I cani di… - La Toletta Edizioni

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I cani di… - La Toletta Edizioni
Donatella Tomadini
I CANI DI CANNAREGIO
Viveva in città da oltre due anni. All’inizio si era sentita indispettita che ogni domanda implicasse la
risposta che questa è Venezia, che siamo a Venezia.
Come quando aveva chiesto al consulente immobiliare quale fosse la porta principale dell’abitazione
retrostante alla sua e la risposta era stata che quella piccola di lato era la porta, perché siamo a
Venezia!
Valeva per i muri che si scrostavano, per il selciato in pendenza e pure per la parete su cui poggiava il
suo guardaroba, notevolmente storta.
Risolse limitando la propria propensione a fare domande. Questo le procurò il vantaggio di non
sentirsi fuori luogo. Da allora fu meno “forestiera”.
Era assorta in questi pensieri mentre attendeva Matteo, per poi recarsi al lavoro, certa di essere in
buone mani. Aveva trovato per caso il nome del ragazzo durante una delle passeggiate serali alla
scoperta della città, in calle Raccheta, mentre si recava verso le Fondamente Nove. Dalla vetrina di
una stanza, di cui non era chiara la destinazione, pendeva una serie di annunci appiccicati in modo
disordinato, tra cui un offresi dog sitter laureato. Sul momento aveva sorriso, pensando che se il dog
sitter laureato avesse conosciuto Selva, avrebbe restituito il titolo all’università e sarebbe scappato a
gambe levate. Il suo bracco ungherese era un esemplare di non facile gestione. Si annotò il numero
sul taccuino. L’annuncio le era piaciuto. Le era sembrato delicato che un giovane in cerca di lavoro
avesse aggiunto la propria qualifica per eseguire una mansione in genere ritenuta umile. Buona
fortuna, pensò. Da quello che vedeva, non gli sarebbe mancata la clientela.
Il sestiere era popolato da un numero considerevole di residenti con i loro animali e mai Laura aveva
riscontrato una simile passione per gli amici a quattro zampe concentrata in un determinato luogo.
Tra gli uni e gli altri s’intravedeva una complicità particolare. Forse contribuivano gli spazi angusti e
il dover gestire la convivenza in modo rocambolesco.
Aveva preso contatto con Matteo in una giornata autunnale in cui era in ritardo per recarsi al lavoro
e Selva si era piantata sulla porta come un mulo perché non voleva uscire. L’affabilità del ragazzo
aveva assicurato un rapporto di amicizia sia con il cane sia con la padrona.
In quello momento arrivò Matteo e poté incamminarsi verso la Strada Nova.
Ogni mattina incrociava la diretta rivale di Selva in fatto di bellezza.
Un’altezzosa bracco italiano la cui umana accompagnatrice dimostrava altrettanta distanza dai
passanti. Aveva scoperto che si chiamava Perla leggendo la medaglietta appesa al collare. Si era
fermata nei pressi di San Grisostomo per ammirarla. Il nevrotico pullulare di turisti risparmiava la
calle in quei giorni freddi e la sosta si rendeva possibile. Nessuna della due aveva degnato Laura di
uno sguardo. Il cane protestava per avere un biscotto chiuso in un borsellino che pendeva dalla
cintura della signora e questa era troppo divertita per considerare la persona che tentava di scambiare
due parole.
Assai più sciolte, seppur meno fascinose, erano la barboncina bianca e la sua compagna, una donna
di circa quarantacinque anni, bassa e robusta, che senza convinzione aveva sostituito la solita
camminata con una prova di jogging sulla Fondamenta della Misericordia. Laura le incrociò sul
ponte all'altezza del campo dei Trevisani. Mentre scendeva, loro salivano e la donna rivolta al
cagnolino stava dicendo schioccando le dita a tempo: Alora Lily, ‘ndemo. Ghe vol ritmo, ritmo, brava, così.
Su, Su.
Queste scene di vita quotidiana altrove inusuali caratterizzavano la città e le procuravano ogni volta
una certa dose di allegria. A Venezia non si era mai sentita sola. Gli incontri erano inevitabili. Le
relazioni efficaci.
Da quando aveva il cane le occasioni per socializzare si erano moltiplicate.
Fu parlando con Giacomo, che maturò l’idea di realizzare un’attività utile per tutti coloro che
avessero necessità di un aiuto qualificato.
Aveva conosciuto Giacomo una sera in calle del Forner, quando aveva sorpreso il suo pinscher
mentre orinava sollevato con entrambe le zampe posteriori appoggiate al muro. Era scoppiata in una
spontanea risata e così avevano iniziato a parlare.
