IL BEPPINO ha almeno un problema con la giustizia.

Transcript

IL BEPPINO ha almeno un problema con la giustizia.
IL BEPPINO ha almeno un problema con la giustizia.
La nave procedeva da giorni nelle gelide acque atlantiche. A sud, ma poco a sud di capo Fravel. Capodanno
era alle spalle da qualche giorno ma in quel nulla pareva fosse da un’eternità. Dalla baia di Baffin scendevano
lamine ruggenti di ghiaccio volante. Nell’oblò Beppino vedeva le spume frangenti congelarsi in volo e,
attraversate da una luce assoluta, brillare terse, come cristalli di sale nei deserti. Nessuno si sarebbe mai
spinto, a sfidare una natura tanto imponente, lì, a caccia di aringhe, se non a bordo e protetto nella pancia di
quei navigli dagli immensi scafi dotate di quelle scatole di acciaio e fuoco che quiete ruminavano sotto, sopite
ma più potenti del vento e del mare di fuori. Eppure anche quella nave aveva i guai suoi. Piccoli guai e
necessità di continua manutenzione d’emergenza, come questa seccatura elettrica che ora, lui, avrebbe dovuto
affrontare. La luce di prua appariva spenta e dal castello di comando non si poteva decidere se si trattasse del
clima: del ghiaccio che ricoprendola ne scemasse l’intensità. Il capitano, nervoso per quel mare che impediva di
pescare già da giorni, pretendeva che due uomini, lui il Beppino, operatore di motori elettrici e un aiuto
manovale, uscissero in quell’inferno per le verifiche e la riparazione, se necessaria.
Le regole della marina impedivano di navigare, e pur di stare alla cappa, in quel deserto scintillante di dune
liquide se privi della sicurezza della luce di prua. Anche se il buio sarebbe calato tardi in quel Nord e sarebbe
stata breve la notte e di molte altre ulteriori luci disponeva quella nave fattoria. Con le regole ed i codici lì, tra
Canada e Stati Uniti, non c’era da scherzare, da italiani poi! “qui non stiamo Marechiaro o a Chioggia”, aveva
detto il capitano, “dove con tre scatole di seppiette congelate gettate da bordo sul ponte della motovedetta, alla
prospettiva consolatoria di una strafogata in famiglia con brodetto di pomodoro e piselli innaffiato di Per’
e Palummo, le guardie grigioverdi avrebbero potuto chiudere occhio, e anche due volentieri”.
Beppino si preparò all’incombenza con lentezza ma orgoglioso della stima per l’ incarico, della conferma di
essere competente, necessario. Chiamò Bongo, un negro imponente, un armadio imbarcato al volo, di
soprannumero, a Napoli, la sera stessa della partenza e lo comandò alla bisogna manovale. Fra qualche
minuto, il tempo di indossare la muta e la cerata i guanti e il copricapo felpati, e quello avrebbe bussato alla
porta di cabina.
Venne infatti, reggendo una scala leggera, di alluminio, per salire all’imbocco della penna di prua e
diagnosticare la lampada. Beppino, scosse il capo, scese da solo in officina e quando tornò con la pesante
cassetta metallica degli attrezzi necessari, Bongo stava ancora lì come un salame, lento e impacciato, nello
sguardo arreso, i segni della paura dell’animale braccato che saltavano fuori da occhi troppo aperti, troppo
lucidi e troppo neri. Ti è toccata Bongo – disse – con sorriso beffardo Beppino al negro, come a prevenire le
proteste di questi, che credevi di esser venuto raccoglier banane?
In quei giorni la nave stava lì inerte, in attesa che la temperatura risalisse di una decina di gradi almeno, così
da permettere agli uomini di uscire sul ponte di poppa a mettere in moto i verricelli, a ritirare i trenta chilometri
di reti a poppa distese nella corrente; di lavorare agli argani all’aperto e rientrare vivi. Ora stava alla cappa, con
le ancore
a fondo e prua alla furia di quel vento solido. Solo a poppa, al riparo del castello di comando, si
sarebbe potuto sostare qualche minuto all’aperto. Ma andare verso prua, lavorare alla prua, era cosa da uomini
prudenti e coraggiosi, da veterani, solo da Beppino. Tutti gli altri languivano sotto nelle cuccette. Una mano a
sfogliare la rivista e l’altra a pelo. Qualcuno dormiva in attesa della cena, ma quando si fosse svegliato in
anticipo, anche lui, avrebbe immancabilmente afferrato la rivista con una mano e con l’altra si sarebbe
accarezzato l’uccello, a pelo. Così è fatta la vita dei marinai.
Purtroppo qui non c’erano mosche. Uova sì eccome, ma mosche…. dove trovarne in quel mare, in quel gelo? E
senza mosche quel gioco non sarebbe riuscito…-vedi- spiegò Beppino a Bongo, distaccando le parole e agitando
didatticamente le mani, “quando
veniamo giù da voi, giù
a polpi e sardine a tonni e ricciolle, lì sotto
Capoverde, davanti a Monrovia, lì sì che le mosche abbondano, eccome, vengono sul ponte avide, banchettano
sui detriti e ti succhiano il sudore, e noi…anche
tu Bongo …le puoi
catturare, zac.. così un colpetto
secco….prima di scendere in branda, una o due, e l’uovo…, quello l’hai già pronto, te ne devi fare una riserva di
gusci…li svuoti di bianco e rosso, elimini la parte a punta del guscio e ti tieni la calotta maggiore, eh Bongo? Tu,
negro come sei, mica ce l’hai a spillo la mincia, tieniti dunque la parte più tonda..ci infili il pisello e ci scivoli la
mosca e il gioco è fatto…chiudi gli occhi, la mosca vola sempre all’impazzata, vola, vuole liberarsi dalla
gattabuia, e fa per te la giostra, e tu con gli occhi chiusi pensi alla morosa …ce l’hai la morosa Bongo? Cos’è la
mourosa capo? Capo, capo…! chiamami Beppino …basta che mi ubbidisci quando siamo là fuori e non occorre
chiamarmi capo.. Beppino era entusiasta che ci fosse qualche negro in giro per la nave, gli consentiva il piacere
di sentirsi superiore…una razza superiore, pensò con bonomia, senza malizia….e gli piaceva sentire, poteva
quasi
toccarlo,
quel
suo
brivido
di
cristiana
indulgenza,
di
paternalismo.
Un
fratello
maggiore
si
sentiva……..Come la figlia sua, pensò,-e pensandola sentì se stesso tenero e tollerante, -come con la figlia sua,
Lamorna.
1
Che avrebbe potuto schiacciarla così, con due dita delle sue manone quello scricciolo…ed ancora si commosse
pensando al piacere di essere dotato di un potere assoluto su altri esseri e, al contempo, bearsi della sua bontà
tenendo sospesi, potenziali, gli effetti di quel potere. Gli piaceva sentirsi un leone bonario. Per questo aveva e
manteneva dei cani laggiù a terra, alla campagna. Sentiva la pelle d’oca all’idea di essere superiore ad altri, ma
buono e utile per loro.. E così anche con Bongo. Avrebbe potuto scaraventarlo in mare con un calcio, spingerlo
nel congelatore giù tra i pesci, sarebbe congelato in venticinque secondi, ..ma lui no, era buono, e questa
benevolenza la sentiva come un fatto fisico e la pensava e se ne compiaceva… La morosa è una ragazza, una
fidanzata, una donna tua,… come la chiamate voi …? Ma poi non so perché ti parlo così. Chissà che ne capite voi
laggiù, cristiani siete? Hai capito Bongo? Dai su che mo’ dobbiamo andare, è ora di lavorare..di faticaa’…
attento alla cassetta Bongo che non mi manchi qualche attrezzo poi là sul più bello, in punta di quell’inferno. Si
protese in avanti il Beppino appoggiando tutto il suo peso alla porta che dava sul ponte.
E ve ne fu bisogno, che la nave alla cappa veniva con continuità investita dal vento da prua, e quello non era
vento, ma aria e acqua densa come cemento, e dovette, per vincere quel muro, fare sforzi con tutti i muscoli
del collo e della schiena. Quando il muro cedette Beppino infilò tra lo stipite e il cardine la scarpa corazzata, poi
il ginocchio, ingroppò le reni e si buttò fuori attraverso il pertugio conquistato, ma Bongo fu ributtato indietro
dalla pressione del vento, sentì il suono della porta sbattere sulla cassetta degli attrezzi e lo scatto successivo
del battente. Maledetto negro pensò.. con questo si va morire in questa russia.. e gli comparvero alla ment e i
racconti del suocero, nell’inverno di ritirata, provato dal terrore incalzante per le sagome bianche dei mongoli,
provato dal Don, dalla fame dalla paura, dalla marcia forzata ai meno ventisette, ai meno trentadue, poi i
termometri saltavano e nessuno allora sapeva più se si fosse a meno quaranta o a meno settanta. Beppino si
ricordò con nostalgie delle feste al paese, quando il suocero, alla fine del pranzo eccessivo, al momento della
comparsa del biondo malvasia a concludere sul dolce, a completare il bianco ed il rosso di poc’anzi sui primi e
sulle carni, dava stura a quelle storie lontane con cui ancora e per sempre avrebbero tentato, quei
sopravvissuti, di alleviare il peso dall’animo.…che il raccontare continuato, negli anni, pareva, tuttavia, non
poter rimuovere del tutto le tracce di quell’ annichilimento bianco. E anzi, pareva al Beppino, che quei racconti
rieditando nell’attualità quei dolori, ne cristallizzassero gli effetti.
Pensò, a giudicare dalla lama ghiacciata che gli scese nei bronchi dalle narici quando cercò di prendere aria, che
anche lì in quel mare, quelle condizioni sempre raccontate dal suocero, fossero analoghe a queste, anche se
solo come ambiente meteorologico. Beppino si sentì virile, orgoglioso della comunanza al suocero in quei
patimenti da uomo, anche lui come quello avrebbe poi avuto argomenti per parlarne alle feste domestiche,
parlarne poi ai parenti, essere ascoltato, stupire. Avrebbe raccontato tutto a Lamorna, la figlioletta, al prossimo
Natale. Nessuno come lei lo gratificava di evidente stupore e raccoglimento ai suoi racconti: pendeva dalle sue
labbra. Le avrebbe trascorse a terra, le prossime feste di Natale, dopo queste ultime in navigazione tra le
nebbie ed i ghiacci, a farsi compagnia, a vincere la solitudine e la noia con le riviste, tra onde e rollii e lenze e
palamiti e naselli e spigole e orate, o in discussioni oziose e scontate, a mensa, su quanto in banchi siano
carnivori voraci quelle bestie atlantiche, le stesse che, come teneri pesciolini mangiamo al cartoccio o alla brace
prima del capretto ai finocchietti selvatici, le stesse che nel piatto sono solo pesciolini utili per il fosforo del
cervello, per i grassi pregiati a tutela del cuore
Poi finalmente sentì uscire sul ponte barcollante anche il negro. Beppino, ne immaginò la sagoma goffa e ne
intuì la presenza dalla musica sferragliante della scale di metallo e della cassetta degli attrezzi che trascinava
con sé. Si mise carponi non tanto per non offrire resistenza al vento, ma perché proprio quella resistenza non
avrebbe potuto opporla. Le sue forze non sarebbero bastate a mantenersi in piedi, appoggiò la pancia sulla
lanugine ghiaccia che ricopriva il ponte e cominciò con fatica a strisciare facendo leva su ginocchi e
gomiti…quella posizione sicura, ma incomoda gli cambiò i pensieri….tre mesi, pensò, e striscerò così sulla
femmina.. tre mesi ancora di questa vita e poi… striscerò sulla moglie, si disse con impeto, come a voler
consolare con la determinazione quel torto che sentiva di subire da quella vita di lavoro segregato e liquido,
come se quelle sette croste più i sette crostini del pane del padrone, gliele cucinasse, indigesti, la moglie
stessa. Come se quella poveretta fosse in combutta, socia dell’armatore. “Si lavora e si fatica per il pane e per
la fica” si recitò, riprendendo leggerezza, l’aforisma a mantra, ripetuto a mensa, ripetuto a mo’ di ritornello, di
sberleffo e di programma tra i compagni, nei pochi momenti di riposo godibile .. Aveva come pietà di sé e
invidia di quel di lei stare al caldo laggiù, bianca e umida, al paese tra i parenti e con i piedi ben a terra, sulla
terra ferma e la fica calda, là sotto tra le cosce, e quei movimenti impettiti, languidi, elastici, imperiali come a
lui parevano nel ricordo, a fendere l’aria densa di sguardi sullo struscio del sabato e domenica. Gli prese
soffocante, inoltre, il risentimento nell’immaginare, quasi un presentire, un qualcuno che le girasse intorno con
moine, con intenzioni, in barba a lui che, isolato dal mondo, prigioniero in quello scafo e circondato da quel
liquido salato, non avrebbe potuto essere presente a vigilare, a tutelare i suoi beni, a intervenire, a dirigere, a
ingrassare il cavallo col suo sguardo.
2
Quel pensiero che lo percorreva adesso lì, bolso e strisciante come un leone marino sullo scoglio, ne animava di
corrispondenti: li avrebbe affrontati ed uccisi quei rivali, quei cascamorti, anche solo per respingere quella
solitudine, quella fitta alla bocca dello stomaco..quello stato di febbrile apprensione, sembrava quasi un
desiderio che ciò accadesse realmente: una tragedia sicura contro quell’insicurezza di possesso.
Chissà come avrebbe reagito sua moglie languida alla mano di un altro tra le cosce..no! questo era un pensiero
molesto da scacciare subito, che solo al pensarlo, solo al pensare che fosse pensabile, lui l’avrebbe ammazzato
quel qualcuno, anche Bongo anche lì su quel ponte: avrebbe ucciso il primo maschio d’intorno, così a mo’ di
ammonimento, di prevenzione. Anche alla moglie…poi…ma si rifiutò di sviluppare il progetto. Girandosi a fatica
e torcendo il collo, facendo leva sui gomiti, vide che Bongo lo seguiva. Beppino aveva sviluppato da sé la
tecnica del pensiero scacciapensiero e, nel pericolo, nel disagio gli veniva talvolta automatico, talaltra se lo
doveva imporre di pensare a qualcosa di buono o di bello. Quando era più giovane, ai vent’anni e sentiva i
morsi della fame e della sete e ancora aveva da spingere sui pedali per strade non sempre e non tutte asfaltate,
in quelle lande di polvere surriscaldata dal solleone mediterraneo sapendo che ancora mancavano almeno venti
kilometri alla città, due ore buone ancora da spingere, immaginava di mangiare e bere seduto in tavole
apparecchiate di orecchiette al pomodoro. Ne evocava l’aroma e, catturatolo tra i seni del nasone, passava al
resto: capocolli e stracciatelle e saraghi fritti e bocconcini di pasta filante, e di bere l’idrolitina al ghiaccio e
sentiva sulla lingua secca quelle bolle lussuriose e scoppiettanti che gli titillavano le papille, almeno gli pareva di
sentirle ..e per quel tanto non sentiva, per contro, il dolore nel ginocchio, lo stiramento nel polpaccio,la fascite
della caviglia, la pressione della sella nell’inguine. Ma poi crescendo, col tempo che lo aggrediva, e lui ne era
allora ben lieto, cominciò piuttosto a pensare alla patacca, sì non alla femmina, alla donna, ma proprio alla
patacca e a tutto quello che di meno crudo purché solo in carnale contiguità le sta intorno. Così funzionava: la
fatica e la paura potevano effettivamente sparire o almeno essere controllabili, lenite da quei pensieri magici
che lo accompagnavano senza danni attraverso le avversità e le fatiche. Come l’effetto dell’ittiolo sul morso
della taranta, come unguento sulle punture.
E adesso in queste condizioni estreme…il ponte spazzato da aghi di ghiaccio volante, filamenti secchi di
ghiaccio.. le gocce delle lacrime solide incollate alle palpebre…se ti arresti, se ci pensi, se esiti, ti immobilizzi e lì
congeli..e poi quel movimento del ponte sospeso su montagne di spuma e lui a procedere strisciando, disteso
per avere aderenza, per offrire a quelle furie meno appiglio, per coprire con le mani a paravento gli occhi e il
naso, le uniche parti scoperte, e via che quello stesso movimento di beccheggio della nave sollecita l’inguine, e
dall’inguine prende subito la testa. Quella strada é velocissima, quella strada corre da sé,… e la moglie è mesi
che non la vede e la può solo ben sognare …e quella donna, per lui, per il marinaio Beppino, appare soltanto,
almeno ora, da qui, che le chiese son lontane e i parenti non ti stanno intorno a spiarti una patacca cruda, non
già una complessa moglie.
Lì su quella nave, da marinaio isolato e separato dalle femmine non poteva afferrare la ragione per cui gli
avessero tutti, ma proprio tutti gli importanti esseri della sua vita, a partire da sua madre, predicato di coltivare
relazioni rispettose, le sole porte di ingresso a sesso e intimità. Inebetito, scosso dal rollio, dal gelo, dal
testosterone a grappoli e dallo strusciare del pisello che per via del passo leopardante si rizzava invano contro il
gelo del pontone…non poteva, neppure ora, tanto meno lì, digerire quegli ammaestramenti. Quei limiti, li
avrebbe potuti accettare come convenzioni solo quando avesse messo i piedi sulla terra, come il buon uomo
civile che voleva essere, che aveva capito gli convenisse essere: contenuto e corrispondente a buoni e
mucillagginosi rapporti con il prossimo. Ma da lì, da quel deserto, non gli riusciva di contemplare la moglie come
una persona, ma solo come umido e peloso tiepido polpo..gli pareva, da lì, così appiattito sul pavimento, che
l’unica posizione in cui avrebbe desiderato non solo guardare, ma proprio concepire la femmina, fosse nella
posizione della copula..arresa, a gambe larghe e in singhiozzi..irresistibili, alla furia veemente di lui, di Beppino.
