App. Roma 15 marzo 2011
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App. Roma 15 marzo 2011
Archivio selezionato: Sentenze Corte appello Autorità: Corte appello Roma sez. III Data: 15/03/2011 n. 1085 Classificazioni: SUCCESSIONE LEGITTIMA E NECESSARIA - Legato in sostituzione di legittima REPUBBLICA ITALIANO IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte di Appello di Roma Sezione III^ Civile composta dai signori magistrati Dr. Giuseppe lo Sinno Presidente, rel./Est, Dr. Angelo Martinelli Consigliere, Dr. Maurizio De Stefano Consigliere,ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al N. 8059/2005 del Reg, Gen. Affari Contenz. posta in decisione all'udienza collegiale del 4 Febbraio 2011 e vertente tra C.A.A., nata a S. Severo (F6) il omissis, rapp.ta e difesa dall'avv. Vittorio Morrone del foro di Roma ed elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo avv.to in Roma, via d.G., giusta delega in atti; Appellante c/ C.P.G., nata a S. Severo (FG) il omissis, rappresentata e difesa dall'avv. Alberto Palattella del foro di Roma ed selettivamente domiciliata in Roma, via C., presso lo studio del medesimo, per delega in atti; Appellata e appellante inc.le e C.M., nato a S. Severo (FG) il omissis, rapp.to e difeso dall'avv. Prof. Antonio Calmieri del foro di Roma ed elettivamente domiciliato in Roma, via A.V., presso lo studio del medesimo avv.to, per delega in atti; Appellato e appellante incidentale e C.M.A., nata a S. Severo (F6) il 6.06.1931, rapp.ta e difesa dall'avv. Alessandro Fusillo del foro di Roma ed selettivamente dom.ta in Roma, viale d.M., presso lo studio del medesimo avv.to, giusta delega in atti; Appellata e appellante inc.le Oggetto: Appello avverso le sentenze del Tribunale di Roma n. 33909/01 e N. 11595/05 (azione di riduzione e divisione ereditaria). CONCLUSIONI DELLE PARTI. Per la appellante: (come da atto di appello e all'udienza di p.c). Per C.M. (come da comparsa di costituzione e all'udienza di p.c). Per C.P.G. (come da comparsa di costituzione e all'udienza di p.c). Per C.M.A. (come da comparsa di cost.ne e ud. p.c.). Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione notificata in data 19 e 22.11.2005 la sig.ra C.A.A. ha proposto appello avverso la sentenza definitiva emessa dai Tribunale di Roma in data 14.04.2005 con la quale, previa dichiarazione di apertura della successione di F.G.C. (deceduta il omissis), era stata accertato la qualità di erede legittimario di C.P.G. e la lesione della quota di legittima ad essa spettante, accogliendo la domanda di riduzione avanzata dalla stessa nei confronti dei fratelli C.A.A., C.M. e C.M.A.; rigettando la pari domanda di riduzione proposta da C.M.A. nei confronti di C.M. e C.M.; riducendo la disposizione testamentaria a favore di C.M. di lire 218.104.854, quella a favore di C.M. di lire 148.311.300 e quella a favore di C.M.A. di lire 69.793.553, condannando questi stessi eredi a pagare a C.P.G. le relative somme rivalutate e maggiorate di interessi legali; regolando le spese del giudizio a favore dell'attrice ed a carico dei convenuti (50% a carico di C.A.A.; 34% a carico di C.M.e il 16% a carico di C.M.A.) e così pure le spese di CTU. Detta sentenza era stata preceduta da altra sentenza, non definitiva, n. 33909 depositata dal Tribunale di Roma in data 18.10.2001, che aveva rigettato la domanda di divisione ereditaria proposta da C.M. ed accertata la successione dei 4 eredi nei singoli beni a ciascuno attribuiti nel testamento della defunta madre, respingendo la domanda di C.A.A. per il riconoscimento di un proprio diritto sull'intera quota disponibile (pari alla metà dell'asse ereditario) e rigettando, infine, anche le domande di C.A.A. e C.M. dirette al riconoscimento dei propri diritti verso l'eredità per spese di manutenzione degli immobili, di cui avevano goduto prima della morte della madre, e per il mantenimento e l'assistenza della medesima. Il primo giudice aveva definito la domanda proposta da C.P.G., in B., con citazione in data 18/19/20.09.1991 nei confronti dei fratelli, per la riduzione delle disposizioni testamentarie della defunta madre che con il suo testamento olografo, pubblicato il 4.12.1990, aveva attribuito ai quattro figli quote del suo patrimonio ledendo, tuttavia, la sua quota di legittima ex art. 537 c.c., rispetto al valore dei beni attribuiti ai fratelli (che chiedeva venissero condannati al pagamento delle somme necessarie alla reintegrazione della sua quota, con rivalutazione, interessi e spese). Con l'appello proposto da C.A.A. questa deduce e sostiene l'erroneità tanto della sentenza non definitiva (già fatta oggetto di tempestiva riserva di appello) che di quella definitiva; chiedendo (oltre che la sospensione della sentenza appellata ex art. 283 c.p.c.) l'accoglimento della sua posizione contestativa di ogni suo obbligo di restituzione o collazione di somme a favore della coerede C.P.G., e quindi il rigetto di ogni domanda contro di sé proposta e la pronuncia a norma di legge in ordine alla domanda proposta dalla sorella C.P.G. al fine della ricostruzione ed attribuzione alla stessa della quota di legittima, pari ad 1/6 dell'asse, ponendo a carico degli altri eredi la concreta reintegrazione, in natura o denaro, nei limiti delle rispettive quote di legittima. Si è costituito C.M. per contestare l'appello perché ritenuto infondato e per chiederne il rigetto; proponendo appello incidentale per ottenere, in riforma delle due sentenze del Tribunale, la dichiarazione di validità ed efficacia della disposizione testamentaria a suo favore e conseguente affermazione che la stessa non era soggetta a riduzione: in subordine, previo accertamento del maggior valore degli immobili siti in Roma, via L. .../ .../ ..., riformarsi la sentenza definitiva riducendo t'importo eventualmente da lui dovuto ai fini della reintegrazione della altrui quota di riserva; con vittoria delle spese del giudizio. Si è costituita anche C.P.G. per contestare l'appello proposto e chiederne il suo totale rigetto, con il favore delle spese del grado; proponendo appello incidentale per chiedere la parziale riforma della sentenza definitiva circa il valore della quota di legittima a lei spettante con richiesta di estensione alla eventuale residuale eccedenza della quota disponibile, tenendo conto del maggior valore degli immobili attribuiti ai fratelli, con il riconoscimento degli interessi dal momento dell'apertura della successione, ed escludendo il locale di via L. con conferma del valore dei due locali di via L. ... e ...; modificando il valore dei gioielli e disporre la divisione dei beni della defunta non citati nel testamento inclusi i proventi della vendita di titoli in possesso di C.A.A.. Si è pure costituita C.M.A. per contestare l'appello proposto e chiederne il rigetto, e per proporre appello incidentale, nei riguardi della sentenza definitiva, per vedere rideterminati i valori dei beni ereditari e per la conseguente rivalutazione dei suoi diritti di erede. Accolta l'istanza di sospensiva avanzata dalla appellante e, nel prosieguo, precisate le conclusioni avanti al consigliere istruttore, la causa è passata al collegio che, all'udienza del 4.02.2011, sentite le parti l'ha trattenuta per la decisione. