraone o se il faraone stava lì per me. Sempre che mi avesse visto. Doveva arrivare il momento in cui sarebbe sceso dalla sua pedana: avrebbe alzato il vestito che copriva anche quella, arrivando fino a terra? si sarebbe levato la maschera? sarebbe uscito da quel sacco d’oro e avrebbe messo tutto, anche la ciotola in una borsa? Ma se invece che un uomo, come avevo fino allora pensato, ci fosse stata una donna là dentro? Certo la statura, le spalle, potevano essere quelle di una donna, minuta anche. Mi alzo e vado da lui, o da lei: metto cinquanta euro nella ciotola. Ma lui, lei, resta immobile. Sto lì a guardare, immobile anch’io, ma l’inchino non arriva. Allora mi sposto. Mi metto vicino, a fianco, e gli dico, le dico, in un’orecchio: ma perché fai questo mestiere? Niente. Neanche il minimo segno che mi abbia sentito. Aspetto un po’, poi mi giro e sto per andarmene quando sento il fruscio del vestito d’oro. Mi giro: il faraone si è profondamente inchinato, e per farlo si è girato nella mia direzione. Sta lì, piegato in due. Sento che devo andare via per interrompere quell’inchino. Ho fatto appena due passi quando sento il grido di un gabbiano, proprio sopra la mia testa. Mi sono svegliato con la sensazione che l’uccello mi avesse sfiorato con un’ala. Invece stava volando alto fuori dal cielo della piazza. Avevo dormito abbastanza per fare quel sogno. Magari solo pochi secondi ma erano bastati. Tutte le altre sedie erano state messe sui tavolini. Il bar era chiuso. La piazza era vuota. Il faraone non c’era. C’era solo una cassetta della frutta rovesciata dove prima c’era lui, e sopra la cassetta il vestito d’oro piegato, e appoggiata su quella la faccia del faraone: maschera rigida davanti, e dietro tela, d’oro anche quella. Quando sono tornato lì vicino a guardare quel mucchietto di cose ho visto che, non nel bar dov’ero stato io, ma davanti a un altro vicino, c’era uno che aveva tirato giù una sedia dalla pila che i camerieri avevano fatto prima di andar via. Stava lì seduto. A bere acqua da una bottiglietta, e a guardare anche lui la roba del faraone. Era scuro di faccia, ma non nero. Prima di girare l’angolo mi sono girato a guardare ancora la piazza. Anche quello là si era alzato. Aveva girato la cassetta e ci stava mettendo dentro le cose del faraone.