Pars pro toto..come un’ancora, come un gavitello a tener fermo le motivazioni di Beppino, l’immagine della
patacca, ben lo determinava di continuar a strisciare verso l’albero di prua, con Bongo al seguito…come la
leonessa, come la tigre con il piccolo dietro, in addestramento per le sue future, autonome cacce.
Ma adesso non si girava più Beppino, si trattava di risparmiare anche il più piccolo movimento, guadagnare
secondi..essere in anticipo, che poi là a prua, sull’albero tutto sarebbe stato peggio per intensità e pericolo, e
non si poteva valutare da qui, dal ponte, il tempo richiesto per quella futura operazione: ghiaccio da rimuovere,
solo fili interrotti o qualche rugginosa grana meccanica ?..dopotutto anche i crucchi che avevano progettato e
costruito questa nave non avevano immaginato né certamente testato condizioni di mare così intense … e poi
quel ferro non era più così recente: comprato ad Amburgo di seconda mano e ripittato a Napoli..che già a
Ravenna sarebbe costato il doppio,.. rimesso in condizioni standard per la pesca in quelle acque.
3
Al passo di leopardo e in compagnia dei suoi pensieri mai interrotti ci arrivò finalmente all’albero di prua! Era la
parte più riparata di tutto il naviglio.L’acqua in nebbia di gocciole spumose ora li sorvolava, il bagnasciuga di
prua faceva bene da trampolino per il decollo sopra di loro delle emulsioni acqua ed aria che poi ricadevano più
in là adesso, alle loro spalle …se non fosse per i meno quarantasette..qui si potrebbe quasi star bene, pensò
Beppino approdato al tepore, e gli parve in quel sito protetto, in quel fumo di bagno turco, che il naso
riemergesse caldo come dalla liquida polta inguinale della moglie, odori e peli, vischio e delizia.
Bongo anche era lì- per dio- lo sentiva che gli prendeva la caviglia, come sacco informe era lì, si girò e lo vide
bianco di ghiaccia rappresa, solo gli occhi segnalavano come neri mirtilli giganti che la razza fosse spettrale,
negra e terrorizzata. E, fedele alla consegna, si era anche trascinato appresso, miracolo di abnegazione, per
tutto quel percorso, la scala e la pesante cassetta metallica dei ferri. Stai qui e porgimi gli attrezzi che ti indico,
stai attaccato alla base dell’albero, reggi la scala fin che mi infilo all’imbocco della protezione, evitami lo sforzo
di tirarmi su di braccia …un martello, due pinze, uno strozza- morsetti ed un pezzo di cavo riuscì Beppino a
prendere con sé malgrado i guanti e salì..sicuro e solido nella sua competenza…intrepido per forza di gioventù.
Bongo aveva dato, gli era parso, segno di assenso..col capoccione ciondolante nel cappuccio. Gli bastò guardare
quel ghiaccio rappreso in strati trasparenti che il sole, da nord cadendo in quell’arcobaleno rendeva violacei, per
capire che sarebbe bastato sostituire la valvola tricuspide di settaggio alla cupola della base, per riattivare con
certezza il meccanismo di accesso, il percorso della corrente e della luce..quello era: anche i metalli e le guaine
gommose, lì, soffrivano di freddo, esattamente come fossero entità biologiche. La gioia e l’orgoglio e la
speranza che quella sua intuizione fosse proprio quella giusta, gli faceva pregustare l’approvazione del capitano,
e così, per conseguenza, la sicurezza del pane, quasi che la sua buona ed efficiente condotta fosse
un’assicurazione contro gli imprevisti andamenti dei mercati futuri, contro le variazioni di consumi del surgelato,
che, temeva, avrebbero potuto rendere precaria la sua esistenza, il suo lavoro, e, col pane, sarebbe venuta
meno quindi anche la figa.
Ridiscese più in fretta che fosse possibile con gli occhi chiusi, a memoria, i pioli dell’albero, contento di non
dover utilizzate la scala instabile in quelle condizioni, sentì col tacco la base dell’albero e si acquattò cercando di
tastare lo spettro. Il suo guantone trovò solo la cassetta degli attrezzi incastrata nei gradini della scala ripiegata
e distesa. Dove si sarà cacciato Bongo? La curiosità attraversò senza emozioni il suo pensiero, senza lasciare
tracce…aprì la cassetta dove per istinto sapeva trovarsi le valvole…anche la patacca della moglie, pensò, se la
doveva solo immaginare.. benché accessibile. Mai l’aveva vista nella luce chiara, si era sempre opposta quella
sua ritrosia, quella pretesa costante di buio, che lui anche aveva imparato a condividere, contenendo contenere
quel suo impulso di vedere, quel desiderio di luce. Anche a lui sembrava necessità naturale che maschi e
femmine facessero tra loro quelle sconcezze al buio.. della foglia di fico, alla sola luce dell’immaginazione, che a
lui, a volte, come ora, sembrava, tuttavia, avesse la stessa consistenza della vista stessa.. Afferrò da sé la
valvola di cui riconobbe la sagoma tra lo spessore dei guanti..risalì, martellò, svitò strappò, inserì, richiuse,
sigillò e la luce fu. Pensò ancora di sorridere di orgoglio. Ecco fatto disse il conte asciugandosi la fronte..…gli
sembrò buon auspicio recitarsi quella cantilena.
Scese gridando… Bongo Bongo raccogli la cassetta e la scala che ce ne andiamo è finita!. Sapeva che in
quell’inferno la sua voce non sarebbe stata udita, ma di quell’illusione aveva bisogno… di qualcuno a cui parlare
a cui dare un ordine, un testimone della sua euforia, anche la presenza di un cane sarebbe stata opportuna,
non un pesce però, un bell’animale di pelo..un cane…meglio, di quelli ubbidienti, già addestrati, da caccia, da
piuma, di quelli che la selvaggina abbattuta non la mangiano, ma vincono l’istinto ferino di straziarla e di
lappare il gorgoglio dolce del sangue caldo, per amore del padrone, o per paura, che è spesso indistinguibile,
spesso la stessa cosa. Quella canaglia non era a vista né lì né a cinque metri che era la sola distanza cui tra la
nebbia vorticante poteva scorgere con sicurezza..sarà rientrato intirizzito si disse, e riprese a strisciare
trascinando con sé ora anche la fatica della scala e della la cassetta…non sapeva bene che pensiero adottare,
disperso? Invisibile? Distratto? Intento a qualche impegno nuovo emerso nel corso della sua permanenza
sull’albero? Richiamato a rientrare dal castello di comando? e come lo avrebbero veduto da lassù attraverso
quella coltre solida e luccicante? E come gli avrebbero dovuto segnalare di rientrare? Beh mica poteva star lì a
meno quarantacinque ad aspettarlo, né cercarlo intorno, intorno. Immaginò quel Bongo languido, fuggito in
plancia, disteso, con la minchia ritta a sognare l’uovo e le mosche, e sorrise in quel vento, il freddo gli impediva
di distendere le labbra paralizzate. Qui ciascuno badava a se stesso, come appunto laggiù nelle terre di casa, in
quelle battute di caccia, giù nell’altipiano sognato, nell’aspro stepposo paesaggio di colline sassose, di prati di
asfodelo e di solitari arbusti, di piccoli alberi in crescita, laggiù dove Beppino aveva imparato dai vecchi a non
indugiare nell’attesa del cane intrepido che disobbedendo si fosse allontanato dal gruppo per seguire l’istinto,
sospinto dalla natura dietro a un odore, a una traccia, spingendosi al galoppo, il cane, tra paglie e spine di
cespugli, tra le querce, l’olivo selvatico, il rovo e l’asparago, a filtrare nel tartufo umido, dal timo, dalla salvia
dall’origano, dai licheni incrostanti la roccia affiorante, l’afrore sapido o la traccia tenue di un topo, di una volpe,
di un tasso, istrice o cinghiale.
4
Aveva imparato a procedere nel passo al ritmo stabilito , lui, il Beppino, soffrendo la consapevolezza che quel
cane avrebbe potuto anche perire, sventrato tra le zanne del cinghiale ferito o spaventato, soffrendo, al
contempo, per quella impietosa determinazione di procedere, quando ciò avrebbe anche potuto avere come
esito la perdita dell’animale amato, fidato, allevato con cura e attenzione per anni con costi e sacrifici.
Così come ora, ma solo eventualmente, quel procedere senza attendere Bongo, senza ricercarlo avrebbe potuto
introdurre, costituire un’ombra, una pecca nella sua prestazione riparativa, nel suo buon lavoro riuscito, perfino
sul bilancio morale della sua coscienza. Al rientro fu, infatti, lui stesso a dover dapprima chiedere se qualcuno
avesse visto Bongo mentre tutti, e più di tutti il capitano soddisfatto, godevano la riconquista del risplendere nel
buio, che ormai stava calando, della luce gialla di segnalazione e sicurezza sul pennone di prua. Ma poi in
cuccetta, con disappunto, alla soddisfazione di sé qualcosa faceva ombra alla gioia del Beppino. Una specie di
allarme, di contrasto, di disillusione e perfino di rabbia lo assaliva, turbando il placido levitare delle fantasie in
cui era solito trascorrere il tempo libero, quello che lo separava dall’inizio del suo turno di sei ore giù alle
macchine frigorifere, di responsabile elettricista alla congelazione del pescato.
E mentre pensava che la temperatura esterna in quell’inferno era di almeno venti gradi più bassa della
temperatura di congelamento delle celle che la sua vigilanza doveva garantire di continuità, affinché quel
prezioso prodotto del loro girar per mari si mantenesse di valore sul mercato, si disse che ora non poteva più
esimersi dalla seccatura e dall’impegno di fare rapporto al capitano. Nessuno aveva visto Bongo e da quasi
un’ora ormai, lui stesso, la scatola degli attrezzi e la scala erano già da un’ora rientrati in cuccia. Si sentiva, il
Beppino, quasi colpevole dell’aver pensato che quel Bongo con un calcio avrebbe potuto spedire giù tra il
pescato, come se quel suo privato privatissimo certo esagerato pensiero, avesse avuto la forza magica di
trasformarsi in realtà, di concretizzarsi. Gli sembrò quasi un peccato di pensiero, gli sembrò che tra il pensiero e
l’atto non fosse profonda la separazione e dunque consistente la sua colpa. Forse era potuto accadere che una
folata di aria, spuma e ghiaccio avesse sollevato e portato con sé Bongo laggiù tra i pesci nel caldo delle acque?
Calde sì, rispetto all’aria di sopra che le percorreva: ma neppure il cadavere sarebbe recuperabile-pensò…bianco o nero che fosse, quei famelici pesci di superficie se lo sarebbero gustato a tocchetti prima di lasciare
qualche osso alle rastremate collane di denti di quelli ciechi e mostruosi giù del fondo. Qui non si stava a
Castellamare che il cadavere l’onda te lo restituisce enfio e verde di lì a qualche giorno, ché per i satolli
pesciolini mediterranei quel pasto di carne umana non è certo da gourmet.
Ci voleva anche questa!..si alzò dalla branda già alterato, dopo un sonno senza riposo il Beppino e cominciò per
lui un lungo incubo.
La mattina, dopo la necessaria segnalazione, via radio del capitano, di temuto uomo scomparso in mare, un
elicottero della guardia marina depose sul ponte due sinistri inquirenti canadesi e un interprete. E l’interrogato
era lui, solo lui, il Beppino. E gli pareva che tutte le rabbie personali, che tutte le frustrazioni coniugali del capo
di quei due giudici,- l’altro quello giovane gli andava in coda lemme, lemme e dava l’idea di non avere
responsabilità che non fossero il prender nota in un verbale con affettata solerzia,- allungassero, lì almeno, la
loro ombra a oscurare la vita di lui, la sua vita del Beppino..e comunque entrambi lasciavano trasparire fastidio
e astio per quella trasferta sul naviglio e per la nausea da rollio, cui i loro cuori non erano abituati e neppure i
loro stomaci, avendo rifiutato una caraffa di caffè napoletano con le brioches calde . O forse si trattava del
fastidio per gli “italians” che, a quei due celtico- finnici, almeno a giudicare dalla pelle sottile, dai capelli radi
color visone e dagli occhi cerulei, apparivano loro almeno mezzi negri, come il Beppino. E già da questo muro di
ostilità ai colori,forme e modi, pareva al Beppino che, mai e poi mai, avrebbe potuto affermare le sue ragioni né
che le stesse venissero intese: che lui non aveva ucciso Bongo e neppure aveva mai pensato di non essere
protettivo almeno quanto un fratello maggiore, e che insomma, a parte certi suoi pensieri privati che non
doveva certo riferire a quelli sgherri, lui non aveva colpe in quella scomparsa. Insisteva però, il capo, con le sue
domande, le quali non erano domande ma bisturi che tagliavano in una sola direzione, come affermazioni, come
catene che si andavano stringendo alla gola, da due ore, sulla sua responsabilità, almeno rispetto alle norme di
sicurezza in mare. Sulla sua colpa. Lei era il caposquadra, e lei è uscito sul ponte con un addetto operaio… con
queste condizioni di mare… senza l’imbragatura di sicurezza né per lei.. né per il suo collaboratore soprattutto!.
Minchia non sono mica sua mamma pensò mentre non si azzardava neppure, Beppino, che si sentiva perso, di
riferire che di quell’attrezzatura lui, lì su quella nave, non aveva mai neppure sentito parlare, che non capiva
cosa fosse il protocollo, di cui l’interprete pressato dal procuratore, gli chiedeva insistentemente conto….e
bofonchiò,- facendo irritare visibilmente il capo, che alzava le sopracciglia ad ogni parola del Beppino, che con
sussiego sembrava aver capito prima ancora che fosse tradotta..- che a lui quelle parevano condizioni normali e
che l’altezza stessa dei bagnasciuga di quella nave gli era sempre sembrata esagerata, sicurezza essa stessa,
ideata in origine dai costruttori per quei mari.
5
Si arrampicava sui vetri nella forma del colpevole, reso tale dalle sole domande, fatte per incastrare non per
capire. Eppure non aveva fatto nulla se non il suo dovere, ma ora lui stesso sembrava non esserne più
convinto.
Benchè cercasse di respirare a fondo, il respiro si faceva sempre più corto e, benché girasse lo sguardo intorno,
non vedeva un volto amico, una presenza di conforto. Il verbale con tutti i suoi dati aveva ormai preso
consistenza di una decina di pagine che Beppino vedeva accumularsi come fossero inchiostro nero sulla sua
fedina. Non un sorriso, non uno sguardo di comprensione o di pietà- seppure per un reprobo come ormai si
sentiva- aveva ancora visto addolcire le orbite algide dei due, e in lui lo sconforto, la consapevolezza di essere
caduto nelle grane con la giustizia e per di più di un paese straniero, lo fece sentire bambino. Ebbe voglia di
piangere. Ripensava, tra una domanda e l’altra, nell’intervallo in cui l’interprete ascoltava per tradurre,…alla
moglie. Temette di non rivederla mai più e si accorse che ora che la pensava, da quella drammatica condizione
in cui era precipitato, soggetto al potere discrezionale di quei due, la poteva scorgere solo in posizione eretta e
fasciata di strass, alla festa di capodanno, nei sorrisi di circostanza, nella sicurezza dei piedi a terra e della
libertà..gli parve un tempo e un oggetto perduto, mai in verità posseduto, mai meritato! Era lì solo davanti a
quegli inquirenti, nessun altro poteva tenergli compagnia, poteva stare con lui. Il capitano prudentemente non
si era visto se non per l’accoglimento formale dei funzionari e per dare indicazioni sull’ancoraggio dell’elicottero
al ponte. Pensò anche a Lamorna, alla figlioletta e gli venne un singhiozzo.
La riteneva in quel momento un’orfana, una piccola senza padre, ché lui sarebbe marcito nelle linde prigioni
canadesi, senza difesa, senza lingua, con la necessità di un interprete per spiegare ragioni che quelli mai
avrebbero inteso..e lui non avrebbe più potuto starle vicino, non avrebbe avuto utilità per lei, sarebbe stato solo
un ingombro assente, un imbarazzo per la piccola…questa era la punizione per l’ardire di mettersi in mare! Gli
sembrò che la sua lingua potesse essere compresa solo laggiù, nella sua terra, tra quelle forre di campagna , di
fichi e fichi d’india, ginestre e terra argillosa, uve e ortaggi, in famiglia o con gli amici cacciatori. Che potesse
essere compresa solo in un raggio di venti kilometri dalla sua casa, dal suo letto, poiché già i fuori provincia,
quelli residenti oltre il ponte della statale, non lo avrebbero inteso a puntino: altra pronuncia, altra mente, altri
costumi.