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE Il primo motivo di appello proposto da C.A.A. è relativo alla sentenza non definitiva che aveva respinto la sua domanda di vedersi riconosciuto il diritto sulla metà dell'asse ereditario ed alla ricostruzione in tale misura della propria quota sul presupposto che la testatrice aveva chiaramente espresso una sua "diversa volontà" valida, ex art. 734 comma 2 c.c., per attribuire alla sola figlia C.A.A. altri beni non ricompresi nella divisione del testatore. In merito la disposizione testamentaria della sig.ra C.F.G. aveva indicato, con riferimento ai lascito alla figlia C.A.A. dell'appartamento di via A. (con annesso garage), che " Questa porzione risulta maggiore dei/e altre: il di più è da considerarsi sulla disponibile che le lascio per gratitudine". Anche C.M. ha impugnato, incidentalmente, la sentenza non definitiva relativamente alla sua originaria domanda di divisione ereditaria con attribuzione delle quote ereditarie sulla base delle disposizioni contenute nel testamento, che il Tribunale aveva respinto ritenendo che la testatrice aveva realizzato una "divisione del testatore (o divisione senza comunione in atto}' impedendo la costituzione della comunione ereditaria. Su quest'ultima questione, che appare preliminare, questa Corte ritiene che - tenuto conto del tenore complessivo della scheda testamentaria della defunta F.G. in C. - meriti conferma la decisione del Tribunale che aveva affermato che la volontà della testatrice era stata quella di attribuire a ciascun figlio (m quanto erede legittimo) singoli beni determinati, e non solo una quota dell'universalità dei beni, segnalando agli altri coeredi anche le ragioni della "preferenza" accordata in favore della figlia C.A.A. senza, tuttavia, che tale segnalazione di preferenza potesse, in realtà, essere intesa come volontà di dettare una norma per la "futura" divisione dell'asse (avente, per questo ed ai sensi dell'art. 733 ce, efficacia esclusivamente obbligatoria); vertendosi, chiaramente, nell'ipotesi di cui all'art. 734 ce. che assegna efficacia reale immediata alla assegnazione divisionale fatta dal de cuius. Infatti, qualora il testatore abbia disposto del proprio patrimonio dividendo i propri beni tra gli eredi in modo analitico, con precisione ed attenta valutazione della loro ubicazione e consistenza, ricorre l'ipotesi dell'assegno divisorio ed. qualificato, di cui all'art. 734 c.c., avente efficacia reale; sicché, a differenza di quanto avviene nel caso dell'assegno divisorio ed. semplice (ex art. 733 c.c.), i beni assegnati passano immediatamente e direttamente, in via definitiva, dal testatore ai rispettivi eredi assegnatari, senza che abbia luogo alcuna comunione ereditaria: e per questo, e di conseguenza, è stata correttamente respinta la richiesta di divisione ereditaria, previo scioglimento della comunione, proposta dall'erede C.M. qui appellante inc.le. A miglior confutazione dell'impugnazione di quest'ultimo, ritiene il Collegio che la volontà genuina ed intima della de cuius, quale risultante dal suo testamento, sulla base dell'esame globale della scheda testamentaria, fosse quella di realizzare proprio una divisione ex art. 734 c.c. Infatti, con tale testamento ella intese attuare un complesso organico di disposizioni patrimoniali attribuendo a tutti i suoi figli (le parti del presente giudizio), chiamati a succederle a titolo universale, con la ripartizione dei propri beni in tante porzioni di valore corrispondente alle quote ereditarie nelle quali gli stessi erano stati istituiti. Difatti, nel caso in esame, a differenza di quanto accade qualora vi sia una pluralità di institutiones ex certis rebus - ipotesi che si realizza qualora distinti beni vengano attribuiti dal testatore e da tale attribuzione, in via interpretativa, si ricava la volontà che il beneficiario era stato istituito quale erede in una quota determinata, a posteriori, sulla scorta del valore del bene assegnato (art. 588 comma secondo c.c.) - C.F.G. intese distribuire tutti i suoi beni tra i suoi figli, predeterminando altresì quali fossero le quote in cui gli stessi erano chiamati a succederle ed avendo ben presente il valore (approssimativo) dei beni attribuiti loro (in questa porzione risulta maggiore delle altre......" è l'incipit della specifica ragione dell'assegnazione ad C.A.A. dell'appartamento di v. A.). La considerazione, in detto atto, di tutti i beni immobili dalla stessa posseduti, lascia chiaramente intendere che la de cuius intendeva attribuire gli stessi ai vari soggetti da essa stessa individuati quali coeredi, impedendo, con l'effetto attributivo diretto e distributivo proprio della divisione del testatore. l'insorgere stesso delta comunione ereditaria (così tra le prime Cass. civ. n. 4826/1983), di guisa che i successori sono tali non già per quote astratte ma in quote concrete designate dallo stesso testatore (v. Cass. civ. 28 dicembre 1962 n. 3425; Cass. civ. 7 giugno 1962 n. 1390). Se il proprium della divisione in esame è che all'assegnazione di beni ai coeredi deve accompagnarsi una corrispondente intenzione del testatore diretta ad attuare un piano di divisione con l'effetto ed i risultati propri di tale istituto, nel senso cioè che il de cuius abbia considerato il suo patrimonio nella sua unità organica, operandone la ripartizione in quote, e stabilendo come queste ultime debbano essere formate, tale carattere è sicuramente ravvisabile anche nell'atto di ultima volontà della sig.ra C.F.G. . Infatti la predeterminazione astratta delle quote in cui le figlie ed i figli venivano chiamati a succederle può essere ricavata dalla complessiva lettura del testamento, che, secondo l'interpretazione preferibile che ritiene di dover effettuare questa Corte, lascia intendere che la testatrice intese chiamare alla successione quali eredi tutte le parti presenti nel giudizio de quo, attribuendo però alla figlia C.A.A. una quota dell'asse corrispondente alla legittima di sua pertinenza oltre la disponibile, ed agli altri figli la quota di legittima loro spettante ex lege. Tale opinione potrebbe già essere avvalorata dal semplice fatto che la prima parte del testamento, laddove prevede che alla figlia C.A.A. vada