Il processo creativo nel Sistema Moda

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Il processo creativo nel Sistema Moda
Il processo creativo
nel Sistema Moda
A cura di
Clemente Tartaglione e
Fabrizio Gallante
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Il processo creativo
nel Sistema Moda
A cura di
Clemente Tartaglione e
Fabrizio Gallante
Promosso da
Curato e realizzato da
in collaborazione con
Finanziato da
Con il contributo di
A cura di
Clemente Tartaglione
Fabrizio Gallante
in collaborazione con
Lidia Castagnoli
Mauro di Giacomo
Alessio Falorni
Marco Ricchetti
Paolo Rossi
Progetto grafico
Laura Salomone
Cura redazionale
Elena De Luca
Finito di scrivere nel 2010
Sommario
1.
1.1
1.2
1.3
Introduzione
La moda e la creatività industriale
Dal couturier al fashion designer
La creatività come negoziato
pag.
pag.
pag.
pag.
5
5
5
7
2.
2.1
2.2
2.3
Dall’idea allo scaffale del negozio: un processo ad elevato rischio
Tre passaggi critici
Il rischio di previsione: il paradigma nobody knows
L'indipendenza dei creativi
pag.
pag.
pag.
pag.
10
10
12
13
3.
3.1
3.2
3.3
3.3.1
3.3.2
3.3.3
3.3.4
3.3.5
Come nasce una collezione
Introduzione
Le fasi
La scelta del posizionamento di mercato e lo sviluppo della collezione
Il posizionamento della collezione
L'analisi delle tendenze
La costruzione della collezione e la progettazione dei modelli
L'industrializzazione della collezione
La realizzazione della collezione dal punto di vista degli stilisti
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
18
18
19
22
22
22
27
32
32
4.
4.1
4.2
Il lavoro creativo nella moda
Precarietà e passione
Il creativo e le routines industriali
pag. 34
pag. 34
pag. 35
5.
Il punto di vista degli esperti: 10 interviste per approfondire il tema
della cretività nel sistema moda
pag. 38
6.
6.1
6.2
La natura ibrida della moda: due casi di eccellenza
Il caso Sportswear Company
Il caso Cavalli
pag. 110
pag. 110
pag. 129
7.
Uno slogan per concludere
pag. 142
5
1. Introduzione
1.1 La moda e la creatività industriale
Studiare le professioni creative nella moda, significa prendere di petto il tema del rapporto tra
industria creativa e industria manifatturiera, tra produttori di significati e produttori di oggetti, tra
fattori materiali e immateriali. Nell’industria della moda questo rapporto è intimo, nel senso in cui
questo aggettivo è usato in filatura: un filato si dice di mischia intima quando due fibre diverse
sono unite inseparabilmente in uno stesso filo, in contrapposizione ai filati in cui la mischia delle
fibre è realizzata accoppiando fili di fibre diverse. E’ un rapporto che si radica nel processo di
generazione del valore, in cui la creatività non è un elemento accessorio al prodotto fisico, uni
decoro, qualcosa che si aggiunge a cose fatte.
Le merci di moda, per la loro natura di beni che hanno una funzione comunicativa e interpersonale,
sono prodotti culturali ibridi, nei quali la parte materiale (fibre, tessuto, lavoro di confezione) assume
valore grazie alla configurazione in forma determinata da elementi culturali, creativi, comunicativi
(stile, forme, riferimenti semantici, lavoro cognitivo e creativo). (Malossi, 2006)
La fusione tra le due parti, inoltre, non si manifesta una tantum, ma è incorporato nelle routine
organizzative dell’attività ordinaria, si ripete ritualmente almeno due volte l’anno, al momento
dello sviluppo di ogni collezione stagionale, nei casi estremi come nel modello del fast fashion à
la Zara è pratica quotidiana continua.
1.2 Dal couturier al fashion designer
Il legame tra moda (creatività) e industria (manifattura tessile e abbigliamento) è un fenomeno
recente. Non è sempre stato così: fino agli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900 il rapporto non era
così stretto. L’industria tessile e dell’abbigliamento in tutta Europa e negli Stati Uniti era orientata
in larga parte alla produzione di abiti per l’esercito o da lavoro, esaltava le caratteristiche di
funzionalità e non gli aspetti estetici o semantici del prodotto. Nei primi anni del secondo
dopoguerra, la gran parte dei consumatori ricorreva ancora ad artigiani locali (i sarti) per far
confezionare un abito o per far adattare abiti usati, oppure se li auto-produceva.
Una indagine sui consumatori realizzata dalla Doxa nel 1953-54 mostra che solo un quarto
della popolazione maschile e solo una donna su dieci aveva acquistato in un negozio un abito
confezionato industrialmente. Per le donne l’auto-produzione in casa dell’abito era più frequente
1. Location, Location,
Location: Analyzing the Retail
Environment, era il titolo
di un libro di Jones e Simmons
uscito nel 1990
7
dell’acquisto di un abito prodotto industrialmente ed una quota molto elevata sia per gli uomini
che per le donne era rappresentata dagli abiti confezionati dai sarti. La situazione italiana rifletteva
abbastanza da vicino quella europea, mentre negli Stati Uniti la produzione su larga scala di abiti
era già avviata un decennio prima. (Paris, 2006).
D’altro canto, la moda vera e propria, cioè la produzione di capi di abbigliamento ad elevato
contenuto estetico e simbolico, era distante dalla produzione industriale e dal consumo di massa,
si rivolgeva ad una ristretta élite di potenti e molto ricchi e l’organizzazione della produzione
restava di tipo artigianale e contigua a quella di tipo artistico.
L’unità tra produzione materiale e la creazione estetica e di senso, era ricomposta nella figura
dell’artigiano-stilista, il couturier. La stessa etichetta di maison con cui si definiva l’impresa del
couturier richiamava l’idea che la produzione avvenisse in un ambito ristretto1. Non che questo
impedisse alle maison di produrre su una scala relativamente ampia, le cronache dicono che già
Charles Worth alla fine dell’800 e Chanel nel primo dopoguerra occupavano migliaia di lavoranti2,
un numero superiore a quello che si incontra nelle imprese di abbigliamento di oggi, ma con una
organizzazione di tipo artigianale.
L’ibridazione tra lavoro creativo del couturier e organizzazione industriale, che ha dato luogo
all’industria della moda come la conosciamo oggi, si realizzerà solo successivamente, dopo un
processo lungo e tortuoso, alla fine degli anni Settanta e ha come strumento i primi contratti di
licensing strategico e di lunga durata tra uno stilista ed un’impresa industriale; il luogo dove ciò si
verifica compiutamente è l’Italia e i protagonisti sono il Gruppo Finanziario Tessile di Marco Rivetti
nel ruolo dell’industria e Giorgio Armani nel ruolo dello stilista per la creatività (Ricchetti, 2006).
Questa citazione, tratta da un libro di Quirino Conti descrive bene il cambio di prospettiva
rispetto al modello del couturier che avvenne con lo storico accordo tra Armani e il GFT. In gioco
c’è il rapporto con l'industria di questo nuovo tipo di creativo, lo stilista, in contrapposizione al
couturier:
"...da uno studio stilistico quasi sempre a Milano, ma anche a Parigi o a Londra, e con un buona
"dotazione" di consulenze, in contrapposizione al monogamo couturier, lo stilista, poligamo per
natura (....),si spostava di azienda in azienda per "lisciare" con l'esigente severità organica del suo
progetto tutte le residue asperità di quel rodaggio formale - Armani per stagioni intere formando
personalmente i tecnici del suo principale produttore, il Gruppo Finanziario Tessile, all'anomalia e
all'eccezione della sua giacca e delle sue lavorazioni, sottraendoli così alle più tradizionali e rigide
abitudini esecutive di quel genere di confezione - per poi lustrarlo con quel suo particolare e
inconfondibile senso di modernità: lo stile appunto". (Conti, 2005)
1. L’uso del termine maison
si riferiva al fatto che la sede
del couturier si trovasse
dentro una casa residenziale,
usualmente nel centro
di Parigi o Roma e al luogo
di produzione si faceva
riferimento come all’atelier
2. Anche se non
necessariamente,
L'atelier di Worth, ad esempio,
nel 1871 contava già 1.200
addetti, Chanel 4.000 nel 1935
(Grumbach 1993)
8
L'accordo tra Armani e il GFT ha definito un modello su cui si è costruita più di una generazione
di rapporti tra creativo ed industria della moda: un rapporto solido, improntato ad obiettivi di
lungo periodo in cui il licenziatario si assume il carico di tutte le attività manifatturiere, il licenziante
si afferma come società di servizi progettuali e di comunicazione. Dice G. Giammetti il socio storico
e alter ego di Valentino:
"...Siamo una società di servizi il cui unico sistema di produzione è costituito dalle licenze ed è molto
difficile per noi entrare nella produzione o nella distribuzione". (citato in Giannelli e Saviolo, 2001)
1.3 La creatività come negoziato
L’industrializzazione della creatività nella moda gravita principalmente intorno alla
progettazione di una nuova collezione. Il varo di una nuova collezione è un processo complesso
in cui interagiscono diverse competenze, ciascuna delle quali rappresenta una diversa funzione
aziendale ed è portatrice di interessi diversi e contrastanti. Si basa su un continuo negoziato tra
competenze: i creativi interagiscono con gli esperti di produzione, tipicamente il direttore di
produzione, con la funzione commerciale, il direttore marketing il direttore vendite o gli agenti
più importanti nelle imprese più piccole e con chi si occupa della comunicazione. Infine, ma non
meno importante, anzi spesso con ruolo decisivo, nel negoziato interviene chi nell’impresa detiene
le conoscenze di tipo strategico riguardo al posizionamento, alla riconoscibilità, al ruolo del
marchio dell’azienda, spesso il titolare, o, nelle imprese più grandi il responsabile di linea o l’uomo
prodotto. L’idea creativa si trasforma in prodotto industriale attraverso uno scambio, in un campo
definito da vincoli reciproci.
La natura collettiva della industrializzazione della creatività nella moda non è però limitata a ciò
che avviene all’interno di una singola impresa e al dialogo nella fase di definizione di una
collezione. Il processo produttivo nell’industria tessile implica una lunga sequenza di fasi
successive, all’interno di una filiera industriale.
Una filiera industriale è un insieme di relazioni cliente-fornitore tra imprese indipendenti
ciascuna specializzata in una o più fasi produttive che interagiscono attraverso relazioni di mercato.
I risultati nelle imprese a valle dipendono dalle decisioni assunte nelle imprese a monte e viceversa.
Ad esempio, un nuovo filato progettato e sviluppato da una filatura influenzerà i nuovi prodotti che
saranno sviluppati dalle tessiture o dai maglifici. Viceversa, la ricerca dei filatori nello sviluppo di
nuovi prodotti sarà influenzata dal posizionamento di mercato e dalle formule di business adottate
dai tessitori e dai maglifici.
9
In questo contesto le professioni creative intervengono lungo tutto l’arco della filiera. Se
prendiamo ad esempio il ciclo produttivo stagionale, nel fast fashion tempi e modi sono diversi, si
comincia dai produttori di fibre tessili che con grande anticipo sulla stagione di vendita
dell’abbigliamento (fino a 24 mesi) sviluppano le prime idee sulle tendenze dei colori.
Le imprese di filatura incorporano poi le nuove idee in prodotti industriali progettando le collezioni
attraverso le competenze di creativi e tecnici (o figure professionali intermedie tra le due), i risultati del
lavoro creativo e della industrializzazione in filatura sono la base su cui operano i tessitori e i maglifici
nella progettazione delle loro collezioni. Dal risultato del lavoro creativo nelle imprese di tessitura
infine vengono le basi materiali, i tessuti con le varianti di armature, mischie, colori, finissaggi su cui si
esercitano la creatività degli stilisti e le competenze industriali delle imprese dell’abbigliamento.
Man mano che si scende lungo questa filiera produttiva, cresce l’incidenza delle componenti
creative ed immateriali rispetto a quelle materiali ed industriali. Ma lo sviluppo creativo a valle ha
cumulativamente come presupposto, il lavoro creativo e l’industrializzazione realizzata nelle fasi
a monte.
Infine, quando il prodotto entra nel circuito distributivo riceve un ultima trasformazione, densa
di contenuti creativi ed immateriali che lo predispone ad attrarre il consumatore. Il luogo in cui
vengono fruiti dal consumatore, primo fra tutti il negozio, ha un ruolo decisivo per i beni cosiddetti
esperienziali, come quelli della moda. E’ qui che attraverso il design del punto vendita, che ne
definisce l’atmosfera, le sollecitazione sensoriali e in generale informative esercitate attraverso
numerosi canali di comunicazione il prodotto si carica dell’ultimo strato estetico e di senso per il
consumatore. Anche quest’ultimo strato di valore immateriale applicato agli abiti è dipendente
da (coerente con) quanto è stato realizzato nelle fasi precedenti.
Sottolineare l’importanza della relazione tra attività creative e manifatturiere lungo l’intera
filiera della moda, implicitamente riporta ad un’idea di lavoro creativo con forti radici nelle
competenze materiali, dei materiali, tessuti, filati, fibre e delle tecnologie e tecniche di produzione.
Le materie prime tessili incorporano da sempre potenzialità espressive molto elevate, maggiori
delle materie prime utilizzate da altre industrie3, come l’acciaio o le materie plastiche, che solo gli
sviluppi più recenti delle tecnologie i processi di lavorazione hanno cominciato a far avvicinare
alle potenzialità comunicative dei tessuti e dei filati4.
Per definire le possibili configurazioni dell’equilibrio tra le diverse competenze che
intervengono nelle decisioni sullo sviluppo delle collezioni è necessario sapere chi è il driver
dell’intero processo di filiera:
- il produttore (specializzato, integrato nelle diverse fasi della filiera…)
- la grande catena distributiva
3. Questa idea mi è stata
suggerita da Giannino
Malossi, durante una
discussione su uno spot
pubblicitario BMW
che rappresenta un auto
con carrozzeria in tessuto,
materiale scelto, secondo
quanto dichiarato
dal Chris Bangle, chief
designer di BMW,
perché dotato di potenzialità
linguistiche maggiori
del metallo
4. Il design industriale ha
lavorato sugli aspetti estetici
e semantici dei materiali fin
dagli anni Trenta, ma solo
recentemente ha cominciato
a mutuare approcci
e strumenti simili a quelli della
moda, come mostrano alcune
delle star contemporanee del
design come Philippe Stark
o Karim Rashid o gli architetti
che hanno trasformato
il paesaggio negli Emirati
Arabi. Un interessante
descrizioni di un approcco
creativo mutuato dalla moda
nel mercato delle materie
plastichesi trova nel libro
The substance of Style
della giornalista economica
americana Virginia Postrel
10
-
lo stilista (o l’impresa specializzata nello sviluppo di nuovi prodotti), un marchio globale.
A questo riguardo, va ricordato che il panorama dell’industria della moda presenta una
molteplicità di modelli di business in cui prevalgono ora questa ora quella cultura e competenza
distintiva aziendale. A ciascuno di questi modelli di business (o culture aziendali) corrisponde una
diversa configurazione di equilibrio (diversi pesi) nel negoziato tra le competenze creative, produttive,
di marketing, distributive e della comunicazione che intervengono nella definizione della collezione.
Sempre nell’ambito della molteplicità dei modelli di business, va sottolineato che ci sono diversi
elementi che intervengono nell’influenzare le scelte di make or buy, internalizzazione o acquisto sul
mercato, dei servizi stilistici e creativi e le caratteristiche del lavoro creativo, che oscilla tra il lavoro
dipendente, all’interno di un ufficio stile di un impresa industriale e il lavoro professionale.
Tra questi si trova l’elevato valore attribuito alla originalità del creativo e alla sua capacità di
apportare alla collezione un punto di vista esterno e caratterizzato. La reputazione di un famoso
e/o originale stilista, produce valore per l’impresa, rappresenta una garanzia di originalità per il
consumatore. D’altro canto le ragioni materiali della produzione, del posizionamento di mercato
dell’impresa e della sua stessa reputazione e di quella dei suoi marchi pongono limiti precisi alla
originalità dello stilista e possono portare ad una maggiore continuità del rapporto, fino ad una sua
internalizzazione.
Maggiore è il controllo e il coinvolgimento diretto del creativo nelle attività di natura industriale,
minore è il rischio che il progetto creativo non trovi un'adeguata trasposizione nel prodotto che è
portato al mercato. D'altro canto un forte coinvolgimento del creativo tende a limitarne
l'autonomia e quindi a limitare l'originalità del progetto stesso.
Le relazioni tra creativi ed industria restano tuttavia molto varie, nella maggior parte dei casi,
in particolare per le piccole imprese e per quelle senza marchio che producono per private label
sono rapporti professionali di consulenza tra uno studio stilistico esterno e l’impresa manifatturiera.
Generalmente, le imprese manifatturiere hanno in ogni caso bisogno di un punto di riferimento
creativo interno, che svolga il ruolo di mediatore, o di traduttore/sviluppatore degli input creativi
degli stilisti interni, tendono quindi a dotarsi, con la sola eccezione delle micro imprese, di un ufficio
stile interno che può contare da uno o pochi addetti (nel caso il ruolo sia di pura interfaccia con i
creativi esterni) a qualche decina.
L’evoluzione del modello del fast fashion che si è affermato degli ultimi 15 anni ha invece
spostato, nelle imprese che hanno adottato questo modello, la funzione del fashion designer
all’interno dell’organizzazione aziendale, facendola diventare in molti casi il principale pilastro del
business (su questo si veda più avanti sez.2.3 e sez.4.2).
11
2. Dall’idea allo scaffale del negozio: un processo ad elevato rischio
2.1 Tre passaggi critici
Lo sviluppo continuo di nuovi progetti creativi è il tratto fondamentale dell'industria della
moda, questo alto tasso di innovazione si traduce di per sé in un alto livello di rischio. L'introduzione
di ogni nuovo prodotto, che richiede il lancio di ogni nuovo progetto creativo, porta infatti con sé
una quota di rischio d’errore (cioè di progettare un prodotto che i consumatori non vogliono o di
non progettare ciò che i consumatori vogliono), che trova alimento in almeno tre momenti dello
sviluppo dell'innovazione, ognuno dei quali può essere causa di scostamenti molto consistenti
dei ricavi del progetto creativo o del nuovo prodotto, rispetto a quelli attesi:
- il rischio di previsione, legato alla corretta previsione dei fattori a cui il consumatore attribuisce
valore: il produttore è in grado di intercettare i segnali mutevoli e poco prevedibili del mercato?
- il rischio di progettazione: il design del prodotto incorpora veramente i fattori che sono stati
oggetto della previsione?
- il rischio di industrializzazione: nella fase di conversione da progetto a realizzazione pratica in
produzione è possibile mantenere tutte le caratteristiche previste nella progettazione?
Questi fattori di rischio, comuni a tutte le industrie in cui l'innovazione ha un ruolo importante,
sono amplificati nelle industrie culturali e nella moda. Due dei tre fattori di rischio in particolare
presentano aspetti interessanti che saranno approfonditi nelle prossime pagine: il rischio di
previsione, per le caratteristiche del mercato cui i prodotti culturali si rivolgono e il rischio di
progettazione, per l'importanza che sia i consumatori che i creativi attribuiscono alla originalità del
prodotto e per le complicazioni nell'interazione e tra creativi e non creativi nell'industria e per
l’indipendenza dei creativi.
L'incertezza riguardo al gradimento da parte dei consumatori cresce al crescere dell'intensità
del contenuto moda dei capi. E' molto basso nei prodotti basici e per quelli continuativi, tra questi
ultimi vi sono anche i classici di ogni fascia prezzo, incluse quelle del lusso. Cresce, sia nelle fasce
di prezzo medie che in quelle del lusso e per tutti i prodotti, scelti per il contenuto di novità la cui
vita commerciale si limita ad una stagione.
I prodotti dell'industria culturale possono avere una vita commerciale breve, si pensi alle
canzoni che vivono un sola estate, ad uno spettacolo teatrale che si esaurisce in una stagione, o
ancora ad un grande evento pubblico, ma possono anche essere dei classici di lunga durata che
continuano a generare reddito, sia per i produttori che per gli autori, grazie a royalties e diritti
d'autore della durata di diversi decenni. Anche prodotti, come un film, che sono distribuiti nelle sale
per brevi periodi, possono avere una lunga seconda vita sul mercato dell'home video, o con i passaggi
12
in televisione, come si vedrà più avanti, inoltre, questo prolungamento della vita commerciale
avviene a costi minimi, per il basso costo di riproduzione (duplicazione in cassette o DVD).
Anche per i prodotti della moda si verifica una simile dicotomia, si pensi alla classicità dei jeans
Levi's 501, della Kelly bag a cui nel 1956 Hermès diede il nome dell'attrice Grace Kelly, o del tubino
nero che Chanel propose nel 1926 e al contrario ai molti modelli e prodotti vissuti solo pochi mesi.
Nella moda la prevalenza è però di prodotti a vita commerciale breve. Una definizione più
stringente di moda nel senso indicato all'inizio di questo capitolo (moda come cambiamento) anzi
tenderebbe a limitare il dominio dell'industria della moda ai prodotti a breve vita commerciale.
In realtà per la maggior parte delle imprese che producono moda vale la regola che ogni
collezione incorpora una quota più o meno elevata di capi a vita breve (innovativi) ed una quota
di capi più continuativi. Nel caso di un brand con elevato contenuto moda i capi mantengono un
ciclo di vita breve di non più di un paio di stagioni.
Quando entra in gioco la moda, la vita commerciale di un capo di vestiario diventa quindi molto
breve, spesso inferiore ai quattro mesi. L'investimento in ricerca stilistica e sviluppo che il modello
di business tradizionale della moda, quello del ciclo stagionale programmato nell’insieme della filiera
produttiva – dal filato al capo confezionato – si realizza generalmente in un periodo di circa due
anni si brucia in pochi mesi, o per meglio dire il valore per il consumatore generato nel lungo
processo di ideazione e produzione di tutta la filiera può approssimarsi a zero alla fine della stagione
di vendita. In questo la moda è seconda solo a certi prodotti strettamente legati alle ricorrenze,
come ad esempio le uova di Pasqua, lo spumante e i dolci tipici del Natale, i viaggi organizzati.
La combinazione di scarsa prevedibilità e frammentazione dei comportamenti dei consumatori,
con la rapidità con cui il ciclo di vita di un prodotto si esaurisce è tra le cause della scarsa diffusione
nelle imprese della moda dello strumento della ricerca di mercato che ha nella moda una influenza
sulla progettazione dei capi e sul processo creativo molto ridotta, largamente inferiore a quella
che ha nei produttori di beni di largo consumo. "Nessun osservatore esterno, per quanto qualificato,
è in grado di produrre uno studio di mercato che sia in grado di prevedere quanti capi si venderanno
della giacca X nel tessuto Y venduta al prezzo Z" (Maramotti, 2000). Questa affermazione ricalca quella
storica di William Goldman, a proposito dell'industria del cinema in cui il principio base che
presiede alla formulazione di previsioni sul mercato è quello del nobody knows (Goldman, 1984).
Secondo Goldman, come secondo Maramotti, i produttori e i creativi, all'interno delle imprese
possiedono una sensibilità al mercato e una conoscenza dei passati successi ed insuccessi sulla
base delle quali cercano di prevedere al meglio gli esiti di un nuovo progetto, un film o una
collezione, ma, almeno nella fase iniziale del progetto sono in grado solo in minima parte di
anticiparne il successo o l'insuccesso.
13
2.2 Il rischio di previsione: il paradigma nobody knows
Abbiamo visto che il consumo dei contenuti immateriali incorporati nei prodotti dell'industria
culturale è caratterizzato da un'elevata volatilità e imprevedibilità. Un attore o musicista affermato,
uno stile, anche se fortemente sostenuti da azioni di marketing possono improvvisamente essere
percepiti come passati di moda, mentre nuovi portatori di significato (o nuovi significati) possono
altrettanto improvvisamente emergere o essere adottati dai consumatori. Si può affermare che il
consumo dei prodotti ad elevato contenuto immateriale è soggettivo e non guidato da razionalità
(Hesmondhalgh, 2002). La difficoltà di prevedere i comportamenti è accresciuta dal fatto che tra
le motivazioni di consumo di un prodotto culturale vi può essere anche quella dell’antimoda, cioè
della ricerca di una differenziazione e di una distinzione dagli altri consumatori di prodotti culturali
(Garnham 1990). Il consumo di un bene può quindi anche svilupparsi in opposizione ad un trend
socioculturale dominante.
L'elevata incertezza e variabilità si traduce in elevato rischio di previsione che si traduce in
un'alta percentuale di insuccessi nel lancio di nuovi prodotti e servizi. E' ad esempio noto che la
maggior parte dei film prodotti genera perdite. Una regola pratica negli USA è considerare che su
dieci film sette siano in perdita, due raggiungano il break-even e uno realizzi incassi superiori ai
costi compensando le perdite degli altri. In sostanza gli incassi delle case cinematografiche
dipendono quasi interamente da pochi grandi hit.
Anche nell'industria della moda il rischio di previsione è una componente di grande
importanza. La variabilità, l'imprevedibilità e la molteplicità dei fattori che determinano il successo
o il completo insuccesso di un capo di vestiario che diventerà il best-seller (o un bad-seller) della
stagione determinano, al lancio di una nuova collezione, rischi maggiori di quelli che si incontrano
in altri settori industriali all’introduzione di un nuovo prodotto. Il problema non è di poco conto se
si considera che ad ogni stagione i nuovi prodotti/modelli rappresentano da un minimo del 30%
delle vendite ad un massimo del 100% per chi è specializzato nei prodotti più trendy. Si stima che
almeno il 20% del costo di produzione di una collezione sia la componente imputabile agli errori
di previsione, valutati sulla base del costo dell’invenduto a fine stagione (Centro Einaudi, 2002).