Gli parve, prima che bussassero, che gli venisse alla gola un giuramento, di più, un voto. Aveva sentito parlare
dei voti e degli ex voto dalle donne che ogni anno si mettevano in viaggio verso il santuario, laggiù in fondo alla
pianura, dove attaccano i monti, avendo con sé un oggetto, una prova, una privazione o la dichiarazione scritta
di una rinuncia, affinchè il protettore dal cielo rimuovesse una piaga , una pena o realizzasse un legittimo
desiderio. Giurò, in quel momento, a se stesso che, comunque andasse quell’incubo, avrebbe rinunciato al
benessere dei soldi, alla remunerazione allettante di imbarcato, in cambio dei piedi sulla terra,.. per il fucile da
caccia, per il mugolio di un cane, per la moglie, la figlia per le orecchiette al ragù, il capretto, la sagra e
le processioni della passione, insomma per tutte quelle cose buone, familiari, dolci e sicure, …in cambio di quei
sommi beni che da lì, dal deserto galleggiante, tali appaiono, e che si trovano abbondanti solo sulla crosta
ferma, la terra utilizzata dagli uomini emersi, per il loro vivere sicuri. Forte del voto e vinto dalla stanchezza il
Beppino si determinò: non avrebbe più risposto alle domande di quei due..
Avanti!!, disse il capo, al bussare nella porta della cabina che era diventata sede provvisoria di tribunale, solo
dopo aver estratto un grosso sigaro ed atteso che il giovane, come dovuto, gli porgesse il fuoco. Distese le
gambe, osservò il verbale che l’altro ancora andava rileggendo alla ricerca di errori e mentre l’interprete
chiedeva al Beppino se anche lui avesse poi voluto rileggerlo tradotto in italiano, come era suo diritto…ma che
in tal caso le operazioni si sarebbero protratte e che forse non era opportuno di trattenere lì, irritate, quelle
autorità.. …Avanti…! disse ancora il capo, a voce più distinta, poiché qualcuno sembrava indugiare all’ingresso.
E dallo spiraglio lasco, quasi millimetrico, della porta che ruotava apparve, prima della sagoma imponente, il
faccione, che subito Beppino riconobbe, di un fantasma cisposo e scarmigliato. Prima entrarono, nella luce, a
periscopio, i globi oculari sporgenti, espansi di Bongo come mirtilli su panna. E qualcuno da dietro la porta lo
sospingeva affinché entrasse anche il resto, qualcuno lo stava spingendo dentro tutto, vincendo come una
paura, di quel sacco molle, una riluttanza ad entrare. Dietro apparve infatti il capitano che nella lingua
rudimentale che aveva imparata ai corsi della capitaneria nelle sere invernali di giovane disoccupato…masticava
frasi che furono per il Beppino miele e linimento …più dei mugolii sommessi e contenuti della moglie. ..We
found, sir…was sleeping in the tube…wich brings the boiling water from the boiler to the kitchen…he stayed two
days…say hated that cold out there…said: I thought to die out there…he is a wilde man…we are sorry..we are
sorry.
6
Il capo inquisitore aspirava e succhiava dal Montecristo e con il primo lampo di occhi chiese al capitano se
avesse un Mcallan o un Laphroaig. Beppino, cui si era allentata la tensione e rivedeva la vita come gli
appartenesse ancora, al sentire quel nome si ricordò della torba, quintessenza della terra che forniva un così
assoluto sapore a quel liquore, lo sentì come vi fosse immerso, come se vi volesse annegare, prese a
singhiozzare senza contegno.
Il capitano gli mise una mano sulla spalla mentre il fantasma resuscitato se ne stava semplicemente lì accanto
con le spalle e gli occhi bassi.
L’inquisitore scriba solo allora licenziò un sorriso, disse a Bongo con aria amichevole di andare a prendere i
documenti..il vecchio spense il sigaro che aveva appena acceso, ma non interruppe di succhiarlo.
Il Beppino giurò a se stesso, come se tutto dipendesse da lui solo, e benché proprio lì, in quel momento, avesse
avuto conto esemplare del fatto che molto, quasi tutto ciò che capita nella vita dipendesse dal caso e da altri,
giurò, come se potesse ottenere sicurezza di ciò che giurava e per il solo fatto di pronunciare una formula,
sebbene senza voce e solo entro se stesso, che mai più avrebbe avuto a che fare con la legge, ora che l a
giustizia, per caso, lo aveva rivomitato uomo, senza averlo divorato, senza lacerarlo coi suoi denti di squalo.
Il secondo problema di Beppino con la giustizia
Beh mi racconti il secondo ..se vuole…se lo crede utile..
Vede dottore su quelle navi non ci sono donne, solo maschi. E’ come in carcere, dove sono rimasto in questi
giorni,..te ne stai lì solo, il mondo è lontano, te ne ricordi qualche aspetto che ti sembra irreale, soffuso, e solo
questo aspetto si ingigantisce, diventa un’ ossessione, la cosa che più desideri…non puoi uscire, anche se la
cella è grande e aria ..ne hai quanto vuoi, puoi uscire solo sul ponte, ci vai a prender aria sul ponte… che poi
quell’aria là , sì quella, è veramente aria fina. Ma lei non può immaginare quanto molto si possa desiderare, con
disperazione, l’aria pesante, il tanfo di terra. Certe volte è come una Sirena che ti illude , ma sai che non ci può
essere, eppure esci sul ponte e senti l’odore di fumo, la puzza di fogna, l’odore della campagna come se ci fossi
immerso,..capisci che non hai perso la memoria né il desiderio.. Noi non siamo pesci dottore, non apprezziamo
quella vita nelle onde. Quando ti avvicini alla terra, quando scendi sulla crosta ti si dilatano le narici e restano
così tumefatte per giorni, vuoi prendere dentro tutti gli odori, che dico odori dottore, tutti i balsami della terra ,
tutto ti sembra profumo. Appena ti avvicini, già da sotto costa, che la terra ancora non la vedi, ma sai dalle
carte che è lì davanti a te… ma quegli odori li senti eccome, ti sembra di sentirli e non capisci se li senti
veramente o ancora solo li immagini,… e poi, vede, solo maschi… le dicevo..no la maggior parte non sono
ricchioni dotto’, solo qualche cuoco, una volta beh.. lasciamo perdere..i più sono uomini regolari, la moglie ce
l’hanno, la fidanzata pure,.. e si struggono notte giorno di ardore e di nostalgia..e tuttavia quelle amicizie
affettuose d’intesa stabile,…sì lì a bordo si formano delle coppie.. che non è sesso dottore, e anche là sulla
nave, come lì nel carcere, si amplificano. Magari un capitano si compiace di come un ufficiale in seconda più di
un altro esegue, soddisfa, a volta addirittura anticipa le sue disposizioni, di virare, di poggiare, di fare carteggio,
prima che l’onda frangente irrompa a poppa a bagnare gli uomini, a trascinarne talvolta qualcuno a mare,..
Talvolta un capo rete si fida di come un marinaio salpa il palamito, di come lavora rapido agli uncini, di come
veloce ributta a mare lo scarto del pescato, e l’altro ne legge la benevolenza e vi corrisponde, si formano come
dei legami dotto’, degli affetti per sentirti umano, meno solo. Condividere un’amicizia, in quel nulla azzurro e
senza femmine, ti tiene in vita.
Dopo quella storia degli inquirenti stavo sulle mie, mi ero sentito trascurato anche dal capitano, che se Bongo
non fosse uscito da sotto il tubo mi avrebbe dato in pasto ai canadesi, e ciascuno per sé. Pativo e mi curavo con
l’esibire un risentimento, mi isolavo e, soprattutto, odiavo Bongo, cui non rivolgevo più la parola. Forse più che
odio era un principio, un metodo, uno stile che volevo adottare. Lui, quando mi incrociava a mensa o nei
corridoi, strisciava come i cani che azzannano la selvaggina. Anche le bestie sanno di sbagliare, di fare
un’azione vietata e quando incrociano il padrone abbassano le orecchie, inguainano la coda tra le zampe,
strisciano lungo il muro, rallentano l’andatura, vorrebbero che ciò non fosse avvenuto, ma non negano di averlo
fatto: aspettano la mazzata che sentono giusta, la implorano con l’occhio umido. Così lui. Non sapeva chiedermi
scusa, ma sentiva, da animale qual è, che io l’avevo perdonato, che in fondo quell’episodio, e io non lo
ammettevo ancora, ci aveva avvicinati, uniti in una storia dove entrambi eravamo i protagonisti…non come
questa che dotto’.. che mi vede solo, solo e solo. Non capivo perché a mensa facesse di tutto per avvicinarsi al
tavolo dove io mangiavo sebbene vi fossero tante panche lontane, libere, davanti e dietro, fuori dallo sguardo
mio e degli altri.
7
Quando dopo tre giorni che ruminavo sulla mia disgrazia, che stentavo ancora a rasserenarmi e benché gustassi
ancora la verginità dello scampato pericolo, e immaginassi, con speranza e apprensione, i cambiamenti che si
annunciavano nella mia vita, mi arrivò la peggior notizia per un marinaio incerto quale ormai ero diventato..il
capitano ci comunicò la disposizione dell’armatore: che la nave scaricasse il pescato ad Halifax in dieci ore.
Dieci ore, dotto’,… bastano solo a sentirlo da bordo il profumo della terra. Disponeva che la nave abbandonasse
la pesca in quei mari e si portasse immediatamente, attraversando l’Atlantico, diritti, proprio laggiù, alla
latitudine di Dakkar per la pesca dei tonni.
Come,.. perché la peggior notizia?
E sì dotto’..quelle campagne ai tonni…, svuotare le stive ad Halifax ..significa tornare a casa, tornare a terra,
invece che a Pasqua a Ferragosto, vuol dire decidere adesso, subito, se vuoi sbarcare e tornare libero. Non hai
che poche ore per decidere: l’armatore ti liquida e ti fa tornare in patria in aereo, sostituisce l’equipaggio..lo
rimpolpa a Dakkar, da lì rimanda a bordo il nuovo organico secondo la bisogna, secondo chi se n’è andato. Io
avevo ben giurato a me stesso di lasciare il mare, ma dal dire al fare! Ci vuole nove mesi di gestazione per le
donne….e io ero esausto..
Volevo almeno finire l’anno, a Natale avevo giurato, dopo le feste. Da allora non mi sarei più imbarcato, perché
a parte l’episodio di Bongo e dei canadesi -dotto’- che era stato uno sciocche, tutto quell’azzurro del mare in
aggiunta a quello del cielo di sopra va bene per ragionare, per pensare, per gli intellettuali, ma io, dottò,.. i
marinai… non sono uomini di pensiero,.. siamo uomini di vita, io abbisogno di colori forti, di sangue, di giallo e
rosso, di viti, di terre brune, e questo lo vieni a capire proprio stando lì, a galla sospeso su quel blu,.. e poi
abbisogno di animali dotto’. La cosa che desideri di più in quel carcere galleggiante è un gatto sulle ginocchia,
lisciargli il pelo, sentire il calore della carne, anche solo guardarlo quando ti punta addosso i suoi fari mobili e
nel suo sguardo senti il calore della curiosità, dell’attenzione ai tuoi movimenti, al tuo odore,.. noi il sangue ce
l’abbiamo caldo, i pesci ce l’hanno freddo e ci sono stranieri,.. anche un topo, a volte, lo desideri come
compagno,…. e volevo sbarcarmi. A parte l’episodio di Bongo… ma ora..Ferragosto, col rischio che se quei
banchi di tonno atlantico, il più pregiato dotto’, che quello pacifico è pìcciolo e insipido di scarsa qualità..di
seconda scelta, e ci devi lavorare il doppio e mai si riempie la stiva.., invece lì vai sottocosta, dove quello
grosso si spinge a divorare aringhe che se l’aria è tersa e sollevi l’occhio puoi vedere una linea bruna verticale,
un muro là sul fondo… e sai che sono i baobab verdi e le sabbie gialle all’orizzonte, e che dentro ci sono gli
animali, laggiù, ma così vicini e felici tra le erbe e tu, che ci stai lontano, ti senti, tra gli uomini, il più
disgraziato… ti senti un rifiuto gettato a mare, come un indegno della terra.
Sarebbe potuto venire, per me, anche Natale senza rientrare: né terra né casa..e la notte, dottore, non ci
dormi.. ti prende la smania, ti tormenti nel dubbio se mollare, per la famiglia, per la moglie e la figlia o stare lì
come in galera per i soldi che non sono pochi dotto’…quelle campagne ti rendono ricco… beh ricco, è una parola
grossa, rendono bene, sicuro ti rendono, è una manna dal cielo quando torni.. anche se l’animo è meschino,
dotto’.., hai il portafoglio pieno che un poco ti riempie anche l’animo, ma comunque devi essere
riformato..rimesso in forma umana, perché sei come straniato. Ti godi la terra come un bambino che viene al
mondo, hai tutto da riscoprire, i tuoi gli amici che ti guardano come nuovo, i conoscenti, passi per questi, ma
anche i parenti ti guardano come un estraneo, non sei dei loro, è come se non ti riconoscessero, ti scansano e ti
osservano, non capiscono il tuo entusiasmo infantile per un frutto, per un mandarino, non capiscono perché te
ne stai lì fermo in campagna a sentire il rumore dell’erba che cresce, pensano che sei uno scioccato, un alieno,
sempre nuovo, da reinventare, da prendere con le cautele di un granchio, c’è come un imbarazzo in loro, ma
anche tuo, non c’è intesa. A volte anche a casa ti tormenti perché ti sembra di aver sbagliato, che il tuo luogo
destinato sia la nave, che non ti puoi opporre a quella vita raminga di nulla. La moglie che ti tratta come un
signore, come un estraneo, senza complicità. E vuoi questo? e vuoi quello?.. e tutto questa attenzione come
una cameriera al padrone fredda e ambivalente, come se tu sei un ospite nella tua casa. E come un ospite
capisci che dopo tre giorni puzzi, per lei, per loro. Capisci che loro hanno costruito le loro abitudini dove tu non
ci sei più, nulla hai condiviso con loro, ma adesso tu sei lì a disturbare tutto quel loro mondo stabilizzato, liscio
e rassicurante. Per loro, che tu sia a casa tutto il giorno, è come quando ti capita in casa un estraneo che però
in questo caso è padrone, e forse sì, starà lì per sempre, o forse no, se ne andrà quando vorrà, e lei, la moglie,
non è più padrona della sua abitudine di spazzare, di lavare, di cucinare, di uscire tanto meno, e tu la osservi,
le chiedi, ti domandi e ti irriti..di quella formalità gentile che ti rivolge, di quel dovere cui palesa
attaccamento..e mica sei capace di raccontarle dell’uovo, delle mosche, delle fantasie. Sei troppo giovane per
condividere queste umanità, non sai neppure se sia opportuno, e del resto dotto’, perché c’è ben del resto….e
così pensi che anche lei come te non ti sta raccontando..e poi hai quel tormento, quella brama che la vuoi
sempre fottere, notte e giorno.
8
Ti sembra che ti manchi il tempo di aspettare, di accettare che anche lei ne abbia voglia.. e poi forse lei non sa
evidenziare neppure a se stessa se e quando ne ha voglia ..e anche la figlioletta, si trova in casa questo
bestione, la barba scura, il pelo sulle orecchie…che non sa come muoversi in casa, trascina le ciabatte, non tira
lo sciacquone, non sa dove mettersi a riposare, a leggere; che fa la doccia lasciando il bagno come un campo
di battaglia, perché tutto quello che fa lì è come nuovo per lui. E corre anche il rischio, io l’ho sentito il rischio,
di considerare la figlia troppo importante, di dedicarle troppa attenzione, ma inadeguata.Di volerla, come dire
dotto’, come affascinare, e passare il tempo a raccontarle quelle storie che la moglie snobbava disattenta,
considerava con sufficienza, mentre lei, Lamorna, al contrario, troppo attenta per l’orgoglio di tutte quelle
attenzioni di quel suo bestione lì. Per lei, ero una novità curiosa ed eccitante, tanto che ardiva mettersi contro
la madre nel sequestrarmi, nel tenermi vicino, nei mesi che passavo a casa notte e giorno senza altro da fare
che riempire la casa della mia estranea presenza ingombrante.. Lamorna mi voleva stare vicino come un Argo
fedele, imitare in tutto quello che facevo, nell’uso del martello dei chiodi, il trapano e cacciavite… che io, dottò,
quando stavo a terra mi davo fare ad aggiustare casa: il frigorifero, l’impianto elettrico, i buchi col trapano…e
lei mi seguiva intraprendente ed orgogliosa in questi lavori di mani, di attrezzi: ma tu sei una femminuccia!..
dicevo, tuuu devi fare la pasta, la torta, le orecchiette..aiuta la mamma a fare il sugo..no. Per lei l’orgoglio era
starmi vicino, ero io con tutti i miei lavori ..e poi tutti a dirle: guarda come assomigli al papà tuo..
Guardi che .. mi stava raccontando di Dakkar……..