assegnata la disponibile ("...sulla disponibile che le lascio per gratitudine"), contiene in negativo la previsione che la quota spettante agli altri chiamati all'eredità, menzionati nella successiva parte del testamento, debba corrispondere alla quota di legittima di cui all'art. 537 c.c., ma a fronte della obiezione della non univocità del dato letterale, si ritiene di poter addurre ulteriori considerazioni a conforto del convincimento cui è pervenuto questo collegio. Infatti la successiva ripartizione dei beni appartenenti alla testatrice risulta esser compiuta proprio nell'intento di garantire il rispetto delle quote così come sopra individuate, e di ciò ne è palese segnale il fatto che, mentre a tre figli vengono assegnati specifici beni immobili, a C.P.G. veniva lasciata una precisa somma in denaro (250 milioni di lire) formata una parte da titoli e altra da contanti, il cui ammontare, per questo, poteva variare al variare del valore dei titoli, ma comunque parametrato al valore della quota di legittima che la testatrice aveva valutato in quella cifra (250 milioni), di valore approssimativamente corrispondente alla quota di legittima ed al valore dei beni assegnati agli altri; sicché anche tale circostanza appare confermare la su riferita interpretazione, essendo evidente che con la scheda testamentaria de qua la defunta intendeva distribuire tutti i suoi beni tra i figli in maniera conforme alle predette quote di legittima. Se, come risulta dai rilievi su esposti, la reale intenzione della de cuius fu quella di istituire tutte le parti del presente giudizio quali coeredi e nelle quote sopra indicate, appare quindi del tutto destituita di fondamento la tesi sostenuta dalle parti qui appellate ed in particolare da C.M.; infatti tale prospettazione delle vicende per cui è causa, oltre che apparire adeguatamente contrastata da quella che è la reale e genuina interpretazione della volontà della testatrice, condotta alla stregua dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., nei limiti in cui essi appaiono compatibili con la natura dell'atto in oggetto, non tiene in adeguata considerazione le riflessioni maturate in dottrina ed in giurisprudenza sull'istituto previsto dall'art. 551 c.c.. Infatti l'intenzione del testatore di soddisfare integralmente i diritti del legittimario con l'attribuzione del legato in sostituzione deve emergere in maniera inequivoca, sia da una espressa proposizione, sta dal complesso delle proposizioni testamentarie; inoltre seppur è vero che non appare necessario che l'autore della scheda indichi espressamente le conseguenze derivanti dall'accettazione ovvero dal rifiuto della disposizione in oggetto (Cass. civ. 26 gennaio 1990 n. 459, in Giur. it 1990, I, 1, 1152 ed in Giust. civ. 1990, I, 1241), è altrettanto vero che, secondo l'interpretazione in fatto demandata al giudice di merito, ed incensurabile in sede di legittimità, ove coerentemente e logicamente motivata (così Cass. civ. 13 novembre 1979 n. 5893, in Riv. not. 1980, 570; Cass. civ. 16 maggio 1977 n. 1991), deve risultare in maniera inconfutabile che l'attribuzione dei beni oggetto del legato dovesse avvenire con il fine di esaurire le ragioni ereditarie del beneficiario, precludendogli conseguentemente l'azione di riduzione (così Cass. civ. 15 novembre 1982 n. 6098, in Giust. civ. 1983, I, 49 ed in Arch. civ. 1983, 733; Cass. civ., sez. II, 01-03-2002, n. 3016). Né va dimenticato che non basta l'attribuzione di alcuni beni ai legittimari a far ritenere, senza necessità d'indagine della volontà del testatore, che sia stato disposto un legato in sostituzione di legittima, potendo tale attribuzione essere fatta a norma dell'art. 588 ce, ugualmente a titolo universale (così Cass. civ., sez. II, 18-01-2007, n. 1066). Nella fattispecie alcun elemento particolare induce a ritenere che la testatrice intendesse con la detta assegnazione tacitare le ragioni dei legittimari, mancando alcun riferimento ad una preclusione all'azione di riduzione per effetto dell'accettazione del lascito; viceversa risulta avvalorata, per i rilievi sopra riportati, l'idea che la defunta intendesse far si che i beni de quo andassero a far parte della quota spettante ai figli, così come predeterminata in misura corrispondente alla quota di legittima riconosciuta ex lege, costituendo quindi una delle articolazioni del complessivo disegno distributivo delle proprie sostanze che intendeva realizzare con il testamento sopra riportato. Una volta quindi pervenuti alla conclusione che nell'atto di ultima volontà di C.F.G. fosse altresì presente una divisione del testatore delle proprie sostanze (denominala anche in dottrina come assegno divisionale qualificato), il Tribunale aveva correttamente esaminato la domanda proposta dalla sorella C.G.P., tendente ad ottenere la riduzione delle disposizioni del testamento per lesione della sua quota di legittima. Pertanto dovrà procedersi allo definizione della originaria domanda di riduzione secondo le quote stabilite dalla stessa testatrice, la cui volontà rimane integra in parte quane\ seguente modo: C.A.A.: 1/6 (legittima) + 1/3 (disponibile) = quota di sua spettanza: 1/2; C.P.G.: 1/6 (legittima); C.M.A.: 1/6 (legittima); C.M.: 1/6 (legittima). Tornando al 1° motivo di appello di C.M., to stesso si basa sulla asserita incompletezza delle disposizioni testamentarie della madre che sarebbe stata, comunque, ben al corrente dell'esistenza di altri beni o valori e soprattutto di valori mobiliari (depositi bancari ed altro) anche se non era stata in grado - in quel momento - di determinarne il loro esatto ammontare; e censura l'affermazione del Tribunale che aveva osservato come la testatrice avesse "inteso esaurire coi testamento - o comunque ritenuto di esaurire con esso - l'intero asse ereditario". Anche tale questione si presenta destituita di fondamento perché il presupposto su cui si basa il comma 2 dell'art. 734 c.c.. ("se nella divisione fatta dal testatore non sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti conformemente alia legge, se non risulta una diversa volontà dei testatore" ) è che risulti una volontà del testatore di non esaurire le attribuzioni dei suoi beni ai suoi eredi (tutti) e lasciare alle regole ordinarie per la divisione del residuo asse, senza rilievo che vi siano dei beni, noti, ma ancora non conosciuti per il loro esatto valore dal de cuius ma di cui questi abbia inteso, comunque, disporre esaurendo l'intera massa ereditaria (Cass. civ., 28-11-1984, n. 6190: "nel diritto vigente la successione legittima può coesistere con quella testamentaria, per cui, se attraverso le disposizioni testamentarie non è esaurita l'intera massa di beni di cui il testatore poteva disporre, i rimanenti