Questo tipo di rischio è connesso alla fase di identificazione delle tendenze (si veda su questo
punto, più avanti la sezione 3.3.2) ed è quello a cui più comunemente si fa riferimento quando si
pensa al mondo della moda.
14
2.3 L'indipendenza dei creativi
La creatività è un importante strumento di creazione di valore, d’altro canto il lavoro creativo
può non trovare un perfetto allineamento con le effettive opportunità di mercato. Rientra infatti
nelle caratteristiche del lavoro creativo che l'originalità e l'armonia raggiunte nell'esecuzione sono
in sé significativi per il creativo5 anche al di là degli esiti economici e di mercato. Ciò non
presuppone una frattura tra creativi e mercato, o una retorica del designer come puro creatore, la
figura del fashion designer non esiste senza il mercato, ogni fashion designer sa che il fine di ogni
nuova collezione è di essere venduto, a Giorgio Armani è attribuita la frase “non è moda finché
non è venduta”6. In questo senso lo stilista può essere definito fashion designer, cioè vicino alla
cultura del designer (la cultura del progetto) che trae la sua ragion d’essere dall’industria e dal
mercato, dal fine di progettare un oggetto migliore per il consumatore, che combini, funzionalità,
estetica e significati.
La relazione tra percezione del creativo e percezione del consumatore non è però
necessariamente univoca. Innanzitutto vi può essere un disallineamento tra gli aspetti che sono
percepiti dal pubblico come decisivi e quelli invece percepiti dal fashion designer come
fondamentali. In altri termini, il creativo non può prevedere se la sua visione creativa ed estetica
sia immediatamente percepibile e corrispondente ai desideri dei consumatori. In secondo luogo,
l’attività dei fashion designer è fortemente influenzata dai giudizi e dalle idee che circolano
all’interno della fashion business community, trai i colleghi, “i pari”, in cui si forma la reputazione
dello stilista con inevitabili rischi di autoreferenzialità. Del resto, la reputazione del creativo, e quindi
la sua capacità di attrazione sul mercato delle consulenze o delle licenze dipende in buona misura
dalla sua originalità, è quindi interesse del creativo esaltare gli aspetti di originalità del suo
prodotto, portandoli al limite, e in qualche caso superando la accettabilità da parte dei consumatori
finali.
La relazione tra le sensibilità dei creativi, interessati all'originalità e alla novità, e quelle degli
uomini dell'area commerciale, interessati invece alle indicazioni provenienti dalle vendite non è
banale. Le caratteristiche del prodotto devono essere negoziate con i creativi che in generale non
sono disposti a vincolare a priori le proprie scelte creative ad un risultato definito preventivamente
con gli uomini del commerciale. Nella moda ai creativi, è garantita una autonomia e indipendenza
maggiore che ai knowledge workers e ai progettisti in altri settori industriali. La maggiore autonomia
è motivata sia da ragioni culturali: l'atto creativo è visto come risposta ad una necessità interiore,
che da ragioni economiche: l'originalità che deriva dall'indipendenza dei creativi è il motore delle
scelte di acquisto dei consumatori.
5. David Hesmondhalgh
definisce symbol creators
i creativi che operano
nelle industrie culturali,
una definizione che si applica
anche ai creativi dell'industria
della moda. La definizione
mette in evidenza come nelle
industrie culturali ci si riferisca
ad un particolare tipo di
creatività che concerne la
manipolazione di simboli,
finalizzata al'intrattenimento,
all'informazione,
alla soddisfazione
nel consumo dei prodotti
culturali che quei simboli
trasportano
6. Anche se spesso viene
esaltata la contiguità
della creatività nella moda
a quella artistica, con, anzi,
l’accento sul modello
dell’artista romantico
ed avanguardista. A esempio
in Inghilterra e a Londra
in particolare che è
il principale centro di
formazione dei giovani
designer di successo: “la via
maestra dell’accesso alla vita
da stilista è la frequenza
di una scuola di moda,
o ancor meglio di un corso
di moda presso una scuola
d’arte”, (Volonté, 2008) si veda
su questo, più avanti la
sezione 4.
15
Maggiore è il controllo e il coinvolgimento diretto del creativo nelle attività di natura industriale,
minore è il rischio che il progetto creativo non trovi un'adeguata trasposizione nel prodotto che è
portato al mercato. D'altro canto un forte coinvolgimento del creativo tende a limitarne
l'autonomia e l'originalità. Nei prodotti della moda d'altro canto, il grado di originalità è molto
variabile, dal grado massimo dell'innovazione provocatoria dei capi presentati nelle sfilate della
Haute Couture o delle prime linee degli stilisti, al grado minimo della riproduzione ispirata dai capi
di successo della stagione precedente. Esiste quindi lo spazio sia per un apporto creativo il cui
tratto principale è l'originalità, che trova nell'indipendenza e autonomia del creativo il principale
alimento, sia per una creatività derivata, capace di tradurre gli elementi di originalità che circolano
liberamente nell'universo simbolico di un particolare marchio o linea di prodotti e che può
esprimersi anche in forme di lavoro non autonome ma direttamente dipendenti, all'interno delle
imprese industriali.
Il nodo del rapporto tra creativi e imprese industriali è stato sciolto nell'industria della moda in
forme non univoche, con differenze che si sono manifestate nel corso del tempo e hanno
contribuito a definire diversi modelli organizzativi e traiettorie nazionali. La prima forma di
relazione che ha caratterizzato la moda prima del suo affermarsi come produzione di massa negli
anni Settanta è il modello della maison dei couturiers francesi.
Nel 1857 con l’apertura a Parigi dell’atelier di Charles Worth, si realizza una rivoluzione della
organizzazione del processo creativo della produzione degli abiti che mette al centro la creatività
e l’originalità. Alla professione artigianale del sarto abile esecutore, al servizio di un cliente che
decide autonomamente forme, colori e stile dell’abito, si sostituisce quella del creativo che realizza
i modelli in anticipo e li propone ai clienti, secondo un ciclo creativo annuale o stagionale. Worth
trasforma il mestiere del sarto in una professione creativa (Volonté 2003).
In questo modello il legame tra produzione creativa e produzione materiale è molto stretto ed
esclusivo, il couturier stesso è al timone dell'impresa, la distinzione tra creazione e produzione è
sfumata, la stessa definizione di couturier riprende, traducendola nel nuovo status creativo, la
precedente pratica artigianale che coinvolge un rapporto immediato tra idea e materia. Il modello
del couturier rivoluziona la natura del prodotto e la funzione del creativo, ma resta, per quanto
riguarda l’organizzazione del processo produttivo, legato, pur su una scala di produzione più
grande al modello del sarto artigiano. L'autonomia e del creativo e la coerenza del prodotto con
l'idea creativa sono garantite dal pieno controllo del couturier su tutto il processo produttivo.
La dimensione organizzativa è quella dell'atelier, quasi sempre di dimensione limitata che
orgogliosamente proclamava il rifiuto del metodo industriale e seriale a favore del pezzo unico o
al massimo delle serie limitatissime. Un approccio che ben si adattava ad un mercato
16
estremamente selezionato e limitato, che al suo massimo dopo la seconda guerra mondiale
contava poco più di quindicimila clienti facoltosi in tutto il mondo, in cui l'originalità insieme ad
una artigianale ossessione per la perfezione sartoriale e dei materiali avevano un ruolo del tutto
dominante.
Una formula che ha cercato di superare i limiti del modello della maison è quella che prevede
un rapporto di mercato, formalizzato da un contratto di licenza, tra il creativo, lo stilista, e l'impresa
industriale. E' un modello che si è presentato sotto diverse sembianze. Una è quella, che gli studiosi
di marketing chiamano del licensing opportunistico, adottata da molti couturier francesi per
superare i limiti della ristretta dimensione del mercato raggiungibile e della cronica incapacità di
produrre utili. In questo modello, il potenziale comunicativo dell'aura di esclusività e originalità
della griffe della maison è stato posto all'incasso in settori diversi da quello core dell'impresa
creativa, che possono essere contigui, ad esempio accessori di vestiario, lontani, è il caso ad
esempio dei profumi, o anche molto lontani come acque minerali, piastrelle, aerei o barche. Il padre
del licensing nella moda è Christian Dior che nel 1948 sottoscrisse con un produttore americano
di calzetteria femminile il primo contratto di licenza, rifiutando il pagamento di un fisso di diecimila
dollari per l'utilizzo della griffe e preferendo la formula delle royalties basate su una percentuale
sulle vendite. Formula che divenne lo standard nella moda. Lo stesso approccio è stato seguito
anche da molte griffes del prèt à porter italiano, a partire dalla metà degli anni Ottanta, un esempio
riguarda le licenze relative alle piastrelle realizzate, tra gli altri da Laura Biagiotti, Enrico Coveri,
Krizia, Missoni, Trussardi, Valentino.
Nel rapporto di tipo opportunistico la relazione tra creativo e industria si stabilisce sulla base
di una logica di massimizzazione dei rendimenti a breve termine, il progetto creativo è posto in
secondo piano a favore di un ruolo quasi esclusivamente comunicazionale della griffe, la licenza
riguarda il patrimonio di immagine della griffe, più che quello di originalità.
Una diversa formula di contratto di licenza è quella definita di licensing strategico e che si è
affermata in modo più compiuto, come già anticipato più sopra nell’introduzione, negli anni
Settanta in Italia, inaugurata dal Gruppo Finanziario Tessile che nel 1978 ha sottoscritto con Giorgio
Armani un contratto di licenza per lo sviluppo e la produzione di una linea di abbigliamento che
portava il nome dello stilista. In questo caso il contratto non riguardava il semplice utilizzo del
nome, né si configurava come un rapporto di consulenza creativa, ma si articolava in un complesso
intreccio di compiti e di responsabilità ben definita tra la parte creativa e quella industriale7.
L'accordo tra Armani e il GFT ha definito un modello su cui si è costruita una generazione di
rapporti tra creativo ed industria: rapporti solidi, improntati ad obiettivi di lungo periodo in cui il
licenziatario si assume il carico di tutte le attività manifatturiere, il licenziante si afferma come
17
società di servizi progettuali e di comunicazione. Il modello del rapporto basato sul contratto di
licenza è il risultato di una convergenza di interessi tra attività creative ed industriali, con orizzonte
di breve periodo per il licensing opportunistico e di lungo periodo nel licensing strategico, ma con
una netta separazione di compiti, regolata da rapporti contrattuali di mercato. Questo modello si
accompagna ad un rischio di disallineamento tra progetto creativo e prodotto industriale più
elevato rispetto a quello del couturier. Maggiore nel caso del licensing opportunistico che in quello
del licensing strategico in cui le parti esercitano un controllo reciproco più stringente.
Il problema del rischio di disallineamento tra progetto creativo e realizzazione industriale e di
conflitto tra creativo e manager può essere gestito attraverso specifiche regole inserite nel
contratto di licenza. Tuttavia, per tutto quanto non definito da rigide norme previste dal contratto
di licenza, in genere il licenziatario mantiene il controllo, o in ogni caso un'influenza significativa,
sulla effettiva qualità del prodotto, sul pricing, sui rapporti con i canali distributivi, sui tempi di
consegna, il licenziante a sua volta determina oltre alle linee originali del progetto creativo le forme
e i contenuti delle attività di comunicazione.
Dal punto di vista della gestione del rischio, i vantaggi per entrambi i contraenti derivano, oltre
che dal mantenimento della autonomia e della originalità dei progetti creativi, dalla possibilità di
diversificazione -il licenziatario può acquisire un portafoglio di licenze e il creativo un portafoglio di
licenziatari- e dai minori costi di uscita e chiusura del rapporto di collaborazione, rispetto ad una
soluzione basata su maggiore integrazione, ad esempio attraverso una joint venture o un'acquisizione.
La formula del contratto di licenza si è mostrata adeguata per tutti gli anni Ottanta, ma alla fine
del decennio, lo stesso Armani che ne era stato l'iniziatore e l'esempio paradigmatico, ha preferito
seguire un approccio diverso, riproponendo un modello basato su una maggiore integrazione tra
creativo e industria. Precorrendo ancora una volta i tempi Armani ha infatti acquisito i suoi
principali licenziatari, Simint nel 1989 e Antinea nel 1990. Il ritorno ad un maggior coinvolgimento
diretto del creativo nella gestione della attività produttiva avviene in un contesto radicalmente
diverso da quello in cui si era sviluppato il modello della maison, è cambiato radicalmente l'ambito
diventato quello della produzione industriale su larga scala ed è cambiata la figura stessa del
creativo che si è sviluppata in quello di imprenditore dell'industria dei prodotti creativi.
Negli stessi anni in cui alcuni dei creativi della moda si sono trasformati da puri fornitori di
servizi in imprenditori industriali, molte operazioni di integrazione sono avvenute anche per via
opposta, le griffes sono state acquisite dai licenziatari o da importanti marchi industriali che
controllano le fasi produttive.
Tra il 1999 e il 2001 si ha una vera e propria esplosione generale di acquisizioni nell'industria
della moda che hanno coinvolto i marchi più noti e che hanno avuto come effetto un
7. Si veda la citazione
di Quirino Conti più sopra
nell’introduzione
18
riassestamento del mercato. Un numero non irrilevante di queste operazioni ha coinvolto anche il
rapporto tra i creativi (stilisti) e l'industria. Tra le principali operazioni si possono citare, per limitarsi
a quelli che hanno coinvolto imprese italiane: l'acquisizione di Valentino da parte di HDP nel 1998
risoltasi in un fiasco e nel successivo acquisto di Valentino da parte di Marzotto e poi del Fondo
d’investimento Premira; l'acquisizione delle griffe Romeo Gigli, con lunghi strascichi legali, (1999) e
Ferré (2000) da parte di Ittierre, di Moschino da parte di AEFFE (1999), di Alexander McQueen,
Balenciaga, Stella McCartney da parte di Gucci nel 2000, di Mila Schon da parte di Mariella Burani
nel 19998, di Jil Sander da parte di Prada nel 1999, poi ceduto ad un fondo di investimento nel 2006.
L'evoluzione del mercato della moda dagli anni Novanta in poi ha reso necessario ridurre la
componente di rischio di progettazione attraverso un maggior controllo e coinvolgimento
reciproco delle parti creativa e industriale, lo sviluppo del modello del fast fashion ha richiesto di
rendere massimo il controllo della fase creativa, al fine di velocizzarlo e di allineare tutti gli
strumenti attraverso i quali l'impresa comunica con il consumatore, dalla promozione alla
distribuzione. Gli uffici stile interni delle imprese del fast fashion sono dei veri e propri reparti di
produzione estetica e culturale con centinaia di lavoratori. Come si vedrà più avanti (sez.4.2)
8. Il fatto che le imprese più
attive nelle acquisizioni dei
grandi marchi degli stilisti
hanno registrato nel corso
degli anni importanti dissesti
finanziari, si pensi a Gruppo
Fin.Part e più recentemente
Ittierre e per ultimo Mariella
Burani fashion Group, solleva
molti interrogativi su questa
formula di business, sui rischi
che essa comporta e sui
meccanismi di valutazione del
valore economico di una
griffe. Anche la cessione di Jil
Sander da parte di Prada è
stata motivata da difficoltà
finanziarie, così come le
peripezie di Valentino tra HDP,
Marzotto e infine Fondo
Premira sono
sistematicamente
caratterizzate da difficoltà
finanziarie e probabilmente
da sopravvalutazioni del
valore economico della griffe
stessa
19
3. Come nasce una collezione
3.1 Introduzione
Il progetto creativo, che si esprime nella presentazione di una collezione, come già anticipato
nella prima parte di questo rapporto, è il risultato della interazione tra molti soggetti, lo stilista,
l'ufficio stile, i responsabili della comunicazione, i manager responsabili della produzione materiale
dei capi, e quelli del marketing, il brand manager, ruolo molto spesso esercitato dall'imprenditore
come garante della visione di lungo periodo dell'impresa. Il soggetto motore, quello che funge da
driver del concerto di competenze e che realizza il progetto creativo può essere l'impresa fornitrice
di servizi creativi (la maison licenziante o che produce in proprio), l'impresa manifatturiera che
realizza la produzione o anche l'impresa commerciale che presidia la distribuzione.
Una prima conseguenza della pluralità di attori è l'importanza di efficaci canali e regole di
comunicazione tra coloro che prendono parte nella realizzazione di un progetto creativo nella
moda. Le forme attraverso cui si realizza lo scambio di informazioni possono essere oggetto di
definizione di norme contrattuali, ma soprattutto danno forma ad un corpus di tacit knowledge
che si sedimenta all'interno delle imprese generando competenze distintive.
Lo stile di gestione della comunicazione tra gli attori che intervengono nella realizzazione di un
progetto creativo, diventa cioè un importante fattore di differenziazione tra le imprese, che si
esprime in routines operative e attribuzione di ruoli, non sempre descrivibili formalmente. Le
diverse forme e stili di gestione del processo creativo possono essere analizzate utilizzando una
griglia concettuale che si articola in due dimensioni:
- Il grado di integrazione degli attori secondo una dicotomia indipendenza o controllo che,
nel rapporto tra competenze di tipo creativo e non di tipo creativo, si riflette in diverse forme
contrattuali, dalla licenza, alla consulenza, al rapporto di lavoro dipendente
- La competenza distintiva dominante all'interno del processo, quella che orienta l'azione di
tutti gli altri membri del team, che può essere di tipo creativo, industriale o commerciale
distributivo.
Nella fase di progettazione di un nuovo prodotto moda i ruoli degli attori possono essere
raggruppati in quattro aree secondo una classificazione molto stilizzata e che presenta confini a
volte labili: l’area creativa, l’area strategica o di brand management, l’area produttiva manifatturiera,
l’area commerciale.
20
3.2 Le fasi
Il processo di costruzione di una collezione può essere schematizzato secondo due modelli,
che corrispondono a due diverse forme di organizzazione dell’intera filiera produttiva: il ciclo
programmato e il fast fashion. La scelta di uno o dell'altro modello influenza in modo determinante
i tempi e le forme in cui si realizza il progetto creativo. Il ciclo programmato con la sua rigida
cadenza stagionale presenta una successione delle fasi di progettazione sequenziale e ben distinta.
L'approccio del fast fashion, al contrario, genera un flusso continuo di nuovi prodotti o mini
collezioni in continua evoluzione e dal ciclo di vita brevissimo.
Nei due modelli cambiano anche le posizioni ed i ruoli dei soggetti coinvolti nella
progettazione. Nel ciclo programmato il ruolo trainante nella progettazione è frequentemente
svolto dall'area produttiva, con l'impresa industriale come driver dell'intera filiera, o dall'area
creativa, quando è la maison dello stilista-imprenditore a trascinare la filiera. Nel ciclo del fast
fashion si trovano invece più frequentemente le reti distributive come soggetto guida sia nella
progettazione che nell'intera filiera. Pur tenendo conto di queste importanti differenze si può in
ogni caso affermare che nei due modelli non vi sono sostanziali differenze per quanto riguarda le
competenze in gioco e i contenuti dei passaggi fondamentali.
Tab. 1. Le fasi della progettazione della collezione
Ideazione
Industrializzazione:
Definizione del posizionamento della linea o collezione
Analisi delle tendenze
Concezione e creazione dei modelli
Selezione dei tessuti e dei fornitori
Grafica
Costruzione della collezione (selezione dei modelli)
Prototipazione
Entrambi i modelli sono cioè descrivibili da una comune sequenza di fasi (Tabella 1) che vengono
però realizzate in tempi e con modalità diverse.
La struttura della filiera nel modello del fast fashion tende ad una maggiore compattezza e il
sistema dei servizi specializzati più interno alle imprese di produzione o di distribuzione. Con
21
l'espressione fast fashion ci si riferisce ad una famiglia di modelli di business, che presentano gradi di
integrazione verticale e posizionamento di mercato diversi tra loro, ma che hanno in comune
l'accorciamento dei tempi di progettazione e l'eliminazione della cadenza stagionale delle collezioni
in favore di un rinnovo continuo dei prodotti. L'obiettivo della rapidità di sviluppo delle collezioni
spinge ad una semplificazione del processo di progettazione, dall'analisi delle tendenze alla
prototipazione, generalmente realizzate da uno staff composto anche da centinaia di addetti
all'interno dell'impresa.9
Nelle prossime pagine l'iter della progettazione di una collezione sarà invece descritto utilizzando
come paradigma di riferimento il modello organizzativo del ciclo programmato che molto spesso
ha come centro di gravitazione le imprese di produzione. Questo modello rappresenta efficacemente
la struttura dell'industria della moda italiana negli anni Ottanta e Novanta ed è ancora oggi il modello
più diffuso.
Nel modello del ciclo programmato il sistema dei servizi specializzati è più complesso ed articolato
e da luogo ad una fitta rete di relazioni.
Il calendario della progettazione delle collezioni è cadenzato da quello delle principali fiere del
settore. Le collezioni per la stagione autunno inverno che saranno consegnate ai negozianti tra luglio
e agosto e vendute ai consumatori a partire da settembre, sono presentate alle fiere che si svolgono
tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio. Quelle della stagione estiva, che sono consegnate ai
negozianti a gennaio e febbraio, e vendute ai consumatori a partire da fine febbraio e inizio marzo,
sono presentate alle fiere che si svolgono tra luglio e settembre dell'anno precedente.
L'avvio della preparazione delle collezioni avviene circa cinque mesi prima della loro
presentazione alle fiere ovvero: per la stagione estiva a febbraio in vista delle fiere di luglio; per
l'invernale ad agosto, in vista delle fiere di gennaio e febbraio dell'anno successivo (Tabella 2).
9. Hennes & Moritz ha uno
staff di cento giovani designer
sotto la direzione di
Margareta van den Bosch
head of design di H&M da
quasi venti anni, Zara ha circa
trecento designer, considerato
che ogni anno produce quasi
20mila diversi modelli, ogni
designer lavora sul circa
sessanta modelli all'anno.
22
23
Attività
Tempo
Settimana 1
Definizione dell'idea
di prodotto, prezzi, e quantità.
Richiesta dei tessuti e accessori
ai magazzini
Design del modello
Approvazione del modello
Tab. 3. Il ciclo del fast fashion: il modello ZARA
Settimana 2
Modellistica e Prototipo
Fitting e sdifettamento
Approvazione
Avvio in produzione
Settimana 3
Produzione
Settimana 4
Produzione
Settimana 5
Cartellini,
Logistica interna
Spedizione ai negozi
Tab. 2. La collocazione della fase di progettazione all'interno del calendario stagionale per le imprese che seguono il ciclo del programmato
3.3 La scelta del posizionamento di mercato e lo sviluppo della collezione
3.3.1 Il posizionamento della collezione
La definizione del posizionamento generale della collezione coinvolge le figure depositarie della
visione strategica, il brand manager, usualmente l'imprenditore che nel caso delle maison e delle
imprese degli stilisti imprenditori è lo stesso stilista titolare della griffe, e quelle depositarie delle
conoscenze riguardo al mercato. La comunicazione fluisce prevalentemente da queste figure verso
quelle dell'area creativa (ufficio stile). Nella maggior parte dei casi, il posizionamento del prodotto è
definito dalla linea in cui la collezione è inserita e richiede quindi soltanto la verifica periodica della
sua correttezza in rapporto al comportamento della concorrenza e dei consumatori. Una volta
stabilito il posizionamento della linea e della collezione, la definizione vera e propria dei contenuti
della collezione inizia con l’analisi delle tendenze.
3.3.2 L'analisi delle tendenze
L’attività di analisi delle tendenze è una sorta di black box di cui è difficile descrivere in modo
sistematico il funzionamento10. Le competenze e le figure professionali che intervengono in questa
fase sono però ben definite: stilisti, consulenti di stile, analisti di tendenze socio-culturali, cool-hunters,
stampa specializzata11.
In questa fase i creativi agiscono con la maggiore autonomia, tendenzialmente svincolati dal
controllo della produzione e della distribuzione. Anche quando posseggono un ufficio stile interno
le imprese manifatturiere si affidano a consulenti e stilisti indipendenti ed esterni all'impresa nella
impostazione creativa e nella selezione dei trend. Il flusso di informazioni è ribaltato rispetto alla fase
precedente e va dai creativi verso l’area della produzione e della distribuzione.
I progetti creativi degli stilisti e degli uffici stile interni alle imprese, si formano a partire dalle
informazioni fornite da servizi specializzati che si possono suddividere in due aree tipologiche:
- le manifestazioni fieristiche della moda in cui sono presentati i nuovi filati ed i nuovi tessuti
- i servizi di analisi e previsione delle tendenze.
Le fiere dei filati e dei tessuti sono il luogo di sintesi di un processo di ricerca e sperimentazione
dell'applicazione ai materiali, fibre filati, tessuti delle tendenze previste per la stagione. Alla fiera una
parte del lavoro di orientamento e selezione è già stato fatto, i campioni di filati e tessuti presentati
10. Esempi di analisi del
processo creativo nella moda
si trovano in Textrends, (1991)
e i vari saggi in Hines e Bruce
(2001)
11. Si veda ad esempio Mora,
(2003a) e Provincia di Milano
(2002)
24
alle fiere già incorporano le tendenze relative ai colori e ai temi che le società di consulenza, che si
occupano di previsioni delle tendenze moda, hanno individuato.
In misura crescente le fiere dedicano uno spazio, di solito il primo che il visitatore incontra
entrando nella fiera, all’esposizione delle principali tendenze per la stagione. La fiera presenta temi
già abbastanza definiti e i filatori rendono pubbliche le informazioni, le idee, i risultati
soggettivamente elaborati e tradotti concretamente in filati e tessuti nel lungo processo che si è
svolto nei mesi precedenti. E' il momento definitivo di questo lavoro, “tutti comunicano tutto”, nel
sistema si ha il massimo della circolazione di informazioni, in uno spazio ristretto, in un tempo limitato
(Balestri e Ricchetti 1999).