..e sì dottò.. lei ha ragione.. è che, vede, alla mia età quando pensi al passato ti sembra di aver molto sbagliato
e ti viene nostalgia e foga di poter rimediare e struggimento, perché sai che non c’ è più la possibilità: il film
non si riavvolge, tutte le scene sono già state proiettate e ora, come al cinema, puoi vedere solo ombre sulla
tela…
Io non sono sbarcato ad Halifax, ho solo ammirato quei grattacieli scintillanti che scorrevano lungo il ponte e mi
sono sorpreso per quell’aria cristallina, linda e asettica, come se tutto intorno fosse appena uscito dal bucato,
non una buccia per terra, tutto come dovrebbero essere in un mondo di città perfette. Sole e vento e neve e
l’aria pungente prima, e poi dolce per il sole caldo, si sono susseguiti tutti nel volgere di poche ore. Ma l’odore
dottò, ..è sempre del nord, solo odor di pesce e catrame si sente nell’aria…sono stato dieci ore sul ponte a
guardare col binocolo le balene nella baia, mi piaceva seguire la danza di quelle bestie quando inarcano la coda
a mezzaluna e la mettono in verticale prima di trascinarsela a sparire sott’ acqua, al rallentatore, senza che si
sollevi uno spruzzo, lasciando come sola traccia di tale potenza, solo un morbido propagarsi concentrico di
onde lì intorno, … non sono sbarcato neppure a camminare nel porto dottò. Sentivo troppo for te il bisogno
dell’ebbrezza di terra, anche di una terra nordica , esatta e fredda come quella, che solo la dolce lingua francese
ti offre come suono di tenera accoglienza. Temevo che se fossi sceso avrei corso il rischio di non voler più
risalire a bordo, temevo di decidere con impulso, di interrompere lì la mia carriera di marinaio, e poi temevo
ancora quei poliziotti, quei funzionari che avevo conosciuto, quella loro superiorità, quegli sguardi alteri
e quell’assenza di contatto che avevo patito pochi giorni addietro, durante l’interrogatorio.
L’armatore, attraverso il capitano che mi ha visto incerto e scosso, mi ha trasmesso la promessa di un premio
aggiuntivo a fine stagione..della stagione dei tonni ..ha confermato che laggiù, sotto Capo Verde, avremmo
pescato sotto costa e ci avrebbero portati a terra ogni settimana, al più ogni quindici giorni, e in più saremmo
potuti rimanere a terra qualche giorno, il tempo per i rifornimenti della barca, al momento dell’arrivo e prima di
iniziare le battute. Io guardavo le balene e mi trattenevo così dalla smania di scendere, e sognavo il rinvio di
tutto il mio tormento decisorio a una terra più calda. Il sogno di quella terra mi fece rinviare il giuramento che
mi ero fatto, non avevo testimoni dopotutto e parlando a me stesso come a un estraneo, ma chiamandomi
dolcemente per nome, mi confermai quindi di cessare quella vita da marinaio a Dicembre, a Natale, dopo i tonni
africani.
E poi vede dottò.. c’era a bordo un compagno, un vecchio che sembrava incatramato sulla nave e parte della
stessa,.. quello era il solo suo mondo, non sapevamo neppure se avesse un’appartenenza di famiglia, non
parlava mai di sé, contrariamente a tutti gli altri, né del suo paese, ma solo dei luoghi che aveva conosciuto
sbarcando dalle navi. Alla notizia di Capo Verde e del Senegal, di Dakkar si era come rianimato, si era fatto più
loquace. A mensa si attardava a descriverci speranze di paesaggi superbi e suggestivi che lui, in altri tempi
remoti, vi aveva conosciuto fauna, usanze tribali e millenarie… ancora dalla nave già li potete anche vedere, ci
diceva, quando ci avvicineremo laggiù. Elementi sbalorditivi di
natura smisurata e grandiosa, paesaggi di
barriere naturali, fiumi, immensi deserti, sconfinate foreste tropicali e silenzi suggestivi… e quando a terra ci
scendete,- ci solleticava… – potrete incontrare mandrie di animali selvaggi che il loro giorno lo consumano solo
per la sopravvivenza, tramonti infuocati dalle sabbie del deserto che subito si fanno nere ed impenetrabili per la
scure improvvisa della notte e poi… odori forti e profumi, la folla variopinta,..e…..,- e qui socchiudeva gli occhi, ragazze stupende! Certificava di
europei, come noi, insabbiati in quei luoghi, accanto a quelle statue
femminili, che non erano più tornati a bordo: dati per dispersi.
9
E’ che dottò..tutti lo ascoltavamo in quei giorni. Sulla nave, di umano, ti restavano solo le parole, avevamo solo
le parole allora, …che poi erano solo pochi anni fa…. Non avevamo telefono, né tv, né internet e per il satellitare
della compagnia dovevi pagare con trattenute sulla paga, e quando il conto arrivava era salato, sproporzionato,
e non sempre poi quella ciabatta funzionava all’ora di disponibilità concessa perché l’equipaggio, in coda,
chiamasse casa una volta al mese..avevamo solo le parole tra noi per nutrire la nostra curiosità, per la
ricreazione e per lo svago. Solo le parole ti potevano suscitare immagini e muovere speranze, e, queste del
vecchio, cadevano sul mio animo affamato come manna sull’ebreo. Furono quei racconti che mi convinsero del
tutto a restare a bordo fino a Natale. Mi sembrava che in fondo, abbandonare quelle acque fredde, spesso grigie
come ferro e scendere giù all’equatore e stare a galleggiare vicino al paradiso di color pastello, avrebbe potuto
essere un percorso in discesa auspicabile, una tappa verso la fine definitiva della mia segregazione marina, una
tappa esotica, una vacanza, una tappa necessaria prima del ritorno a casa. A Natale.
In tre giorni di riposante navigazione, senza pescare e come in penosa vacanza avremmo dovuto attraversare
l’Atlantico, secondo il capitano. La notte non potevo dormire, mi rivoltavo nell’ambivalenza e soffrivo la
decisione che avevo preso, non mi sentivo sicuro da qualche parte. Allora decisi di uscire fuori, sul ponte,
nell’aria che diveniva via via più mite. Disteso con lo sguardo alle stelle, i miei flussi di pensiero diventavano
placati, untuosi e melliflui, come l’olio meccanico di macchina, distanti dal mio solito atteggiamento mentale,
dotto’,.. che è sempre stato arricciato e iperattivo. Ero come pietrificato, in certi momenti non mi riusciva di
muovermi, solo le palpebre su e giù, eppure ogni forma di allarme era assente. Mi trovavo, al contrario,
immerso nel mare, nel cielo e nel benessere..ad un certo punto mi pareva, e non so dire quanto sia durato, ma
forse un’intera nottata, che non le stelle fossero appese al cielo, ma il cielo, come un manto nero, fosse lui
appeso, come velo, attaccato alle stelle. Altre volte le stelle mi sembravano in caduta libera, come se,
muovendosi al rallentatore, si precipitassero verso di me, e mi sembrava di stare appeso, come loro, nel vuoto
a lievitare e galleggiare. Non credo, dotto’, che fosse per quei goccetti di Laphroaigh che Bongo mi aveva
portato a bordo da terra, da Halifax, e dalla cui bottiglia non mi separavo per godere anche solo dell’odore
aspro della torba e sentirmi animale umano in quelle splendide notti, o forse sì,… ma escludo che fossero
sogni, dottò, io non dormivo, eppure in quella solitudine di tanti anni fa ebbi quelle esperienze che in qualche
modo richiamano quest’ultima.
Non mi pare la stessa cosa….non dello stesso genere.
Lei avrà ragione dottò…. Allora, accolti da un tenero abbraccio di caldo umido, come promesso dal capitano, al
terzo giorno di placida navigazione fummo in rada al porto di Dakkar. Bongo, che mi aveva evitato, quel giorno
a mensa mi mise una mano sulla spalla e con occhi lucidi, che io attribuii all’emozione di immaginare come
possibile per lui un mio perdono, mi disse… io sono casa fratello e ti voglio a stare con me giù a terra, se tu
perdoni a Bongo. Tutti, a bordo, e anch’io, avevano già saputo che Bongo era nato in quella terra e che ora, per
gli imprevedibili giri del destino si trovava proprio a casa….Quella era la vera causa dei suoi occhi lucidi,
l’imbarazzo della relazione di perdono e amicizia ricercata era solo il mio, dottò,… che a lui attribuivo, incapace
di cogliere il vero oltre le mie ubbie.
Dalle brezze di terra della sera, l’odore di riso e cipolle, trascinato nel porto dove stavamo per le formalità mi
rapiva, non vedevo l’ora che la terra vera tornasse a premere sulle mie suole, ma già l’odore, solo, mi
inebriava. Per tre giorni la nave sarebbe stati lì alla banchina, forse cinque, in attesa di rimpolpare l’equipaggio
ed adattare alcuni verricelli al maggior peso delle reti da tonno. Un sogno per me…La libertà a terra per cinque
giorni. Stavo sul ponte a nutrirmi di passione, di odori, sentivo le anime sbattersi dentro quei corpi laggiù, sotto
le tettoie di lamiera delle periferie come nelle serre dei grattacieli, qui tanto vicini, quasi integrati con le scatole
delle catapecchie, come fratelli più alti e fortunati. Venne Bongo. Non mi ero quasi dimenticato di quella storia,
di solo qualche giorno addietro, ma ora mi sembrava così lontana. I sensi tuonavano dentro me e cancellavano
la memoria dei dispiaceri. Bongo mi disse che lui voleva farmi da guida, che andassimo assieme a terra,… che
le sorelle avevano lì la casa, che voleva che andassi con lui quella sera stessa a mangiare riso e cipolle e pollo,…
che certamente le sorelle ci avrebbero cucinato un pollo. Pollo. Fu quella parole dotto’ che mi convinse, trasalii
e deglutii..mi vennero due lacrime a pensare alle cosce del pollo fritto e Bongo pensò che fossero per lui, che
così io lo stessi perdonando e mi abbracciò. Riso e pollo mi ripetevo emozionato, e cipolle. Non era fame dotto,
era la prova del mio legame del mio bisogno di terra, era invidia per il pollo io avrei voluto essere, un pollo, e
stare tutta la giornata in cortile a razzolare, a mettere il naso nella terra. Mangiare il pollo mi avrebbe collegato
a questi affetti per la campagna, per la polvere, per il paradiso delle cose ferme, delle erbe, del sangue caldo di
uomini e animali e al diavolo mare e pesci. Alle diciassette tutto piombò in un minuto nel buio e l’aria si riempì
di odori ancora più acidi e si sentiva tra i tanti rumori ignoti, si distingueva però, il vociare degli uomini.
10
Non ci eravamo mai frequentati a terra… eppure io e Bongo quando saltammo giù dalla passerella, a terra, io,
dotto’,… marinaio più navigato come si dice,… ci inginocchiammo a baciare l’asfalto melmoso del porto ed io
stetti così a lungo, come un islamico in preghiera, a inalare quei vapori di marcio, di catrame di urina, di sabbia
e sterco di animali senza desiderio alcuno dell’incenso purificatore anzi, eccitato nella carne, di riassaporare
quegli umori di vita e di morte. Bongo che si era già rialzato mi indicava la direzione, e fu una lunga cavalcata.
Ringraziavo Dio, in cui allora credevo molto di più di quanto creda ora, dotto’, che le gambe mi
funzionassero, benché facessi fatica, sudassi e mi battesse il cuore, nel tener dietro ai salti di Bongo. Lui si
muoveva a balzi elastici e, per quell’andatura veloce impostami dalla differenze delle leve di quel fantasma,
penavo, ma quelle pene non mi impedivano di estasiarmi di quel mondo di colori e di quel ritmo della gente,
attraente e misteriosa, di cui, chissà come, mi sentivo completamente parte. Ricordo come dopo cinque minuti
io sentissi tutto il mio mondo familiare così lontano, la nave, il paese, la moglie,.. perfino Lamorna,..ricordo che,
sorpreso di quell’estraniazione, mi costrinsi a pensare loro. Eppure non riuscivo a rivedere nella mente le
immagini delle mie origini i profili delle persone, e neppure a sentire, evocandolo, quell’amore appropriato
e consueto di padre intenerito. Forse era il mal di terra,.. ondeggiavo ancora, eppure ero completamente
distratto ed assorbito dagli stimoli di quella città che scivolava nel buio, sapevo che quel luogo mi voleva
animale da caccia, almeno da corsa, e che non era un sogno,… mi pizzicavo le mani e sentivo il dolore, dunque
ero vivo, eppure mi sentivo sospeso nei vapori del paradiso. Notavo i movimenti di Bongo che qui mi
sembravano appropriati e regali, il contrario di quelli impacciati e trattenuti che esibiva sulla nave.
Ci allontanavamo dal porto eppure continuavamo a vedere sopra di noi grattacieli, ma camminavamo in una
specie di periferia di baracche e le strade polverose a quell’ora, di tardo pomeriggio, erano percorse da visioni
colorate incantevoli. Taxi gialli si facevano a fatica strada fendendo un muro di mucche bianche magre, dalle
lunghe corna , e di donne, femmine, dotto’ ..vestite come il papa a Pasqua: di colori e lunghe vesti e stole e
tuniche e drappi e copricapi che, in quell’arcobaleno, non potevano celare i passi languidi e forme esagerate,
impettite, che io non avevo mai neppure sognato. E dalle orecchie, dai colli, dai polsi pendevano ori e
abbaglianti luccicori. Bongo mi indicò un chiosco di birre e mi invitò ad acquistarne se avessi voluto
accompagnare quel pollo tanto atteso con della birra. Mi disse che da loro, dai suoi parenti, non era usata,
almeno non da tutti, ma che, per me, era possibile consumare quella bevanda. Ne acquistai alcune bottiglie di
gialla e di ambrata..in un chiosco affacciato sulla via da una donna che, seduta tra cesti di frutta e pomodori e
zucchine e cipolle agitando treccine ad ogni movimento del capo, mi sfiorò la mano prendendo i 10 dollari che
le porgevo. Non sapevo se potevo guardarla e Bongo, che sembrò capire la mia esitazione, mi disse che potevo
parlarle se lei mi avesse parlato. Potevo parlare lì a coloro che mi parlavano: uomini e donne. Anche alle
donne sì ..ma insisteva Bongo, solo se loro stesse mi avessero parlato.
La cena bolliva su fuochi discreti all’aperto. Una specie di campeggio. La città era ancora tra noi, appena là
dietro le spalle, se ne sentiva il ronzio, ma quelle case di poco muro e tanta paglia incannucciata mi fecero
sentire come di stare in un campeggio. Una novità per me: meglio zingaro che pesce pensai! Un recinto di
paglia circondava un gruppo di casette abbracciate tra loro e i tetti dello stesso materiale: paglia. Un grosso
baobab al centro protendeva i suoi rami nudi come mani contro il cielo turchino della prima sera. Si vedevano
intorno solo donne, impettite e leggiadre, che festeggiavano Bongo, discrete, ma con autentico calore. Gli
uomini sono in Europa, mi disse, intuendo la mia sorpresa, qualcuno c’è, ma riposa. Qui lavorano loro sole a
quest’ora, la cena è questione loro. Mi aggiravo come un fantasma molle, alcuni bambini mi guardavano a
distanza, ma senza trascurarmi, mai mi perdevano d’occhio, tenevano ben fisso lo sguardo su di me. Ero
attratto e incuriosito dalle maschere e altri strani oggetti pendenti numerosi sopra gli ingressi delle case, ma
anch’io, come quei bimbi non potevo trascurare, dottò..di guardare i seni erti di quelle donne, e loro
guardavano me con interesse languido e benevolente forse inconsapevoli del mio desiderio. Lì non ero
trasparente, non ero un fantasma, dottò: quegli esseri umani corrispondevano con lo sguardo al mio, mi
guardavano...dopo mesi di cuccetta, onde e pesce anche io ero tornato un oggetto materiale interessante per
gli altri, mi sentivo pieno dei loro sguardi, mi sentivo rinascere all’umanità. Ma nessuna, nessuna mi parlava,
come soprattutto desideravo. Accadde quando mi soffermai alla porta di una capanna dal cui ingresso pendeva
uno straccio con parole scritte che faticavo a di leggere, ma che oggi ancora mi commuove il ricordo: Lei
dorme, riposa sul candore della sabbia. Una palma verde vela la febbre dei capelli, color rame la fronte curva.
Le palpebre chiuse, coppa duplice e sorgenti sigillate. Questa falce di luna, questo labbro più nero e appena
tumido- dov’è il sorriso della donna complice?
11
Leggevo sorpreso e riconoscente di trovare in quel luogo primitivo parole scritte e perfino poesia, mi chiedevo
se fosse un caso, se quello straccio fosse lì pendente per il colore, per qualche funzione cui aveva adempiuto, o
se fosse lì per quelle parole significanti che qualcuno vi aveva vergato a mano con vernice rossa,.. e Lei mi
trafisse con occhi semplici e gentili,…è il nostro poeta.. messiuer,.la sua musica tiene lontano l’invidia e il
malocchio e ci ricorda chi siamo..
Non capivo come quella poesia esatta mi potesse parlare, lì, in quelle condizioni estreme, mi parlasse così
puntualmente, quando io proprio sentivo, da me, che la bellezza tiene lontano il male, e ciò accadeva per quello
straccio scritto che stava appeso tra tanti
altri gris- gris: piume di pollo, ossa calcinate e piccole zucche
essiccate .
Mai qualcosa mi era sembrata così corrispondente, allineata tra il mio pensiero del momento e il mondo
esterno. Il mio pensiero sventolava fuori di me, lì appeso ad una capanna, nei versi di un poeta che allora non
sapevo chi fosse. E chi poteva tenere lontano il mio male stava lì, carne e volume nello spazio, e mi parlava
complice.