beni, salva diversa volontà del testatore stesso, si trasmettono all'erede legittimo" ; nonché Cass. civ., sez. II, 07-06-1993, n. 6358: "il 2° comma dell'art. 734 c.c. - il quale prevede che, nel caso di incompletezza della divisione testamentaria, i beni in essa non compresi sono attribuiti secondo le norme della successione legittima, salvo che risulti diversa volontà del testatore - disciplina il solo caso di una lacuna della divisione stessa rispetto alla (completa) vocazione testamentaria e risolve, di conseguenza, soltanto un problema di determinazione dei criteri di divisione, anche nella parte in cui richiama le norme sulla successione legittima ed in cui non è ravvisabile una regola pleonastica rispetto alla disposizione generale contenuta nell'art. 457 ce, riferibile alla diversa ipotesi di vocazione essa stessa parziale e quindi di concorso fra successione legittima e successione testamentaria, con la conseguenza che, in tale ipotesi, l'intervenuta divisione testamentaria non esclude, rispetto al reiectum indiviso e da dividere, l'ammissibilità della collazione; l'indagine diretta a stabilire se, oltre alla divisione, anche la vocazione testamentaria sia stata parziale va condotta con riguardo alla effettiva volontà del testatore, ricercata in base sia ad elementi risultanti dall'atto globalmente considerato, sia ad elementi che, sebbene ad esso estrinseci, risultino nondimeno idonei allo scopo"). Nel caso in esame i titoli della defunta o i suoi depositi bancari (che una volta prelevati diventano contanti) erano ben noti alla stessa (che ne aveva anche fatto cenno nella scheda), senza che ne derivasse alcuna volontà contraria alla divisione completa dell'asse operata con le disposizioni in concreto elencate nel testamento; e senza che una eventuale carenza di valori potesse incidere sulla reale volontà divisoria della testatrice interpretata correttamente dal Tribunale nel senso di sussistenza di una divisione testamentaria completa dell'intero asse ereditario. Infatti, l'interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, d'altronde, alla stregua dell'art. 1362 ce, va individuata sulla base dell'esame globale della scheda testamentaria, e non di ciascuna singola disposizione, con riferimento anche ad elementi estrinseci alla scheda stessa, come la cultura, la mentalità e l'ambiente di vita de! testatore medesimo e salvo il divieto di integrazione ab extrinseco di tale volontà, diversa da quella effettiva del de cuius; pertanto, nella doverosa ricerca di detta volontà, si può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell'atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purché non contrastante e antitetico, e si prestino ad esprimere in modo più adeguato e coerente la reale intenzione del de cuius. Poiché, nel caso in questione, la defunta si presentava persona di cultura ed estrazione sociale di rilievo (come viene indicato anche dalla figlia appellante) e con dotazione terminologica considerevole, non par dubbio che ella fosse pienamente consapevole, nel momento in cui andava a disporre del suo patrimonio per il momento della sua morte, di procedere in modo tale da dividere totalmente l'asse patrimoniale di sua disponibilità composto da beni immobili (per quota di proprietà intera o parziale), gioielli ed oggetti di valore, titoli e contanti, senza alcuna riserva, espressa o tacita, a tale sua specifica volontà divisoria. Conseguentemente, e sulla base della disposta divisione del testatore, i figli della defunta risultano suoi eredi testamentari e non legatari; e la domanda di riduzione avanzata da C.P.G. (e quella riconvenzionale della sorella C.M.A.) andava affrontata e risolta così come aveva fatto dal primo giudice, con l'unica precisazione concernente l'ulteriore statuizione della sentenza non definitiva (di rigetto delle domande di C.A.A. e C.M. tese al riconoscimento di propri diritti verso l'eredità per spese di manutenzione o mantenimento e assistenza della madre) che è stata impugnata da C.A.A. sui presupposto che vi sarebbe stata una erronea esclusione di rilievo per le spese sostenute, anche dal coniuge convivente, per la manutenzione e ristrutturazione dell'appartamento di via A. ove la defunta madre aveva abitato (con figlia e genero) sino al suo decesso dei 15.11.1990. A tal riguardo la sentenza appellata (n. 33909/01) aveva escluso il diritto rivendicato affermando essere "implicito nelle affermazioni degli stessi convenuti che tali spese furono compiute per affetto verso la madre o allo scopo di migliorare l'immobili detenuto; per spirito di liberalità quindi o quali detentori dei beni, non anche per conto della madre quali mandatari aventi diritto al rimborso delle spese". La predetta affermazione appare, solo formalmente, contraddittoria se si tiene conto della finalità della pretesa avanzata dalla appellante (che era quella non tanto di vedersi riconosciuto il diritto al rimborso in moneta, quanto quello di vedere accertato il reale valore dell'immobile a lei attribuito dalla de cuius al netto degli interventi eseguiti per il suo miglioramento; che la appellante ha definito "diffalco" cioè detrazione dal valore dell'immobile dell'incremento ad esso apportato con le migliorie e le opere di manutenzione straordinaria o restauro eseguite a cure e spese sue e del coniuge, come indicato e riconosciuto nel testamento); pretesa che non andava risolta sulla base delle prove offerte dalla parte (circa la effettiva esecuzione di tali opere ed interventi e la conseguente spesa sostenuta) quanto, piuttosto, sul rilievo del soggetto che ne traeva beneficio e sulle conseguenze degli interventi effettuati sull'immobile (che all'epoca era abitato dalla proprietaria C.F.G. che vi ospitava la figlia C.A.A. ed il genero che le prestavano anche assistenza). In orarne a tale aspetto del contendere è da tenere presente che la defunta madre, nel suo testamento, avevo indicato espressamente che ero "necessario ricordar" 'inoltre che l'impalino lasciò la casa di via A.. in condizioni deplorevoli...... pertanto il restauro e. tutte le migliorie apportate all'appartamento di via A. comportò una ingente spese, di cui esistono le corrispondenti fatture e che. essendo sfata sostenuta da mio genero ing. G.B. è da defalcare attualizzata nell'eventuale stima dell'immobile............" Mia figlia e mio genero provvedono al mio mantenimento accollandosi le spese di gestione e di vitto, nonché tutti i lavori straordinari dell'appartamento, e ciò grazie al lavoro di ambedue............" , dimostrando ancor più sia la ragione dell'attribuzione alla figlia C.A.A. del cespite di maggior valore (del cui valore ella era ben consapevole) che della diversa posizione degli altri figli a cui inviava un