Nell'industria della moda l'innovazione ha un carattere cumulativo. Le innovazioni che hanno
luogo nelle fasi a monte della catena produttiva alimentano l'innovazione nelle fasi a valle, la nascita
e lo sviluppo di un progetto innovativo nell'abbigliamento ha, in generale origine, o almeno deve
essere condiviso, dai produttori di filati e tessuti.
Per questo nei settori a monte si ritrovano le stesse forme organizzative che regolano i progetti
creativi nell'abbigliamento: coinvolgimento delle aree creative, produttive e di brand management,
collaborazione con stilisti e tecnici esterni. Nella produzione dei filati, ad esempio, la presentazione
di una nuova collezione richiede di mostrare l'effetto del nuovo filato nella realizzazione del tessuto
o della maglia. La principale differenza è nel più stretto legame tra area creativa e area della
produzione, nel fatto che è sempre l'impresa industriale a svolgere il ruolo di guida dell'intero
progetto creativo, mentre nell'abbigliamento quel ruolo può essere svolto, come si è detto, dalla
maison dello stilista, o anche dall'impresa di distribuzione.
La seconda fonte che fornisce input creativi è quella dei servizi di previsione delle tendenze. I
servizi di analisi delle tendenze trovano la loro origine alla fine degli anni sessanta nei Cahier dei
Bureaux de Style francesi e che si sono poi evoluti in un vero e proprio mercato editoriale e di
consulenze specializzate.
Dopo il primo sviluppo con i cahier de tendences parigini alla fine degli anni Sessanta, il mercato
dei servizi di informazione sulle tendenze ha vissuto il suo big bang a partire dagli anni Novanta con
una moltiplicazione dei servizi e l’estensione del mercato di sbocco anche al di fuori della moda.
Dall’elettronica di consumo alle auto, molti altri settori industriali hanno cominciato a sperimentare
l’incertezza nei comportamenti dei consumatori che è la caratteristica distintiva dei prodotti delle
industrie culturali e creative e quindi ad aver bisogno di strumenti di anticipazione delle tendenze
simili a quelli della moda.
La prima e più appariscente espressione di questo fenomeno è stato lo sviluppo della professione
di cool-hunter. L’espressione cool-hunting ha cominciato ad emergere negli Stati Uniti nella prima
25
metà degli anni Novanta, per definire una specifica tecnica di ricerche di mercato, focalizzata sui
comportamenti di consumo dei teenager. Il cool-hunting ha conosciuto uno straordinario successo
di mercato per un decennio, come effetto, soprattutto nel mondo anglosassone, della difficoltà da
parte delle imprese di interpretare i comportamenti di consumo della generazione X. I suoi stessi limiti
intrinseci ne hanno poi determinato il superamento, o meglio lo sviluppo in un'attività più complessa
di previsione e interpretazione delle tendenze culturali.
I prodotti delle industrie creative e come anche quelli della moda appartengono alla categoria
degli experience goods, che il consumatore difficilmente riesce a giudicare e apprezzare prima di averli
acquistati: è difficile valutare se uno spettacolo teatrale vale il costo del biglietto se non assistendovi
o se un libro vale il costo di copertina ed il tempo impiegato a leggerlo se non, appunto, leggendolo.
Un prodotto non può essere definito di moda se non per il fatto che è già stato acquistato da molti
consumatori. I consumatori sono cioè in grado di giudicare la maggior parte dei prodotti culturali e
della moda solo dopo averli acquistati e consumati, sulla base dell'esperienza che ottengono appunto
consumandoli. I prodotti che hanno questa caratteristica sono stati definiti da Philip Nelson
experience goods (Nelson 1970, 1974), in contrapposizione ai search goods che vengono scelti a partire
dalle caratteristiche tecniche o oggettive e facilmente valutabili prima dell'acquisto.
Per gli experience goods il trasferimento delle informazioni dal produttore al consumatore è
problematico. Diversamente che per i search goods le caratteristiche funzionali misurabili che
possono far decidere per l'acquisto, si pensi ad esempio alla quantità di sodio nell'acqua minerale, alla
silenziosità di una lavatrice, alla dimensione del sensore di una macchina fotografica digitale ecc. che
il produttore può comunicare ad esempio attraverso una campagna pubblicitaria, non sono
sufficienti o decisive nell'influenzare la scelta del consumatore.
L’imitazione tra i consumatori e il ruolo di soggetti guida, esperti, consumatori leader, negozi trendy
ed altri gatekeepers, sono nei mercati di questo tipo, e in generale in quelli formati dai teenager delle
metropoli, più importanti della diretta comunicazione pubblicitaria. Il cool-hunting abbandona l’idea di
rilevare le tendenze nel momento in cui si stanno diffondendo nella maggioranza dei consumatori, o
di registrare le opinioni riguardo a cosa sia e non sia cool tra la popolazione obiettivo. Si preoccupa
invece di tenere sotto osservazione i soggetti guida, per cogliere le tendenze prima del loro sviluppo.
Si può dire che il cool-hunter traduca in termini operativi, in strumenti per accrescere la redditività degli
investimenti di un impresa il principio enunciato dallo scrittore di fantascienza William Gibson, 'The
future has already happened; it just isn't very well distributed.'12 Da qualche parte nel mondo qualcuno è
già nel futuro, sta già indossando ciò che la maggioranza dei consumatori indosserà solo in futuro.
L’approccio del cool-hunting si avvicina più al modello dell’epidemiologo che ricerca il soggetto
alfa di una epidemia, il primo malato, colui che ha dato avvio alla diffusione della malattia, che a
12. Wiliam Gibson intervistato
da Brooke Gladstone il 30
novembre 1999 nella
trasmissione Talk to the
Nation della National Public
Radio.
26
quello tradizionale del ricercatore di marketing, intento ad analizzare campioni rappresentativi della
popolazione attraverso questionari, interviste approfondite o focus groups. A differenza
dell’epidemiologo il cool-hunter è però alla ricerca del soggetto alfa di una epidemia che ancora si
deve diffondere e riguardo alla quale non si sa nulla. La selezione del soggetto alfa e la identificazione
delle possibili epidemie è quindi totalmente affidata all’intuito e all’interpretazione del cool-hunter,
che da questo punto di vista è vicino, più che al metodo scientifico, all’arte divinatoria. L'aleatorietà
del metodo del cool-hunting, l’incapacità, nel suo concentrarsi sul particolare, sul possibile microtrend
di breve periodo, di cogliere tendenze culturali di fondo hanno determinato la crisi di questo
approccio.
Oggi il cool-hunter è soprattutto un punto di raccolta di informazioni che gli analisti delle tendenze
elaborano e sistematizzano con gli strumenti dell’analisi sociologica e antropologica, e semiologica.
E' tipicamente un lavoratore indipendente e part-time, legato ad un contratto di collaborazione con
una società specializzata nell’analisi delle tendenze che può avere anche migliaia corrispondenti
sparsi in decine di Paesi. La struttura di queste società è molto agile composta da un ristretto numero
di analisti e di coordinatori delle ricerche sul campo. I corrispondenti rispondono a questionari,
effettuano specifiche ricerche presso i trend-setter, altri operano sopratutto con le immagini,
fotografando luoghi, persone, oggetti espressione delle future tendenze.
Nell’industria della moda, soprattutto in quella italiana, il mercato delle previsioni delle tendenze
è molto frammentata e tende a privilegiare gli aspetti specifici della moda, modelli, colori e accessori
rispetto alle più generali tendenze socioculturali.
Le società di previsione delle tendenze socioculturali che, anche in Italia, negli anni Novanta si
rivolgevano sopratutto al mercato della moda, oggi operano soprattutto all’esterno del settore13.
Sono più spesso i responsabili delle collezioni, gli addetti degli uffici stile interni delle imprese
industriali e delle maison degli stilisti, degli studi di consulenza stilistica o i consulenti che svolgono
i compiti di direttori creativi per le imprese a viaggiare per le principali metropoli della moda, da
occidente ad oriente. Gli strumenti sono gli stessi dei cool-hunters, taccuino, macchina fotografica,
carta di credito per gli acquisti di capi e accessori interessanti, ma gli obiettivi sono differenti. La
ricerca è svolta con una attenzione molto specifica alla collezione da costruire e, spesso, dagli stessi
soggetti che poi progetteranno i capi della collezione, l'attenzione oltre che sulle tendenze è
focalizzata sulla ricerca di idee per la collezione, anche i luoghi della ricerca sono diversi, sono
privilegiati i negozi leader e le fiere di settore.
E' interessante osservare come sia diffusa una netta connotazione giovanile della attività di analisi
delle tendenze e più in generale nella composizione degli uffici stile delle imprese, anche quando,
diversamente che nel modello del cool-hunting il target di consumatori dell'impresa non e'
13. "Se negli anni Novanta
la moda e il design
rappresentavano 4/5
del nostro fatturato, oggi
pesano meno del 50%,
è aumentato l’interesse
degli altri settori per il nostro
lavoro e sono cambiate
le priorità delle imprese
della moda nell’analisi
delle tendenze. (...) Prima
portavamo nel mondo
della moda gli stimoli
che arrivavano dall'esterno
di quel mondo, dal cinema
dalla letteratura, dalla vita
quotidiana e dalla strada,
oggi anche molti altri settori
hanno capito l'importanza
della componente culturale
ed estetica nei loro prodotti."
(Francesco Morace di Future
Concep Lab)
27
esclusivamente o prevalentemente giovanile. In particolare, nelle imprese è frequente l'utilizzo
dell'espressione "i ragazzi" quando si parla di coloro che "partono, fotografano, acquistano i capi di
abbigliamento che possono far nascere l’idea", ”passano alcuni periodi dell’anno nelle principali capitali
europee, a New York e, ultimamente, anche a Mosca”.
E' usuale che gli uffici stile, interni delle imprese di produzione siano composti per la grande
maggioranza da giovani con curricula di studi moda-design, storia dell'arte o esperienze in negozi di
moda a cui si aggiungono poche persone di maggiore esperienza, spesso con un know-how anche
tecnico modellistico. In generale, che sia svolta dall'ufficio stile interno o che sia affidata a consulenti
esterni, la fase di analisi delle tendenze è oggi molto più integrata con quelle della creazione della
collezione e della realizzazione dei modelli e meno generalistica.
Nelle imprese che seguono il ciclo del programmato, il lavoro di analisi delle tendenze si svolge
all'inizio della progettazione della collezione per la nuova stagione, quindi circa cinque o sei mesi
prima della presentazione, intorno al mese di settembre per la collezione invernale dell'anno
successivo, e a febbraio o marzo per la stagione estiva dell'anno successivo.
Il veicolo di informazione più importante sulle tendenze è la produzione editoriale, in forme
spesso diverse da quelle dei cahier de style della fine degli anni Sessanta. Da allora, in trent'anni,
l’attività editoriale nel campo dei quaderni di tendenze, book e riviste specializzate nelle tendenze
moda si è molto sviluppata. Oggi in Europa operano una trentina di editori, con circa un migliaio di
titoli tra riviste e libri sulle tendenze moda. Soltanto in Italia si può stimare un mercato con una
dimensione dell’ordine di alcuni milioni di euro. La gamma dei prodotti/servizi disponibile è molto
ampia, va dalle cartelle colori, alle riviste che si avvicinano alla periodicità e ai tempi di uscita dei
quaderni di tendenza, ai book e quaderni di tendenza veri e propri, ai book con immagini delle
vetrine delle vie della moda nel mondo, ai servizi continuativi on-line.
Il mercato editoriale delle pubblicazioni di anticipazione delle tendenze si rivolge all’intera gamma
dei soggetti che intervengono nel progetto creativo, sono acquistate sia dalle grandi griffes che dagli
studi di stilisti che offrono consulenza alle imprese, che dagli uffici stile delle imprese che li utilizzano
come terreno di confronto con gli stilisti esterni, o più direttamente come base per lo sviluppo di
nuovi modelli.
La fase di analisi dei trend ha come momento conclusivo la presentazione dei mood (o concept)
boards, tabelloni in cui sono sintetizzati, sia con suggestioni e immagini, sia con primi schizzi dei
modelli, con campioni di tessuto, esempi di etichette e di accessori i temi su cui sviluppare la collezione.
I mood boards possono essere il risultato del lavoro di stilisti consulenti o dell'ufficio stile interno
dell'impresa produttrice. Nel caso delle imprese più design oriented, come le maison degli stilisti, i
temi delle collezioni sono tipicamente sviluppati internamente.
28
3.3.3 La costruzione della collezione e la progettazione dei modelli
La fase vera e propria di costruzione della collezione ha avvio dopo la prima raccolta e analisi
delle informazioni sulle tendenze. Questa fase impegna tutte le competenze coinvolte nella
realizzazione della collezione: l’area creativa, inclusi i consulenti esterni, l’area strategica o di brand
management, l’area produttiva manifatturiera, l’area commerciale.
Nel calendario stagionale, il punto di partenza della costruzione della nuova collezione è affidato
agli uomini del marketing con la analisi dei risultati della stagione precedente. La fase di
progettazione di una nuova collezione si avvia all'incirca al momento in cui si è conclusa la campagna
vendite della corrispondente collezione dell'anno precedente. Al momento dell'avvio della collezione
sono quindi note:
- le informazioni riguardo al successo/insuccesso di sell-in della collezione e dei singoli capi per
temi, modelli, tessuti e varianti
- le prime indicazioni riguardo all'avvio di stagione per quanto riguarda il sell-out dei capi.
Un metodo pratico di trasmettere all'ufficio stile interno o ai consulenti esterni questo lavoro di
analisi della collezione precedente è quello chiamato di Analisi ABC14 che ha come obiettivo di
evidenziare il contributo dei diversi modelli o capi al fatturato complessivo della collezione. Gli
elementi sono disposti, anche fisicamente, nel corso delle riunioni, in ordine decrescente di
importanza a partire dal modello che ha realizzato il maggior successo e conta per la quota maggiore
dei ricavi e a seguire fino a quello che ha avuto meno successo. Il risultato è un'indicazione riguardo
a quali modelli della stagione dell'anno precedente riproporre e con quali modifiche per tenere conto
dei risultati dell'analisi delle tendenze, quali capi modificare profondamente e quali invece eliminare.
Vengono anche definite le caratteristiche dei nuovi modelli da introdurre e che rifletteranno in modo
più diretto i risultati delle analisi delle tendenze e le soglie massime di prezzo delle diverse
componenti che strutturano la collezione, che sia l'ufficio stile interno che i consulenti esterni
utilizzeranno come riferimento nella fase di sviluppo dei modelli e influenzeranno la scelta dei
materiali e delle lavorazioni, come tessuti finissaggi e ricami.
La conclusione di questa fase che si realizza quattro o cinque mesi prima della presentazione
delle collezioni, dà l'avvio all'attività da parte dell'ufficio stile e dei consulenti stilistici esterni per la
realizzazione dei modelli.
Se il punto di partenza di questa fase sono gli uomini del marketing, il suo fulcro è rappresentato
dall'area creativa. Come si è osservato nell'introduzione, lo stilista, il creativo, è il depositario del valore
di originalità del prodotto e quando è un nome riconosciuto presso il grande pubblico o ha un'elevata
14. L'analisi ABC talvolta
indicata anche come Analisi
di Pareto o Analisi 80/20
e si basa sull'osservazione
empirica che molto
frequentemente oltre l'80%
dei ricavi di una collezione è
realizzata da meno del 20%
dei modelli. Il nome "ABC"
deriva dalla pratica comune
di suddividere gli elementi in
tre gruppi (A, B e C, appunto)
legati al raggiungimento di
una certa frazione del totale
dei ricavi della collezione.
29
reputazione tra gli addetti ai lavori diventa anche il garante della caratterizzazione con una certa
continuità nel tempo degli orientamenti stilistici delle collezioni.
Dal punto di vista dell'impresa di produzione, lo stilista è quasi sempre, si può dire sempre nel caso
di imprese di piccola o media dimensione, un consulente. La ragione non è solo legata alla
dimensione aziendale. Un secondo fattore decisivo nella scelta di non incorporare all'interno
dell'impresa di produzione questa figura è quello già sottolineato della originalità:
"i creativi interni, che lavorano come dipendenti, dopo due anni perdono i contatti con il mondo reale,
diventano degli impiegati”
Consulenti esterni sono utilizzati anche dalle imprese orientate a mantenere lo sviluppo delle
collezioni all'interno per svolgere attività che richiedono competenze specialistiche, antieconomiche
da mantenere all'interno dell'impresa, come è chiaro nel seguente esempio:
"La politica dell’azienda è di ridurre il ruolo dei consulenti stilistici, a favore della progettazione interna.
La nostra azienda è gelosa dell’originalità della propria ricerca, riconosce in certi stilisti esterni una
maggiore creatività, ma ritiene di poter realizzare in proprio una finale migliore focalizzazione dei
problemi che solo l’esperienza interna può consentire. D’altro canto abbiamo sempre creduto nella
struttura interna di stile. L'azienda continuerà però a ricorrere all’esterno riguardo ai consulenti di
grafica (che lavorano in abbinamento con gli addetti interni) perché bisogna avere una base di
applicazioni più ampie di quelle di una singola azienda, cioè condividere esperienze con altre realtà,
il che richiede l’esterno."
Un'altra ragione per utilizzare consulenti esterni è il mantenimento di un profilo stilistico
internazionale, utilizzando professionisti che operano sulle principali piazze dove le tendenze della
moda si sviluppano più rapidamente, come ad esempio Londra e Parigi. Lo studio stilistico esterno
può essere impiegato anche per avviare un nuovo progetto o per riposizionare una linea di prodotto
"Alcuni clienti ci chiedono di intervenire su un nuovo progetto, mentre il loro ufficio stile interno è
impegnato a lavorare sulle attività più routinarie e standard da cui non può essere distolto. La nostra
collaborazione esterna consiste spesso nell'impostare gli aspetti essenziali di una nuova collezione su
cui poi l'ufficio stile interno lavora. (....) La nostra di consulenti è una visione esterna critica, ma non
generica (...) il nostro intervento è molto focalizzato sulle caratteristiche specifiche dell'azienda.”
Figura 1 La progettazione della collezione dal punto di vista di un'impresa industriale
Fonte: Hermes Lab (riprodotto da: Ricchetti, Rossi, Ruella 2006)
30
L'entità dell'apporto e il tipo di attività realizzate dai consulenti esterni non sono codificati in
formule generali, sono, al contrario, estremamente variabili e dipendenti dalle caratteristiche
specifiche del rapporto con ogni cliente.
Gli studi di consulenza stilistica e di prodotto sono in grado di effettuare tutte le attività di
progettazione, partendo dalle indicazioni dell'azienda cliente riguardo al posizionamento della
collezione, per giungere fino ai modelli esecutivi. In relazione al tipo di cliente e di collezione su cui
avviene l'intervento, il coinvolgimento e i compiti del consulente possono variare anche di molto,
per gamma e grado di integrazione dei servizi: si può occupare dell'intera collezione o di un
numero di modelli limitato all'interno della collezione, il suo apporto può essere prettamente di
analisi delle tendenze, di realizzazione dei modelli o anche di supporto tecnico.
Un cliente con un ufficio stile interno strutturato può ricorrere a professionisti esterni anche
solo per una parte minima delle attività. In questi casi il consulente “fa delle proposte, il cui sviluppo
è seguito completamente all'interno dell'azienda”, è utilizzato per "un apporto esterno non
condizionato dalla specifica storia del brand”. All'estremo opposto c'è il caso del consulente che
“decide riguardo ad ogni fase, dalla scelta del fornitore del filato o dell'altro materiale fino alle
indicazioni molto precise sulle lavorazioni”. In questo caso l'ufficio stile interno può essere ridotto ad
una persona e svolge anche funzioni di coordinamento con fornitori e produzione e il consulente
ha rapporti molto intensi con il titolare e gli uomini prodotto e si può occupare di oltre l'80% del
carico di lavoro per lo sviluppo della collezione.
Indispensabile nella parte estetica della progettazione, lo stilista è più debole in materia di
realizzabilità dei capi, di rispetto dei costi di produzione e del peso da attribuire alla tendenza
passata delle vendite. Su questi aspetti è l'uomo prodotto che deve integrare l'apporto dello stilista,
“far quadrare i conti e conseguire gli obiettivi aziendali, eventualmente con qualche semplificazione di
una parte di un modello, o la riduzione della qualità del materiale impiegato, senza svilire la creatività".
Figura 2 Le funzioni dell'uomo prodotto e dello stilista nel rapporto c
on un impresa industriale
Interno
all''impresa industriale
Esterno:
consulente
Uomo prodotto
“tira le fila in ordine a realizzabilità,
economicità, vendibilità del prodotto”
primo tipo: “meno creativo, ma più vicino alla
logica aziendale spesso per averla direttamente
sperimentata come lavoratore dipendente";
secondo tipo: "ha una competenza specifica
in certi aspetti particolari, come ad esempio
la grafica, i trattamenti o gli accessori".
Stilista
“porta la creatività,
la novità, lo spirito
della collezione”
Fonte: Hermes Lab (riprodotto da: Ricchetti, Rossi, Ruella 2006)
31
Nel gergo aziendale, l'uomo prodotto svolge la funzione di:
- raccordare le diverse attività del processo produttivo
- garantire gli indirizzi della progettazione
- supervisionare la scelta dei materiali e l'attività vera e propria di produzione
- agire da interfaccia tra le diverse funzioni aziendali, rinforzando con la loro presenza i
meccanismi di integrazione tra le diverse fasi, e garantendo la coerenza di fondo nei processi
di selezione, impostazione e realizzazione del prodotto.
L'uomo prodotto è colui che:
“deve essere in grado di gestire un singolo progetto sotto tutti gli aspetti, compresi quelli commerciali
e di redditività complessiva. Si tratta di una figura creativa che deve produrre nuovi progetti in base
alle indicazioni che ricava dal mercato, seguendo la definizione del prodotto, la ricerca e lo sviluppo
e le prove tecniche, ma senza dimenticare il controllo della tempistica e della qualità del ciclo
produttivo”.
Stilista e uomo prodotto possono essere singoli professionisti, oppure studi di consulenza con
un numero di 5-10 collaboratori dipendenti che svolgono prevalentemente lavoro di sede, talvolta
accompagnano il consulente presso il cliente: sono disegnatori, esperti dei materiali e persone
dedicate anche a mansioni d'ufficio, come la tenuta dell'archivio disegni e tessuti.
Nell'ambito del mercato italiano, è percepibile una prevalente concentrazione territoriale del
mercato dei servizi stilistici e di modellismo, direttamente correlata a quella della specializzazione
produttiva del territorio. Studi stilistici e modellisti di jeanseria si trovano quindi soprattutto nel
Veneto e nelle Marche, quelli per la maglieria o l'intimo in Emilia, ecc.
Nei mesi di sviluppo creativo della collezione necessari nel modello tradizionale del ciclo
programmato15, sia l'area produttiva, attraverso l'uomo prodotto o il responsabile di linea che,
nelle imprese piccole e medie, più direttamente l'imprenditore seguono costantemente il lavoro
dei creativi, il risultato è la definizione su carta dei disegni tecnici di tutti i capi e le varianti
selezionati per la collezione che saranno trasmessi ai modellisti per la realizzazione di prototipi.
15. Nei cinque mesi gli uffici
stile e i consulenti sono
impegnati anche nella
realizzazione di mini
collezioni infrastagionali che
possono essere da una per
stagione (crociera, collezione
natalizia, mare ecc.) a due
o tre per stagione per quelle
collezioni che richiedono
un continuo rinfresco delle
vetrine, pur senza applicare
il modello del fast fashion
32
Figura 3 Il processo creativo di una collezione dal punto di vista dell'impresa industriale
Fonte: Hermes Lab (riprodotto da: Ricchetti, Rossi, Ruella 2006)
33
3.3.4 L'industrializzazione della collezione
Definiti i modelli e i relativi tessuti ed accessori e predisposti i disegni tecnici, ha inizio la
trasposizione delle idee in prodotti industriali. L'integrazione della fase di industrializzazione con
quella creativa è molto stretta. Aggiustamenti e piccole modifiche nella foggia negli accessori e
nelle scelte di tessuti possono essere concordati tra ufficio stile e modellista. Il modellista quindi
procede alla realizzazione del cartamodello, che si può sovrapporre al tessuto per il taglio.
Nella realizzazione del cartamodello il modellista, pur seguendo le regole generali codificate
dall'antropometria è portatore di una personale competenza che determina la vestibilità dei capi
e che è un elemento distintivo del modellista stesso o molto spesso del marchio industriale o di una
linea del marchio.
Il prototipo o capo campione è realizzato partendo dal cartamodello, nel tessuto definitivo
oppure in un tessuto più economico.16 Il prototipo è predisposto nella taglia base (quella del
campionario), indossato, esaminato, sottoposto a tutte le correzioni necessarie17, secondo un iter
di tipo sartoriale molto costoso, anche decine di volte più costoso della produzione di serie. Il
risultato è il prototipo definitivo o capo campione, con cui sarà allestito (nei predefiniti modelli e
tessuti) il campionario da presentare ai clienti. In questa fase è anche verificata la rispondenza alle
soglie di costo definite all'avvio della progettazione.
Il modellista è molto spesso interno all'impresa di produzione, che ha un proprio reparto
specializzato di modellismo e prototipia, non è inusuale che il reparto di modellismo e prototipia
sia l'unico reparto di produzione interno, con tutte o quasi tutte le attività manifatturiere che sono
realizzate in subfornitura presso laboratori esterni. Esiste però un ampio mercato di servizi di
modellistica e prototipia, che sono utilizzati dalle imprese di piccola dimensione. Molto spesso gli
studi di modellistica sono degli spin off di grandi imprese che svolgono anche una funzione di
formazione delle figure professionali di modellisti.