Mi parlò a lungo, in francese, più tardi, seduta a terra accanto, per la cena. Capisco il francese e lì tutti lo
parlavano, ma solo lei si rivolgeva a me. Mangiavo con le mani, presso il fuoco che si lasciava spegnere,
prendevo, come tutti, dal piatto comune, di acciaio ammaccato dall’uso: riso e pollo come aveva promesso
Bongo, ma anche arachidi e ceci e dolci patate arrosto. Già la forma e il sapore di quel primo cibo a terra mi
commuoveva alle lacrime, ma la voce e le parole della donna accanto mi andavano producendo un’estasi, un
pianto interno che mi impediva i movimenti della lingua: di rispondere e di partecipare. Masticavo e rimasticavo
il cibo senza inghiottire, i bambini mi tornavano a versare e riempire il piatto da un catino di zinco, versavano
pomodori, peperoni e limone nel mio piatto già colmo di pollo. Tenevo gli occhi bassi perché le lacrime
cadessero nel piatto e io non dovessi asciugarmele col dorso della mano. Lei indicò le luci di un’isola
all’orizzonte di fronte, sapevo che stava all’imboccatura del porto, l’avevo vista dalla nave. Da lì, mi sussurrò,
sono partiti, sono stati spediti tutti i nostri nonni, i padri e le madri dei nostri fratelli americani. Continuavo a
godere quella presenza di carne e parole, non sapevo come e a chi testimoniare la mia riconoscenza per quel
cibo e per quelle parole che mi riconoscevano uomo, forse maschio, che sentivo, erano dette, nella dolce lingua,
solo per me. Non sapevo interpretare la situazione, stavo intimidito, gli altri sembravano incoraggiarmi, non mi
parlavano, ma mi indirizzavano sguardi e occhiate carezzevoli, incentivanti di approvazione, mi sentivo
coccolato, ma dubitavo che quella sensazione fosse adeguata. In ogni caso se vi fosse stato un pericolo non
sarei stato in grado di difendermi, anche la mia attenzione, la mia concentrazione scemava e io fluivo nella
situazione.. Mentre la cena finisce tutti si ritirano, scompaiono silenziosi e resto solo, disteso su un tappeto
sotto il baobab, al centro, e ancora mi prende quella sensazione della nave nella notte… dottò..il tempo si
sospende e le stelle che si erano tutte accese mi ammiccano intensamente,… ma ancora non credo di aver
sognato. Non sognavo certo quando lei mi scuote e mi invita a entrare: ripeteva che, nella notte, gli spiriti si
aggirano all’aperto e non amano trovare lì qualcuno che non sia dei loro, disteso nel sonno poi! E insiste, mi
sospinge e mi guida dentro. Stavo su un giaciglio, da un lato veniva una piccola luce e lei in piedi contro il lume
occupa tutta la scena, sembra un film troppo vicino per essere vero.. e lei si veste, dottò, sì, si rivestiva,
pettinava i capelli, si bendava in un abito verde fino alle spalle e rosso trasversale dalla metà in giù, fino alle
caviglie e lenta si ricopriva di monili, alle orecchie, al collo, ai polsi, forse si metteva resine e oli sui capelli, sulla
pelle, se quello che sentivo mi sembrava il più dolce afrore che la mia mente ricordi..Al buio non si può litigare
né far l’amore, mi disse con un sorriso di luce, da padrona, mentre sicura accendeva altri lumini prima di
venire, naturale come una gatta, ad accucciare ai piedi della branda dove mi ero disteso e dove stavo timoroso
e rattrappito per le novità, per il mio stesso desiderio.
Beh adesso, signor Beppino, non cominci con i suoi dettagli crudi!…come quelli dell’uovo del marinaio. Posso
capire… si risparmi le descrizioni!
Mi dispiace, dottò,.. che lei abbia paura di ascoltare, ma una cosa la deve sapere. Quelle notti di rapimento il
centro del mio essere non stava lì tra le cosce, come sempre mi capita e sempre mi era capitato in quei
frangenti; il centro tra la cosce se ne stava solo, ben attivo, ma solo, una semplice appendice vagamente
connessa col centro di me stesso che stava altrove, nella testa, e che si circonfondeva nell’universo. La
passione, il trasporto che provavo aveva come sola sede la testa. L’appendice sud non aveva campo, né lo
cercava. La fusione trovata e desiderata non aveva luogo laggiù, semplice punto di contatto. Era ben altro:mi
sentivo il maschio preso dalla Dea, il maschio che abitava nella Dea, che così avrebbe voluto morire, disperdersi
nel nulla con quell’ infinito fusionale nella mente.
12
Beato lei che ha vissuto di queste esperienze…mistiche….signor Beppino..dopo Ulisse eccoci a lei . Lei è stato
come uno gnostico dell’amore..sì, vede, loro, gli gnostici, sentono, partecipano, diventano e sono Dio stesso,
presagiscono sia l’eternità che la divinità ..a lei è accaduto qualcosa di simile, ma con il più semplice amore per
una donna..Di solito, nell’amore, l’uno sta in se stesso di fronte all’altro che riconosce diverso da sé..ciascuno
collabora nello sfruttamento ludico reciproco…il piacere sta spesso proprio nell’utilizzo dell’altro…ma qui Lei non
aveva un altro di fronte..Lei voleva essere quella donna..sciogliersi nella donna ..era quella
donna…un’esperienza mistica dunque.
Mistiche esperienze lei dice dottoò…, ma di carne pura io dico..le spiego…
Ho capito, non insista.. ….vede, signor Beppino, senza carne nulla accade…senza carne anche lo gnostico non
può avvertire Dio..anche l’anima dello gnostico deve stare immersa della carne..per anelare e condividere la
divinità che cerca… e che ritrova..Anche lei, come quel disgraziato prete, ha avuto la sua illuminazione..anche
lui mi pare che cercasse e avesse trovato..stava iniziando dei discepoli..e lei è purtroppo intervenuto!…ma
torniamo alla sua anima africana…
Stavo lì disteso nell’ignavia. Una condizione che mi era stata annunciata nel navigare verso sud , venendo giù
da Halifax, la notte delle stelle sul ponte, e poi ancora la prima sera di terra, fuori nella corte, sotto il baobab.
Più di un’indolenza, meno di una paralisi: un sonno vigile, un peso delle membra che volentieri restavano
immobili e una lucida consapevolezza che ora si stava compiendo con l’aggiunta, a lungo bramata, di
compagnia, di carne altrui, di amore. Sapevo che un giorno mi sarei risvegliato e rialzato, sarei rientrato in me,
quello di sempre, sarei tornato attivo, avrei fatto qualcosa o che qualcuno, altrove, avrebbe deciso per me, ma
non in quei momenti. In quel presente, in quel contesto, il mio futuro si era sospeso o rinchiuso in una
prospettiva di breve periodo, di qualche ora, di mezza giornata, di intervalli tra un pasto e uno scambio di
tenerezze, di quelle che lei, dottò, non vuol sentire descrivere, diciamo dunque “relazioni” … Altre cose del
mondo non mi sembravano di rilievo e valore alcuno. Non avevo che da esistere e assaporare quelle gioie che
da tanto mi erano mancate, che credevo scomparse, che, lì, quella donna cuciva per me, e io ne potevo
disporre e godere senza che vi intervenissero le fatiche crostose del negoziato: complesse trattative sottese,
rinvii, attese, promesse. Senza che vi fosse nulla da garantire in cambio di quella dedizione, senza vincoli che
non fossero la semplice espressione del mio gradimento, e della mia veemenza. Stare lì fermo ad aspettare e
consumare la vita in buona sorprendente compagnia mi ripagava di una vita passata che, allora, mi sembrava
già di aver condotto a lungo, irta di un aggregato di doveri, prove, ricatti, impegni, corrispondenze e fatiche.
Neppure mi curavo di tornare la sera, a bordo. Confidavo che il mio cronografo interno, il mio senso del tempo,
avrebbe provveduto a sollecitarmi al momento opportuno, trascorsi i cinque giorni. Una sera prima del gustoso
riso e pollo con fette di limone, che consumavo ora nella capanna in compagnia della mia venere nera, Bongo si
era affacciato alla soglia per dirmi che il capitano, inquieto, mi cercava,.. che lui non si era però esposto: gli
aveva detto di non sapere nulla di me, ma che avrebbe chiesto in giro tra la sua gente. Bravo Bongo, ti sei fatto
intelligente- pensai- o forse già lo eri sempre stato: un’intelligenza diversa dalla mia, un’intelligenza buona,
sottile, espansiva, essenziale. Ora ti voglio imitare- mi dissi- spendere i miei giorni meglio di quanto tu li abbia
consumati nel tubo, al caldo, ma in solitudine- aggiunsi amichevole con me stesso! Entrambe buone soluzioni
pensai: intelligenze di sopravvivenza, di adattamento, di vita.
Mi tornarono in mente le immagini degli uomini bianchi insabbiati in queste terre cui aveva alluso il vecchio
sulla nave e i racconti, eco lontana, del suocero sulla sorte enigmatica, ma forse un po’ invidiata,
nell’espansione narrativa dei reduci, di quei compagni alpini che nella ritirata dal Don, esausti, si erano infrattati
nelle isbe, accucciati al seno caldo delle dolci contadine russe, e, nel languore continuato, non più avevano
recuperato se stessi, né la forza di mettersi in cammino e far ritorno alle loro mogli e case. Mi parve che anche
per me sarebbe potuto essere così. Una vita nuova e essenziale, di contemplazione.
Credevo che quell’estasi si potesse protrarre proprio continuando a semplicemente desiderarla. Quella sera
chiesi alla donna qualcosa di lei, del marito: l’età e la bellezza ne giustificavano l’esistenza. Mi ero immaginato
che fosse vedova …lei capì subito e mi disse con poche parole condite con l’efficace eloquenza dei gesti e degli
occhi di essere stata “repudier”: sterile, pas de bebè messiuer.. Talaq talaq on dit chez nous…..
sembra proprio una estasi iniziatica, signor Beppino,
non la seguo dottò..una malattia?
non proprio….continui pure…
Non so se la memoria m’inganni; a così lunga distanza da quel tempo ricordo certo i particolari e gli odori:
ricordo perfino che stavo esagerando nello sgranocchiare avidamente arachidi e focacce di ceci e patate e che
ardevo dalla voglia di una birra fresca, lì dove l’acqua è amata più di una donna e che anch’io cominciavo a
patirne l’esiguità …ma le sequenze esatte degli accadimenti sfumano e si confondono.
13
Mi racconti l’essenziale…tutto ciò che è passato non può essere che ricostruito a misura odierna, una storia
nuova dunque… signor Beppino.
Credo comunque di aver consumato, lì nel mio paradiso di terra, tre giorni. Ora rinvenivo dal delicato torpore
per il trambusto di un intenso vociare. E poi è stato un troppo rapido risveglio, dottò. Là fuori, sotto i Mango, si
era radunata una piccola folla; vedevo adesso, nella luce troppo intensa per i miei occhi abituati alla penombra,
alcuni uomini anziani eccitati in un movimento, quasi una danza, sul posto. Sembrava che si conducesse una
discussione concitata e che i gesti prevalenti indicassero la direzione della mia alcova, tanto per ubicazione
quanto per necessità di avvicinarsi e raggiungerla. Le mani e le dita puntate frullavano, indicando l’impellenza,
a due uomini autorevoli, malgrado le ciabatte ai piedi. Questi, per la frusta divisa mimetica, mi sembrarono
distinguersi rispetto agli altri del gruppo come militari o poliziotti. Vennero infatti all’uscio, brandivano scudisci
che mi parve di sentire schioccare, agitati con minaccia, strisciavano comunque il terriccio sollevando un
fumetto di polvere rossa. Altri dietro loro portavano mazze, scimitarre e bastoni di ferro. La mia mente era
ancora lenta e sorpresa e perfino le mie gambe molli e restarono ferme e mi lasciarono afferrare e trascinare,
da quelli, fuori nella luce. Nulla era più amichevole né tranquillo in quel sito di baracche. Vidi che anche Soraya
era trascinata lì accanto, stava come me trattenuta e veniva sospinta in avanti, indirizzata, oltre il cortile,
dalla pressione di quei demoni. Mi sembrava tutto irreale, che questa gogna non stesse accadendo a me,
eppure sentivo la pressione della corrente: costretto e trascinato e sospinto mi giravo spesso, per cercare
conferma che qualche dramma stesse realmente accadendo, e informazioni sul perché sul come sulla
destinazione di quella processione. Ma gli occhi di Soraya stavano bassi, non mi cercavano né mi
corrispondevano. In breve ci trovammo dentro una costruzione di mattoni e lamiera, dipinta di azzurro e giallo,
che sapeva di muffa e che, da qualche insegna, sarebbe parso un posto di polizia. Ma ancora oggi non ne sono
certo! C’era un tavolo, una lampadina, altre fruste pendevano alle pareti, qualche sedia. I due energumeni con
lo scudiscio ci tenevano seduti a terra, fiatavano alito di peste sulle nostre orecchie e alludevano minacciosi al
peggio, imminente per noi. Urlavano esplicitamente, in francese, che avremmo atteso il capo, che lui avrebbe
deciso. Vite… Vite.. sarebbe venuto e si sarebbe compiuto così il nostro destino, sulla qualità del quale
rendevano pronostico i loro occhi infiammati e sanguigni, la loro eccitazione. La piccola folla che ci aveva
accompagnati era rimasta fuori e, tuttavia, non dispersa, sembrava in attesa : se ne sentiva il vociare. Non ero
sicuro che quella condizione in cui mi trovavo non fosse una messinscena, una rappresentazione popolare di
non so quale mito, mi sembravano esagerati e teatrali i loro gesti, come recitati. Ma la folla fuori?
Potevano essere degli attori ? Poteva trattarsi di una trappola, di un disegno che, io straniero, non potevo
sbrogliare?
Nelle fauci della tigre non vi è assenza di lucidità.. dottò! Non avrei voluto mai sentire quei denti, che ora
semplicemente mi trattenevano, affondare nella carne e, comunque, quella contenzione era un brusco risveglio,
una novità purtroppo complicata e drammatica: chissà a quale rovina mi avrebbe condotto, lì in quel paese
primitivo, senza documenti, con mia nave, che adesso bramavo come mia casa, che sarebbe stata al largo per
la pesca entro qualche giorno, forse qualche ora, e che mai avrebbe cambiato i suoi programmi per attendere
me, il Beppino. Feci un cenno all’energumeno più vecchio, allusivo di impellenti necessità alla vescica. Pronto mi
afferrò per un orecchio e aperta una porta di lato mi spinse in un cubicolo nero. C’era a terra un bidone tagliato
a metà in cui mi indicò di depositare i bisogni. Mi sfilai lesto i pantaloni, quello si ritrasse. Con i denti, che allora
avevo duri, buoni per trascinare una rete col pescato, strappai la cucitura in vita per estrarre quello che ogni
marinaio cela e conserva, considera il suo talismano, il suo passaporto, il suo cuore. Rientrando nella stanza
non potei incrociare gli occhi di quella, ancora bassi, ancora sfuggenti. Aprendo il palmo della mano sciolsi sul
tavolo appiccicoso il rotolo di 600 verdoni: la mia sicurezza liquida in dollari, il viatico per quei recinti dei porti,
e di marinai e di stranieri, dai quali io, allora, imprudentemente mi ero forse troppo allontanato. E intuii subito
che la mossa avrebbe avuto un effetto. Gli occhi del vecchio si erano dilatati e liquefatti, il giovane si
allontanava da Soraya nell’evidente impulso, mal trattenuto, di carpirli. Il silenzio durò un attimo, un attimo
lunghissimo per poi precipitare nell’azione di sentirmi afferrato e sollevato con violenza da quei negrieri. Un
calcio tremendo e doloroso mi rovescio fuori, sul retro della casamatta, atterrato nella polvere. Ma la porta che
si richiuse immediatamente mi certificò che non si sarebbe riaperta, che lei restava prigioniera e dunque quella
brusca separazione sarebbe stata un distacco : lei non sarebbe stata con me, mai più.
14
E quella folla dall’altra parte mi sembrava, ora, la vera tigre. Non mi fu assente il cervello che decise per me:
molto prima che io potessi valutare, esaminare, già correvo a grandi falcate col mare e l’isola sul lato destro,
verso il centro della città: né i mesi in nave né l’alcova intensa sembravano aver limitato la potenza di quella
corsa che interruppi solo quando i grattacieli furono troppo alti per poterli contenere interi nello sguardo.
Non
mi fu difficile entrare al porto mal custodito, guidato dalla sagoma amica della mia nave e gettarmi su per la
biscaglina, penetrare in cabina e buttarmi in branda. A casa. Ora che la mia pelle mi conteneva ancora intatta,
alle conseguenze e senso di ciò che avevo vissuto, ci avrei pensato e deciso poi. Prima vivere.. poi capire dottò.
Fino ad oggi ho avuto questa fortuna, di vivere.
Questo destino…direi signor Beppino.
Signor Beppino mi perdoni, ma oggi le ho portato questo incartamento. Le farà compagnia. Nei prossimi giorni
sarò via, per almeno sette giorni. Nel frattempo Lei potrà leggerlo con attenzione. Sono le dichiarazioni dei
ragazzi e i diari di alcuni di loro relativi ai quei giorni precedenti, durante il
trek, diciamo… e c’è anche
dell’altro. Parto, ma lei non sarà solo. Il nostro lavoro potrà continuare comunque. Riceverà le visite di una
giovane collega che mi sostituirà e per quei giorni farà il mio lavoro. Insieme a lei dovrà completare quella sua
storia del passato. E’ necessario per la perizia. La racconterà alla dottoressa e al mio ritorno la rivedremo
insieme, io e lei.