Si trovavano ogni tanto nella locale vivacità degli Ormesini e di solito intavolavano un discorso sulla
passione comune e sulle difficoltà di gestione dei quadrupedi al sopraggiungere degli impegni
quotidiani.
Prese avvio così il servizio di dog sitting con prospettive di micro pensione, informale e aperto a
tutti gli abitanti della Laguna.
Il Can Canaregioto ebbe sede in una stanza adiacente al Ghetto, verso Sant’Alvise, simile a quella in
cui aveva visto per la prima volta l’annuncio di Matteo. In ufficio venivano effettuate la consegna e
la registrazione dell’orario in cui terminava la prestazione. Da lì i vari dog sitter partivano per le
passeggiate. Su richiesta il cliente poteva essere accompagnato direttamente a casa propria. Molti dog
sitter erano studenti universitari della vicina sede di Economia, ma presto, con l’ampliarsi
dell’offerta, furono assunti anche dei giovani di altre zone, che terminato il turno, riconsegnavano
l’animale ove residente. Il flusso era semplice e il pagamento veniva erogato di volta in volta. Una
piccola quota restava a copertura delle spese d’amministrazione.
Il Can, come fu chiamato dai frequentatori, divenne punto di incontro serale incrementando sia le
vendite di spritz del locale nel campo, sia gli affari del negozio di animali di Ghetto Novissimo,
mentre con la libreria per bambini Laura promosse degli incontri dedicati alle famiglie. Uno dei temi
più gettonati riguardava il comportamento da osservare al momento dell’arrivo di un nuovo amico in
famiglia e l’educazione del bambino nel rapportarsi con gli animali.
Per abbellire l’entrata dell’ufficio si recò al vicino negozio, dove acquistò il colorato quadretto “I
Cani di Cannaregio”, che divenne l’emblema dell’attività. Raffigurava dei cani intenti alla voga, con le
case variopinte sullo sfondo. Era dovuta andarci due volte. La prima volta stava arrivando insieme a
Selva, ma si era resa conto che l’ingresso nel negozio sarebbe stato difficile. Sull’entrata prendeva il
sole il gatto rosso dei proprietari.
Decise di tornare più tardi da sola per evitare possibili difficoltà tra fughe e rincorse. L’acquisto fu
approvato all’unanimità da tutti i dog sitter e fu incorniciato di rosa scuro per scelta delle ragazze. Fu
appeso vicino all’ingresso prima della chiusura.
La mattina dopo alle sette aveva in consegna Paco, il cocker della signora Zita e durante la
passeggiata passò in rio Terà Farsetti. Alla vista del cartello si fermò. Da un portone pendeva un
foglio scritto al computer e rivestito da una copertina trasparente: Se non volete che i gabbiani sveglino
tutto il condominio, mettete fuori i sacchi al mattino. Se dovete portarli fuori di sera, almeno appendeteli al gancio.
Sorrise tra sé e sé. Era a Venezia. Il problema riguardava la lotta tra gabbiani e piccioni per nutrirsi
degli avanzi di cibo che erano depositati quotidianamente davanti alle porte delle case. In alcuni
punti in particolare gli uccelli facevano scempio dei sacchetti e il contenuto si riversava sulle
fondamenta e sulle calli. Gli addetti avevano il loro bel daffare. Forse qualche supporto appeso ai
muri avrebbe limitato i danni.
Intanto era arrivata al ponte di ferro, dove Matteo era pronto a darle il cambio. La giornata al lavoro
trascorse senza troppi intoppi. Verso sera non
si spostò dal centro perché aveva appuntamento con Giacomo a San Luca. La luce delle sei era vitrea
e immobile. Nell’attenderlo si era affacciata sul Canal Grande vicino alla sede del Comune, dove
partivano i traghetti delle gondole. La fermata di San Silvestro di fronte a lei era vuota. La banda
gialla della cabina spiccava tra i colori dei palazzi retrostanti come fosse la messa a fuoco di un
fotografo. Le diverse architetture apparivano ora nitide e distinte, ora omogenee. Giacomo la
sorprese alle sue spalle. Ti ho trovata, le disse. Poi vedendola assorta aggiunse, a che pensi? Non gli
rispose. Pensava che Venezia non può essere capita. I suoi confini sono troppo acquosi. La varietà di
elementi confonde. La bellezza eccessiva stordisce. Può solo essere percepita. Istante dopo istante.
Tentando di sommare gli istanti in qualcosa di fluido e consecutivo. Senza riuscirci. Dopo un po’
sussurrò, a nulla.
Al rientro a casa tagliarono per campo San Felice per sbucare a fianco del ristorante. Ebbe l’idea di
dare la mano a Giacomo, ma la calle era davvero troppo stretta.