3.3.5 La realizzazione della collezione dal punto di vista degli stilisti
La sequenza delle fasi non cambia di molto se il soggetto guida del progetto creativo non è
l'impresa industriale, ma ad esempio la maison dello stilista. Ciò che invece cambia
significativamente sono i ruoli e la struttura delle competenze.
Un esempio chiaro dei rapporti di filiera visti da un designer è fornito da Paul Smith in un'intervista
del 1998 (Frey, 1998) in cui illustra dettagliatamente il processo che va dalla ideazione della collezione
16. Che nella tradizione
sartoriale e dai designers
viene definito toile
17. La fase di correzione dei
difetti è definita tecnicamente
sdifettatura
34
alla consegna dei capi finiti in negozio.18 L'asse delle competenze distintive è rovesciato rispetto a
quello dell'impresa industriale e si concentra sulle attività creative e sul modellismo. L'orientamento
generale della collezione, che riflette la valutazione soggettiva da parte dello stilista delle tendenze
socio culturali è definito subito dopo la presentazione della collezione dell'anno precedente.
L'analisi delle tendenze socio culturali ha l'impronta originale del designer, e si basa sulla personale
selezione della raccolta di informazioni di prima mano in giro per il mondo, mentre resta decisivo il
ruolo delle fiere di filati e tessuti dove, oltre a confrontare l'offerta presentata dalle imprese, le più
importanti maison forniscono suggerimenti, richiedono varianti e colori particolari. Con l'eccezione
delle informazioni raccolte nelle fiere, la concezione e progettazione delle collezioni è quindi
completamente realizzata all'interno, cosi come l'attività di modellismo e prototipia. La scelta di
posizionamento della collezione, la struttura dei prezzi, la quota di capi innovativi e le varianti sui capi
della stagione precedente sono interamente decise all'interno dell'impresa del designer, con un ruolo
dominante dell'area creativa ed un supporto da parte dei responsabili dei principali negozi della rete.
La maison dello stilista diventa il nodo di un elevato numero di transazioni commerciali:
- per i semilavorati: i filati per la maglieria e i tessuti sono acquistati in gran parte in Italia, Francia
e Inghilterra, gli accessori, dalle cerniere ai bottoni, sono selezionati da fornitori specializzati
- per i servizi di taglio e cucito per le linee prodotte in proprio: la produzione dei capi di Paul Smith
è realizzata per il mercato europeo in laboratori, molti dei quali localizzati in Inghilterra.
Le competenze specifiche della componente industriale sono quindi lasciate in secondo piano. Il
ruolo della componente industriale può crescere nel caso la linea del design sia prodotta su licenza da
una grande impresa con cui vi è un rapporto collaborativo strategico e che deve condividere le scelte
relative alla collezione. In questo caso, si sviluppano a parti invertite i rapporti descritti sopra a
proposito delle imprese industriali.
La principale conseguenza del minor peso della componente manifatturiera nello sviluppo della
collezione è che i partner industriali, i laboratori o le imprese di produzione che realizzeranno i capi
sono selezionati con più attenzione tra le imprese in grado di risolvere autonomamente ogni
problema, e che anzi sono in grado di proporre attivamente soluzioni.
In altri termini, se il soggetto guida della filiera è l'impresa industriale i rischi connessi alla gestione
della produzione e della logistica sono risolti a partire dalle competenze dell'impresa o internamente
o attraverso una rete di subfornitori su cui l'impresa esercita un controllo costante e attivo, se invece
il soggetto guida è l'impresa creativa, i partner industriali devono essere più autonomi e assumersi
maggiori rischi per la parte manifatturiera.
18. Paul Smith è uno dei più
importanti designer inglesi,
(€400mln di fatturato con 230
negozi in tutto il mondo)
35
4. Il lavoro creativo nella moda
4.1 Precarietà e passione
Uno dei rischi principali che corre chi analizza il processo creativo nell’industria della moda è di
restare “abbagliato dall’appariscenza mediatica e sociale della Moda di ribalta” (Volonté, 2008), di vedere
solo lo star system del fashion design: Armani, Valentino, Calvin Klein, Versace o Vivienne Westwood, ecc.
e di immaginare che il lavoro di tutti i creativi all’interno dell’industria della moda sia organizzato
secondo un modello, quello proposto dalla figura dello stilista star, e che l’unica differenza tra costoro
e le migliaia, o decine di migliaia di creativi che lavorano della moda italiana sia il grado di successo.
Le differenze non riguardano in realtà solo il grado di successo (la dimensione dei compensi o della
ricchezza accumulata) ma configurano forme e pratiche del lavoro molto differenti.
Le caratteristiche sociali ed economiche del lavoro creativo nella moda restano ancora
largamente un territorio opaco, ancora tutto da esplorare. Solo recentemente alcuni studiosi
(McRobbie, 1998; Volonté, 2008; Arvidsson, SerpicaNaro, Malossi, 2010) hanno cominciato ad
occuparsene in modo disincantato e ben protetti dal rischio di abbaglio a cui si è fatto prima
riferimento, molti aspetti richiedono ulteriore lavoro di ricerca per essere chiariti ed affrontati sotto
il profilo dei profili formativi e delle formule contrattuali adeguate. Il mestiere del creativo
nell’industria nella moda resta in larga parte da esplorato dal punto di vista analitico, tuttavia gli
studi citati ne mettono in evidenza alcune peculiarità indispensabili per capirne le caratteristiche.
La prima è che il lavoro creativo è in larga misura lavoro passionale per usare un’espressione di
Angela McRobbie (McRobbie, 1998). Anche se come ha messo in evidenza la ricerca di Arvidsson,
SerpicaNaro, Malossi, svolta sul mondo milanese vi è una “contraddizione tra la natura generica,
ripetitiva e generalmente “non creativa” dei lavori creativi di livello minore da una parte e dall’altra la
persistenza di un’ideologia della creatività quale forte fattore motivazionale”.
L’indagine svolta da Arvidsson, SerpicaNaro e Malossi mostra infatti che, almeno per gran parte
del campione di creativi milanesi che è stato intervistato il lavoro è generalmente sottopagato, per
i più giovani assume la forma di stage, precario, e caratterizzato da orari di lavoro molto prolungati.
I compensi medi mensili si aggirano intorno ai 1.150 euro, ma sono spesso inferiori ai 1.000 euro per
chi è al di sotto dei 30 anni. Non mancano lavori con elevatissimo grado di precarietà, che generano
reddito inferiori ai 500 euro al mese. La realtà milanese descritta dallo studio rispecchia quella
descritta da Angela McRobbie, con interviste di giovani designer inglesi che lavorano a Tokyo, Parigi
e Nerw York, con molte opportunità, ma tutte sottopagate e con condizioni di lavoro dure e in cui
i committenti/datori di lavoro hanno un approccio opportunistico (spremi più che puoi le idee
innovative al giovane designer sottopagato, quando se ne andrà se ne troveranno altri 10 pronti a
sostituirlo) e non investono in una crescita progressiva dei giovani creativi.
36
La stessa indagine però rivela che:
“malgrado tali dure condizioni i lavoratori della moda dimostrano un alto livello di soddisfazione
del lavoro. L'origine della soddisfazione riguarda principalmente in due categorie: la prima è la
percezione del lavoro come autonomo e flessibile, la seconda è l'opportunità di esercitare la propria
creatività e di fare esperienza rese possibili dal lavoro stesso”.
Dalla contraddizione tra soddisfazione e dure condizioni di lavoro i ricercatori traggono una
importante conclusione19:
“Per i lavoratori nell’industria della moda di Milano la "creatività", e in particolare la soddisfazione
che ne deriva, sembra essere in gran parte una questione di conferma identitaria piuttosto che un
fatto pratico. La loro maggiore soddisfazione deriva dalla possibilità di appartenere, o immaginare
se stessi come appartenenti, nel futuro, a una scena e a uno stile di vita (anche se per ora vissuto in
modo virtuale) che il loro lavoro è in grado di dare. Il lavoro nella moda è soprattutto lavoro
appassionante, anche perché generalmente è sottopagato! Infatti, questa separazione del valore
identitario del lavoro dal suo valore monetario è visibile nell’interessante osservazione che, mentre
la maggior parte degli intervistati indica alti livelli di soddisfazione del lavoro, molti segnalano una
bassa soddisfazione per il loro stipendio. Questo dimostra chiaramente che il loro lavoro è valutato
in termini non monetari”.
4.2 Il creativo e le routines industriali
Si è già affrontato nella sezione 2.3 il tema del non banale rapporto tra lo stilista e l’industria
della moda. In un recente studio Paolo Volonté (2008) ha analizzato questo rapporto nell’ambito
di uno studio sulla figura e il ruolo sociale dello stilista. Un primo risultato dello studio che combina
una survey della letteratura con una ricerca sul campo è di grande rilievo nella sua apparente
semplicità: la figura dello stilista non è univoca, si possono quindi definire tipologie molto diverse,
e si va continuamente trasformando20. Un aspetto interessante è che la caratterizzazione della
figura dello stilista è posta in relazione anche al suo rapporto con l’industria.
Vediamo quindi di definire le diverse tipologie di lavoro creativo nell’industria della moda e di
metterle in relazione al tipo di rapporto con l’impresa produttrice. Si possono distinguere quattro
tipologie di ruoli dello stilista in relazione all’industria21:
- titolare di una maison: gli esempi sono i couturiers francesi e le più famose griffes italiane come
i Valentino o i Moschino degli esordi (oggi come è noto le due griffes sono di proprietà di
19. I ricercatori sviluppano
ulteriormente le loro
argomentazioni riguardo alla
natura del lavoro creativo
nella società contemporanea
e sul ruolo dell’”ideologia
della creatività” come
strumento per incanalare
la soggettività (e la passione)
verso forme di generazione
di valore, temi di grande
interesse ma che esulano
dal limitato interesse di questo
saggio)
20. Alcune delle grandi
trasformazioni attraverso cui
è passata la figura dello
stilista sono già state descritte
più sopra si vedano le sez.1.2
e 2.3 e la Citazione di Quirino
Conti nell’introduzione
21. Le tipologie sono tratte,
con qualche aggiornamento
da un mio precedente saggio
(Ricchetti, 2006)
37
imprese industriali, rispettivamente Valentino Fashion Group di proprietà del fondo
d’investimento Premira e AEFFE Group); realizzano spesso anche linee Haute Couture e cedono
in licenza la griffe a licenziatari per i quali curano la realizzazione delle collezioni.
- stilista imprenditore: gli esempi sono i grandi stilisti americani, come Ralph Lauren o Tommy
Hilfiger, e quelli italiani come Armani, Dolce e Gabbana, Miuccia Prada. In genere hanno iniziato
la loro carriera come creativi e come titolari di una maison. In seguito hanno incorporato anche
le funzioni di produzione e distributore, trasformando le loro imprese in gruppi integrati.
- designer-direttore creativo: come ad esempio è stato per Tom Ford con Gucci, o per Karl
Lagerfeld con Chanel: si tratta di personalità molto forti, che solo in modo riduttivo possono
essere definiti fornitori di servizi di alto livello;
- professionista free-lance: è la principale risorsa creativa per la maggior parte delle imprese
della moda, soprattutto, ma non solo, per le piccole e medie imprese. Può essere legato da un
contratto di esclusiva o avere più clienti, ma con vincoli di non concorrenza con un'implicita
esclusiva sul segmento di riferimento di ciascun cliente. Possono essere retribuiti con royalties
per la cessione dei diritti di proprietà intellettuale sui modelli o con semplici contratti di
consulenza;
- dipendente di una società specializzata (studio stilistico): spesso piccole società di consulenza
con pochi dipendenti, e che seguono nella sostanza in modo più organizzato l’approccio del
professionista free-lance o integrano diversi servizi, anche di tipo industriale (es. modellistica).
- dipendente di un impresa industriale: opera all’interno dell’ufficio stile. Come già indicato più
sopra, può avere il ruolo di interfaccia con i professionisti-freelance o gli studi stilistici esterni,
oppure essere parte di un ufficio stile di grandi dimensioni, in particolare ciò accade nelle
imprese del fast fashion che operano su scala globale come ad esempio Zara, che ha localizzato
i suoi uffici stile che occupano alcune centinaia di designer, a La Coruña, Alicante e Barcellona,
sia in piccole imprese come ad esempio l’italiana Imperial che opera all’interno del Centergross
di Bologna e che da lavoro a decine di designer.
E’ interessante sovrapporre a questa tipologia la distinzione operata da Volonté tra diverse
culture del lavoro del fashion designer che l’autore simbolicamente identifica con due luoghi
geografici:
38
- quella londinese, dei designer che si formano prevalentemente nei corsi sulla moda delle
scuole d’arte, l’esempio più luminoso è il Central St.Martins College of Arts and Design. Queste
scuole formano un tipo di designer che, idealmente ha come capitale culturale la “propria
reputazione (…) e la fama che conseguono dall’esibizione pubblica delle sue creazioni. La firma
individuale è in quest’ottica uno strumento professionale fondamentale (….) L’ideale del giovane
designer viene identificato con quello degli stilisti che (a torto o a ragione) sembrano rifiutare ogni
compromesso con l’industria e il mercato e lavorare sugli abiti come se fossero delle opere concluse
in sé …)” (Volonté, 2008). In questa tipologia prevale un rapporto dell’industria che si
caratterizza come esterno:questi stilisti “ritengono di possedere un patrimonio di creatività
acquisito durante il curriculum formativo, da vendere alle aziende per un compenso più o meno
adeguato. (…presuppongono che) la creatività sia qualcosa di esterno all’azienda, un bene che
questa possa e debba acquistare da liberi professionisti” (Ibidem)
- quella finnica, ma anche milanese, la cui formazione avviene prevalentemente in scuole di
design o con un curriculum che comprende molti aspetti materiali della cultura della moda (in
Italia ad esempio il Politecnico di Milano, la Marangoni, l’Istituto Secoli). Questi designer
sviluppano una creatività che si muove in modo più esplicitamente vincolato dalle esigenze
della produzione e del mercato in una logica tendenzialmente interna all’industria. La cultura
guida è quella della vestibilità (comodità, praticità, scelta dei materiali): “A volte prevale l’idea di
abiti che siano accettabili per il gusto del consumatore medio, che possano essere indossati senza
il timore di aver osato troppo, di attirare troppo l’attenzione. Altre volte prevale invece l’idea di abiti
che ben si adattino alle forme del corpo senza essere d’intralcio ai movimenti, cioè siano stati
progettati con la massima cura modellistica nei dettagli costruttivi in relazione al comportamento
che dovranno tenere durante l’uso. Altre volte ancora, risuona nel concetto di vestibilità l’idea di
abiti sinceri, che non catturino il cliente attraverso trucchi per renderli particolarmente appariscenti
(….) infine l’idea di abiti capaci di durare nel tempo (…)” (Ibidem)
Una contrapposizione insomma tra cultura della visibilità e cultura della vestibilità.
Lo sviluppo dell’industria della moda negli ultimi decenni, a partire dal successo del Made in
Italy negli anni ’80 e ’90, fino al più recente successo del modello del fast fashion, e le tendenze che
si vanno delineando per il futuro, con il prorompente sviluppo della sensibilità per i temi della
sostenibilità ambientale e sociale da parte dei consumatori, hanno messo allo scoperto le
debolezze del modello londinese e invece i punti di forza del modello finnico-milanese che
presuppone una forte integrazione tra creatività ed industria.
39
5. Il punto di vista degli esperti: 10 interviste per approfondire
il tema della cretività nel sistema moda
Con l’obiettivo di integrare l’esercizio di analisi dei processi creativi nel sistema moda è stato
selezionato un panel di esperti a cui è stato chiesto di contribuire con il loro punto di vista rispetto:
ai cambiamenti del concetto e ruolo della creatività nella filiera moda; al modo con cui oggi prende
forma l’atto creativo, alle modalità con cui l’atto creativo si traduce nel processo industriale; alle
prassi e modalità organizzative con cui si realizza l’intero processo creativo evidenziado ruoli e
soggetti che vi partecipano.
Su questi presupposti di analisi, sono stata contattati ed intervistati 10 professionisti che con
funzioni di consulenza o di managment aziendale sono protagonisti della realizzazione del
processo creativo nel sistema moda.
Nel dettaglio, hanno dato la loro disponibilità:
• Federica Rosi - Brunello Cucinelli
• Alessandro Canepa - Piacenza Cashmere 1733
• Deanna Veroni - Modateca Deanna
• Raffaella Pinori - Pinori Filati
• Claudia Rossi - Moschino
• Mauro Fabri - Staff International
• Marina D'Alatri - Studio De Rosa
• Ornella Bignami - Studio Elementi Moda
• Massimiliano Sarracino - WGSN
• Laura Sassatelli – Sebastien Charpentier - Peclers
Dal punto di vista metodologico, l’approccio scelto in questa parte del lavoro è quello
dell’intervista diretta face to face, organizzata su una griglia di domande, che pur mantenendo
fermo l’obiettivo è mutata in funzione dell’andamento dell’incontro. Inoltre, per evitare il rischio che
questa parte di ricerca si sovrapponesse all’analisi proposta nel primo capitolo, e quindi, per
garantirsi attraverso questo lavoro un reale contributo aggiuntivo al tema della creatività, si è scelto
di riportare i contenuti emersi dell’intervista nella forma tradizionale della domanda e risposta,
limitandosi ad un puro esercizio di editing senza introdurre alcun filtro interpretativo.
40
Federica Rosi – Brunello Cucinelli
Quali sono stati i cambiamenti, se ce ne sono stati, nel processo di creazione stilistica all’interno
dell’impresa moda?
Per quanto concerne la nostra azienda, bisogna dire che l’impostazione dell’area stilistica è
sicuramente diversa rispetto a quella di altre aziende del sistema moda italiano. Noi nasciamo
fondamentalmente come artigiani del lusso e quindi da noi non è mai stato presente, e forse non lo
sarà mai, una figura unica di creativo che decide, analizzando tutta una serie di fattori o di tendenze
in atto, quelli che saranno i motivi stilistici trainanti della stagione. Negli ultimi anni grandi evoluzioni
si sono avute nello sviluppo delle varie tipologie di prodotto. Senza dimenticare il nostro core-business:
la maglieria, poi nel tempo abbiamo allargato progressivamente la nostra proposta ad altre tipologie
di prodotto sino ad arrivare al total look odierno. Un total look caratterizzato dalla nostra impronta
stilistica, molto legata al concetto di artigianato di lusso, grazie alla quale abbiamo di fatto creato un
vero e proprio lifestyle. Se fin dall’inizio non abbiamo privilegiato la figura dello stilista unico, a maggior
ragione oggi la formula vincente si rivela il team, nel senso che non avendo dato in licenza nulla di
quello che produciamo, nemmeno ciò che non appartiene al nostro core business come le borse, le
scarpe, ecc…, abbiamo finito con internalizzare tutte le competenze necessarie alla loro progettazione,
e quindi, conseguentemente, l’area dello stile è stata organizzata come gruppo di lavoro che opera
sotto la direzione di un unico direttore d’orchestra: Brunello Cucinelli. Questo è avvenuto, forse, anche
perché operiamo in un’area lontana dal cuore pulsante della moda, cioè Milano. Siamo lontani da
quegli eccessi che spesso vengono concessi ai creativi, e cerchiamo di essere molto concreti. Quello
che chiediamo ai nostri creativi, quindi, è di stare “con i piedi per terra” e osservare sempre con molta
attenzione il mercato. Se ad esempio abbiamo fatto la scelta creativa di inserire all’interno delle nostre
collezioni una determinata vestibilità, oppure qualcosa di inusuale, tutte le persone che lavorano
all’interno dell’ufficio stile sono costantemente informate sull’andamento delle vendita di ogni
tipologia di prodotto e di ogni singolo prodotto, affinché nella collezione successiva tutti sappiano
come il mercato ha risposto. E devo dire che spesso il consumatore finale risponde meglio nei confronti
delle novità, piuttosto che a favore dei capi troppo classici. La ricerca creativa è ovviamente uno dei
temi fondamentali per la nostra azienda: abbiamo in tal senso un gruppo di persone, prevalentemente
giovani, che si muovono in giro per il mondo visitando diversi Paesi dove individuano realtà molto
interessanti ed estremamente stimolanti dal punto di vista creativo. L’azienda non frena questa ricerca,
anzi, la stimola moltissimo, perché l’innovazione stilistica interessa tutti quelli che operano nella moda,
ma cerchiamo sempre di evitare voli pindarici al di fuori delle righe. Come dice Brunello “la più grande
fonte d’ispirazione deve essere la strada”, cioè che cosa si indossa.
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Ma gli input che oggi arrivano dall’area commerciale, in un qualche modo, condizionano il lavoro
dell’ufficio stile o più in generale l’idea stilistica delle aziende italiane della moda?
La moda ha vissuto in passato momenti in cui la creatività, nell’accezione più esasperata del
termine, dettava legge anche lungo le strade. In quegli anni qualsiasi cosa, o quasi, che venisse
proposta dagli stilisti, veniva accettata quasi incondizionatamente dal consumatore e fatta propria
da molte imprese. Parlo prima del 2008 - 2009, quando poi si è iniziato a spirare il vento della crisi.
In questi periodi, il consumatore va cercando certezze e anche coloro che avevano una grande
disponibilità di consumo ha indirizzato i propri acquisti verso prodotti in grado di offrire loro,
almeno apparentemente, una garanzia di durata nel tempo. Quindi l’usa e getta della collezione
super colorata, che diventa immediatamente vecchia la stagione successiva, è diventata, a mio
avviso, meno appetibile. In periodi di difficoltà come quello attuale, infatti, non è che non si spenda:
chi spendeva prima diecimila euro per un cappotto è ancora, in linea di massima, in grado di farlo,
È però vero che viene preferito un prodotto che, pur avendo un contenuto stilistico moderno, non
sia tanto “fashion” da bruciarsi in una stagione. Inoltre, c’è anche una ragione morale nel non fare
un certo tipo di acquisto così smaccatamente fashion. Per queste ragioni, ritengo che le aziende,
in linea generale, preferiscano oggi adottare comportamenti più morigerati nei confronti della
creatività. Poi è chiaro che esistono marchi ed aziende che hanno fatto della creatività esasperata
il proprio DNA, per le quali tornare indietro avrebbe significato rinunciare un po’ alla propria
essenza. Noi, in quei periodi, quando cioè la moda proponeva tendenze molto diverse dal nostro
stile, abbiamo vissuto il problema dal punto di vista opposto, ed è stato proprio allora che è uscita
tutta la forza di Brunello che, conoscendo molto bene il dna dell’azienda e dei suoi clienti, ha
evitato di inserire nelle nostre collezioni dei capi che magari avrebbero venduto tantissimo, ma
che certamente non sarebbero stati in linea con l’immagine e la promessa del marchio Brunello
Cucinelli. Ritengo che siano molti gli imprenditori che hanno fatto la stessa scelta, ovvero scegliere
creatività meno esasperata per non perdere il proprio DNA. Questo, a mio avviso, significa che
anche nelle aziende in cui la componente stilistica è sempre stata molto forte, adesso si ascolta
molto di più chi ogni giorno si confronta con il mercato.
Come è composto oggi un team creativo all’interno di una azienda?
Basandoci sulla nostra esperienza, definirei la figura del creativo come quella di una persona in
grado di percepire i cambiamenti del consumatore finale, in termini sia di gusto sia di
atteggiamento verso il consumo di abbigliamento, e, in un qualche modo, di anticiparli. In primo
luogo, quindi, deve essere un ottimo e attento osservatore, uno che riesce a percepire “nell’aria”
quello che potrebbe influenzare le tendenze del futuro, cosa che lo avvicina più a un trend setter
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che allo stilista classicamente inteso, ovvero colui che realizza su un quaderno uno schizzo “super
fantasioso” frutto solo della sua creatività. Conseguentemente, se il team creativo sarà composto
da persone capaci di tenere gli occhi aperti, e cioè capaci di osservare a 360 gradi l’uomo di strada,
la vetrina di un competitor, il dettaglio di una maglia o di una giacca per poi trasformarlo secondo
i criteri dell’azienda, ecco che si rivelerà affidabile e vincente nelle sue proposte di prodotto, senza
rinunciare mai alla identità dell’azienda.
A questo team creativo vengono chieste oggi, più di quanto non avvenisse in passato, competenze
tecniche di industrializzazione? Una sorta, cioè, di pre-analisi sui costi di produzione per evitare di
proporre capi particolarmente costosi?
Nel nostro caso non succede. I nostri team creativi non hanno vincoli di alcun tipo relativamente
all’utilizzo di materiali, accessori, soluzioni di taglio o di cucitura particolarmente costosi. Anzi,
nella fase di prototipia c’è una libertà totale nell’uso di materiali anche costosissimi. La nostra forza
sta nella cura e nella ricerca del dettaglio: siamo, come detto in precedenza, degli artigiani del
lusso ed operiamo all’interno di un mercato molto selettivo, quindi per noi questa tematica non è
un problema. La differenza tra un capo costoso e un capo caro, come ricorda sempre Brunello
Cucinelli, è che il capo costoso ha delle caratteristiche intrinseche di altissima qualità, che in un
qualche modo ne giustificano il prezzo. Il prezzo a quel punto diventa una leva di marketing che
indubbiamente ti posiziona ad un certo livello di mercato, e volendo appartenere a quel segmento
di mercato, per noi la lavorazione particolare e la ricerca del dettaglio inusuale o dell’accessorio,
anche se molto costosi, non rappresentano un problema. Tenendo inoltre presente che il nostro
prodotto è totalmente Made in Italy, anche il più piccolo particolare - come ad esempio il filo con
cui si cuciono i capi - è comunque prodotto e comprato in Italia. Sul tema Made in Italy Brunello
Cucinelli è assolutamente risoluto.