Mi dispiace dottò..ma a nessuno, tantomeno a una giovane donna, racconterò qualcosa…solo a lei dottò. Ormai
mi sono più che affidato…e poi una giovane donna mi imbarazza e il mio racconto soffrirebbe di singhiozzi e
sottrazioni, diverrebbe
traslucido, opaco,.. non dico che mi vergogno,…. é che potrei diventare impreciso o
cedere alla tentazione di indorare le cose e i fatti per renderli udibili a orecchie gentili. Lei, dottò, anche se non
fa nulla, anche se solo mi sta lì a sentire col suo gesto di allisciarsi inutilmente i capelli, è come se facesse
parte amichevole di me: mi aiuta a trovare una verità. Con una donna sarebbe impegnativo e fuorviante, la mia
attenzione sarebbe più centrata sulla sua figura, il mio linguaggio più gentile e ricercato, un’altra verità quella
che dovrei dunque raccontare, una verità condizionata, alterata da quella presenza,… e che potrebbe risultare
meno vera.
Come vuole Beppino …se se la sente di stare sette giorni in solitudine!…lo riferisco all’avvocato che posticiperà
il deposito della nostra memoria..mi dispiace: farò il possibile al ritorno per recuperare il tempo perduto, se sarà
necessario per accelerare la sua dimissione.
Gazie dottò..la sua libertà doveva dire..che mi piacerebbe tanto, anche se non credo di averne diritto e mi
vergogno di tutti,… forse, in fondo qui, così contenuto, sto meglio che altrove.
Ne ha diritto, signor Beppino, ne ha diritto: gravi sono state le conseguenze, non le intenzioni del suo gesto. Ciò
attenua le sue colpe, credo che la nostra perizia lo potrà dimostrare.
Potremmo fare che lei mi racconta, oggi, come al solito, dal suo punto di vista,… come al solito, di quell’ultima
sera, di quella notte, e poi ci rivedremo quindi al mio ritorno, fra pochi giorni per completare quello che ci
manca.
Ecco da tempo avevo riposto nell’armadio blindato i fucili da caccia, solo in qualche rara giornata di pioggia
passavo nelle interne spirali argentee della canna uno stoppino oliato per la pulizia e la conservazione. Pensavo
di non dovermene più servire, che una tappa della mia vita si fosse chiusa. Ma non piace comunque disfarmi
della roba. Io accumulo la roba, mai me ne disfo. Pensi dottò che del doppia canna Churchill, il regalo dei miei
quarant’anni, ricevevo ogni giorno insistenti offerte di amici del circolo della caccia per seimila euro; del
Richard, il regalo di mia moglie per i venticinque anni di matrimonio, un notaio, uomo di panza, appassionato di
armi quanto insistente, mi aveva sventolato un assegno da diecimila euro già firmato nel corso di tutta una
serata al circolo e, dal Beretta a canne sovrapposte nere anodizzate con caricatore a dieci colpi, l’ultimo
acquisto di tre, quattro anni prima, si realizzano anche subito, in giornata, almeno cinque, seimila euro. Quante
volte con quella sua ripetitiva insistenza mi aveva pregato, la moglie, di cederli, di “concretizzare il denaro”
diceva. “Quei fucili sono il tuo passato, mi cantilenava, è un peccato che stiano rinchiusi al buio, inutili, oggetti
preziosi chiusi nell’armadio blindato,.. un fucile va usato non è come un soprammobile, un gioello,.. devi
accettare che il ginocchio non ti permette più il movimento necessario alla caccia…alle due, tre di notte ti alzi
per sgocciolare e già zoppichi e poi desideri il letto e l’oblio, ti riaddormenti e russi seguendo i ricordi, altri
tempi per fischiettare saltellando leggero nelle forre, tempi andati.. e la vista poi..ti mettessi almeno gli occhiali
che ti hanno prescritto..se vedi bene, come dici, perché quel professore che ti è costato tanto di parcella te li
avrebbe prescritti? Tu non ascolti consigli da nessuno, credi di valere tu più del professore, credi addirittura di
far meglio di lui, di perfezionare il suo giudizio adattandotelo, pensi sempre di fare e sapere meglio di tutti....”
15
So, dottò, che, a parte la rabbia e la competizione sorda, il piacere inesprimibile e sempre negato di vedermi
umiliato, debole e bisognoso, mia moglie aveva ragione sui fucili. Ma non ci riesco dottò..non riesco a disfarmi
delle cose, a vendere..è come un riflesso del passato, delle magre dell’infanzia, il terrore dei tempi peggiori che
sono temuti e attesi proprio perché appena trascorsi, ma che potrebbero tornare, sorprendendoti indifeso. E tu
che sei radicato lì, che non ti muoverai da lì, dalla tua terra dalla tua casa, non dovrai essere impreparato a
quei rovesci,.. di tutto potresti aver bisogno allora e rimpiangere un oggetto che non è più tra i tuoi, di cui ti sei
disfatto !...anche per gli abiti, anche per gli attrezzi…compro una cosa nuova, ma non riesco a disfarmi della
vecchia: accumulo. Quei fucili per me erano come gioelli che mi avevano valorizzato nelle stagioni in cui
camminavo ritto e con passo lento e calmo e rappresentavano inoltre, lo capisco, un segno concreto, lucidi e
freddi e potenti come sono, della mia età dell’oro…quando, con i piedi sulla terra, padrone di un cane, del mio
movimento elastico e della mia solitudine ero anche padrone di un’arma, quell’arma a tracolla che mi batteva
sul fianco col calcio in legno di noce, nel cammino, come in compagnia di una fidanzata, rappresentando e
confermando tutta la mia essenza di uomo. E io mi trattenevo quegli oggetti nell’armadio come mi trattenessi
un amuleto capace di rievocare quell’età dell’oro, quando tutto era possibile.
So che spesso le cose si intralciano e si collegano, si annodano per condurti ad un esito, ad una conclusione
inattesa e misteriosa. Quando non sai più quanto tu sia stato l’artefice di quel percorso o il semplice osservatore
che vi ha partecipato. E’ così in questo caso.
Tenevo i cani alla villa in campagna, tre cani. Anche loro un segno di altri tempi, ma quegli animali, più dei
fucili, ancora necessari, utili. Di quelli, la moglie taceva. Erano l’alibi, mio e suo, per stare lontani gran parte
della giornata, per rivederci solo la sera e riconoscerci a raccontarci qualche malanno, qualche sforzo, qualche
impresa, qualche misero quotidiano protagonismo. Ogni giorno mi dovevo recare da loro. Facevano suoni di
ringhio e abbaio alla minima presenza di bestia o uomo nei dintorni. Li tenevo in gabbia per evitare i disastri
che la loro selvatica esuberanza avrebbe prodotto nel giardino, agli alberi da frutto. Ma ogni giorno, sempre,
tutti i giorni, raggiungevo quella casa di campagna per portare loro il cibo, accarezzarli da padrone, e quella
gabbia l’avevo ben costruita, ampia. La loro presenza ritenevo funzionasse da primitivo antifurto ma di più, la
necessità di nutrirli, dava un senso di impegno attuale alla mia vita. La villa è isolata e si offre ai furti o agli
abusi di sbandati e clandestini.
Quei cani che mantenevo non senza fatica mi sembravano essere un deterrente ai danni alla proprietà, una
giustificazione necessaria, miei succedanei: vigili sagome a quattro zampe. Mia figlia mi destinava rampogne
sistematiche a ogni telefonata o ogni incontro, mi ammoniva: mi aveva classificato come un soggetto
maltrattante gli animali. Diceva,.. a volta urlava, che lì a Londra, dove lei abita e lavora e vive…nessuna
persona, non solo le autorità, avrebbero tollerato la barbarie di un cittadino che tenesse cani da caccia in gabbia
per liberarli nel giardino solo poche ore al giorno, il tempo di spazzare le gabbie e lasciare loro il cibo. Ma se li
avessi tenuti liberi dottò..in poco tempo mi avrebbero, a morsi, divelto le viti, le piante, le giovani e le vecchie,
arato il terreno scavandovi buche a colabrodo con quei loro denti e le zampe avide e raspanti, affannati e ribelli
di solitudine.
La gabbia, a malincuore, era necessaria per quelle furie. E poi quella figlia nulla conserva più delle sue origini. A
parte il resto, che forse lei conosce dottò, la vita, la professione l’hanno portata troppo lontana da noi:
un’estranea. Sa dottò… noi cacciatori sembriamo crudeli con gli animali, ma non è così, amiamo i nostri cani più
dei figli, almeno quelli ci ubbidiscono, ma qualcosa dei nostri vecchi riti ci spinge a tenerli in gabbia, a segregarli
e patire..interpretano la nostra parte primitiva e vitale che riscatta queste mollezze, questi civili costumi di cui
godiamo, ma che tuttavia non sono ancora parte di un nostro recondito e profondo ideale. Questo vogliamo
tenere vivo per la continuità di noi stessi, e loro, gli animali, ci aiutano come attori sul palco di teatro.
Da tempo avevo discussioni con Patrizio. E’ vero, non sentivo più l’eccitazione di alzarmi alle due, alle tre di
notte per raggiungere le alture nel primo chiarore, per sparare i primi colpi a colombacci e coturnici ancora al
buio, l’ora migliore per le loro pasture, prima dell’alba. Adesso era solo nostalgia. Ma ancora avevo la costanza
di buttarmi dal letto per raggiungere ogni giorno il ristorante di Patrizio, giù alla marina, prima delle sei. Alle sei
sarebbe passato il camion della nettezza e se io non fossi arrivato prima di quell’ora, come da intesa, lui
avrebbe rovesciato tutto nel bidone dell’umido e da lì nel camion compattatore. Tutto quel bendiddio di avanzi
della sera che io ritiravo, almeno in parte, per nutrire i miei cani, alla villa. Non ha idea dottore del cibo fresco e
di qualità che si spreca in un ristorante della marina. Io ritiravo le proteine, carni e pesci, per i cani, che
mescolavo poi con un mangime secco estruso, di farine vegetali, comprato a sacchi all’ingrosso. Un risparmio,
un piacere di Patrizio, dei cani e mio…e di mia moglie.
16
Mentre trascinava fuori quel sacco di beni da cui i suoi aiutanti di cucina avevano scremato i rifiuti migliori per
me, Patrizio ammiccava e mi scherniva: il cinghiale …tu Beppino me lo devi il cinghiale, almeno uno.. che io ci
vado avanti per tre mesi a proporlo nel menù… carne di boscaglia, selvaggina ci scrivo. So che
immancabilmente loro arrivano e lo ordinano, si passano la voce, vengono numerosi, a colpo sicuro. Succhiano
l’antipasto di pesce crudo e poi saltano il primo, sfrenati, per la foga di ordinare e mettere i denti sulla carne di
boscaglia grigliata, ancora sanguinolenta e succosa. Si sentono così più maschi, più intrisi di tradizione e di
sangue: il fiero pasto. Manifestano così la loro necessaria specifica superiore diversità a quelle loro femmine che
siedono loro di fronte e che li dominano e surclassano ormai in tutto il resto. Mangiando di più e di diverso,
danzano virili ingurgitando quei bocconi selvatici non masticati.…pensa che io, mi diceva Patrizio, quei quarti
freschi che poi congelo, li ritiro dalle guardie forestali, sottobanco, a tre, ma spesso a cinque euro al kilo…un
furto Beppino…quelli, le guardie, li abbattono per programma dopo che gli agricoltori hanno segnalato danni per
le scorribande di quelle bestie che sempre vanno in gruppo, nei campi a scavare con quelle loro zanne da
quaranta centimetri..poi ne inceneriscono le carcasse, dovrebbero,.. ma alcuni arrotondano, ne sottraggono al
fuoco i pezzi migliori, le cosce, la sella, il culatello…e noi vedi Beppino, tu lo sai, io come ti ho detto sempre ho
nel menù..il cinghiale, vieni sotto che vedi la cella..ora è vuota..tu me la potresti riempire..alla faccia di quei
…concussori..tu col tuo fucile, tu che ancora lo puoi usare mi saresti utile, e anche a te saresti utile…quelle
bestie hanno devastato l’altra sera una campagna su al Pulo ..cosa è per te aiutare un amico? Una volta lo
sapevi usare il fucile, ora non ne hai più il fegato? Beppino..adesso ti piace solo mangiare ..e dormire..sparare è
roba da giovani!! ..e certo ci devi andare di notte…
quelli di notte escono in gruppi e devastano le colture,
scavano, cercano i germogli e si mangiano le radici migliori, riducono il campo a un terreno disseccato, ci devi
tornare ad arare e il raccolto è perduto eppure sai… li lasciassero a noi, ma la caccia è bandita …la Provincia
preferisce perdere soldi in indennizzi che affrontare gli animalisti con le loro bandiere multicolori, e quegli altri
ladri in divisa che ne abbattono numeri controllati, ne fanno commercio..ecco chi sono: bracconieri! Sono le
stesse guardie…non è mai cambiato il mondo, Beppino..guardie e ladri da bambini..nel gioco entrambi i ruoli:
ora guardie, ora ladri.
No dottò: non io, io no, io stavo sempre guardia nel gioco da bambino: ruolo fisso.
Avevo mani grosse per afferrare, e poi quella posizione della guardia dalla parte della legge e del giusto, mi
dava più sicurezza..e dignità. Tornato a casa, quando mia madre mi lavava le ginocchia mi godevo il suo sorriso
di approvazione al racconto ..avevo catturato sei compagni ladri quella sera, noi guardie avevamo vinto, due ne
mancavano quando lei, la mamma, perentoria, mi aveva richiamato per la notte. Capivo, dal tono della voce, il
rischio, che mai avrei voluto udire, del richiamo eventuale e successivo di mio padre. Filavo a casa: mi aveva
interrotto il gioco, ma, di più, la soddisfazione piena della vittoria completa. Anche quei due ultimi li avrei presi
se non avessi sentito la presenza del babbo nella voce di mia madre. E’ una sorta di misura personale, mai
avrei potuto diventare un delinquente, anche se ora, destino lei dice dottò,…. sono qui come uno loro, lo sono
diventato dottò! Trasgredire talvolta, come questa azione, lo so è contro le regole, ma quale uomo non deve
andare spesso contro le regole? Se stai sempre nelle regole dottò…neppure il mondo ci sarebbe, almeno non
come lo conosciamo..se stai nelle regole, se tutti stessimo nelle regole, tutto sarebbe diverso..Anche mia figlia
dottò, tutto sarebbe diverso. E’ Lei che l’ha incaricata di assistermi. Lei la conosce dotto? Siete amici?
Non pianga ora signor Beppino, sa cosa le propongo, pianga in altra occasione:le mando la mia collega, pianga
con lei per sua figlia, vedrà che con una donna è più facile l’argomento e l’intesa. Mi faccia fare la mia vacanza
in pace. Non la voglio pensare qui da solo, senza incontri né parole. Accetti la mia giovane collega, parlerà con
lei solo di sua figlia. Con me di tutto il resto. Mi dica di sì.
Sì dottò…a queste condizioni..non mi abbandoni…
E dunque continui.
Non sono state le provocazioni di Patrizio. Sapevo che, per lui, canzonarmi era un modo per rassicurare se
stesso. Vede, quei cuochi affogano nei vapori di cucina, ingrassano per l’aria unta che respirano,.. i cibi
evaporano dottò, trascinati nella corrente di vapore volano, le parti migliori, le molecole più pregiate, volano
leggere come le nuvole..ma lui ci sta lì, sempre sopra il pentolame, e dalle narici assorbe, nelle nubi di vapore,
tanti grassi quante proteine, le polveri di farina, le spezie e sopratutto l’alcol con cui sfuma i piatti. Il lavoro di
cucina è pericoloso per il cuore, hai voglia di metterti a dieta..quante visite dal dietologo,… a umiliarlo quel
dottore,.. e gli misurava la plica e la pressione e la glicemia… e calcolava il grasso addominale. Gli elaborava la
dieta a 1400 calorie… 30 grammi di avocado con fetta di pane al germe di grano e un pomodoro crudo per
colazione; frutti di bosco con due patate e spinaci crudi a mezzodì, pistacchi non salati e banana alle sedici; due
scaglie di grana con minestra di polpa di zucca e carote e sei bicchieri d’acqua e, soprattutto, dottò,…. niente
vino.