preciso invito a tenere conto di quello che C.A.A. aveva fatto per lei e per l'appartamento in cui aveva vissuto (certamente di valore maggiore degli altri). Il principio base su cui deve incentrarsi ogni decisione in materia di scioglimento di comunioni ereditarie (e non) è quello secondo il quale " la stima dei beni oggetto di divisione deve essere effettuata con esclusivo riferimento al valore venale ovvero di mercato dei beni stessi; il riferimento ad altri criteri di stima, sia pure concorrenti con quello del valore di mercato, non risponde alla previsione legislativa e quindi altera la corretta determinazione del valore dei beni oggetto di divisione" (così Cass., sez. II, 31-10-2006, n. 23496). E valore venale di mercato non può essere considerato che solo quello che faccia riferimento alla effettiva realtà del bene in rapporto ai criteri estimativi correnti; realtà che deve basarsi sulla fotografia del singolo immobile per come esso si presenta all'occhio dello stimatore comprensivo, pertanto, di ogni elemento tecnico costruttivo che abbia consentito di dare forma e sostanza all'immobile. La situazione in esame, invero, si differenzia dai casi in cui un erede faccia interventi su beni del dante causa, prima della sua morte, ed avendone il possesso esclusivo; in tali casi, infatti, le migliorie apportate (prima dell'apertura della comunione) da uno dei coeredi ad un bene caduto in successione, per il principio dell'accessione, vengono a far parte della massa da dividere, e di esse deve tenersi conto ai fini della stima della massa medesima e della determinazione delle quote perché il valore di quel bene (da stimare alla data della morte del de cuius) comprendere anche la condizione di manutenzione e conservazione del bene. Ma quando il bene non sia posseduto dal futuro erede, il quale sia solo ospitato dal de cuius prima della sua morte, e sul medesimo vengano effettuati lavori di miglioramento incorporati nel suo finale valore, quell'erede deve tener conto -essendone divenuto unico proprietario per lascito testamentario a tacitazione di legittima + disponibile - di quel valore perché a lui è stato attribuito quello specifico bene nella consistenza, materiale ed economica, presente al momento dell'apertura della successione. Sulla scorta del postulato in questione la pronuncia del giudice di primo grado, recante stima del bene in discussione, avente riferimento anche ai miglioramenti allo stesso apportati, si rivela corretta perché si era tenuto conto del bene già entrato nel patrimonio della appellante al valore suo proprio. La appellante, come già detto, non risulta aver azionato nel presente giudizio una domanda intesa ad ottenere il rimborso delle spese fatte per apportare i contestati miglioramenti al bene in argomento, nella persistente vigenza su questo della esclusiva proprietà della madre, ma chiesto che nel finale valore attribuito all'appartamento si tenesse conto delle spese sostenute per consentire a quel bene di presentarsi nelle condizioni riscontrate dal CTU. Tuttavia non può disconoscere la Corte che, una volta affermato che il bene immobile in esame era divenuto di proprietà della appellante con la sola attribuzione testamentaria/divisoria fatta dalla de cuius, l'erede favorita da tale attribuzione veniva a vedersi attribuito quel bene con il suo valore al momento dell'apertura della successione; valore - va ribadito - che la de cuius aveva considerato (ai fini già evidenziati sopra) nella sua consistenza reale e concreta derivante dalle attività di conservazione e miglioramento comunque, e da chiunque, apportate al bene dopo che l'inquilino l'aveva lasciato in condizioni "deplorevoli". Si intende dire, cioè, che nel momento in cui la sig.ra C.F.G. stilò il suo testamento ella era al corrente di quanto già fatto sull'appartamento di via A. e dei lavori eseguiti per restaurarlo ("il restauro e tutte le migliorie apportate all'apparta mento di via A. comportò una indente spesa" ), e che in quel preciso momento quel bene aveva il valore valutato dalla testatrice secondo le condizioni in cui esso si presentava (cioè restaurato e migliorato); il che conferma come la questione che si sta discutendo sia irrilevante perché C.A.A. si vide attribuire - per la sua quota di legittima ed oltre - un bene che aveva un valore già comprensivo dei miglioramenti già apportati. Si innesta in questo contesto argomentativo anche l'ulteriore censura sollevata dalla appellante principale circa la pretesa sua obbligazione ài essere tenuta a rendere il conto della gestione di beni non propri ma posseduti come se lo fossero stati (la casa materna di via A. ed i conti della madre), negando valore alle mere e non argomentare censure sollevate dalla sorella C.M.A. al rendiconto che essa appellante aveva, comunque, depositato. La censura, in termini astratti, è condivisibile perché nella situazione oggetto del presente giudizio (derivante dalla successione della defunta sig.ra C.F.G.) non si è in presenza della tipica condizione che legittima la pretesa di "rendiconto" in senso giuridico quanto, più modestamente, nella condizione di accertare quali fossero tutti i beni relitti dalla de cuius al momento del suo decesso. Infatti, come è noto in materia, la ratio dell'obbligo del rendiconto va individuata in ciò che, chiunque svolga attività nell'interesse (anche non formalizzato) di altri, deve portare a conoscenza di questi, secondo il principio della buona fede, gli atti posti in essere ed in particolare quegli atti e fatti da cui scaturiscono partite di dare e avere; il rendiconto non si esaurisce nella mera verifica delle risultanze contabili, ma implica un giudizio sulle eventuali responsabilità del mandatario (anche di fatto) connesse allo svolgimento concreto delle attività inerenti al mandato, dovendosi anche in questo caso verificare se l'operato di chi rende il conto sia adeguato a criteri di buona amministrazione (in conformità dell'art. 1710 c.c.); ed ove un obbligo di rendere il conto sussista - o perché previsto per legge o perché imposto da un provvedimento giudiziario - la parte obbligata deve rispettare le procedure imposte dal procedimento di rendiconto, disciplinato dagli art. 263-265 c.p.c. Tale procedimento, infatti, è fondato sui presupposto dell'obbligo di una parte, derivante dalla legge o dall'accordo delle parti ed accertato dal giudice, di rendere il conto all'altra parte, facendo conoscere il risultato della propria attività in quanto rifluente nella sfera di interessi patrimoniali altrui o, contemporaneamente, in quella altrui e nella propria: pertanto, ove vi sia controversia in ordine alla situazione od al negozio da cui si fa discendere quell'obbligo, l'ordine del giudice di presentazione del conto