A tal proposito, voi avete un sistema di tracciabilità?
Non è necessario per noi, il marchio Brunello Cucinelli è un emblema della produzione
totalmente fatta in Italia, anzi addirittura in Umbria, e tutti, dalla distribuzione al consumatore
finale, lo sanno. La produzione viene quasi interamente fatta in piccoli laboratori locali,
particolarmente tarati per l’alta qualità e con un’altissima professionalità.
Quali sono le principali fonti informative di un gruppo creativo? Ed in particolare quali sono gli
strumenti sui quali non si transige nemmeno per ragioni di budget?
Nella nostra azienda non si transige sui viaggi di ricerca, che sono tantissimi. Il viaggio di ricerca
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per noi è una visita alle grandi capitali mondiali, alla ricerca di dettagli o elementi comuni che
potrebbero indirizzarci verso una particolar tendenza. Questi elementi comuni si vedono lungo le
strade piuttosto che nei grandi centri commerciali del lusso. Sono viaggi trasversali tra le vetrine
più importanti del centro delle città e le vie secondarie, dove si possono respirare maggiormente
le tendenze innovative, e dove è più facile trovare punti vendita di ricerca, in cui scoprire capi
prodotti da brand completamente sconosciuti, ma che sono la testimonianza di quello che si
respira relativamente alle nuove tendenze. Poi non può mancare un salto nel vintage, nei famosi
mercatini che possono essere molto utili non solo per i modelli, ma anche per i colori.
L’apporto di consulenze stilistiche esterne all’azienda è ancora utile?
Per noi è un semplice confronto, non è più un passaggio indispensabile.
Come sono suddivisi i vostri gruppi creativi?
In modo molto semplice: esiste un responsabile creativo per l’uomo ed uno per la donna che
a loro volta fanno riferimento a Brunello Cucinelli. A questi responsabili fanno capo tutti i gruppi
creativi indipendentemente dal fatto che operino sull’abbigliamento, gli accessori o le calzature.
Il fatto di avere un responsabile creativo per la donna ed un per l’uomo, è dovuto sostanzialmente
alla volontà di mantenere una specifica identità di gusto.
Come scegliete una persona che deve entrare a far parte di un gruppo creativo?
Quasi sempre sono persone già presenti in azienda che operano in settori affini, come ad
esempio il visual merchandising o la modelleria, oppure che provengono dal mondo della vendita,
magari da uno dei nostri negozi, o ancora che sono arrivate in azienda per uno stage. Sono
comunque sempre persone che si fanno notare per spiccate qualità di gusto, per una accentuata
attenzione al contenuto stilistico del prodotto, per sensibilità particolari al mondo della stile. Molto
più difficile è invece inserire persone che arrivano da altre aziende perché abbiamo visto che non
è semplice riuscire ad adattarsi al nostro modello. Inoltre per Brunello Cucinelli è fondamentale
inserire creativi giovani: questa è un’azienda in cui il settore creativo è pilotato da giovani, e siamo
convinti che questo sia un nostro punto di forza.
La vostra azienda lavora sul programmato: visto che il mercato in un qualche modo ha modificato
le tradizionali uscite stagionali, per cui si realizzano uscite di pre-precollezioni o, addirittura, di
nuove proposte nel pieno della stagione, come ha risposto la vostra azienda a queste modificazioni
dei tempi?
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No, noi non siamo tra quelle aziende che hanno seguito questa strada. D’altra parte il nostro
tipo di prodotto, ma soprattutto il nostro tipo di consumatore, non è sensibile a queste strategie.
Noi produciamo sostanzialmente 2 collezioni all’anno, l’autunno-inverno e primavera-estate. Poi
all’interno di ogni collezione possiamo inserire dei capi, che noi chiamiamo “resort”, che i negozi
avranno prima della consegna della stagione. Questo, ad esempio, consente a Natale di avere in
vetrina capi della stagione primavera-estate perché può essere un’ottima idea per un regalo
importante. È quindi il cliente che sceglie quali capi della collezione vuole avere prima e quali
dopo. D’altronde, la collezione è molto vasta, mediamente 600 articoli, ed è studiata anche per le
cosiddette mezze stagioni, utilizzando tessuti e filati specifici, cosa che ci impedisce, anche
volendolo, di avere il tempo per fare altre mini collezioni.
Quanto incide il rapporto con il fornitore a monte e a valle nell’ambito della progettazione della
collezione? È solo uno scambio di informazioni o sono soggetti che partecipano attivamente?
I nostri team stilistici lavorano in totale autonomia. Chiaramente visitano le più importanti fiere
di tessuti e filati, anche in gruppi particolarmente corposi, affinché abbiano la più ampia percezione
di quello che offre il mercato. Poi è ovvio che con il fornitore abituale si può discutere sui particolari,
affinché la scelta sia compartecipata, solo in alcuni casi si procede insieme con la sperimentazione
di tecniche nuove.
Quanto pesano nella fase creativa le funzioni commerciale e marketing?
Nella progettazione iniziale davvero poco, perché il trasferimento di tutte una serie di
informazioni riguardanti l’andamento delle vendite delle precedenti stagioni, sia per tipologia di
capo, che per singolo capo, è stato fornito prima che il team creativo inizi ad operare. Poi è chiaro
che dipende da azienda ad azienda: in una piccola o media impresa probabilmente la funzione
commerciale può far sentire la “sua voce” sino al giorno prima della presentazione della collezione...
Quanto è importante la figura del product manager?
Per noi è fondamentale, tanto è vero che non esistono due figure diverse per questi ruoli. Da
noi responsabile creativo e product manager sono un’unica figura professionale. Il tema
fondamentale resta lo stesso: non si tratta mai di un atto creativo puro, fine a se stesso ma ogni
creazione è sempre sperimentata per capire la sua portabilità.
L’immagine di Brunello Cucinelli oltre ad essere quella di un responsabile creativo è anche quella
di un industriale della produzione. Oggi il vostro marchio, presso il consumatore finale, è visto più
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come quello di uno stilista o di un brand commerciale?
È identificato come il portatore di lifestyle. Perché innanzitutto, come tutti i brand che sono
omonimi del creatore, Brunello Cucinelli è fortemente identificato proprio come persona fisica e
non come azienda, questo anche per le scelte che abbiamo compiuto in termini di comunicazione.
Ma soprattutto perché il nostro è un marchio che comunica molto in termini istituzionali, forse più
di quanto lo faccia attraverso i propri abiti. Infatti, Brunello è sempre più incline a rispondere a
domande sulla azienda, sulla sua filosofia, sul modo particolare di gestirla, piuttosto che sulle
ultime delle tendenze della moda… Tutto ciò fa sì che il marchio Cucinelli sia identificato, dal
consumatore finale e dal trade, fondamentalmente come sinonimo di uno certo stile di vita, di
valori e di fare impresa, piuttosto che di un prodotto d’abbigliamento.
Alessandro Canepa – Piacenza Cashmere 1733
Può descriverci sinteticamente la storia dell’azienda?
Piacenza Cashmere 1733 è una azienda produttrice di tessuti per abbigliamento pregiati. La
divisione tessuti è nata, infatti, nel 1733, e la ditta è sempre stata di proprietà della famiglia
Piacenza. Il racconto della famiglia e dell’impresa Piacenza si intrecciano alla storia del nostro Paese
sia dal punto di vista politico che sociale, contribuendo a scrivere momenti di grande rilievo per
l’intero territorio biellese di cui ha comunicato la storia al di fuori dei suoi stessi confini.
Nel 1733 Francesco Piacenza fondava a Pollone la manifattura tessile, e già nel corso dell’ ’800
l'Azienda ampliava le sue dimensioni grazie ad importanti operazioni di acquisizione e a
lungimiranti scelte di innovazione tecnologica aderenti alle esigenze del mercato. Le acquisizioni,
infatti, consentirono un'ulteriore espansione delle dimensioni aziendali, mentre l'installazione di
caldaie per la produzione di forza motrice con il vapore in sostituzione della forza idraulica che
dipendeva tecnicamente dalla mutevolezza delle stagioni, consentirono di aumentarne la
produttività. Contemporaneamente all'ammodernamento degli impianti, sempre nel corso dell’
’800 l’azienda seppe ampliare significativamente i confini del proprio mercato, cosicché Francia,
Belgio, Inghilterra, Svizzera, le Americhe, le Indie e i paesi asiatici, diventarono gli sbocchi
commerciali dei prodotti Piacenza. Nello stesso tempo, però, l’azienda manifestava una grande
attenzione a soluzioni aziendali orientate al sociale, come testimonia la progettazione del
“fabbricane”, destinato ad ospitare al piano terra gli ambienti produttivi ed al primo piano le
abitazioni degli operai per consentire agli stessi un agevole modo di raggiungere il posto di lavoro.
In questa stessa direzione, anche il '900 fu scenario di nuove importanti iniziative imprenditoriali:
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furono costruiti il Lanificio Scuola per l'addestramento pratico degli allievi della scuola
professionale della tessitura di Biella, e la "cassa di soccorso", un vero fondo di provvidenza per le
maestranze in caso di malattia. Un impegno che la famiglia continuò nel corso degli decenni
“prestando” alla politica molti dei suoi membri. Oltre al rispetto verso valori del sociale, però, la
famiglia Piacenza ha dedicato grande attenzione anche all'ambiente, e ai valori dell'ecologia e
dell'armonia paesaggistica, di cui sono esempio alcune proprietà dove sono state realizzate
importanti progetti floreali e laboratori botanici (Villa di Pollone, la Villa Boccanegra ed il Parco
Felice Piacenza alla Burcina). Nel corso dell’ ’800, però, l’azienda aveva già dato prova anche di felici
intuizioni sull’innovazione di prodotto, come testimonia l’introduzione in Italia dei tessuti a disegno
colorato, in un periodo in cui imperava la tinta unita. Innovazione che riscosse grande fortuna di
pubblico, e che valse all’azienda l’assegnazione nel 1832 di una Medaglia d'Argento in occasione
dell'Esposizione di Torino, a cui seguirono poi due medaglie d’oro, di cui una nel 1844 a Torino ed
un'altra nel 1854 a Genova.
Dopo alcuni decenni di grande visibilità dell’azienda anche sotto il profilo culturale (alcuni suoi
insigni rappresentanti furono noti al grande pubblico per il primato italiano di altezza con aerostato;
per una trasvolata scientifica sull'Himalaya e la traversata a piedi del Congo; per l'opera di bonifica
dell'isola di Giannutri e i relativi scavi archeologici; per un'intensa e pionieristica attività alpinistica
che include anche una famosa scalata al Cervino rimasta nota come "Via Piacenza"), negli anni ‘30
l'Azienda fu costretta ad una temporanea chiusura. Ancora una volta, però, fu la creatività
imprenditoriale ad avere il sopravvento, concentrando la produzione su un nuovo articolo, il tessuto
per l'alta moda. Fu la svolta che portò l’azienda Piacenza nel mondo dell'alta sartoria, consentendole
di raggiungere notorietà e successo in campo internazionale, soprattutto in Francia e negli Stati
Uniti. Oggi la produzione di Piacenza è famosa in tutto al mondo per la rarità delle materie prime
utilizzate per filati, tessuti e prodotti finiti: Cashmere, Qiviuk e Vicuña sono “sogni” che Piacenza ha
"rubato" alla natura, così come la Seta, la Lana, l'Alpaca. Cashmere pregiatissimi che provengono
dalla Mongolia, morbide Merinos che provengono dagli allevamenti australiani, Sete che giungono
dalla Cina, e Vicuña che appartengono all'impero Inca. Il tutto finalizzato a soddisfare le più raffinate
esigenze di un mercato del lusso, che è però anche stile di vita: una vita ricca di tradizione e di amore
per i valori che “contano” e che restano “immutabili”. Lo slogan della campagna in corso “Dalla natura
i sogni”, infatti, vuole mettere in evidenza come la qualità di Piacenza Cashmere 1733 nasca da una
selezione accurata che ha nella natura un riferimento di pregio, per poi trasformarsi, grazie alla
tecnologia, allo stile e alla ricerca, in una realtà da sogno.
Attualmente siamo integrati dall'inizio del processo produttivo, e quindi dall’acquisizione della
materia prima al prodotto finito. Abbiamo una presenza diretta in Cina solo per l'acquisizione
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diretta del cashmere, e abbiamo parzialmente esternalizzato una parte della produzione, in
particolare la filatura e una parte della tintoria, mantenendo invece il resto del processo produttivo
per quanto riguarda il tessuto al nostro interno.
La divisione abbigliamento, nata alla fine degli anni ‘80 per iniziativa di Riccardo Piacenza, è
attualmente una delle aziende leader nella produzione di maglieria e capispalla in cashmere in
Italia. Anche in questo caso siamo integrati a monte con l’acquisizione diretta della materia prima
che viene condivisa con la divisione tessuti, mentre la produzione è esternalizzata, anche se viene
realizzata tutta in Italia, in parte nell’area di Biella.
Siamo presenti praticamente in tutto il mondo. Per quanto riguarda i tessuti i nostri clienti sono
tutte le più importanti aziende della moda come Luis Vuitton, Prada, Hermès, Gucci, ecc … e altri.
Per quanto riguarda l’abbigliamento siamo distribuiti nei retail multibrand, e abbiamo oltre 400
clienti tra Italia ed Europa. Abbiamo iniziato ad essere presenti anche in paesi extraeuropei come
Stati Uniti e l’Estremo Oriente.
Abbiamo un punto vendita aziendale storico che è qui a Pollone in provincia di Biella, dove ha
anche la sede dell’azienda, e un flagship store via Manzoni a Milano che abbiamo aperto ad ottobre
2010, E’ in programma uno sviluppo della presenza retail.
Secondo lei quali sono stati i cambiamenti occorsi nel processo di creazione stilistica all'interno
dell'impresa moda?
Prima di tutto c'è stato un cambiamento del mercato, nel senso che la tradizionale stagionalità
sì è andata un po’ perdendo nel tempo, a favore di una richiesta quasi continua di presentazione
di nuovi campionari.
Noi in questo momento, per quanto riguarda la stagione invernale, abbiamo tre uscite, una
precollezione che esce a novembre, una main collection che esce a gennaio - con un prolungamento
sino a marzo - e poi una coda, che però sta diventando sempre più importate, per i riordini. La
stagione estiva è composta da una precollezione, che noi chiamiamo transition, che è una sorta di
coda dell’invernale perché viene consegnata a dicembre, prima di Natale, poi da un’uscita
tradizionale con la cosiddetta main collection ed infine qualche cosa, ma non tantissimo, sui riordini.
In totale abbiamo 4/5 uscite all'anno.
La pratica dei riordini ha avuto inizio con il riassorbimento di articoli presenti in collezione, ma
ora capita anche che, soprattutto nei punti vendita diretti, vengano fatte delle modifiche sulla base
delle richieste del retail manager. Al contrario, il cliente tradizionale continuerà a comprare su
campionario.
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Questo cambiamento dei tempi ha inciso sul ruolo e sull’attività dello stilista interno all'azienda?
Sicuramente ha inciso, proprio perchè la tempistica dello sviluppo dei campionari deve essere
sempre più anticipata, cosa che sta avvenendo anche nel comparto di produzione di tessuti e filati.
Il vero problema però sono i tempi effettivi di realizzazione, cioè da quando lo stilista realizza lo
schizzo a quando viene approvato il capo finale, che è un punto cruciale nella struttura
organizzativa della azienda. C’è infatti una forte pressione a favore della riduzione dei tempi, anche
perché capita abbastanza spesso, per esempio, che l’interazione tra l’ufficio stile ed il commerciale
porti a dei rifiuti o comunque a delle modifiche radicali della proposta stilistica. Mentre un tempo
lo stilista era - si può dire - una sorta di principe dell’azienda e per questo esercitava un vero e
proprio potere nei confronti del commerciale, oggi l’interazione sempre più forte con la rete
commerciale e il retail, e quindi con le loro esigenze, sta equilibrando questo rapporto tra le due
funzioni aziendali. Può dunque capitare che la proposta stilistica venga rifiutata o che comunque
sia in secondo piano rispetto alle esigenze commerciali.
Oggi quindi il ruolo del creativo si è modificato ed il suo “potere” è diminuito a favore di una
maggiore attenzione a tutti gli aspetti commerciali e del marchio…
Assolutamente sì. Potremmo dire quasi che la parola “creativo” è addirittura limitante. Oggi,
infatti, a questa figura professionale è richiesta una conoscenza tecnica approfondita di quello che
va a disegnare, e anche abbastanza ampia, poiché le tipologie di prodotti di abbigliamento sono
estremamente diverse, dal capospalla al pantalone, dalla maglieria al jersey, questo sia per l’uomo
sia per la donna, e non è detto che la sensibilità per l’uno o per l’altro sesso sia la stessa, anzi, non
capita quasi mai.
E poi c’è il tema degli accessori, che sono anch’essi tecnicamente diversi l’uno dall’altro, e in
molti casi hanno un ruolo preponderante sul fatturato perché nell'abbigliamento l’accessorio è
diventato fondamentale. Ecco perchè la preparazione tecnica dello stilista deve essere ad ampio
spettro.
In secondo luogo dovrebbe saper gestire maggiormente le tecnologie di progettazione dei
capi, come ad esempio il CAD, per potere meglio interagire con la struttura produttiva.
Voi avete ovviamente dei reparti creativi interni. Vi avvalete però anche di stilisti esterni?
In parte. Per quanto riguarda la divisione tessuti non abbiamo creativi esterni, e l’attività stilistica
viene totalmente sviluppata all'interno. I disegnatori, termine che nella produzione di tessuti è
molto più adatto, in quanto si tratta di una figura professionale molto più tecnica rispetto allo
stilista di abbigliamento, collaborano in maniera molto stretta coi clienti anche perchè ultimamente
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il mercato, soprattutto di fascia alta, sta chiedendo tessuti esclusivi. Quindi è necessario che il
servizio sia approfondito e che ci sia una vera collaborazione con l'ufficio stile del cliente del tessuto
in modo da avere una forte sinergia. Questo costituisce d’altra parte un punto di forza della nostra
azienda, e uno dei nostri maggiori vantaggi competitivi. Ormai, a certi livelli di mercato, si vende
moltissimo il servizio di sviluppo personalizzato del prodotto. In generale, comunque, nel mondo
dei tessuti si vende molto il servizio, ed è anche logico, visto che si ha un'interazione con il mondo
dell'industria, cioè con delle aziende che devono realizzare un capo finito, destinato al consumatore
finale, per cui è fondamentale avere forti sinergie.
Rispetto al mondo del retailer, invece, avendo l'azienda dimensioni grandi rispetto a negozio
plurimarca, che è tendenzialmente molto piccolo, la realizzazione di un prodotto customizzato è
piuttosto rara. Quello che sta succedendo, invece, è che le aziende produttrici di abbigliamento che
sono presenti direttamente nel mondo del retail, si trovano di fronte ad un interlocutore interno
all’azienda che diventa molto importante perchè ha la sensazione del mercato e quindi interviene
e dà degli input per quanto riguarda lo sviluppo prodotto.
Tornando alla questione creativi interni od esterni, per quanto concerne la divisione
abbigliamento, abbiamo un “uomo” prodotto interno che ha una forte conoscenza della struttura
produttiva ed è quindi in grado di selezionare l'idea stilistica e realizzarla. Questa figura, che è
fondamentale e che ha, tra le sue varie competenze, anche quella di sapersi interfacciare con i vari
stilisti, nel tempo rimane all’interno della azienda, mentre invece gli stilisti cambiano, e devono
cambiare, perchè sono portatori di una propria identità ed è normale che per rinfrescare la
proposta stilistica l'azienda decida di rinnovare queste collaborazioni.
Il creativo come ha vissuto e sta vivendo questo suo nuovo ruolo?
Dipende. Quando abbiamo a che fare con persone aperte, che hanno magari maturato anche
un’esperienza industriale, tecnica, sullo sviluppo modelli o partecipazione all’organizzazione della
produzione, sicuramente non si verificano particolari dei problemi. Anzi, già prima di oggi avevano
saputo dimostrare un’impostazione mentale molto più business oriented. Chi sta vivendo con difficoltà
questo passaggio sono gli stilisti abituati a vendere più una vena artistica che una competenza
aziendale, cosa che oggi come oggi è sicuramente anacronistica nel mercato dell’abbigliamento da
uomo, mentre forse lo è meno in quello della donna, perché comunque ha bisogno di qualche cosa
di più fantasioso, di più stimolante. Il ruolo dello stilista, comunque, si è ridimensionato rispetto al
passato, e lo stilista è diventato per certi aspetti più un esecutore, deve muoversi sempre più all’interno
di una griglia di prodotti target che gli vengono indicati dal commerciale e dal retail.
Quindi deve saper esprimere la sua creatività all’interno di vincoli “dati”, tenendo ben presente
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le tipologie di capi richiesti, le fasce di prezzo e quindi, di conseguenza, i materiali potenzialmente
utilizzabili e le lavorazioni compatibili con i costi indicati, il target price, ecc.. Indicazioni dalle quali
lo stilista oggi non può prescindere.
Questo stilista esterno, se ho capito bene, opera quindi con diverse figure all’interno dell’azienda…
Diciamo che lo stilista deve avere la capacità di interloquire con diversi soggetti all'interno
dell'azienda. La nostra struttura è abbastanza centralizzata, si cerca di mettere in relazione lo stilista
solo con un certo numero figure aziendali che sono: l'uomo prodotto, per quanto riguarda la scelta
e l’esecuzione delle proposte stilistiche, e quello della produzione, almeno per certi aspetti, poiché,
ad esempio, le scelte dei fornitori non competono allo stilista.
Lo stilista deve quindi essere in grado assolutamente di interloquire con diversi livelli aziendali,
anche perché se non riesce a ricevere dall’azienda indicazioni precise sulle necessità commerciali,
il prodotto potrebbe poi non uscire dai negozi o addirittura - molto probabilmente - nemmeno
entrarvi, rivelandosi quindi un insuccesso. La vera abilità quindi, non sta tanto nell'avere delle idee
geniali, ma nel percepire bene i bisogni delle aziende e tradurli in un prodotto vendibile.
Ma allora, qual è la figura aziendale che nel rapporto con lo stilista decide o meno la validità della
proposta creativa?
È una decisione che normalmente fa riferimento al Responsabile della Divisione o
all'Amministratore Delegato, dipende dall’organizzazione della singola impresa, ma è comunque
a carico dei livelli più alti. Nel nostro caso, trattandosi di un’azienda abbastanza particolare in
quanto abbiamo due divisioni molto diverse (una di semilavorato, il tessuto, ed una di prodotto
finito, l’abbigliamento), abbiamo una divisione tessuti ed una abbigliamento, quindi, ovviamente,
abbiamo due responsabili diversi. Poi siamo anche abbastanza fortunati perche abbiamo un
direttore della divisione abbigliamento che ha sicuramente una forte sensibilità di prodotto e riesce
quindi a capire qual è il prodotto giusto e fornire conseguentemente indirizzi molto chiari.
Generalmente esiste una figura prevalente, ma, in ogni caso, le informazioni vengono raccolte
da tutti gli interlocutori: il retail interno perché è quello che ha le informazioni di prima mano dal
cliente, la rete commerciale e poi, ovviamente, la direzione generale.
Di quali fonti informative ha necessità uno stilista?
Per quanto riguarda i tessuti deve avere un forte bagaglio tecnico, anche di tipo industriale, perché
la produzione del tessuto, così come per tutti i semilavorati, è molto tecnica. Inoltre, per poter dare
un servizio di customizzazione al cliente industria, così come noi facciamo, è necessario conoscere
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molto bene il prodotto ed il processo. Una necessità che si sta rivelando importante, però, anche nel
caso di alcuni prodotti ibridi come ad esempio la sciarpa, che è sì un prodotto finito, ma che è in
realtà molto vicino ad un semilavorato. Quindi è necessaria una forte conoscenza del prodotto in
tutte le sue componenti all’interno della filiera, che, nel caso della moda, è lunga e complicata.
Lo stilista d'abbigliamento, inoltre, soprattutto per una realtà come la nostra che non ha un
così forte contenuto fashion, dovrebbe avere anche un’esperienza retail per capire quali sono le
esigenze di quel mondo, senza prescindere dal fatto che anche questo tipo di stilista necessita di
una significativa componente tecnica, conoscere i materiali, i processi, ecc.
Ma, soprattutto, queste figure professionali devono avere una elevata sensibilità nel capire
quali sono, in quel preciso momento, le tendenze in atto sul mercato. I segnali sulle tendenze future
sono infatti sempre disponibili, ma bisogna essere in grado di coglierli prima degli altri, in modo
tale da indirizzare il prodotto con degli input molto precisi per tipologia di prodotto, per fascia di
prezzo, per tipologia di cliente, per posizionamento sul mercato, ecc. Poi è chiaro che molto
dipende anche dal tipo di azienda con cui lo stilista si interfaccia, se è una azienda trend setter
oppure un’azienda cosiddetta follower. Se è una azienda trend setter, sarà obbligata a lavorare
sempre su proposte fashion molto innovative, pena perdere molto del suo potere sul mercato; se
è una azienda follower, invece, il lavoro si presenta apparentemente più facile, perché avrà più
tempo per leggere il mercato e fare valutazioni, anche se rischia di essere confusa “tra le tante”,
pericolo dal quale dovrà difendersi cercando di differenziarsi.
In un qualche modo chi si occupa di stile è costretto a dialogare con la filiera di produzione?