17
Come se nulla fosse, malgrado quelle restrizioni, la pancia gli è lievitata sempre e senza interruzioni. Mi aveva
confessato che ciò che più lo umiliava era che per vedersi il pene ormai non bastava sporgersi: doveva mettersi
allo specchio. Il dottorino dopo le prime sgridate aveva preso a snobbarlo, a essere provocativo e senza mai
rinunciare all’onorario e, lui, Patrizio si è allora arreso alla sua stazza…Sono i vapori, mi diceva, sono quei
maledetti vapori di cucina. Si è arreso e ha interrotto perfino la caccia la domenica mattina. Dapprima
sembrava convertito di tentare una caccia stanziale, di postazione. In un casotto che con frasche, rami qualche
legno e chiodo, io stesso avevo costruito per lui, ai limiti delle gravine, in una forra riparata a tiro di qualche
tamarindo. Ma non è roba da cacciatori: gli uccelli hanno l’occhio fino, ti vedono ancora da lontano e non ti
posano il becco sulla canna del fucile per farti felice, e poi noi non siamo pescatori,… non è nostro lo spirito di
stare, come loro, tutti il giorno fermi ad aspettare come un gatto vecchio, compatirsi in silenzio, leccarsi le
ferite per le canzonature della moglie e dei figli, l’onta del pene scomparso tra le trippe…il trastullo della
bambola gonfiabile tra libagioni in compagnia e dormite nell’erba a smaltire alcool e dolori, no ! noi dobbiamo
avere dalla nostra il movimento e la rabbia, il sudore, la fatica e il dolore. Noi gli spazi di terra li dobbiamo
percorrere con stridore di cartilagini, dobbiamo sentire che uccidere l’animale è giustificato, che anche noi
rischiamo le ossa e i tendini, perfino il cuore nella lotta con lui che ci sfugge. Il fucile con la sua netta
implacabile superiorità e potenza, pareggia appena le doti sublimi e superori di cui la bestia dispone per fiutarci
da lontano, ingannarci, per nascondersi, per allontanarsi, per osservarci dall’alto o dal basso del sottobosco,
per trascinarsi ferita, per ribellarsi quando il colpo l’avvisa della fine, per correre ancora già morta.. no… lui,
Patrizio, li ha già venduti i fucili e ha chiuso da tempo. Ha rinunciato. Le sue, dunque, erano provocazioni da
compagno, da camerata: sfottò complici e affettuosi. No dottò è che quella storia dei cinghiali mi girava nella
mente come immagini che non mi lasciavano, mi
ha fatto, da sé, sentire scorrere una sorta di linfa, di
ribellione virile. Sentivo che un mio intervento avrebbe significato, per me, riportare ordine e legge nella
campagna. Ordine di evitare la cattiva amministrazione degli amministratori pubblici, ordine di evitare danni
alla campagna coltivata- se ne stessero nella boscaglia quelle bestie!-, ordine nel sottrarre la speculazione a
quelle guardie, e ordine, per me, che nel riagguantare quei riti della caccia avrei avuto l’onore di un atto lenitivo
delle mie pene: un’ affermazione, un successo di padre, di maschio dopo tutti quegli attentati della vita, quelle
umiliazioni.. Mi vedevo già avanti, col sorriso trattenuto, al momento di scaricare dal baule della Panda la
carcassa dell’animale sezionata. Mi vedevo già la sorpresa riconoscente di Patrizio..e vedevo me stesso, con
sprezzatura, rifiutare quei denari, quei tre euro al kilo..Mi vedevo che Patrizio avrebbe avuto un moto, un
fugace moto di rabbia e che quella rabbia per la sua impotenza, confrontata con la mia affermazione, l’avrebbe
tuttavia presto sciolta nell’affetto, nella comunanza, come se lui avesse partecipato con me, il suo amico, a
quell’avventura rischiosa nella notte, come se anche lui avesse premuto quel grilletto col suo dito sul mio a
sentire quel tuono amichevole dello scoppio, che è anche, per converso, la morte per il cinghiale,… forse, ..se
sei stato perfetto, se hai scelto il campo di tiro, se non ti sei solo compiaciuto dell’azzurro e freddo acciaio
dell’arma, della sua maneggevolezza, delle spirali argentee della canna, se ti è bastato il pensiero e il giudizio a
coordinare il corpo per far partire il colpo.. se hai provato la sensazione che il tuo pensiero fa dunque il destino
della bestia… se hai ben misurato, intuito e coordinato tutto di te. Così puoi godere dell’eco del tuo colpo e
dell’odore aspro della polvere prima di sentire quello del sangue della fiera che si mescola ai muschi bagnati
della radura.
E poi c’era a tormentarmi quella storia di mia figlia di Lamorna.. che voi, che lei dottò, conoscete..
E’ venuta l’ora signora Beppino. Da qui riprenderemo fra sette giorni. Buon lavoro con la mia collega, sia gentile
con lei come con me.. Lei, la dottoressa, la ascolterà su sua figlia Lamorna,… sì anch’io l’ho conosciuta… era
venuta in studio per pregarci di assistere lei, è poi una nostra collega e non è stato difficile saperne qualcosa in
più del solito… è poi una persona aperta e molto comunicativa..addio a presto. Non dimentichi di guardare
l’incartamento glielo lascio , non si preoccupi di consultarlo appieno e di trattarlo come crede: ho fatto delle
copie, quella è per lei, tutta sua, la può anche stropicciare, appuntarvi note se le serve
A presto dottò…
Sì dottoressa, ho avuto modo di riflettere ..un modo di dire riflettere, in verità mi arrovello notte e giorno
intorno alle questioni che mi hanno scosso negli ultimi tempi, prima del disastro, le questioni che hanno in
qualche modo promosso la ricerca di quell’avventura, di quella trasgressione, come l’ha chiamata il dottore. Per
quella sono arrivato a trovarmi qui, in queste condizioni, quella che per qualcun altro si è risolta in modo ben
altrimenti grave.
18
Una delle ragioni che da tempo metteva piombo al mio umore, alla mia stessa sicurezza, era la questione per
cui lei, dottoressa, è qui : mia figlia Lamorna.
Non creda che nei trent’anni passati nella nostra casa, con lei, Lamorna, tra me e mia moglie, io non mi sia
preoccupato prima, e accorto poi, e fatto certo quindi, delle sua particolare condizione. Ho già raccontato al
dottore di come da piccina avesse per me una particolare predilezione, un attaccamento forte che la spingeva
ad imitarmi in tutto, fino ad imitare azioni tipiche della mia condizione di un padre che in casa, in giardino fa
tutto lui.. con le mani, con gli utensili adeguati, quelli che poi accumulo nel garage in un multiforme disordine,
dove solo io so ritrovare,- e anch’io a volte a fatica, imprecando e urlando-, una vite, un arnese, un recipiente
usato nelle stagioni precedenti, ma che immagino ora adatto, necessario per un’altra funzione opposta, per
risolvere un’emergenza, riparare un oggetto danneggiato da un accidente…uno scaldabagno, una lavatrice, la
maniglia di una finestra, e con me, lei sola, sapeva scendere sicura in quel garage a cercare e ritrovarvi quel
qualcosa di necessario di funzionale al nuovo bisogno. L’orgoglio di quella condivisione, di quella complicità, al
contempo mi procurava una spina pungente, di preoccupazione, per quella bambina dalle mani sporche, capace
di usare una pinza e un martello, di accendere un saldatore, ma non di fare una torta, di stendere una pizza, di
premere e tornire un’orecchietta. Un maschiaccio - dicevano le zie pittate e impellicciate anche d’estate- che
sarebbe diventata femmina più avanti, annunciavano: al tempo della prima Comunione… e poi sentenziarono un
rinvio : al tempo della Cresima, e poi ancora un rinvio: al tempo dell’Università…e poi non dissero più nulla,
compresse nel loro silenzio farisaico ed eloquente …ma io, a caccia, dottoressa, malgrado le sue richieste,
quello no… mi sono rifiutato di condurla con me, sempre, malgrado le sue richieste insistenti…le sue
preghiere..no !.. i fucili non glieli ho mai messi né lasciati in mano, né l’ho mai coinvolta nelle storie dei
cani..del loro accudimento intendo. Un gatto le avevo procurato; il gatto le dissi è roba da femmina. Mi
sembrava che la caccia fosse il confine che, ultimo, separasse i maschi delle femmine, fucile e cani …e battute
notturne …Quando il cacciatore rientra in casa, le femmine ancora dormono. Alle prime luci dell’alba ancora
dormono..o leggere e scarmigliate, ammosciate, piatte e senza colore, imbandiscono abbondanti colazioni;
quelle prescritte nelle raccomandazioni della posta col lettore, nella rubrica dell’ultimo dietologo arricchite con le
marmellate di limone, di mandarino, elaborate tradizionalmente, ma innovate nella cottura veloce e nelle
necessarie proporzioni zuccherine ridotte, così rese a canone di una dieta veramente “ moderna”.
Ma sì, avevo capito,… ma sa dottoressa,… da noi quella cosa lì non si può regolare, normalizzare..è una
disgrazia che ti accade. Abbiamo capito, nessuno ne ha colpa, ma nessuno ancora la vive come regalo, nessuno
fa festa quando la figlia si accompagna, troppo spesso, che vien già di dire sempre, alla stessa amica, e tu, da
te stesso, ti sussurri, nel confermarti che proprio a te è capitata, girandoti a guardare che nessun ti ascolti
anche se ti trovi nel deserto, che potrebbero essere fidanzati, amanti. Anche per noi sono caduti vincoli e i
costumi tradizionali sono sospesi, ormai solo rievocati nelle sagre per i turisti, nelle feste al museo del territorio.
Ma quello no,… non può essere accolto e sopportato con pubblicità: viene subìto con mestizia e silenzio e …con
intima vergogna. E noi, io e mia moglie, così l’avevamo accolto, facilitati nel caso nostro, tanto dalla sua
lontananza, dal suo stare come emigrata a Londra, quanto dalla sua intelligenza, dal suo indubbio successo
negli studi e nella professione…Il successo che ce l’ha portata lontana dalla ribalta cittadina, ha innescato la
nostra riconoscenza anche proprio per quella lontananza. Ci ha permesso di vivere senza strappi nelle relazioni
sociali, l’orgoglio delle sua carriera lassù, nella città mondo, vista da qui come cuore di un mondo delle etnie e
degli affari, luminoso e prestigioso, il mondo urbano della modernità contemporanea. Sapevo e avevo digerito
della sua convivenza, lassù, con la compagna, del suo per noi osceno menage di coppia. Certo non ero rilassato
a dovere quando venivano giù per le vacanze, d’estate, ma avevo una sincera ammirazione per mia figlia. In
fondo non la sapevo immaginare né l’avrei voluta diversa da come era e da come la conoscevo. La sua forma e
la sua sostanza di persona siffatta si era imposta nella mia mente, anche se mi trovavo costretto da non so
quale briglia, a mantenere con lei un atteggiamento astratto, un diaframma di separazione emotiva, una soglia
oltre la quale, l’affetto, non trovava le parole per manifestarsi, i gesti per rendere la sua misura ..né i discorsi di
parole sarebbero stati capaci di provvedere. Non le mie parole, dottoressa..Le parole che mi escono dalla bocca
hanno come un’aura fumida; tradiscono, informano dell’ incertezza sottesa e al contempo la certificano..escono
inadeguate, impacciate, suonano ostili, negano ciò che affermano, non corrispondono al pensiero. Sembra che il
pensiero lotti per affermarsi sull’emozione che divarica, e le parole non sanno interpretare questa divergenza,
non lo sanno rendere per quello che è. Quando non sappiamo cosa dire meglio stare zitti: meglio il silenzio!
19
Come quello delle zie. Le nostre parole non ce la fanno...ma anche il gesto non sempre funziona meglio. La
gamma dei gesti di cui disponiamo è limitata, come le batterie da cucina..ti manca sempre lo strumento giusto,
lo immagini, ma non ce l’hai lì a portata quando serve..e allora usi il coltello al posto del cacciavite per fare leva
e spesso ti tagli il dito....La relazione con Lamorna si è venuta restringendo, come burocratizzata nel rimando
dei silenzi e dei semplici convenevoli: come stai? come va il lavoro? chi ti fa i mestieri in casa? mangi bene
..avete amici? Dimmi se hai bisogno qualcosa…ti mando su un provolone o le mozzarelle?..le ciliegie?..i taralli?
E lei: - ciao papi, papi, papi mi chiama dottoressa, che di questi tempi ancor più m’offende- come va la caccia?
e il ginocchio?..ancora male? devi fare una visita su da noi! Vieni su che sentiamo gli specialisti di qui..forse una
protesi?..devi venire su a trovarci. Si parlava dell’agenda, delle scontate cose da fare, per non parlare del
cuore, per tenersi lontano dalle reciproche aspettative delusive o non accoglibili dalle nostre rispettive essenze
personali.
Si Signor Beppino… Noi non possiamo deludere i parenti, i genitori, i figli: ci sentiamo come costretti a
rispettare il loro ideale non deludendolo, ma naturalmente tutelando e conservando il nostro. Si produce così
quel mostro della comunicazione vuota, frustrante. Ma è, in fondo, un gesto d’amore.
Ma quella volta dello scorso anno, per la festa patronale, non era scesa come aveva fatto sempre negli anni
precedenti. Lei amava esporsi a quel folklore, forse le ricordava l’infanzia, aveva telefonato a sua madre che si
era mantenuta però silenziosa con me, assente e preoccupata, ma che, tutto, nel suo ristretto atteggiamento,
mi informava che trattavasi di “grane” insorte con la figlia. E con costanza, indirettamente, la interrogavo, fin
che lei, mia moglie, per la pressione delle mie domande, era sbottata a piangere, e io nulla ci capivo. Avrebbe
avuto una figlia, aveva singhiozzato! E io non capivo, non mi capacitavo che tanto contrastato allarme si
riferisse a una cosa bella, anche se sorprendente. Avevamo masticato e quasi digerito che a Lamorna non
piacessero gli uomini… e ora questa sorpresa…un cambiamento, un miracolo? Ma era stato solo l’inizio di un
incubo, dottoressa, lei lo sa che cosa ne è seguito…! che per noi è ancora indigesto.
Dovetti io stesso telefonare a mia figlia per capire…Avevo sognato una fecondazione artificiale, avevo sentito e
letto che, ormai, migliaia di bambini erano già nati così nel mondo, con la donazione del seme pensavo. Mi
sembrava che quella pratica sanitaria fosse anche accettabile: uno sterile asettico modo di corrispondere al
desiderio di genitorialità , di genitorialità materna nel caso nostro, di una donna, mia figlia Lamorna, la quale,
sapevamo, non ama i presupposti ortodossi e necessari di natura, eterni, per quel frutto,
per quella
realizzazione della più diffusa tradizione umana.
Ancora mi stavo chiedendo: chi sono? Chi sono io che appartengo, vengo collocato senza mia scelta in un
legame famigliare così irregolare, io che devo diventare nonno di un bambino che è fatto con la siringa del
dottore, con la pipetta del biologo messa al posto del cazzo sgocciolante del maschio. Mi può essere imposto
questo marchio? Sono ancora il Beppino? Mi riconosco io? Forse mi sono stati sostituiti i parenti, anche i cani
non sono i miei autentici, quelli originali? Così mi sentivo, come in sogno senza sapore, senza affetti. Eppure in
poco tempo avevo già quasi rintuzzato e regolarizzato quello choche…da Patrizio, ero corso a parlarne con lui e
lì ero rientrato nei miei panni, nelle mie rabbie. Avevo trascorso il pomeriggio, lo avevo aiutato a sbattere i
polpi, lì sulla scogliera, davanti al suo ristorante. Un pomeriggio intero… e più battevo e più mi rilassavo e
ritornavo il Beppino dottoressa!…Chi ha mangiato quelle bestie, la sera, burro e panna si è trovato in bocca:
una spuma li avevo resi a mazzate..da mangiare crudi o appena scottati con patata e pomodorino, insaporiti di
aglio e limone, origano.. e prezzemolo, poco prezzemolo che li rende amari...Vede dottoressa il polpo è duro,
morendo si indurisce, il contrario di come sta sinuoso e plastico nell’acqua da vivo… per ammorbidirlo devi farlo
bollire a lungo, così a lungo che ti surriscalda la cucina, te la inonda di vapore e odore, oppure lo devi prima
congelare e poi bollirlo.. una pratica che… addio freschezza! La freschezza se ne va con la bollitura lunga,
diventa morbido sì, ma addio sapore...oppure come facciamo noi..il segreto è che lo devi battere e sbattere e
risbattere a colpi continui sullo scoglio a spezzarne le fibre con gli impatti ..e quell’animale morto allora si
arriccia tutto e fa una schiuma… come di shampoo.. espelle quegli umori misteriosi, tutte le molecole del panico
della morte… e la carni tornano sode e elastiche….Un intero pomeriggio passato in compagnia di Patrizio… lui
ascoltava seduto e fumava e io sbattevo e sbattevo e gli parlavo di Lamorna, di quest’ultimo fatto, e gridavo più
della risacca per farmi sentire meglio da lui, per sottolineare il concetto, l’indignazione..ogni tanto sentivo il
cuore gorgogliare, cavitare, imballarsi e poi sobbollire nel petto…allora allungavo il secchio alla battigia,
attingevo acqua, sciacquavo scoglio e polpo ad asportare l’inutile schiuma, e poi riprendevo lento a salire con i
tentacoli sopra la testa, caricare il braccio e la spalla e ripestare giù con violenza…per passare quindi all’altro
polpo non ancora trattato..finché il cuore e il fiato riprendevano a danzare, a spingere regolare a …ma ormai al
terzo polpo l’avevo digerita anche questa!..nonno, senza genero e col bimbo in provetta!
20
Beppi…mi aveva detto Patrizio, ma che stai a fare il sofista? Un bambino sempre un bambino è.. mo che te
frega a te se c’hanno messo la minchia a farlo o la pipetta! ..e chi se ne importa se il risultato tanto è uguale?