deve essere preceduto dal positivo accertamento dell'esistenza di detta situazione o negozio, che ne costituiscono la base imprescindibile, e senza alcun rilievo per una eventuale presentazione di un conto da parte di chi neghi di esservi tenuto (v. Cass. civ., sez. I, 28-02-2007, n. 4765; nel caso cui si riferiva questa sentenza il convenuto, dopo aver negato di essere tenuto a rendere il conto, aveva depositato spontaneamente, con riserva della predetta contestazione, un conto privo di sottoscrizione e della documentazione giustificativa, necessaria per ti riscontro della veridicità delle singole partite e per il controllo del risultato finale; in applicazione del predetto principio la Suprema Corte aveva confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che l'avvenuta presentazione del conto avesse determinato l'apertura della procedura di rendiconto, con la conseguente preclusione di ogni questione riguardante l'obbligo di rendere il conto, in quanto il convenuto aveva contestato la sussistenza di detto obbligo, e non era intervenuta al riguardo una sentenza di accertamento). È evidente che, tanto esplicitato, la sig.ra C.A.A. non avesse alcun obbligo di rendere il conto non essendovi stata una precedente decisione che a ciò la obbligasse su esplicita richiesta delle controparti (v. Cass. civ., sez. II, 0402-2002, n. 1458, "il giudice non può peraltro disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo; con la conseguenza che la detta istanza non può non essere soggetta al regime di cui all'art. 345 c.p.c"); e nessun procedimento di rendiconto si era in concreto aperto anche in presenza di un conto depositato dalla appellante (con allegata documentazione) e di contestazioni sollevate da una delle sue controparti. Questo determina che la situazione tra gli eredi C. rimaneva quella normale di ogni giudizio tra coeredi ove si debba accertare il relictum per potere poi stabilire i valori delle quote di "legittima", di "disponibile" e di "riserva" nell'ottica di pervenire a statuire circa la sollevata lesione in danno di uno dei legittimari. Questione nei cui confronti rimaneva, come rimane, rilevante l'adempimento dell'onere (che grava su ogni coerede) di dimostrare la consistenza effettiva del patrimonio ereditario. Si è pervenuti, infine, alla ultima questione oggetto di impugnazione principale ed incidentale, il valore del RELICTUM su cui operare le valutazioni di supporto alla domanda di riduzione per lesione delle legittima; domande proposte ab origine dalle sorelle C.P.G. e, in via riconvenzionale, da C.M.A.. A tal proposito si fanno proprie le considerazioni giuridiche fatte dal Tribunale a pagina 12 della sentenza definitiva circa le modalità per pervenire alla individuazione deI valore della massa ereditaria e delle singole quote di disponibile e di legittima. Per ciò che riguarda, invece, i valori dei singoli beni al momento del decesso della madre delle parti in causa (che il Tribunale aveva individuato sulla base delle conclusioni cui era pervenuto il c.t.u.) questo Collegio ritiene di non doversi discostare dalle valutazioni del CTU, anche se contestate dalle parti per ragioni fini differenti (di deve ricevere deduce una maggior valutazione dei beni altrui, chi deve corrispondere somme deduce una minor valutazione dei propri beni), avuto riguardo al contenuto specifico della relazione del CTU arch. M.G. e dei criteri di stima adoperati, facendo rilevare come, in tali contesti, le valutazioni dei tecnici di settore sono sempre legate a fattori individualmente considerati e stimati dal singolo esperto, ben potendo la singola valutazione non essere considerata congrua da altro esperto che abbia ritenuto di assegnare diversa valenza ad un fattore concorrete alla finale valutazione del valor dell'immobile stimato. Tanto premesso, nella situazione in trattazione, la Corte ritiene di non poter individuare elementi oggettivi che inducano a considerare palesemente errate le valutazioni del CTU e di devono tenere fermi i valori già evidenziati dal Tribunale per tutti gli immobili oggetto di stima: VALORE IMMOBILI LIRE 4.359.718.000 (come indicati singolarmente a pagina 13 della appellata sentenza definitiva). Per il valore dei gioielli attribuiti ai singoli eredi, in difetto di una stima o di un valore concordato tra i medesimi (la appellante C.M. ha negato di avere mai aderito ad una valutazione concordata), la Corte ritiene di poter tener ferma, comunque, la valutazione di lire 48 milioni poiché la stessa, alla luce della posizione delle parti in causa e degli argomenti sollevati in merito, pare essere non molto lontana dall'effettivo valore dei preziosi facenti parte del lascito materno (come elencati nel testamento). Il Tribunale aveva considerato, ai fine de quo, anche i legati di beneficenza per lire 5 milioni; in verità tali legati, costituendo un onere a carico dell'erede (ex art. 647 c.c.), sono delle uscite dal patrimonio e non un cespite da aggiungere agli altri; gli eredi, in quanto gravati dall'onere di provvedere alla beneficienza per quell'importo, non ricevono una somma ma da ciò che ricevono devono detrarre - in proporzione - la somma corrispondente all'onere imposto loro dal testatore nel limite del valore della quota (ex art. 671 c.c.). Fondate sono, poi, le censure che la appellante solleva con riferimento ai risultati della ctu contabile ed afferenti la poste "passive" dell'asse ereditario (che vanno a diminuire l'attivo); avendo il Tribunale quantificato le "giacenze e gli altri valori mobiliari relativi ai rapporti facenti capo a C.F.G. presso i vari istituti di Credito" secondo le risultanze del CTU dr. A. e pervenendo ad un valore finale di L. 295.465.242, che era comprensivo anche di poste attive/passive legate al cd. "rendiconto riclassificato" attribuito a C.M.. Si è già detto che nessun obbligo di rendiconto gravava sulla appellante; inoltre alla Corte pare evidente che, alla luce delle conclusioni cui era pervenuto il ctu dr. Amici nel suo supplemento di consulenza (che paiono molto vicine a quelle fatte dal CTP della appellante Dott. Ma., anche se frutto di valutazioni diverse), l'importo indicato nella appellata sentenza sia errato per eccesso perché il dr. Amici aveva ricostruito la somma delle poste "passive" dell'asse ereditario in soli lire 56.639.410 (il CTP era pervenuto a conteggiare lire 56.733.033) in base ad una serie di detrazioni (definite inoppugnabili dalla appellante) per un totale di lire 185 milioni; evidenziando altri pagamenti eseguiti dopo l'apertura della successione (debiti di massa in quanto legati al decesso della de cuius) per un importo complessivo di lire 34.181.230, delle quali lire 20miltoni riscosse da C.P.G. (dopo che le sorelle C.A.A. e