Dipende dall'azienda e dalle sue dimensioni. Sicuramente lo stilista deve essere in grado
di capire quali sono le possibilità produttive perché la proposta stilistica deve
necessariamente tenere conto della fase di industrializzazione del prodotto. Se lo stilista non
ha questa capacità, non sarà in grado di individuare il costo industriale delle sue proposte e
rischia di proporre prodotti lontani dal pricing aziendale. Nel caso in cui l'azienda sia di
dimensioni medio-grandi, molto spesso gestisce direttamente la filiera produttiva attraverso
proprie figure interne.
Esiste un breafing iniziale con lo stilista in cui partecipano uno o più fornitori in modo tale da
definire parametri o dei vincoli produttivi?
Posso dire che da noi questa possibilità non esiste poiché abbiamo l'uomo prodotto che fa da
tramite. È chiaro però che in fase di sviluppo concreto del prodotto, molto spesso lo stilista deve
andare “sul campo” perché i tempi sono brevi. Penso in particolare alle fasi di prototipia e di
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sdifettamento, dove spesso è necessario intervenire con modifiche costruttive dei capi. Questo è
un momento importante per il lavoro dello stilista.
È sbagliato affermare che oggi la figura del crativo esterno all'azienda debba essere una figura
molto vicina a quello che è il product manager all'interno dell'azienda?
È assolutamente corretto. Paradossalmente l'azienda potrebbe tranquillamente fare a meno
per un certo periodo, nemmeno troppo breve, dello stilista, ma non potrebbe mai andare avanti
senza l'uomo prodotto, il commerciale, o chi fornisce gli input del posizionamento sul mercato e
così via. Lo stilista sta diventando, quindi, sempre più una figura business oriented e la sola
competenza creativa rischia di essere abbastanza inutile.
Ma il product-manager dove si forma?
Bella domanda, molte spesso vengono dalla produzione, perchè la cultura tecnica è
fondamentale, è chiaro però che devono avere una cultura di prodotto abbastanza vasta. Devono
in ogni caso avere un’esperienza dal punto di vista commerciale perchè se non riescono a capire
il mercato non riescono a tradurre le idee in qualche cosa di vendibile, e non possono essere
settoriali, perché è necessario conoscere molto bene tutto il processo e tutta l’intera filiera
produttiva. In più devono saper interagire in modo molto valido con i vari reparti creativi e gli
stilisti. Insomma, non è un lavoro semplice.
Raffaella Pinori – Pinori Filati
Come si colloca la sua azienda nell’ambito delle filiera produttiva di un capo di abbigliamento?
Noi fondamentalmente produciamo filati per maglieria, anche se ancora facciamo qualche cosa nel
mondo dei filati per tessitura. In passato, la nostra azienda, come molte altre aziende pratesi, produceva
un filato lineare e ritorto, quindi filati fantasia. Poi abbiamo fatto forti investimenti nella nuova filatura
- operativa da ormai 5 anni - investendo soprattutto nel ciclo breve. Il nostro punto di forza è il filato
pretinto: questo vuol dire che noi tingiamo la materia prima, la filiamo e poi la trasformiamo nel
prodotto finale. Produrre un filato pretinto vuol dire avere a monte una organizzazione industriale in
grado di operare su tempi molti corti per arrivare ad avere il prodotto finito, perché non si realizza
prima il filato per poi tingerlo nei colori che il cliente ti chiede, ma, al contrario, si lavora su un filato già
tinto sul quale si interviene successivamente con una serie di passaggi ulteriori che, attraverso
macchine fuso cavo, permettono di realizzare sfumature, fiammate e più in generale colori melange.
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Questo vuol dire accorciare significativamente il ciclo, anche perché noi abbiamo organizzato
un magazzino totalmente automatizzato nel quale mediamente sono presenti circa 80.000 kg di
filato pronto per essere posto in lavorazione nei modi che ho descritto. Il nostro vero valore è che
siamo bravi nell’acquistare le materie prime, nel metterle insieme (mischie) e lavorarle con questo
concetto fantasia. È chiaro che quando ci confrontiamo su prodotti più basic noi siamo in difficoltà,
perché la nostra filatura comporta molto spezzettamento della produzione, in quanto realizziamo
produzioni anche per quantitativi modesti, ad esempio 30 kg, e di conseguenza abbiamo un costo
di filatura che è notevolmente superiore a chi realizza un prodotto classico e lavora inevitabilmente
su partite di prodotto molto più significative. Quindi, se in una stagione si vende 80% di filato
classico ed il 20% di fantasia, noi operiamo all’interno di quest’ultima percentuale di mercato che
si riduce ulteriormente tendendo conto che siamo, come già detto, specializzati sul filati pretinti
grossi. Fortunatamente negli ultimi anni la moda ci sta premiando in quanto il tipo l’abbigliamento
che si vende è in linea con il tipo di prodotto che noi realizziamo.
Il concetto di stilista è molto cambiato negli ultimi anni, non esiste più il creativo fine a se stesso.
Noi utilizziamo consulenti stilistici esterni che ci indirizzano sui trend generali della stagione, sui
colori, sul tipo di pelo che può essere più lungo o più corto, un certo tipo di mano o di mischia. Il
problema però è che se non si parte da una certa conoscenza del mercato tutte queste
informazioni rischiano anche di portarti anche fuor strada. Ecco che allora diventa fondamentale
l’uomo prodotto, cioè il commerciale interno che oltre a fare il puro venditore va anche nei negozi
dei nostri clienti a vedere qual è l’andamento, cosa esce, cosa si vende. Il nostro responsabile
commerciale, che per noi svolge anche il ruolo di uomo prodotto, partecipa quindi allo sviluppo
della collezione, visto oltretutto che è lui a determinare il target price poiché, producendo filati in
mischia (lana alpaca, lana acrilico, etc.), siamo nella fascia media del mercato.
La creatività, quindi, è sicuramente importante ma non può essere l’unico criterio che guida le
scelte dell’azienda: noi cerchiamo di proporre cose sempre nuove e diverse rimanendo però dentro
il solco delle nostre competenze e della nostra specializzazione. Certamente esiste anche un limite
al cambiamento, che per noi è fondamentalmente di tipo tecnologico, e accade che, se il mercato
richiede un filato molto fine, molto basic o classico, come è successo in passato, noi purtroppo ne
siamo penalizzati. Attenzione, non solo noi come Filati Pinori, ma tutto il distretto pratese, perché
è indubbio che i produttori cinesi sul quel tipo di prodotto sono molto più competitivi di noi perché
hanno la materia prima e perché operano su commesse quantitativamente più rilevanti.
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Oggi l’uomo prodotto è quasi sempre presente all’interno dell’azienda, indipendentemente dal
fatto che questa si trovi a monte, come nel vostro caso, o a valle. Da quando è presente questa
figura presso la vostra azienda?
Secondo me è sempre esistita, ma ha assunto una certa importanza negli ultimi anni. Noi, ad
esempio, alla fine degli anni ‘80 avevamo uno stilista che in realtà era più un uomo prodotto che un
vero e proprio stilista. Veniva dalla Benetton e in quell’azienda affiancava la sig.ra Giuliana Benetton
nella scelta dei filati. Non era quindi un creativo puro, perchè aveva questa sensibilità forte che
combinava stile e prodotto, cosa che ci consentì di fare un vero salto di qualità. In quel periodo eravamo
un’azienda che faceva grossi volumi di acrilico nei Paesi dell’Est, poi da questa fascia di mercato bassa,
anche attraverso l’aiuto e i consigli di questo stilista/uomo prodotto, ci indirizzammo verso altre
tipologie di prodotto. Questa collaborazione durò per circa 12 anni, poi passammo a collaborazioni con
professionisti esterni. Una soluzione, quest’ultima, che però per diversi anni non dette i risultati sperati,
sino a quando non vi fu l’ingresso in azienda di mio marito, che già lavorava nel settore per altre aziende
nell’area commerciale. Ovviamente ha sviluppato l’area commerciale e nel tempo ha assunto sempre
più anche questo ruolo di uomo prodotto e quindi partecipa in modo molto forte alla progettazione
della collezione, anche perché per almeno 6 mesi all’anno è fisicamente sul mercato e quindi recepisce
e trasferisce tutte le informazioni necessarie ad un giusto briefing di collezione. Essendo su questa
fascia di mercato, quella media di cui si parlava prima, siamo anche consapevoli che non possiamo
andare su una creatività molto accentuata, anche se talvolta penso che sarebbe un bene, perché
disperdere la creatività è un peccato. Abbiamo però visto che lo stimolo più importante viene dalla
strada e dal mercato, dai quali traiamo informazioni fondamentali per tarare la nostra collezione
rispetto ad una creatività, forse, fine a se stessa.
Quando queste informazioni entrano in azienda, vengono elaborate sulla base di quello che fanno
i vostri concorrenti oppure sulla base di un’analisi del mercato finale dei confezionisti?
È un mix tra le due cose, anche se per quanto concerne la concorrenza analizziamo non i nostri
competitor diretti, ma perlopiù quelli con un posizionamento più alto. Siamo comunque coscienti che
se sviluppiamo servizi per i nostri clienti di standard più elevato rispetto a quello che facciamo adesso
(come, ad esempio, lo sviluppo di punti maglia particolari, fili complessi con all’interno materiali diversi,
ecc…), ci spostiamo su un livello di mercato molto più raffinato e alto. Un mercato che può consentirci
di raggiungere un elevato valore aggiunto per unità di prodotto, ma che non è in grado di assicurarci
quelle quantità necessarie all’ottimizzazione del nostro impianto industriale.
Quindi noi dobbiamo rimanere in una fascia di mercato sicuramente più complessa e problematica,
cercando però di guardare a cosa fanno le aziende confezioniste di livello più elevato, per assorbire da
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loro, che sono stilisticamente più avanti rispetto alla nostra attuale clientela, cosa avviene o cosa avverrà.
Le aziende vostre concorrenti di solito operano con consulenti esterni? Se sì, perché?
Secondo me c’è la tendenza al momento ad internalizzare questa figura, prima di tutto per
razionalizzare i costi, considerato che oggi uno stilista esterno costa parecchio, e poi perché devi
obbligatoriamente avere anche un product manager e quindi è più funzionale, e meno costoso,
avere queste due figure in casa, in modo da assicurare uno scambio di informazioni e un lavoro di
team ottimale.
Oppure devi avere dei tecnici molto raffinati, attenti a come si muove il mondo, e questa
sarebbe, secondo me, la figura più giusta da avere all’interno dell’azienda, ma ne esistono
pochissimi con competenze tecniche sulla materia prima e sulle lavorazioni di livello molto alto, e
nel contempo con un innato senso di ricerca, di stimolo a comprendere il mercato, di analisi di ciò
che propongono le varie griffe... Questo “supertecnico”, abbinato al lavoro del product manager,
sarebbe la soluzione giusta per una azienda come la nostra.
La ricerca di consulenti creativi esterni è basata su quali parametri? Competenze tecnicoproduttive? Competenze acquisite in altri lavori o piuttosto sulla capacità di seguire i trend stilistici?
A mio avviso lo stilista deve avere in sé tutte queste caratteristiche. Deve conoscere molto bene
quello che in quel determinato momento si vende, intuire quello che si venderà attraverso la lettura
dei trend di consumo, ma non può non conoscere approfonditamente tutto il ciclo produttivo e
nel contempo deve essere creativo ed innovatore. Ovviamente tutto all’interno di una approfondita
conoscenza della azienda, della sua storia e del posizionamento di mercato. Poi è chiaro che per
un creativo è cosa molto diversa lavorare per un’azienda di prodotto finito, piuttosto che per una
che produce semilavorati come nel nostro caso. Come dicevo prima, a noi servirebbe più un tecnico
con competenze particolari piuttosto che un creativo puro e semplice. Per noi le cose importanti
sono quasi sempre legate a soluzioni tecniche: se escludiamo il tema colore, che per noi è
fondamentale, tutto il resto ha a che fare con la capacità di dare risposte tecniche appropriate in
funzione al costo del prodotto e ai trend della moda.
Può capitare che uno stilista esterno all’azienda lavori sia a monte che a valle?
Certo, capita abbastanza spesso. Anzi oserei dire che è auspicabile perché in questo modo ha un
bagaglio tecnico e di conoscenza dell’una e dell’altra parte della filiera produttiva di un capo di
abbigliamento. Anche perché quando lavora sulla collezione di un semilavorato, come nel nostro
caso, deve comunque avere in testa una idea di prodotto finale che è la cosa invece che manca a noi.
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Ma si tratta di un passaggio che normalmente avviene dal mondo dei confezionisti al vostro settore
oppure al contrario?
Di solito dai confezionisti al nostro settore. Questo, perché il creativo che parte lavorando con
aziende che producono tessuti o filati, assorbe, giustamente, moltissimo la parte tecnica del nostro
lavoro, e quindi è molto più attento a questi fattori piuttosto che ai segnali sui cambiamenti di
gusto e di consumo da parte del consumatore finale.
Voi, come è ovvio che sia, entrerete spesso in contatto con gli uffici stile dei vostri clienti; come è
cambiato il peso di questo soggetto all’interno dell’azienda che trasforma il vostro prodotto in un
capo di abbigliamento?
Per prima cosa bisogna distinguere il cliente brand dal cliente produttore. Il cliente brand
normalmente ha stilisti interni con un’ottima capacità di percezione di quello che vogliono mettere
nella collezione e successivamente in produzione. Una capacità che viene costantemente
alimentata dall’azienda in cui opera il gruppo creativo, che non gli fa mancare tutte una serie di
informazioni utili a definire, già in fase di progettazione, gli articoli che andranno a comporre la
collezione. Altra cosa invece è quando interloquiamo con aziende di produzione, i maglifici, che
devono a loro volta proporre ai brand le loro creazioni e poi, successivamente, modificarle sulla
base delle richieste formulate dalle aziende loro clienti. In questo caso lo stilista ha un peso molto
meno significativo.
Ma questi maglifici sono dei conto-terzisti?
No, sono dei co-progettisti, chiamiamoli così, non hanno un loro marchio, oppure se lo hanno
non rappresenta il loro core business, e propongono alle aziende con un brand conosciuto dal
mercato la loro collezione di maglieria. Questo avviene soprattutto nei confronti delle aziende
specializzate nella confezione, che hanno pochissima cultura della maglieria (spesso limitata al
solo jersey), ma che decidono di inserire nelle loro collezione dei capi in maglia, anche perché in
questo momento è uno degli articoli che si vende di più. Anzi, proprio per questo motivo stiamo
assistendo ad aziende che cercano di creare al proprio interno dei team creativi specializzati sulla
maglieria.
Quali sono i più importanti osservatori creativi che influiscono sulla creazione stilistica?
Secondo me vale tutto, dalle fiere ai book di tendenza, dallo street wear ad internet, dal cinema
alla musica. La creazione stilistica è fondamentalmente un processo culturale. Poi, come ho già
detto, esistono molte fonti informative che lo stilista deve essere in grado di declinare in prodotto.
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Per il nostro lavoro alcuni book di tendenza internazionale sono un’ottima fonte informativa, così come
alcune fiere dove sono fortemente presenti collezioni di street wear, come ad esempio il Pitti Uomo.
Gli uffici stile delle aziende vostre clienti hanno più competenze tecniche o più capacità di lettura
dei macro fenomeni di cambiamento del costume, del trade, ecc…?
Lo stilista che lavora con l’artigiano ha molte competenze tecniche, invece chi lavora all’interno
di uffici stile in aziende più strutturate, che hanno brand ben posizionati sul mercato e investono
in comunicazione ed immagine, sono attenti e sensibili a fattori più concettuali, potremmo dire che
in qualche modo sono meno pragmatici.
E allora in questo ultimo caso a chi vengono trasferite le problematiche tecniche?
Al maglificio, al produttore. Diventa inevitabilmente un processo più lento, e per certi aspetti
anche più rischioso, ma è l’unico modo per sanare questa mancanza di competenze tecniche.
È reale la co-progettazione?
No, non credo. Io penso che sia più giusta definirla una vendita di servizi, anche se poi
materialmente si muovono dei capi di abbigliamento. Come si è già detto, l’azienda che non è in
grado di realizzare un prodotto perché al proprio interno non ha le competenze necessarie, si
avvale di aziende esterne in grado di dargli quel tipo di prodotto o meglio di servizio. Molti si
stanno oggi chiedendo se portare tali competenze all’interno oppure lasciarle all’esterno. Poi è
chiaro che se si demanda tutto all’esterno, oppure, come molti hanno fatto in passato, si acquistano
pacchetti completi, magari dalla Cina, il rischio di perdere la propria identità di brand - oltre al
know how di prodotto - è notevole, almeno su quella tipologia di prodotto.
Come cambia il ruolo del creativo in una azienda che adotta il modello produttivo di programmato,
piuttosto che quello del fast fashion o del pronto moda?
Credo semplicemente che sia lo stilista ad avere sensibilità diverse. Perché è chiaro che chi
opera sul programmato, il mercato per certi aspetti lo crea, (pensiamo ad esempio alle grandi firme
come Prada, Gucci, Armani o Dolce & Gabbana). A contrario, chi opera nel pronto moda in un
qualche modo il mercato lo segue, o meglio lo insegue, alcune volte copiando, ma soprattutto
preoccupandosi del fattore tempo che in questo caso diventa la vera discriminante. Il tema fast
fashion, a mio avviso, è ancora differente. In questo caso stiamo a metà tra i due modelli appena
citati, nel senso che i capi hanno una loro originalità stilistica, il marchio è un elemento comunque
di valore aggiunto, il prezzo è adeguato e si colloca nella fascia media del mercato, il tempo di
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risposta è veloce senza essere esasperato come nel pronto moda. Direi quindi che in questo caso
siamo di fronte ad uno stilista che riesce a coniugare al meglio le informazioni di mercato con
quelle sui trend della moda. Poi è chiaro che se una donna compra un capo di Martin Margiela un
certa differenza rispetto ad un capo H&M o di Mango la vede, e la trova… E non è solo una
questione di qualità intrinseca, ma soprattutto di stile, di vestibilità.
Se dovesse indicarmi la funzione aziendale che ha visto crescere maggiormente negli ultimi anni
nelle aziende vostre clienti, quale indicherebbe?
Prima era il responsabile degli acquisti, che oggi ha sempre una funzione importante
soprattutto per chi acquista un prodotto standard, per capirci le classiche mischie 50 - 50, i filati
merino, i colori classici nero, bianco, beige, insomma i prodotti classici, basic. Per chi invece vende
un prodotto più fashion, come i filati fantasia, il ruolo del creativo è fondamentalmente, ed sempre
più rilevante nella scelta del prodotto e nella decisione di acquisto.
Qual è la tipologia di azienda-cliente che si è allontanata maggiormente dal vostro prodotto e più
in generale dai filatori italiani?
Sono quelle che acquistano il pacchetto industriale all’estero, cioè quelle che acquistano
prodotto finito basato su proposte creative sviluppate dalle stesse aziende che gli vendono il
prodotto. Per capirci, sono tutte quelle aziende che, sicuramente spersonalizzando la loro proposta
di prodotto, e forse anche del marchio, hanno preferito alzare significativamente la loro marginalità.
E all’interno di queste, come è cambiato il ruolo dello stile?
È cambiato molto perché in queste aziende le persone che si occupano di stile sono più dei
product manager che degli stilisti. Il loro ruolo è quello di fare i globetrotter delle scelte di prodotto
in giro per il mondo, soprattutto in Cina, quindi per certi aspetti paradossalmente, devono essere
molto più bravi nelle trattativa d’acquisto rispetto al progettare una collezione.
Ma tutto questo non fa sì che si perda del know how tecnico?
Questo è certo.
Ma allora, se è vero che il Made in Italy si basa fondamentalmente sulla capacità di creare un capo
di abbigliamento, particolarmente curato dal punto di vista dello stile, della confezione, della
vestibilità e delle materie prime, e tecnicamente ineccepibile, la perdita di know how - a tutti i livelli
della filiera - non è un fortissimo rischio?
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Certo che lo è! Io sono da sempre una sostenitrice del saper fare, quasi una nostalgica della
componente culturale, industriale e produttiva, ma so benissimo che oggi funziona in altro modo.
Personalmente ho fatto l’Istituto Tecnico Industriale Buzzi di Prato che era ritenuto da sempre la scuola
per eccellenza di Prato. Venivano formati dei grandi tecnici che in azienda svolgevano proprio
questo ruolo. Una volta che si usciva dalla scuola si andava per anni, gratuitamente, nelle tessiture
a comprendere, imparare a svolgere questa attività. Alcuni negli anni sono diventati imprenditori,
altri, quelli con maggiori sensibilità creativa, sono diventati degli stilisti di tessuti e filati, altri dei
grandi tecnici di prodotto. Ma tutti abbiamo avuto una formazione tecnica di base fondamentale
per svolgere queste attività. Ora, nella nostra Regione c’è una delle Scuole di Moda più conosciute
e rinomate del nostro Paese, ma potremmo parlare benissimo di altre, come quelle di Milano ad
esempio, dove escono ragazzi che hanno aspettative altissime. Per certi aspetti è una cosa positiva,
ma è impensabile che appena usciti dalla scuola tutti possano pensare di andare a lavorare da
Gucci, Dolce&Gabbana o aziende simili, anche perché la loro formazione è assolutamente parziale,
molto teorica, con nessuna conoscenza, o quasi, della realtà produttiva industriale. E poi non è
che tutti possano pensare di fare gli stilisti, nelle aziende servono anche altre figure, che però
nessuno vuole fare. Penso ad esempio alla modelliste, alle sarte prototipiste, nel caso delle aziende
di prodotto finito, ma questi lavori sono considerati da terza media, non da persone che hanno una
istruzione come quella di chi esce da queste scuole. Ma non è assolutamente vero! Prendiamo ad
esempio il capo filatura in una azienda di filati, è una figura che deve abbinare a competenze
tecniche di prodotto anche competenze tecniche di meccanica, deve gestire del personale, deve
saper interloquire con le altre funzioni aziendali, non è un lavoro di bassa manovalanza, eppure non
se ne trovano più, e quelli che ci sono hanno retribuzioni che alcune volte fanno invidia a molti
lavori impiegatizi. Per risolvere il problema sarebbe necessario che i nostri giovani abbassassero le
loro aspettative, almeno nel breve periodo, come avviene all’estero. Nelle nostre industrie non
abbiamo bisogno solo di laureati con l’aspettativa di fare il dirigente entro pochi anni
dall’assunzione.
Esiste un problema di ricambio generazionale nel ruolo del creativo?
No, direi che tra tutte le funzioni aziendali presenti nelle aziende del tessile abbigliamento, la
figura dello stilista è quella che meno risente del passaggio generazionale. Per quanto riguarda
questa figura professionale il vero problema, semmai, è la disillusione, nel senso che tutti si credono
dei Tom Ford, ma poi si rendono conto che non lo sono e devono accettare di svolgere il loro ruolo
sia come dipendenti, sia come professionisti, per aziende di piccole o medie dimensione, che
rappresentano la stragrande maggioranza del Sistema Moda Italiano.
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Ornella Bignami – Studio Elementi Moda
Nel processo di creazione stilistica delle imprese moda si sono verificati dei cambiamenti?
Sì, rispetto a 10/15 anni fa si sono verificati cambiamenti estremamente significativi. È cambiato
molto sia il modo di essere dello stilista sia il nostro modo di lavorare, soprattutto perché oggi non
è sufficiente avere un creativo con buone idee. È necessario che la struttura creativa sia “aziendale”
e che, quindi, siano disponibili - a tutti coloro che sono coinvolti nel processo creativo –
informazioni e conoscenze di mercato che possano essere interpretate nello stile della collezione,
nel tipo di materiali, nel livello di prezzo… Oltre quindi all’idea creativa è necessaria una
competenza maggiore nella conoscenza del mercato.
Come si è modificato il modo di operare che vi viene richiesto dall’azienda?
A causa della molteplicità delle diverse realtà sul mercato, le richieste sono molto diversificate: c’è
chi ci chiede di realizzare una collezione lavorando, però in stretta sinergia con le persone interne
all’azienda con cui poi si discutono e sistemano i capi. La collezione non è quindi venduta a “pacchetto
chiuso”, ma è frutto di un lavoro congiunto che vede tutti i protagonisti del processo creativo mettere
sul tavolo le proprie idee e valutarne la funzionalità insieme agli altri. Chiaramente noi dobbiamo
difendere le nostre idee perché ci crediamo, ma dobbiamo avere una certa disponibilità alla
mediazione. Altre aziende, che hanno un proprio staff interno che lavora sulla collezione, ci chiedono
solo di fare dei flash, di intervenire con un numero limitato di modelli e questo indifferentemente sia
per la collezione top della linea, oppure per la linea sportiva, o ancora per i modelli della seconda
linea. Si tratta di una richiesta che arriva da parecchie aziende che all’interno continuano a lavorare
con il loro gruppo creativo e chiedono all’esterno contributi che possono portare qualche elemento
nuovo per arricchire la loro collezione. Poi ci sono clienti che per l’ideazione di tessuti e di capi finiti
chiedono un intervento in due diversi momenti: all’inizio, con la fornitura di tendenze da assumere
per l’elaborazione interna, e dopo un certo lasso di tempo, per esprimere una valutazione delle
proposte. Chiedono cioè una valutazione esterna della collezione vista da chi non è stato coinvolto
nella realizzazione del campionario, che avendo questo distacco, può esprimere delle opinioni e dare
dei consigli su come eventualmente apportare modifiche e correzioni, o semplicemente validare la
strada intrapresa. Le collaborazioni con le aziende sono fatte su misura, non c’è più un sistema
standard, ogni cliente ha la sua esigenza.
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C’è una tipologia d’impresa (cioè grande, piccola, con marchio commerciale o con quello dello
stilista, …) che richiede più frequentemente di altre i vostri servizi?