Se non conosci il padre…se non ci sta questo padre..guarda certi ceffi che ci vengono la sera qui al mio locale, a
addentare il cinghiale,.. che non vedo l’ora che se ne escono, che li terrei in galera, alla catena, per il resto della
vita solo a vederli, altro che padri… meglio non avercene di quei pericoli in casa… che quelli ..Beppi sono come
fiere, barbari nocivi a se stessi di borchie e tatuaggi, figurati al figlio e alla moglie..Mi ero rassegnato, mi ero
fatto una ragione, forse i padri non servono più...non sono così importanti nel mondo accelerato che viviamo…il
nome te lo possono dare anche le mamme, le regole di condotta te le somministrano alla televisione, giorno e
notte e… tanto basta.!... E finito di sbattere quegli animali mi sentivo rinfrancato, ci avevamo anche bevuto
sopra un Moscato rosa, di annata, io e Patrizio: come aperitivo, ci eravamo detti. E allora mi ero sentito di
chiamarla, su a Londra. A quell’ora stava in studio ..non la disturbavo mai malgrado spesso ne avessi
voglia..ma quel giorno ero impaziente di regolare anche quella partita, l’avevo chiamata al telefono e lei era
disponibile a parlare,… ma quelle parole…dottoressa!. C’era ancora lì a trequarti la bottiglia del Moscato
rosa..non mi ero accorto che, alla fine della telefonata, ancora ne cercavo, giravo la bottiglia leggera a capo in
giù, ma dal collo non usciva goccia, l’avevo finita. Vino da meditazione, consigliato dall’etichetta del produttore,
era diventato per me vino da calvario, da sacrificio, da santa messa, dottoressa. Si era andati oltre la mia
immaginazione.
Mia figlia era contenta di sentirmi, mi salutava: partiva per L’India, mi aveva detto, a ritirare la bambina diceva,
la figlia sua, che era già stato partorita da qualche giorno…su commissione, aveva detto, da una giovane
indiana..non era figlia di quella insomma..insomma sì, lei, l’indiana, l’aveva costruita dentro di sé e partorita col
seme di un anonimo irlandese comprato a Londra e con l’ovulo di Lamorna stessa…ha capito dottoressa? Vede
dottoressa per me, uomo d’altra epoca, è difficile essere leggero su queste liquide novità. Qui da noi, qui vicino,
qui alle Tremiti, fino al 1942 le patine, i froci, gli orecchioni, insomma allora li chiamavano gli invertiti, i
culattoni-mi scusi- … il regime li mandava al confino …e gli uomini di qui non ci andavano più neppure a pesca
di polpi a quelle isole, neppure in barca: paura di contagio. E queste lezioni le impartivano ancora al bar, negli
anni sessanta, al circolo, alle sedi dei partiti con stupore, ma con la certezza che, quel regime odiato, non
sbagliasse tuttavia su questo punto. E il medico condotto di Foggia, spesso perito dello Stato contro quelli di
loro che avessero le sostanze e l’ardire di contrastare l’invio autoritario al confino e si fossero opposti
legalmente, in sede giudiziaria, li faceva spogliare e ci girava il dito con calma e compassione professionale:
rotto in culo stilava poi, immancabile, sul referto. E l’isola diventava, in conseguenza di quella diagnosi, il suo
destino per la sola evidenza di quelle tre parole. Questi sono i racconti della nostra storia infantile, che hanno
costituito la nostra educazione sessuale e civile. Ma sappiamo anche cambiare…oggi sappiamo anche votare per
eleggere questi tipi anche alle più alte cariche…. ma quando la cosa tocca la nostra famiglia…è diverso.
Il seme dell’irlandese perché di quelle terre è quella sua compagna…ma la figlia è solo sua dottoressa, di
Lamorna. Su a Londra, tutta questa porcheria, si può fare con la legge e ..questo era troppo anche per le mie
capacità di innovazione…e Patrizio che credeva di avermi aiutato, ora mi vedeva nuovamente sconvolto: aveva
lui telefonato a mia moglie… che la sera saremmo andati insieme a vedere un fucile, un Benelli Argo aveva
aggiunto, per conferire credibilità alla bugia,.. e poi a provarlo su nella campagna verso le colline, nella notte…
e che casa non mi aspettasse per la cena…ero troppo alterato dottoressa per parlare, per sostenere il confronto
con la moglie, che avrei strozzata…Sapevo già come avrebbe reagito, cosa avrebbe detto, esattamente con
tono, pose e contenuti… che per lei era tutto accettabile normalizzabile…santificabile: un cosa, un fatto, per il
solo fatto di esserci, di esistere, di comparire al mondo, veniva, da lei, accolto, integrato e normalizzato.
Saggezza o viltà? Dottoressa? Può darsi. Chissà?...vizi e virtù talvolta sono molto vicini e si infiltrano gli uni
negli altri diventano indistinguibili : un saggio tace, ma anche un imbecille tace… e da due passi non li puoi mai
distinguere.
Si è vero signor Beppino… gli uomini sono indistinguibili da Marte…una massa di formicuzze dobbiamo apparire
ai marziani che ci osservano da lassù ...le differenze, e ce ne sono, risaltano solo da molto, molto vicino..e con
lunghi tempi di osservazione, e poi, anche così, non conosciamo mai l’altro, ma solo il nostro rapporto che noi
abbiamo con lui..
Alla prossima signore. Mi piace averla conosciuta, grazie per avermi accettata al posto del suo Dottò..
Eh sì dottoressa mi vede prostrato…la notte, sa, non ci riesco a dormire..la passo tutta a sfogliare quelle carte
che mi ha lasciato il dottore, a leggere quegli allegati, quegli atti dell’inchiesta. Ma solo il mio fisico ne risente
che mi pare l’anima, per contro, si alleggerisca.
21
Ho capito con chi ho avuto a che fare. Ho potuto in un certo qual modo avvicinare quell’uomo e quel mondo e
mi sembra, man mano che ne leggo e che in parte ne immagino, tutto, già, avessi conosciuto. Mi sembra una
parte ovvia del mio destino. Senta qua…questo è una parte del diario di un ragazzo. Uno dei partecipanti che
tutte le sere, come piacerebbe fare a me, teneva un resoconto scritto a matita della giornata, prima di
addormentarsi alle stelle…..”da una settimana camminiamo in zona deserta, non che la terra sia arida e
monotona, al contrario è ricca di erbaggi e fiori e alberi ed anche qua e là di animali piccoli e grandi che la
vivono di giorno e di notte - ora che il mio occhio si è adattato all’ambiente li vedo- ed è accogliente, la terra,
sebbene non vi si scorgono persone e insediamenti che da lontano. Il giro che il Don disegna e in cui ci guida si
tiene lontano dai paesi, che qui sono già molto distanti tra loro. Ci passiamo molto alla larga. Tra gli uni e gli
altri solo campagna coltivata e deserti di macchia. Con i piedi per terra che bruciano, la nostra testa rimane
molto più sulle spalle e gli occhi si possono rivolgere più facilmente entro se stessi . “Redi in te ipsum in
interiore homine habitat veritas”. Questa è la riflessione che il Don ci ha proposto come idea guida del Goum. E
qui, camminando, mi pare di non aver difficoltà alla trasparenza a me stesso e a chi mi cammina accanto,
costui non mi appare più come un estraneo, ma come un fratello, anche da servire ed aiutare e da cui non mi
imbarazza né mi offende ricevere confidenza, servizio e aiuto. Dispongo ormai solo dell’essenziale nel piccolo
zaino che ogni giorno diventa più leggero, né mi impaccia né mi appesantisce, mi son disfatto strada facendo
dell’inutile, cammino leggero, mangiamo poco e con gusto, percorriamo 20 - 22 km al giorno con carta e
bussola. Il Don ci traccia il cammino della giornata sotto il sole e la sera la nostra tribù si distende unita e felice
sotto le stelle. I piedi stanchi hanno riattivato lo Spirito che ci pervade…ci mancano tre giorni e circa sessanta settanta kilometri, ma vorrei che non finisse mai che non avesse limite, vorrei camminare così per sempre…”
e senta questa ragazza, Alice, lei si rivolge direttamente al commissario che la interroga: “….Mio padre non
voleva che io partecipassi al Goum..no..no.. non era per la fatica, siamo una famiglia di sportivi e di
camminatori, tutti insieme abbiamo percorso, trascinati dal babbo qualche anno fa,
il cammino di
Santiago..800 kilometri nel mese di agosto, le ferie del babbo,… no.. no era per via del Don. Era discusso,
chiacchierato lassù da noi. Sembrava che la sua spiritualità, diceva il babbo, avesse qualcosa di materiale, di
irridente, di eccentrico rispetto alla tradizione, di irriverente rispetto alla ortodossia. Entusiasmava alcuni e
lasciava altri scettici e sospettosi. Le sue risposte, ai quesiti posti dai giovani in particolare, sembrava avessero
allarmato l’attenzione della Curia. Anche questi suoi Goum estivi erano visti con cautela. Erano aperti a tutti
giovani e vecchi, ma per lo più i vecchi ne rifuggivano e i giovani venivano a parteciparvi non solo dalla nostra
comunità parrocchiale . …infatti anche qui vi erano con noi un gruppo di francesi e lo spilungone tedesco, Jan, sì
quello che è appena uscito…prima di me..La presenza di questi estranei ha vietato la partecipazione di molti
miei amici. I genitori si sono opposti. Così il babbo mio si era opposto al viaggio, aveva messo il muso, ma la
mamma ha mediato, come al solito, avrà usato con lui uno dei suoi segreti e vincenti argomenti.. Lei è più
aperta e flessibile, la mamma, non crede ai dogmi, penso che ammirasse quel Don, ma non poteva esprimerlo
al babbo, con lui dissimulava, Lui si turba anche per i pensieri, di noi, della mamma, che non coincidano coi
suoi, e poi la mamma sa che io non potrei accettare limiti di quel genere, come dire, limiti ideologici..La
mamma vuole che io segua le mie ispirazioni e l’ha convinto, non so come. …no mai il Don ha detto Messa
durante il Goum..ma la sua tensione a promuovere in noi continue riflessioni…come dire metafisiche-spirituali
…era sempre attiva…un vero capo in questo senso e non solo. Lì in calzoni e scarponcini con lo zaino e barba
incolta di giorni aveva certamente poco del prete cattolico, anche se manteneva sempre un aspetto gentile,
affabile e lieto, molto rispettoso di tutti uomini e animali..e anche la sua Religione che è poi in fondo la mia, il
suo essere un religioso non sembrava esser in primo piano nel rapporto con noi camminatori. Una sera alla
discussione attorno al fuoco, il momento più atteso da tutti, ci aveva detto che tutte le religioni possono essere
viste e sono sia culture che teologie e che possono essere osservate, capite e studiate non tanto come
trascendenza, ma come risposta degli uomini alla percezione della trascendenza, che la trascendenza potrebbe
essere un inganno o un prodotto naturale ma illusorio del nostro cervello, come la coscienza.. …questo avrebbe
infuriato mio padre!..il Don ci faceva capire e in fondo ci proponeva, forse assecondava la nostra intuizione che
la religione non andasse considerata come verità, ma come una importante espressione culturale e
storicizzabile dell’uomo, in tal modo tutte relativizzandole e tutto ugualmente relativizzando e umanizzando.
Faceva diventare noi osservatori- giudici di tutto e non semplici adepti.
22
A me sembrava un santo..so di alcune che erano molto innamorate di lui..una sera Claudia piangeva sconsolata
nel sacco…mi aveva confessato il suo amore impossibile per il Don…no lui non lo sapeva… nessuno scambio …di
questo proprio piangeva Claudia: dell’impossibilità..Ci aveva detto che non avrebbe celebrato la Messa per
mancanza qui delle necessarie cortine liturgiche, degli apparati scenografici delle chiese, dove solo è possibile
ricomporre, sulla terra, un presagio delle meraviglie del cielo, della liturgia celeste…..e qualcuno aveva sofferto
per questa posizione che giudicava pagana, preconciliare….qulcuno non accettava che la fede avesse bisogno o
necessità delle forme e del rito per esprimersi e ritemprarsi.
Ecco cosa mi è capitato! Dottoressa….di avere incontrato un Santo dottoressa….ecco, io, dal resoconto così
chiaro di questa ragazza, ho capito ciò che mi sembra di aver sempre saputo, un ricordo, una reminiscenza: ho
avuto come un’illuminazione e ciò mi fa sentire fortunato…e pronto a sopportare la disgrazia e le sue
conseguenze. Sono abituato dal destino ai problemi con la giustizia. E’ il mio destino.
Quella sera non sarei tornato a casa da mia moglie. Sperimentavo una solitudine troppo intensa anche se come
le ho detto, il polpo e il Moscato rosa e la vicinanza di Patrizio, mi avevano fatto tornare nei panni miei, ero
contento di sentire ancora rabbia, confusione e amore, anche amore per mia figlia, per mia moglie malgrado
quelle divergenze…insomma ero contento di esser intatto, di reagire, di sentirmi vivo e reale…mi era passata
quella sensazione di vuoto, di finzione, di sogno di essere fatto di plastica, di recitare una parte in una
scena..ero ancora io, il Beppino….non potevo dirigere né controllare la vita degli altri, dovevo badare alla mia
sola, stare allegro di esser vivo ancora e di sentire passioni. Sa dottoressa è proprio quella la parola che mi
venne in mente: passione. E’ bastata la parola per sentirmi euforico: passione. Ho detto: Patrizio portami a
casa..dammi il tuo Benelli, domani ti porto quella bestia per le cene dei tuoi clienti selvaggi. Il Benelli lo
conoscevo, anche Patrizio coltivava quella debolezza. Lo teneva in cantina quel gioiello, di tre chili appena, a
una sola canna flottante. Una macchina di precisione veloce, con caricatore a quattro colpi. L’ho messo in una
coperta straccia tra i sedili dell’auto. Ho guidato con calma su, per la strida dritta come canna di fucile, tra gli
ulivi…dopo Altamura, dopo il Pulo, ho girato alla cappella della Madonna dentro la strada bianca più solitaria
che mi avrebbe portato nella zona insidiosa, verso quegli ultimi terreni coltivi offesi dalle scorrerie delle bestie.
In cielo era sorta la luna e qualche cirro ne attutiva la luce a tratti. Capivo che questa luce di luna mi avrebbe
favorito, non avrei dovuto aspettare l’alba per colpire. La brezza…,.. avrei dovuto determinare la direzione della
brezza per arrivare alle bestie da sottovento e sperare che si mantenesse costante: che non ci fossero cambi di
direzione o cadute. La brezza veniva su dalla marina già intrisa di odori delle città attraversate. Comunque
fermai l’auto presso un terreno nero di terra concimata di letame fresco, mi distesi e mi ci rotolai a lungo come i
cani, mi ricoprii anche i capelli. Non avrebbero dovuto sentire il mio odore di umano, ma solo la puzza di
stallatico, qualora un calo o un giro di vento ne avesse spinto le miei molecole verso di loro. Non ci arrivi sotto a
insidiarli, ai venti ai trenta metri necessari per sparare la notte, se quelli ti fiutano estraneo già a cinquecento
a mille.
Ho fermato l’auto alla quercia vecchia, ha un troco millenario spaccato in due dal fulmine..lì ci avevo passato
nel dormiveglia tante notti, come una capanna, qualche ora aspettando l’albeggiare.. Lasciai l’auto e tremavo
nel liberare il Benelli dallo straccio..mi piaceva di usare la carabina di Patrizio, avevo quel solo caricatore di
quattro colpi, immaginavo di usarne due per una sola bestia ..ma non ero sicuro di incontrarle quella notte. La
luna così lucente rende le fiere imprevedibili, cambia le loro abitudini: quella notte la radura avrebbe potuto
essere vuota.
Ma non fu così…sbucai dal mandorleto protetto dal muretto a secco, l’ ultimo baluardo umano prima del deserto
incolto della Murgia e delle gravine. Stavano là, erano tanti vedevo le sagome, mi pareva un branco. Li
immaginai intenti a raspare nella terra, a succhiare radici, non avevo gli occhiali, eppure scorgevo il tremore sul
posto di quelle sagome sparse nel raggio della radura, non due vicine…come è di quelle bestie..vanno in gruppo
sgranati tra loro, a distanza. La luna era coperta da un cirro. Patrizio avrebbe avuto la sua materia prima.
Sentivo sulle dita il calcio liscio di legno di noce, ne immaginavo le venature..ho appoggiato il calciolo in gomma
nell’incavo della spalla destra, mi son risentito subito un tutt’uno col fucile, un prolungamento di me stesso, poi
ho spinto la sicura. Ho ingaggiato col mirino la sagoma più vicina, mi sembrava anche il più grosso, mi ricordo
che mi son detto: Beppi basta che lo prendi tra la testa e la spalla e cade come un salamino.
23
Non so come, non vedendo le orecchie, ho deciso che la testa fosse lì, da quella parte, credo che sia
l’automatismo inconsapevole, l’intuito del cacciatore di cui mi son servito per anni. Ho aspettato pronto la spinta
del rinculo, una botta secca all’indietro che non conoscevo, pronto ad assorbirla, se la fiera avesse scartato
fuggendo, per finirla col secondo colpo. Non si è mosso: successo. L’avevo annichilito. Non ho sentito il tuono
dello sparo, piuttosto un suono secco come di rami spezzati, deciso. Mi piace, ho pensato, la discrezione quasi
silenziosa di quest’arma di Patrizio.
Ma gli altri compagni, le altre fiere numerose, perché non si disperdevano al galoppo come avrebbe dovuto
essere? Perché stavano lì come prima del colpo, sul posto, alcune semplicemente rigirandosi?
Sono scappato arrancando come il ginocchio mi permetteva. Cercavo di negare a me stesso che ciò che stavo
facendo e vivendo fosse reale. Ho avviato la Panda e son tornato a casa. Mi son steso silenzioso, la moglie
russava, ho dormito.
Al mattino ho creduto di aver sognato, ma il giornale mi ha riportato alla realtà. Avevo ucciso il Santo.
Abbattuto come un salamino dottoressa.
24