C.P.G. avevano prelevato la somma di lire 24.117.162 dal saldo del c/c della madre). Si ritiene di dover seguire le valutazioni espresse dal Ctu nel suo supplemento in uno con le motivate osservazioni del CTP della appellante, dovendosi osservare che, comunque, le valutazioni dell'ausiliario non hanno efficacia vincolante per il giudice, che può legittimamente disattenderle attraverso una valutazione critica che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata, dovendo indicare in particolare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del Ctu (cfr. Cass. civ., sez. I, 14-01-1999, n. 333). In ultimo è palese che la quota ereditaria attribuita a C.P.G. (per la somma indicata di lire 250milioni tra titoli e contanti) - e dalla stessa già incamerata utilizzando i valori dell'attivo mobiliare costituito da lire 118.000.000 in titoli, lire 132.000.000 in contanti già detenuti dal fratello C.M. e conferiti alla sorella, e lire 20.000.000 (a mezzo assegno circolare) tratti dal saldo attivo del c.c.. già prima indicato - non possa non far parte del cd. relictum poiché deve essere una parte attiva che serve a verificare Se vi sia stata o meno lesione della legittima di C.P.G.; tale operazione, infatti, è fittizia proprio perché serve a stabilire se lesione vi sia o meno. La somma di lire 7.524.000 provento di un rimborso Irpef della defunta (già riscossa in parti uguali dai 4 eredi) deve essere considerata nella riunione fittizia del patrimonio relitto. Tutto ciò detto ed evidenziato determina che, alla morte della sig.ra F.G. in C., il suo asse ereditario era così composto: + Immobili - lire 4.359.718.000, + Gioielli -lire 48.000.000, + Quota monetizzata di C.P.G. - lire 250.000.000, + Credito Irpef - lire 7.524.000, + residuo c/c - lire 4.117.000, - poste passive da ctu - lire 22.458.180. TOTALE ATTIVO = lire 4.646.900.820. La disponibile ammontava a lire 1.548.966.940. La quota di legittima a lire 774.483.470. Di conseguenza C.A.A. aveva diritto a metà dell'asse ereditario relitto (16 + 1/3) pari a lire 2.323.450.410 (774.483.470 + 1.548.966.940) e quanto già ricevuto (lire 2.042.404.000) non supera i suoi diritti ereditari, e nulla deve per contribuire alla reintegra dell'erede lesa. Infatti, gli altri eredi legittimi hanno diritto alla quota riservata di 1/6 ciascuno pari a lire 774.483.470. Ne consegue che C.P.G. ha diritto alla somma di lire 425,995.970 (774.483.470 - 348.487.500) per vedersi reintegrata la sua quota di legittima. Poiché i fratelli C.M. e C.M.A. hanno ricevuto per testamento, rispettivamente, beni per lire 1.411.424.000 e per lire 855.402.500, entrambi superiori alla quota di legittima sopra ricostruita (lire 774.483.470), sono tenuti a mettere a disposizione il di più per la sorella che è stata lesa nella sua legittima. C.M. in più ha ricevuto lire 636.940.530. C.M. A. in più ha ricevuto lire 80.919.030. Entrambi dovranno provvedere a reintegrare la quota di legittima della sorella C.P.G., mentre nulla dovrà pagare la appellante C.A.A. poiché quanto attribuitole dalla defunta rientra nella sua legittima e nella disponibile che la madre le aveva lasciato. I fratelli C.M. e M.A., ai sensi degli artt. 554 e 558 c.c., dovranno corrispondere alla sorella Pia Grazia le somme sotto riportate secondo la seguente proporzione (dove X sta per il "di più" ricevuto dai due eredi, S la somma dei due "di più", e Y la percentuale a carico dei due eredi verso C.P.G.): X x 100 : S [636.940.530+80.9919.030] = Y C.M. (Y = 88,73%) dovrà corrispondere lire 377.986.225 pari a euro 195.213,59. C.M.A. (Y r 11,27%) dovrà corrispondere £ 48.009.745 pari a euro 24.794,96. Tali somme vanno rivalutate all'attualità poiché si tratta di pagamento di un debito di valore che è inteso a riportare il creditore/erede nella posizione in cui si sarebbe dovuto trovare senza la lesione della sua quota di legittima (v. da ultimo Cass. civ., sez. II, 19-03-2010, n. 6709: "nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, si deve avere riguardo al momento di apertura della successione per calcolare il valore dell'asse ereditario -mediante la cosiddetta riunione fittizia - stabilire l'esistenza e l'entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell'integrazione spettante al legittimario leso; peraltro, qualora tale integrazione venga effettuata mediante conguaglio in denaro, nonostante l'esistenza, nell'asse, di beni in natura, trattandosi di credito di valore e non già di valuta, essa deve essere adeguata al mutato valore - al momento della decisione giudiziale - del bene a cui il legittimario avrebbe diritto, affinché ne costituisca l'esatto equivalente, dovendo pertanto procedersi alla relativa rivalutazione"). È notorio che l'obbligazione di valore avendo come sua specifica funzione, non di consegnare una determinata somma, ma quella di ricostruire integralmente il patrimonio del danneggiato, seppure elargendo, per equivalente, un somma di denaro, attribuisce al creditore sia la rivalutazione (per compensare il valore intrinseco del bene perduto) che lucro cessante (per compensare il mancato uso del medesimo bene) utilizzando la tecnica di un tasso di interesse da determinare equitativamente (vedi la celebre Cass. Sez. Unite 17/2/1995 n. 1712 e più di recente Cass 10/3/2006 n. 5234: Cass. civ., sez. Ili, 23-02-2005, n. 3747, nonché Cass. sez. un., 30-10-2008, n. 26008). Per effettuare queste operazioni, seguendo un orientamento ormai consolidato si farà ricorso a due diversi tassi. Per rivalutare il credito si farà ricorso agli indici FOI, indici nazionali dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, pubblicati dallo ISTAT e reperibili sul sito web istat.it. Tuttavia nei debiti di valore, il ritardo nella percezione dell'equivalente monetario del danno non da automaticamente diritto alla percezione degli interessi (che competono invece dalla data della sentenza con la trasformazione dell'obbligazione di valore in obbligazione di valuta; v, Cass. Sez. III, 28.7.2005 n. 15823). E noto, infatti, che nella obbligazione risarcitoria, che si caratterizza perché di valore, in quanto diretta alla reintegrazione del danneggiato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto, il principale mezzo di commisurazione attuale del valore perduto dai creditore, e che il debitore è tenuto a reintegrare, è fornito dalla rivalutazione monetaria. Il riconoscimento di interessi costituisce in tale ipotesi, come chiarito dalla nota Cass. a sezioni unite 17.2.1995 n. 1712, una mera modalità liquidatoria del possibile danno ulteriore da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso, col limite costituito dall'impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell'illecito, solo nei casi in cui la