Sì e no, nel senso che per esempio i grandi marchi hanno il loro ufficio creativo interno con l’art
director che ha la responsabilità diretta sul prodotto. Queste sono aziende che normalmente, visto
che hanno un budget significativo, comprano tutti i book di tendenza, oppure altro materiale
informativo al momento disponibile sul mercato, per avere una ampia documentazione
informativa, poi c’è la forte personalità del marchio che indirizza le scelte. In questo caso noi non
abbiamo molto di più da offrire. I nostri clienti sono molto spesso delle aziende presenti lungo la
filiera, come i produttori di filato, tessiture, produttori di coloranti, ecc… Aziende, quindi, che non
arrivano direttamente sul mercato e non hanno all’interno vere e proprie strutture creative. Più in
generale, però, possiamo affermare che tra le imprese nostre clienti non ci sono tipologie
prevalenti, possono essere grandi oppure piccole, indifferentemente. Tra i nostri clienti abbiamo
avuto alcuni tra i più importanti brand del settore come Benetton e Stefanel, che pur essendo delle
grandi aziende, con delle loro strutture di ricerca molto efficienti hanno ritenuto opportuno avere
la nostra consulenza su specifiche tematiche quali i prodotti naturali e eco-bio, in modo tale da
confrontare le nostre idee, non esclusivamente creative, con le ricerche del loro staff tecnico
interno. Come dicevo, le consulenze sono fatte veramente ad hoc secondo le esigenze dell’azienda.
Io conosco molto bene i mercati del Far East e li seguo molto da vicino, e quindi ho aziende che
mi chiedono ad esempio come si è evoluto il mercato in Cina, come ci si muove sul quel mercato,
quali sono i punti di forza e di debolezza, ecc. per capire quindi dal mio punto di vista, che è
fondamentalmente quello di una stilista, cosa è cambiato a livello dell’abbigliamento in quei paesi.
Poi magari non disegniamo noi la collezione, ma diamo comunque delle informazioni utili su come
sta mutando il mercato dell’abbigliamento in quel determinato Paese.
Il ruolo dello stilista è davvero sempre più distante da quello del disegnatore di una volta?
Non so come sia cambiato per lo stilista “libero professionista” che viene chiamato
esclusivamente per il suo contributo creativo. Noi, come società di servizi che fin dalla sua nascita
ha offerto non solo la fornitura degli schizzi per una collezione, ma anche cartelle colori, scelte di
accessori e campionature (abbiamo infatti un importante parco macchine di maglieria), abbiamo
visto che dai primi anni della nostra attività ad oggi, i nostri servizi si sono ampliati ed oggi spaziano
dalla creatività alle ricerche di mercato, e non solo nel settore tessile e abbigliamento, ma anche
nel settore della casa, ceramica, calzature, ecc.. Quello che i nostri clienti apprezzano maggiormente
della nostra offerta è il fatto di operare su più mercati, compresi quelli emergenti, e quindi di avere
una visione che ha un punto di partenza creativo, ma anche una forte sensibilità commerciale.
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Quale delle funzioni aziendali tra commerciale, marketing, creatività e area produttiva è secondo
lei la più carente, oggi, e quale la più forte?
È difficile dirlo, perché sempre più spesso si lavora in team. Faccio un esempio pratico: noi
avremo qui tra qualche settimana un gruppo di 5 persone appartenenti ad una azienda ceramica
del modenese, composto da responsabile Commerciale Estero, responsabile Marketing,
responsabile Commerciale Italia, la persona che si occupa del prodotto e il titolare. Sarà questa
l’occasione per fare il primo brain storming relativo alla collezione da presentare a settembre. Io ho
personalmente preteso che fossero presenti tutte le funzioni dell’azienda, perché nel momento in
cui si fa un brain storming hai bisogno di avere informazioni da tutti gli uffici strategici dell’azienda.
Purtroppo a volte succede che il commerciale stia sempre un passo indietro perché non vuole
prendersi troppe responsabilità, mentre è proprio lui che può offrire all’azienda suggerimenti
relativi alle necessità dei clienti. Inoltre il marketing deve avere la sensibilità di saper comunicare
la presenza di questo prodotto sul mercato, quindi anche dando indicazioni a chi svilupperà il
prodotto, e lavorando in sinergia con l’ufficio stile. Il prodotto ha bisogno di tutte queste funzioni.
Nel tessile vedo mancare un po’ la parte tecnica, intendendo con questo l’attenzione ai tessuti, al
taglio, ecc… Sono questi, a mio avviso, i punti carenti delle nostre aziende più che la parte creativa
vera e propria.
Un tempo c’erano due soggetti ben distinti, lo stilista e il responsabile di produzione, a cui veniva
richiesta questa competenza tecnica. Oggi è ancora così o allo stilista è richiesto di avere entrambe
le competenze?
In qualche modo oggi il creativo deve avere varie sfaccettature e competenze, anche se poi
all’interno dell’azienda si ha bisogno di un bravo modellista che sappia interpretare le idee dello
stilista, e di una figura tecnica in grado di seguire l’industrializzazione del prodotto. Questo perché,
anche se lo stilista è uscito da un’ottima scuola, non sarà mai quello che si occuperà concretamente
dello sviluppo taglie, del taglio dei tessuti, di come industrializzare le fase di produzione. Seguirà
con attenzione il lavoro della modellista, ma avrà bisogno della collaborazione di altre figure
professionali.
In una riunione di breafing di inizio stagione, quanto la funzione creativa viene “imbrigliata”,
sempre ammesso che lo sia, dalle funzioni commerciale e marketing?
Dipende molto dal brand. Alcuni hanno una forte identità, altri seguono le tendenze del
mercato. Se si ha una forte identità, si manterranno determinati standard in linea con il
posizionamento aziendale e quindi si sarà meno inclini a seguire in modo passivo le tendenze del
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mercato. Ovviamente è esatto l’inverso, anche se non del tutto scontato, per le aziende che invece
operano sul mercato con un brand non particolarmente conosciuto dal consumatore finale.
Una forte identità di prodotto oggi è presente anche in aziende che hanno grandi marchi
commerciali come esempio Max Mara? Oppure per il consumatore finale il nome dello stilista è
sinonimo di alto contenuto di creatività?
I marchi che stanno funzionando di più hanno una grande riconoscibilità. Questo è quello che
ha portato grandi aziende come Max Mara a differenziare molto i loro prodotti affinché potessero
rispondere a tutte le esigenze del mercato. Oggi una collezione può nascere da un’idea di uno
stilista che riesce a trovare un’azienda che crede in lui e lo finanzia. Vedi alcune iniziative della
Camera della Moda impegnata a promuovere giovani creativi. Oppure la collezione nasce come
progetto di marketing e quindi da subito si individua un preciso posizionamento, un canale
distributivo, un tipo di consumatore, ecc… Questo significa che la collezione nasce come progetto
di marketing in funzione del mercato e a questo si adegua.
Nel modello italiano del fast fashion, nell’aerea stile ci sono forse più degli uomini prodotto che
dei veri e propri stilisti, cosa ne pensi?
Nella realtà italiana, il fast fashion ha sempre avuto la tendenza a rifarsi alle più recenti sfilate.
Oggi le cose stanno cambiando, e sempre più ci sono persone attente al mercato e
all’industrializzazione, ma anche alla creatività. Le aziende di questa tipologia che conosco, uscendo
sul mercato col proprio nome, cercano ovviamente di avere una identità più personale, un po’ meno
“copia” e un po’ più “creazione”, sebbene sulla traccia indicata dalle sfilate dei brand più famosi. E’
importante individuare quei temi che possono avere più possibilità di vendita. Per individuare lo stile
che darà le risposte di mercato migliori, è necessario avere molta sensibilità di prodotto e di mercato.
È un lavoro importante perché presuppone un’analisi molto dettagliata delle sfilate per individuare
i dettagli che in quel preciso momento di mercato possono avere successo. In questo tipo di aziende
quindi, non sono presenti dei veri e propri stilisti, bensì degli uomini prodotto che hanno
un’eccellente sensibilità al prodotto ed un fortissimo rapporto con l’area commerciale, che
costituisce senza dubbio l’area più sviluppata e presente nei processi decisionali.
Oggi è più facile progettare una collezione per un’azienda che è più vicina ai tempi del fast fashion
o ai tempi del programmato?
Sono due mondi abbastanza diversi e non saprei dire se uno è più facile dell’altro. Le collezioni
del pronto, richiedono una grande sensibilità e una capacità di reazione rapidissima. I tempi del
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programmato sono più ampi e se il brand controlla direttamente la distribuzione si hanno anche
molte utili indicazioni dal mercato.
Allora forse non è del tutto sbagliato dire che le aziende che sono vicine al modello fast fashion
sono aziende che in qualche modo seguono da vicino il mercato, mentre quelle che seguono i
tempi del programmato forse sono ancora convinte di influenzare il mercato.
Credo che dipenda dal brand. Ci sono aziende che operano sul programmato senza fare
“tendenza”, così come ci sono brand del programmato che influenzano le tendenze. Queste ultime
hanno – anche grazie ai forti investimenti in comunicazione – una capacità di influenzare il
consumatore. Parlando di tendenza bisogna poi tenere in considerazione i nuovi nomi che si
presentano sulle passerelle internazionali. Occorre avere l’occhio molto allenato per capire chi tra
questi nuovi talenti potrebbe essere quello emergente. In Italia bisognerebbe razionalizzare i troppi
concorsi, essere meno dispersivi e cercare invece di individuare i creativi davvero dotati.
Perché oggi parlando con aziende che producono, promuovono, commercializzano nuovi designer,
emerge che non ve ne sono di italiani?
Molte delle scuole italiane hanno puntato sullo stile e la creatività dando della moda l’idea di un
mondo patinato fatto di denaro e notorietà. Si è creato questo mito senza invece comunicare che la
moda è anche molta fatica, molto impegno e lavoro quotidiano. Spesso i giovani creativi hanno in
testa dei modelli che non corrispondono alla realtà del mercato. Nella maggior parte dei casi, l’obiettivo
è quello di lavorare negli uffici creativi di grandi brand, pochi sono i giovani che intendono realizzare
una propria collezione. Va detto che per fare ciò è necessario trovare chi ti finanzia, chi ti aiuta, fare delle
consulenze per avere le risorse finanziarie da impegnare nella tua collezione, ecc… è un processo sul
quale purtroppo la maggior parte dei ragazzi italiani non si impegna, perché accarezzano l’idea di
entrare nel mondo dorato della moda attraverso strade più facili. Gli stranieri invece sono più pronti
a fare la gavetta, ad imparare giorno dopo giorno, a “fare apprendistato”. Va inoltre detto che
nell’ambito della moda ci sono tanti mestieri che si possono fare tutti utili e di soddisfazione.
Condivide l’opinione che in Italia l’insegnamento delle materie che possano riguardare il tessile e
abbigliamento sia stato demandato di fatto a tre o quattro scuole private?
Il punto critico è proprio questo: essendo scuole private hanno un forte obiettivo economico.
I master proliferano, le scuole moltiplicano corsi di vario tipo. Il valore della creatività si disperde
nel mare delle iniziative.
In più si vende un’idea assolutamente sganciata da quello che poi succederà al loro futuro…
Durante un mio intervento di alcuni giorni fa in un istituto di moda alcuni ragazzi mi hanno
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chiesto come fare per entrare nel mondo del lavoro. Ho risposto che oltre alle competenze
specifiche fornite dai corsi seguiti, devono assolutamente conoscere l’inglese, essere disposti a
spostarsi e viaggiare, perché il lavoro non è sempre disponibile sotto casa. Occorre inoltre imparare
come si lavora con umiltà, facendo varie esperienze di formazione sul campo. E poi tenere in
considerazione tutte le varie attività connesse con la moda, quindi non solo le collezioni, ma anche
la creatività applicata al tessuto agli accessori, alla comunicazione, alla fotografia e a moltissimi
altri campi nei quali è ugualmente importante ed affascinate lavorare. Bisogna che si rendano
conto che in Italia non ci sono così tante aziende da impiegare tutti i giovani creativi che escono
da queste scuole.
Quali sono i più importanti osservatori creativi che influiscono sulla progettazione stilistica delle
aziende?
La cosa più nuova è la cosiddetta creatività diffusa attraverso i nuovi sistemi di comunicazione:
blog, social network ecc. Per il resto bisogna essere molto curiosi, guardarsi attorno nelle piazze e
nelle strade per osservare come veste la gente; saper selezionare i negozi che fanno tendenza ma
anche analizzare le sfilate e il lavoro dei creativi emergenti. Occorre inoltre visitare le fiere di settore
ed in particolare quelle che espongono prodotti intermedi della catena tessile – filati, tessuti,
accessori ecc. – che investono notevoli energie per comunicare le nuove tendenze nei trend forum.
Bisogna avere una informazione il più possibile completa sia sul prodotto, sia sull’evoluzioni del
mercato e degli stili di vita. Non è più possibile lavorare chiusi tra le mura della propria realtà
aziendale, anche se sono convinta che comunque ad un certo punto, dopo aver fatto tesoro di
tutte queste informazioni, devi saperti concentrare e sviluppare la tua personale interpretazione
dei trends. Il rischio di usare troppo le informazioni che arrivano dalle sfilate o dalle fotografie di
moda o da fonti come WGSN può causare un appiattimento generale.
Se tu dovessi indicare alcune tipologie di aziende che si sono particolarmente distaccate dalle
tipologie di servizi che ad esempio il classico studio stilistico ha fornito alle aziende, quali
indicheresti?
Io non credo che ci siano grandi differenze tra le aziende che decidono di avvalersi di una
consulenza stilistica esterna. Credo che ormai più o meno tutte le aziende che sono sul mercato
con un marchio conosciuto e godendo di una certa visibilità hanno un ufficio creativo proprio.
Possono avvalersi del contributo di stilisti professionisti, di studi stilistici, di book tendenza, di
collaborazione con scuole di moda su specifici progetti, Lavorare in stretta collaborazione e
sintonia con l’azienda credo che sia ormai la regola generale.
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Ci sono aziende in cui non è chiaramente identificato il ruolo dello stilista designer. Tu come giudichi
questo ruolo?
Dipende molto dalla tipologia di azienda e di prodotto. Credo che per prodotti specifici come
jeans, capi tecnici o sportivi è importante anche l’intervento del tecnico-creativo, competente per
tutti gli aspetti tecnologici della collezione, da affiancare allo stilista designer. Il Product Manager
- un ruolo oggi estremamente importante in azienda - anche quando ha una altissima sensibilità
non può sostituire la figura del creativo perché è troppo legato ai problemi di mercato e quindi
condizionato da temi quali il posizionamento, la fascia di prezzo, i costi di industrializzazione, ecc…
Ci sono aziende che sono cresciute molto grazie al marketing e alla comunicazione più che al
prodotto. Come giudica questo fenomeno?
Siamo nell’epoca della comunicazione, quando non del gossip. La comunicazione ha un forte
impatto emotivo sulle persone, ed è chiaro che chi riesce a creare un’immagine emozionale e
accattivante influenza fortemente la reazione dei consumatori.
Come pensa che evolverà quindi il ruolo del creativo nei prossimi anni?
Mi auguro che evolva in senso creativo, che gli venga data più libertà, come avviene nel mondo
del design, dove le aziende italiane lasciano veramente mano libera ai creativi per realizzare
prodotti anche molto stravaganti. Nella moda è più difficile trovare chi possa e voglia supportare
questa creatività. Al contrario bisognerebbe osare di più, investire sui creativi, anche lasciando loro
lo spazio per fare prodotti che non portano risultati immediati, ma che rinnovino lo stile di
abbigliamento. Ho l’impressione infatti che siamo arrivati ad una sorta di appiattimento che
impoverisce fortemente la moda.
Mauro Fabri - Staff International
Da che cosa è caratterizzata la figura dello stilista, oggi?
La figura dello stilista è molto diversa in funzione all’azienda e alla tipologia di prodotto su cui
lavora, ad esempio il modo di operare dello stilista che lavora su collezioni programmate è molto
diverso da quello di chi opera sul pronto programmato. Il nostro modo di operare è legato sia a
collezioni stagionali dove l’importanza stilistica nell’ambito delle collezioni è preponderante, ma
anche a collezioni – definite di prodotto - che hanno come focus principale il mercato e non
l’espressione stilistica.
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Cosa intende per espressione stilistica?
Quelle collezioni dove il contenuto moda è fortemente presente - a volte a discapito della
commerciabilità o producibilità - e che come primo obiettivo deve trasmette la forte impronta creativa
dello stilista/azienda che le propone. In questi casi la cifra stilistica rimane quindi preponderante, alcune
volte può essere declinata in proposte meno caratterizzate, altre volte no. È compito dell’azienda
decidere se proseguire su quella strada ed approntare le collezioni in quel modo oppure no.
È azzardato dire che le collezioni che hanno un così forte imprintig stilistico in realtà sono più uno
strumento di marketing per affermare la cifra stilistica dell’azienda, che uno strumento di vendita?
C’è differenza tra stile e tendenza, quindi lo stile è quella serie di elementi nati dalla capacità
dello stilista, fortemente riconoscibili, di lasciare il proprio segno e di offrire la possibilità di
riconoscere questo segno anche a distanza di anni. Il trend, il mood del momento, è invece
costituito da una serie di elementi che sono dettati da un fattore mediatico che porta un
determinato brand a farli suoi, e a tradurli in un prodotto che funziona magari benissimo sul
mercato in quel determinato momento, ma che dopo anni non identifica in modo chiaro il suo
creatore. Così, ad esempio, un abito uomo creato da un noto stilista italiano 20 anni fa, a 10 anni
di distanza era ancora riconoscibile perché c’era l’imprinting dello stilista. Oggi non è più così, se
facessimo la stessa prova oggi a distanza di 10 anni nessuno lo riconoscerebbe più perché si è
perso completamente l’imprinting dello stilista, ci sono sì ancora elementi caratteristici, ma sono
diventati così blandi da non riuscire più ad essere immediatamente identificabili. È quindi verissimo
che l’identità, o se vogliamo il DNA, di uno stilista può essere un elemento da utilizzare come plus
- ovvero come strumento di marketing - per collezioni successive che non sono più così
stilisticamente forti, perché riferite ad un trend di mercato impregnato di alcuni elementi di quello
stilista, ma in tono decisamente minore.
Quindi potremmo dire che in qualche modo anche le grandi firme della moda italiana per rispondere
alle esigenze del mercato si sono dovute spostare su collezioni più commerciabili… Ma questo
cambiamento ha coinvolto anche lo stile oppure si modificata solo la parte industriale e commerciale?
Non considero i grandi stilisti italiani dei brand commerciali, almeno all’inizio, perchè chi li
produceva li proponeva come espressione di stilisti innovatori, cioè di persone dotate di capacità
creative e di un gusto che ha saputo influenzare il mercato in un contesto completamente diverso
dall’odierno. Nel senso che in quel momento la concorrenza era molto bassa, i nomi erano pochi
e la controparte era data solo dal mondo francese della Haute Couture con prodotti destinati ad un
cliente completamente diverso…
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Stiamo parlando degli anni ’80?
Si, un decennio in cui il fenomeno moda era nuovo, almeno per il grande pubblico, e quindi il
consumatore si avvicinava alla moda come un nuovo bene di consumo espressione di uno status
sociale; oggi questa espressione di status è veicolata dalla tecnologia o da altri beni. È cambiata
quindi la priorità dell’utente: prima era l’abbigliamento a marcare l’appartenenza ad una certa
classe sociale, oggi lo si fa con elementi completamente diversi, come la casa o i figli, è paradossale
dirlo, ma il bambino è il nuovo elemento di espressione di uno status sociale, perchè il fatto di
potergli consentire certi ambienti, attività o luoghi di studio diventa la manifestazione di
appartenenza ad una determinata classe sociale. Analogamente la casa, ed in particolare il design
degli elementi che la compongono, oggi comunica in modo molto definito la classe sociale di
appartenenza. Quindi si sono spostate le priorità del consumatore. L’esempio che ho davanti agli
occhi è la scelta compiuta da un mio amico che tra una borsa da tre mila euro e un viaggio ha
preferito il secondo. Il consumatore non vede più l’abbigliamento come un elemento prioritario di
spesa, una volta si pensava a cosa indossare il sabato sera e si compravano i capi proprio per
quell’occasione, oggi non è più così. I primi a sentirlo sono stati i grandissimi stilisti, quelli che alle
spalle avevano grandi gruppi industriali in grado di seguirli nel business, e che poi, man mano
questo cambiamento si è diffuso, si sono trovati a dover affrontare una grande trasformazione del
mercato della moda e non solo di quello.
Intende dire che questo cambiamento è stato sentito prima di tutto dagli stilisti e non dalle aziende
più commerciali, quelle cioè definite “no brand”?
Intendo dire che ci sono aziende non identificabili nel nome di uno stilista che hanno saputo
comunque identificarsi in uno stile perché hanno dato un volto a prodotti di nicchia, come nel
caso di una famosa azienda di jeans italiana. I “no brand” secondo me sono quelle collezioni che
prese oggi, o anche 10 anni fa, non riesci a riconoscerle, magari sono anche capi importanti che
hanno avuto successo sul mercato, ma sono esclusivamente incentrati sulla tendenza e non
caratterizzati da elementi stilistici forti. Ritorniamo all’esempio del marchio italiano produttore di
jeans, il titolare - che tutti conoscono - non è uno stilista ma ha saputo creare, con un eccellente
team creativo, uno stile nei jeans, da sempre considerato un prodotto povero dal punto di vista
creativo e difficile da innovare. È quindi chiaro che il peso della creatività, in una tipologia di capi
di quel tipo è differente; se diciamo che ad esempio in una collezione come Martin Margiela - che
noi produciamo – la figura stilistica e la creazione hanno una importanza 90%, mentre il mercato
il restante 10%, in altre collezioni può essere esattamente il contrario.
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Vorrei soffermarmi un attimo su Martin Margiela: non è un nome conosciuto e non si sa il paese di
provenienza, però tutti ne parlano a livello di stile. Perché?
È un riferimento di puro stile, anche se in un determinato periodo della costruzione di questo
marchio, da parte della proprietà e dello stesso Martin Margiela si è pensato di rendere più fruibile
questa forte idea concettuale, di stile, al consumatore finale. Questo è avvenuto nel 2005, quando
è cambiato tutto il nostro team di supporto prodotto, ma anche la parte di ufficio stile. Quindi si è
rivisitata la maison con persone nuove in appoggio a Martin Margiela, e si è cercato di intervenire
sul concept stile, sicuramente molto forte, quasi estremo, per farlo diventare più fruibile e più
comprensibile al trade, e di conseguenza al consumatore finale. Diversamente il rischio era quello
di fare diventare il prodotto troppo concettuale e quindi difficilmente vendibile se non ad una
ristrettissima cerchia di acquirenti. Come già detto il marchio Martin Margiela è sinonimo di puro
stile che si traduce attraverso il tentativo di rappresentare in abbigliamento un concetto creativo.
Questo concetto non è mai visivo, cioè l’input stilistico non parte da una visione di prodotto (ad
esempio: “voglio fare un capo con un bottone gigante o una stampa a quadroni enormi”), ma parte
da un concetto. Ad esempio quello della scorsa collezione era “ half and half”, cioè metà e metà, e
in questo concetto può rientrare qualsiasi cosa. Come gioielli per metà lucidi e per metà opachi,
rotti o interi. Quindi il concetto si traduce in ogni elemento con una forma: è questo il modo di
lavorare del team Margiela.
Voi producete per molti marchi importanti dal forte contenuto creativo…
Sì, è così, e Staff International si definisce un’azienda al servizio dello stile. I marchi che
produciamo e distribuiamo sono Victor and Rolf, Maison Martin Margiela, Dsquare, Marc Jacobs e
Vivienne Westwood. Creatività completamente diverse, posizionamenti di mercato
completamente diversi, contenuti stilistici all’interno delle collezioni in quantità differente.
Mi racconti come avviene il processo decisionale per arrivare a stabilire i capi che dovranno entrare
nelle collezioni dei vari marchi che voi producete. Perché vorrei capire quanto nella progettazione
di marchi con una così forte impronta creativa incidano le informazioni di marketing e dell’area
commerciale.
È ovvio che per prima cosa abbiamo creato un dialogo, un forte legame umano e
professionale, per arrivare assieme ad un determinato risultato. Staff è strutturata come se vi
fossero al proprio interno tante aziende, una per ogni marchio. Ci sono uffici dedicati in cui
operano persone che lavorano unicamente per un determinato stilista e chi non fa parte di quel
gruppo non può addirittura entrarvi. In questi uffici si è ricreato il mondo concettuale, di gusto
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estetico, dello stilista di riferimento. Non c’è, da parte dell’azienda, imposizione di nessuno tipo,
ma solo il desiderio che nel gruppo si formi una grande sintonia, le persone vengono
appositamente selezionate per formare un team molto forte e legato, in grado di completare
ed esaltare le caratteristiche di un determinato stilista. Le faccio un esempio, Margiela è una
“macchina” molto difficile da mettere a punto perché l’osmosi tra lo stilista e le nostre persone
che con lui lavorano è cosi forte che spesso interagisce a livello personale sulla base del gusto,
della sensibilità, della creatività dell’uno o dell’altro sino al punto di mischiarsi e diventare una
sorta di pensiero unico che pervade tutto il gruppo di lavoro. Nel caso di dimissioni, la
sostituzione diventa veramente molto complicata perché tutto il team è parametrato sullo stilista
con cui si lavora. Chiaramente lavorando in un’azienda, ci deve essere un momento di sintesi di
tutti gli elementi. Per tutti i brand partiamo dalla creazione della griglia di composizione della
collezione, un sorta di piano di collezione che rappresenta tutta una serie di elementi e di analisi
che vengono fatte, quali ad esempio le tipologie di capi maggiormente venduti, il trend di
mercato sui capi più vendibili per quella stagione, in sintesi si cerca di modulare tutte le
informazioni che giungono dal marketing e dal commerciale in relazione alla stagione
precedente. Si produce un documento che viene condiviso con gli stilisti. Quindi ancor prima di
iniziare gli stilisti hanno delle informazioni, ma lo stilista lavorando sull’anno successivo, rispetto
alle informazioni che gli sono giunte dalle aree commerciale e marketing, può decidere
comunque di lavorare anche su un capo che l’anno precedente è stato venduto non benissimo.