rivalutazione monetaria dell'importo liquidato in relazione all'epoca dell'illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore, che deve esser posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo. Essenziale è, dunque, la allegazione e prova di tale danno (v. Cass. n. 748/2000, Cass., n. 490/1999 e Cass. 10751/2002) che si realizza solo se ed in quanto la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui il danneggiato avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo e che richiede, conseguentemente, l'accertamento, anche in base a criteri presuntivi, della sua concreta esistenza. Ciò che dipende, prevalentemente, da! rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non sarà normalmente configurabile. E allora chiaro come, non sia legittimo alcun automatismo nel riconoscimento dei ed. interessi compensativi, sia perché il danno da ritardo che con quella modalità liquidatoria si indennizza non necessariamente esiste, sia perché può essere comunque già ricompresso nella somma liquidata in termini monetari attuali (cfr. Cass., n. 3934 del 2003) e come ciò implichi la necessità che l'accertamento del diritto agli interessi compensativi sia, anzitutto, giustificato da specifica motivazione sulla presenza, nel caso concreto, dell'ulteriore danno da ritardo che la rivalutazione non è riuscita a risarcire (così Cass. 28.7.2005 n. 15823). Nel caso in esame appare evidente che, in difetto di specifiche allegazioni della coerede lese nella legittima, debba limitarsi il risarcimento del danno da ritardo alla sola rivalutazione monetaria secondo gli indici FOI/Istat, secondo le tabelle che seguono: DEBITO C.M. = euro 337.198,03: Data Iniziale: 15/1 1/1990 Data Finale: 31/12/2010 Capitale Iniziale: euro 195.213,59 Decorrenza Rivalutazione: Novembre 1990 Scadenza Rivalutazione: Dicembre 2010 Indice Istat utilizzato: FOI generale Indice alla Decorrenza: 108,8 Indice alla Scadenza: 138.4 Raccordo Indici: 1.3579 Indice di Rivalutazione: 1.72732868 Totale Rivalutazione: euro 141.984.44 Capitale Rivalutato : euro 337.198,03 DEBITO C.M.A. = euro 42.829,05: Data Iniziale: 15/11/1990 Data Finale: 31/12/2010 Capitale Iniziale: euro 24.794,96 Decorrenza Rivalutazione: Novembre 1990 Scadenza Rivalutazione: Dicembre 2010 Indice Istat utilizzato: FOI generale indice alla Decorrenza: 108.8 Indice alla Scadenza: 138.4 Raccordo Indici: 1.3579 Indice di Rivalutazione: 1.72732868 Totale Rivalutazione: euro 18.034.09 Capitale Rivalutato : euro 42.829,05 Su dette somme andranno calcolati interessi legali dalia data della presente sentenza sino al saldo effettivo. La sentenza appellata, pertanto, deve essere in parte riformata così come indicato nei punti che si sono esaminati; restando assorbiti gli altri aspetti di impugnativa (tanto principale come incidentale) o perché infondati o perché irrilevanti in esito alla decisione assunta in questa sede. Per quel che riguarda, infine, le spese di lite, esse sono state poste dal primo giudice a carico delle parti convenute secondo una percentuale che richiamava l'obbligo di reintegrare la attrice nella legittima. In esito al presente giudizio reputa la Corte che le spese di 1° grado a favore della attrice andranno poste a carico dei fratelli C.M. e C.M.A. per una percentuale del 60% e 40% in tal senso stimandosi la reale soccombenza di dette parti; confermandosi la liquidazione delle spese fatta dal tribunale. Nonostante la mancanza di soccombenza della odierna appellante in prime cure, ritiene la Corte che la compensazione delle sue spese del primo giudizio appaia misura congrua, non ravvisandosi nel comportamento della attrice estremi di palese infondatezza della originaria domanda e sussistendo validi motivi per l'esercizio del potere discrezionale di cui all'art. 92 c.p.c. Le spese processuali del presente grado, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza di C.M., C.M.A. e C.P.G. che dovranno rimborsare alla appellante le spese che vengono liquidate come da notula tenuto conto del valore della controversia e della attività compiute dai procuratore. PQM P.Q.M. LA CORTE DI APPELLO DI ROMA - Terza Sezione Civile definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione respinta, così decide sull'appello avverso le sentenze del Tribunale di Roma emesse in data 20.9.2001 (N. 33909/01) ed in data 14/4/2005 (N. 11595/05) proposto da C.A.A. nei confronti di C.M., C.P.G. e C.M.A. (appellanti incidentali): a) in accoglimento dell'appello principale, ed in parziale riforma delle sentenze appellate, O/Mara che nella successione testamentaria di F.G., vedova C. (deceduta in Roma il 15.11.1990), i suoi figli C.A.A., C.M., C.P.G. e C.M.A., hanno diritti ereditari per la quota di legittima pari ad 1/6 ciascuno; e che C.A.A. è titolare anche della intera quota disponibile (pari a 1/3); b) per l'effetto. Dichiara che C.P.G., lesa nella sua quota di legittima, ha diritto alla reintegrazione della sua quota nei soli confronti di C.M. e di C.M.A.; c) in conseguenza di quanto sub. a) e b), Riduce la disposizione testamentaria a favore di C.M. dell'importo di euro 195.213,59, rivalutato in euro 337.198,03= e, per l'effetto, Condanna C.M. a pagare a C.P.G. la somma di euro 337.198,03 con aggiunta degli interessi legali dalla data della presente sentenza sino al saldo; d) in conseguenza di quanto sub. a) e b), Riduce la disposizione testamentaria a favore di C.M.A. dell'importo di euro 24.794,96, rivalutato in euro 42.829,05= e, per l'effetto. Condanna C.M.A. a pagare a C.P.G. la somma di euro 42.829,05 con aggiunta degli interessi legali dalla data della presente sentenza sino al saldo; e) Condanna C.M. e C.M.A., il primo per l'importo del 70% e la seconda del 30%, alla rifusione delle spese sostenute da C.P.G. nel 1° grado di giudizio come già liquidate nella appellata sentenza definitiva; ponendo a carico dei medesimi, nella stessa percentuale, le spese di CTU già liquidate in 1° grado; f ) Compensa integralmente le spese del primo grado di giudizio relativamente ad C.A.A.; g) Condanna tutti gli appellati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese del presente grado d'appello a favore della appellante C.A.A. liquidandole in euro 1.401,13 per spese, euro 5.247,00 per diritti e euro 18.000,00 per onorari (oltre ai rimborso delle spese generali al 12,50%, IVA e CAP come per legge); h) Compensa, infine, le spese del presente grado tra tutte le parti appellate; i) Conferma, nel resto, le appellate sentenze. Così decisa in Roma, nella camera di consiglio dell'11.02.2011. Il Presidente, estensore. (Dr. Giuseppe Lo Sinno) Note Utente: cooce01 COORDINAMENTO CENTRALE BIBLIOTECHE - www.iusexplorer.it - 11.05.2016 © Copyright Giuffrè 2016. Tutti i diritti riservati. P.IVA 00829840156