La grande differenza è che il commerciale, ed anche il marketing, lavorano su ciò che è avvenuto
oppure quello che è in atto sul mercato in quel preciso momento mentre lo stilista lavora su
quello che si venderà tra un anno. Però qui ci vuole un punto di contatto che per noi sono i
documenti e il breafing, la famosa griglia di cui parlavamo prima. Da qui lo stilista inizia a lavorare
e condivide con noi alcuni step della sua attività creativa. Ovviamente questa condivisone è
fatta dall’area prodotto o brand dell’azienda con lo stilista, ma non sul singolo capo, ma bensì
su tutti gli elementi che caratterizzano la collezione. Lavorando in questo modo è dunque
possibile evidenziare o sottolineare quelle che possono essere delle carenze dell’impianto
stilistico, commentando dal punto di visto stilistico che le idee sono troppo “spinte”, che occorre
avere un’altra idea, che sta allo stilista scegliere la soluzione più facilmente comprensibile dal
cliente o viceversa. L’analisi viene fatta da più persone, ovviamente con la parte stile fortemente
coinvolta, nel pieno rispetto dei differenti ruoli per arrivare a un giusto bilanciamento della
collezione, dando un peso a tutti le componenti di pensiero del gruppo di lavoro e quindi senza
sbilanciamenti verso il pensiero della azienda o dello stilista.
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Ecco, se dovessimo inserirlo in un calendario tutto questo processo, che tempi ci sono per questa
prima fase di creazione della collezione principale?
Le modalità di procedura sono le stesse, noi lavoriamo con questa procedura su ogni uscita di
qualsiasi collezione. Ci possono essere interventi mensili o bimestrali, e la visone può avvenire in
3-4 step in funzione anche alle esigenze dello stilista con cui si lavora. Può benissimo avvenire che
alcuni stilisti, rispetto ad altri, si sentano meno forti ad esempio sulla scelta dei tessuti e quindi
richiedano un incontro in più per controllare il lavoro fatto. Questa è la particolarità della nostra
azienda, dove la metodologia è uguale per tutti ma poi sono permessi margini di personalizzazione
del rapporto con il singolo creativo ed il suo team interno. Il calendario si divide in momenti d:i
consegna disegni, visione prototipi, sdifettamento, seconda consegna dei disegni. Di solito il lavoro
viene concepito in tre tranche ben precise e scadenzate. La prima tranche è caratterizzata da una
prima consegna dei disegni, dalla realizzazione fisica del prototipo e dallo sdifettamento, e poi via
via le restanti tranche sempre con la stessa procedura. La differenza tra le tre tranche sta nel fatto
che la prima è limitata nel numero delle proposte, la seconda molto più ampia e la terza tranche
è di completamento. Il processo ideale vorrebbe che nella prima tranche venissero offerti pochi
elementi di ogni singola idea creativa per poi andarli a sviluppare, e che sulla base del risultato di
tale sviluppo si annulla o si va avanti, si sviluppa quindi la maggior parte della collezione per poi
completare con la terza ed ultima tranche di aggiustamento dopo il secondo “grande” fitting. Tutto
il processo da noi inizia, per l’invernale, a metà giugno e finisce a fine gennaio. Il processo
antecedente a giugno consiste in due mesi di lavoro di raccolta dati per la costruzione della griglia
della collezione.
Rimanendo sulle tempistiche della moda, un tempo c’era il binomio collezione-stagione, mentre
oggi le aziende ragionano con il programmato, semi-programmato, fast fashion e pronto moda.
Questo fatto, legato soprattutto al fast fashion, implica, oppure costringe, a dover partorire un
numero maggiore di proposte creative rispetto agli anni ’80? E se è così, non è che stiamo
spremendo un pochino troppo questi creativi?
Sì, a volte sono spremuti troppo. La globalizzazione è uno degli elementi della velocizzazione
della moda e non c’è modo di arrestarla. Bisogna quindi che la parte creativa trovi nuove modalità
per lavorare garantendo ad ogni singola uscita, o alle molteplici uscite, il medesimo contenuto
creativo e questo costituisce indubbiamente il problema più significativo. Chiaramente la creatività
è legata al genio di una persona, ma per tanti motivi abbiamo visto che il creativo non può più
lavorare da solo, ha bisogno di un team. Ecco allora che il vero creativo è quello che riesce davvero
a comunicare uno stile, a trasmettere una forte impronta creativa a chi lavora con lui, che a quel
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punto avrà tanti e tali elementi informativi da generare creazione all’interno di codici genetici ben
definiti. Tanto più questa trasmissione stilistica risulta carente, tanto più sarà difficile, per chi lavora
nel team, “emulare” la creatività dello stilista. A mio avviso c’è già una spaccatura tra team che
riescono a fare questo e altri che invece seguono il trend di mercato cambiando in un qualche
modo lo stile, la personalità del marchio di stagione in stagione. Io tornerei a lavorare in modo più
ampio, più profondo, su ogni collezione, ma capisco che mercati sempre più diversi ed ampi,
esigenze di vendita completamente diverse, dagli USA al Giappone, e momenti di inizio delle
vendite molto differenti da paese a paese, fanno sì che per sopravvivere - non tanto il marchio, il
concetto e la creatività, quanto l’azienda che sostiene questi costi – sia necessario omologarsi alle
richieste del mercato. La più grande difficoltà è far sì che il contenuto e la qualità della creazione
sia costante in tutte le differenti uscite richieste allo stilista, o commisurata all’esigenza di ogni
singola uscita. Ad esempio una pre-collezione avrà una determinata finestra di consegna e quindi
una presenza sul mercato dedicata ad un pubblico che a metà maggio decide di comprarsi
qualcosa per ottobre. Si rivela quindi necessario identificare molto bene il tipo di cliente, e potrà
farlo una persona molto attenta all’evoluzione del momento moda che sa coniugare una certa
creatività con la stagionalità e il tipo di cliente. Tutte queste informazioni sono quelle che servono
allo stilista, che non è più solo quello che genera disegni in una stanza, ma una persona altamente
creativa che riceve queste informazioni – confezionate in modo semplice e filtrato - al momento
di avvio del suo processo creativo. Il problema rimane quello detto in precedenza e cioè il giusto
bilanciamento tra “quantità” e costanza della qualità creativa.
Ma le aziende che escono in stagione con nuove proposte, richiedono al loro team creativo uno
sforzo in funzione al conto economico aziendale o è un appuntamento stilistico per un
consumatore diverso da quello delle pre-collezioni e della collezione tradizionale?
No, in generale chi opera in questo modo è un marchio brand che ha un ampio numero di
negozi di proprietà, quindi può giocare in casa aggiornando il proprio prodotto già presente nei
negozi. Oppure è un brand dove il contenuto stilistico non è così forte e quindi si creano altri
prodotti sulla falsa riga della collezione precedente. Noi è una cosa che non facciamo perché
l’impronta del tema stilistico ha una nascita e una fine legata a quella specifica collezione. Può
essere che la nostra elaborazione delle collezioni sia a volte carente oppure eccessiva, o che non
abbia la perfezione richiesta dal mercato. Posso dire però - con un pizzico di presunzione - che per
noi il massimo piacere è quando arriviamo a fare una collezione che ha soddisfatto prima di tutto
noi stessi, poi il DNA del marchio su quale stiamo lavorando, e non ha stravolto la creatività delle
stilista. Non esiste la perfetta collezione, questa è la nostra massima! Tornando a Martin Margiela
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(non a caso è sempre citato), è, forse, l’espressione più chiara di questo ragionamento in quanto
rappresenta la perfetta mediazione tra l’azienda che sta molto attenta a non deviare il DNA di una
collezione, e allo stesso tempo la disponibilità del creativo a lasciarsi stravolgere.
Quali sono i più importanti strumenti informativi del design? Oggi se dobbiamo riuscire far
combaciare creazione e marketing quali sono gli strumenti e le informazioni che dobbiamo
assorbire?
Non c’è un elemento informativo specifico, deve esserci semplicemente una dote naturale, che
è poi quella che determina la differenza tra una persona qualunque ed uno stilista, e cioè la
capacità visionaria di tradurre degli elementi del quotidiano percepibili dalla comunicazione, dal
viaggiare e più in generale dal mondo, in una “sintesi futuristico-visionaria” che vuol dire proiettare
tutti questi input/flash quotidiani in un capo di abbigliamento, una sorta di trasferimento nel futuro
di tutta una serie di elementi oggi presenti. Nel momento in cui lo stilista ha questa capacità allora
riesce a fare quello che è il lavoro vero e proprio dello stilista, ovvero trasferire al prodotto un
contenuto stilistico, uno specifico DNA. Dire che si fa ricerca guardando i mercatini dell’usato,
tramite canali internet, leggendo i giornali giapponesi, ecc … mi sembra riduttivo, c’è tutto questo
e forse anche di più, ma tutto questo al limite può consentire a chi non ha quella “sintesi futuristicovisionaria” di cui parlavo prima di prendere degli elementi già in essere, di modificarli e in buona
sostanza copiare qualche cosa che c’è già. Questo non vuol dire fare stilismo, vuol dire fare una
collezione - che può anche essere bella e piacevole - ma è solo una collezione. Fare lo stilista, fare
una collezione creativa, vuol dire avere la capacità di assorbire dal mondo circostante, attraverso
modalità infinite, degli elementi che poi diventano, attraverso la personalità dello stilista, un
prodotto con un sua precisa identità.
Una volta era abbastanza comune che lo stilista chiedesse all’azienda di acquistare prodotti
informativi come ad esempio i famosi “Cahier de Tendance”, oggi con l’avvento di Internet, sono
ancora usati e richiesti?
Assolutamente no, però c’è un’attenzione a proposte più legate al mondo dei tessuti. Gli stilisti
veri si fanno le proprie cartelle colori che esprimono il loro personalissimo gusto e non vanno a
cercarle su quaderni di tendenza. Poi, a seconda dello stilista, possono essere più light, più freschi,
più estivi o invernali, con toni più accesi o più spenti, ma il suo mondo corre intorno a determinati
colori. Il cambiamento e la sensibilità ti possono portare a spaziare, ma su 10 colori di una cartella
6 sono quelli classici e 4 sono colori che per quella stagione senti con maggiore forza.
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Nel bagaglio tecnico di uno stilista, oltre ad una innata dote creativa, devono essere preponderanti
le capacità di lettura del mercato o le competenze tecniche di industrializzazione?
No, la capacità dello stilista deve essere capire il mondo intorno, ma non solo dal punto di vista
estetico, ma anche dell’evoluzione dei mercati, l’evoluzione del prodotto, l’evoluzione della
vestibilità e capire attraverso determinati fenomeni sociali quello che può essere un indirizzo
nell’ambito dell’abbigliamento. Invece le problematiche di industrializzazione sono più di
competenza del team che assiste il creativo.
Ma si può dire che lo stilista stia diventando sempre più un uomo prodotto?
Abbiamo visto situazioni in cui stilisti non particolarmente dotati sono diventati degli uomini
prodotti validissimi o anche uomini prodotto che sono diventati stilisti. Quando sono gli stilisti a
diventare uomini prodotto, sono in grado di capire molto meglio di altri la mentalità dello stilista
e realizzarsi. Tornando però alla domanda, è sempre più vero che attorno allo stilista è necessario
avere un team che, per molti aspetti, come già detto, sappia valorizzare le idee creative e sopperire
ad eventuali carenze, perchè oggi una collezione non gira solo intorno all’abito, ma c’è tutto un
mondo che va dalla comunicazione alla commercializzazione, e quindi molte volte oltre al team
dello stilista serve anche una azienda strutturata. Quanto alle competenze tecniche di
industrializzazione, bisogna dire che anche oggi succede che la catena produttiva finale non
capisca i tipi di taglio o le cuciture volute, ma può essere benissimo che il taglio che fa consumare
di più, o il tessuto più rigido vengano ritenuti errori progettuali, ma in realtà non lo siano per nulla.
In certi casi sono non solo voluti, ma possono essere addirittura l’elemento per esprimere quel
concetto creativo che lo stilista ha in testa, per cui avere abiti da sera realizzati con tessuti da
cappotto è perchè la nostra idea di collezione, per questa stagione, è nel fare la donna statua e
quindi con una determinata fisicità.
Capita che nella presentazione di una collezione all’area commerciale venga detto che quella
collezione non venderà? E se capita cosa succede?
Dipende dalle aziende. Se la parte commerciale è molto forte, e questo normalmente capita
dove non c’è la vendita di uno stile, ma semplicemente la vendita di prodotto, può capitare che ti
venga detto “La collezione è bella, però così non si vende e quindi è necessario rivederla”. Ci sono invece
aziende in cui la collezione viene mostrata al commerciale il giorno in cui inizia la campagna
vendita, e da quel giorno è solo l’abilità della forza vendita a portala sul mercato. È evidente che
in questo caso il commerciale ha già comunque ricevuto una serie di informazioni sulla collezione,
ma è altrettanto vero che fisicamente non ha mai visto nulla sino al momento delle presentazione
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che, come già detto, corrisponde al giorno dell’inizio della campagna vendita. Addirittura, per la
Maison Martin Margiela, il commerciale vede per la prima volta la collezione insieme alla stampa
e ai clienti in occasione della sfilata. Quindi non ha una visione anticipata di quello che sarà la
collezione perché sta alla loro oggettiva capacità di venditori trovare gli strumenti per portare quel
prodotto sul mercato. Questo avviene nel momento in cui è forte la volontà di trasferire sul mercato
non un paio di pantaloni, ma un concetto che si esprime attraverso una funzione pantalone, che
è una cosa diversa.
L’attività formativa nel design italiana è adeguata? Dove sono queste strutture formative? Sono
strutture che fan parte di un percorso scolastico normale o deve essere successiva ad un percorso
tradizionale?
La formazioni attuale dei giovani designer non è adeguata, sono stato cercato da vari istituti
italiani per insegnare, in uno di questi il primo giorni di lezione ho chiesto alla mia classe se
sapessero cos’era un product manager della moda, considerato che erano lì per qual tipo di
formazione. Nessuno lo sapeva, per qualcuno era quello che si occupava della produzione, per un
altri quello che sceglieva i tessuti. La formazione è inadeguata perché non c’è una chiara struttura
del mondo moda. E questo è dato dal fatto che la variabilità all’interno delle aziende è talmente
forte e variegata da far sì che nelle stesse funzioni lavorative, quindi identificate con lo stesso nome,
siano svolte attività completamente diverse da azienda ad azienda. Ma c’è una questione che
comunque è comune a tutti i soggetti che si occupano di formazione nel settore. Non sono quasi
mai in grado di formare adeguatamente il discente sui temi che riguardano la capacità di lettura
ed analisi del mercato in quanto incentrati sul tema del disegno che da solo, oggi come oggi, a
nessuno interessa più di tanto, perchè non esistono delle vere e proprie scuole formative di 4/5
anni, ma sono tutti corsi post diploma che durano 6/8 mesi al massimo un anno. Non si genera una
formazione sul campo, ma solo attraverso lezioni monografiche di soggetti che lavorano all’interno
di un determinato mondo che comunque avrebbero bisogno di mesi e mesi per poter spiegare le
differenti strutture e funzioni aziendali, e far capire come si lavora, di cosa c’è bisogno all’interno
dell’impresa. All’estero, soprattutto nei paesi nord europei, c’è un approccio diverso
dell’insegnamento. Ad esempio in Italia sarebbe impensabile il tutoraggio di un giovane da parte
di una azienda. Qui da noi è finita la manualità; c’è un’idea di protezione più che di divulgazione.
La dinamicità negli ultimi anni delle aziende è tale da non creare più giovani leve. L’unico vero
posto in cui possono formarsi i giovani è l’azienda, ma nessuna azienda oggi - nell’attuale
situazione di difficoltà - è in grado di sostenerne i costi
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Qual è la funzione aziendale più carente in questo momento tra commerciale, marketing,
produttiva e stile? E perchè?
La funzione Commerciale, perchè la capacità di portare il prodotto italiano sul mercato globale
sta facendo passi indietro rispetto ad altri Paesi.
Qual è invece la più forte? Perché?
La produttiva, perché, probabilmente, ha al proprio interno la flessibilità giusta per adattarsi ai
fenomeni del momento.
Ci sono aziende oggi in cui non è chiaramente identificabile la figura dello stilista e del designer?
Come giudica questo fenomeno?
Non do un giudizio assoluto perché sono tutti e due modelli di presenza sul mercato che
rispondono ad obiettivi specifici che l‘azienda si è data.
Claudia Rossi - Moschino
La Moschino è un’azienda nota, che produce dall’abbigliamento agli accessori. Il nostro core
business è comunque legato all’abbigliamento donna, che è suddiviso su tre linee principali:
Moschino, Chip and Chic - una seconda linea, cosiddetta Diffusione, ma comunque molto ricca
- e Love Moschino, che è la linea più giovane (ex Moschino Jeans) dedicata sia alla donna che
all’Uomo. Abbiamo inoltre una linea uomo che è appunto Moschino Uomo. Io lavoro in azienda
da 20 anni, da sempre nell’Area Commerciale. Proprio per queste esigenze - che sono sempre più
forti - di interfaccia tra il Commerciale e lo Stile, dopo circa 12 anni di attività commerciale, e
quindi sviluppo di mercati soprattutto esteri sulle linee donna, il Direttore Generale mi chiese se
ero disponibile a ricoprire questo ruolo di interfaccia tra l’area commerciale e l’Ufficio Stile.
Nonostante fosse un ruolo al quale l’Ufficio Stile non era abituato, si trattò di un inserimento
interno molto soft, in quanto io ero già all’interno dell’azienda, conoscevo molto bene il prodotto
e gli stilisti. Fu quindi da quel momento che io, pur rimanendo nell’area commerciale, ho assunto
questo ruolo di merchandiser. In questo ruolo io fondamentalmente porto a conoscenza
dell’Ufficio Stile le esigenze dei vari mercati sia attraverso la conoscenza diretta, sia attraverso un
sistema di report che mi giungono sistematicamente da tutte le parti del modo. Così è nata la
mia figura.
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Questo in che anno?
Intorno al 2000.
Ma a cosa fu dovuta questa decisione del direttore generale?
Prima di tutto è stata un’idea comune. Io dimostravo onestamente un pochino di stanchezza
per quello che facevo. Siccome avevo già dei rapporti con l’Ufficio Stile, anche se informali, perché
alcune volte quando vi erano delle incertezze mi veniva chiesto cosa ne pensassi rispetto ad idee
di prodotto o possibili capi da inserire nelle collezioni, e siccome nell’ultimo periodo la cosa era
diventata molto più frequente rispetto al passato, si è verificata una coincidenza tra un’esigenza mia
– quella di fare qualche cosa di diverso rispetto alla semplice attiva commerciale - e quella del
Direttore Generale, che aveva capito fin da allora che una figura aziendale in grado di arginare,
senza essere invasiva, i “dubbi” dello stile fosse una cosa necessaria per la nostra azienda. Se ne
parlò con la direttrice creativa, la quale si disse d’accordo e così ho iniziato a svolgere questo ruolo.
Inizialmente mi occupavo di due linee, e cioè la prima linea Moschino e la seconda linea Chip And
Chic, ma la cosa si è dimostrata abbastanza difficile perchè non c’era il tempo necessario – colpa
dei calendari tiranni che regolano la presentazione delle le collezioni – per essere nello stesso
modo performante su entrambe le linee. Decidemmo quindi che mi sarei occupata della linea
Cheap And Chic, che in quel momento aveva bisogno di un supporto un pochino più commerciale
in quanto era in forte espansione, e aveva visto un cambiamento sia del responsabile dello stile sia
del team stilistico nel suo complesso. Era quindi il momento opportuno per inserire una nuova
figura con una forte visione commerciale, e per creare una liaison tra il gruppo degli stilisti
dell’azienda ed il commerciale, visto che sino ad allora queste due realtà, sebbene parte della stessa
struttura aziendale, non avevano molti rapporti e si limitavano ad incontrarsi al momento della
presentazione delle collezioni e non molto di più. C’è voluto un po’ di tempo per far avvenire
l’unione, ma grazie anche all’unificazione delle sedi dell’azienda, si è creato oggi un ottimo
rapporto di affinità. Io cerco sempre di rispettare il loro punto di vista, perché gli stilisti hanno un
modo di vedere le cose molto diverso da noi commerciali e quando hanno in testa una collezione,
essendo degli “artisti” – una dote di cui sono molto invidiosa, ma anche molto riconoscente bisogna lasciar loro lo spazio necessario per poter esprimere le loro idee in proposte di collezione
che poi, con molta diplomazia e rispetto del lavoro, verranno tradotte in prodotto finale anche
grazie al contributo di noi del commerciale. Ho sempre rispettato il loro punto di vista e le loro
idee, anche se a volte non riescono ad esprimerle con la necessaria chiarezza, cosa che ci obbliga
a chiedere spiegazioni usando però molta cautela, perché è difficile ottenere razionalità e logica
da una persona che in quel momento si sta esprimendo con dei disegni. Il risultato lo si raggiunge
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lavorando poco alla volta insieme a loro, chiedendo le cose con la dovuta fermezza ma senza essere
aggressivi, offrendo loro, al contrario, garanzia di rispetto e comprensione del loro lavoro.
Esistono più gruppi creativi?
Si, abbiamo molti gruppi creativi che sono tutti coordinati dalla sig.ra Rossella Jardini, fondatrice
assieme al sig. Franco Moschino della nostra azienda. Dalla morte del sig. Moschino, la sig.ra Jardini
si è occupata in prima persona di dirigere sia la parte creativa dell’azienda sia la comunicazione. È
l’anima della Moschino, poi, ovviamente come per tutte le aziende, c’è un insieme di uffici dedicati
alle varie attività, uno staff commerciale e c’è un azienda come la Aeffe che oltre a produrci e
distribuirci, alcuni anni fa ci ha acquistato. La sig.ra Jardini sovraintende tutti i vari team creativi che
sono: 2 per la linea Moschino Love, 1 per la donna e 1 per l’uomo, 1 team per Cheap and Chic, 1
per Moschino Uomo e infine 1 team per la prima linea Moschino Donna, poi altri per borse, scarpe
ed accessori. Attenzione che queste linee di accessori che noi chiamiamo piccole non lo sono per
niente sia in termini di prodotti in collezione, sia in termine di fatturato. Le chiamiamo piccole
perché sono accessorie al nostro core business che è l’abbigliamento.
Io, come già detto in precedenza, opero solo sulla linea Cheap and Chic donna, ma è inevitabile
che prima o poi si arrivi a creare una figura come la mia trasversale almeno alle tre linee di
abbigliamento donna, perché credo che sia una necessità di questa azienda, così come di tutte
quelle che hanno più collezioni con uno stesso marchio o comunque più collezioni all’interno di
un’unica maison anche con marchi differenti. Questo consente di evitare che si verifichino
overlapping in termini di presentazione di una certa categoria merceologica, con la conseguente
sovrapposizione di prezzi e quindi di posizionamento.
Il gruppo creativo con il quale lei collabora nel caso di Cheap and Chic come è composto?
Normalmente è composto da 3-4 persone. Vi è la responsabile di linea che ha la supervisione
di tutta la collezione e gestisce tutti gli assistenti, indipendentemente dal loro numero (come ad
esempio chi è dedicato alle stampe, ai tessuti piuttosto che ai disegni di certe categorie
merceologiche). Tutti gli assistenti disegnano sotto la supervisione della responsabile che dice
cosa serve, ad esempio giacche o cappotti, e lei stessa disegna, mentre la sig. ra Jardini - che è la
direttrice creativa - non disegna ma ha una grandissima capacità di esaminare migliaia di disegni
e capire quali sono giusti per certe linee, quali non sono giusti per una determinata linea e più in
generale quali non sono giusti per la Moschino. Per quanto concerne la linea Cheap and Chic, le
persone che compongo il team creativo sono quattro, di cui una responsabile della linea e tre
assistenti, e tutte disegnano la collezione.
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Il ruolo di queste persone è cambiato negli ultimi dieci anni?
Nel caso degli assistenti, il ruolo non è cambiato. Nei fatti sono persone estremamente creative
che vengono poco toccate dalla realtà commerciale nel senso che nel nostro caso (Cheap and
Chic) io faccio riferimento alla responsabile di linea, che è la mia interlocutrice, la quale trasferisce
ai suoi assistenti le informazioni commerciali che io le ho fornito, poi è chiaro che se facciamo una
riunione in cui sono tutti presenti io parlo a lei ma in realtà parlo a tutti. È giusto però che i ragazzi
(così chiamiamo gli assistenti) abbiano un’unica persona di riferimento e cioè la responsabile di
linea. Poi nel caso specifico, questa responsabile di linea negli ultimi anni è stata contaminata
moltissimo dai fattori commerciali, ma è stata una sua scelta. Essendo una persona molto
intelligente, responsabile di una linea che genera un fatturato molto importante, pur essendo una
seconda linea, e quindi non la linea attraverso la quale si comunica lo stile Moschino al mondo, ha
capito che Cheap and Chic deve ascoltare la realtà commerciale molto di più ad esempio della
linea Moschino, che deve essere lasciata libera alla creatività e di esprimere lo spirito della maison.
Cosa di cui poi anche le restanti linee beneficiano a cascata, pur avendo un proprio stile, una
propria personalità. Tra l’altro adesso, con le precollezioni, tutte le nostre collezioni donna escono
4 volte all’anno per cui anche la creatività degli stilisti è messa a dura prova in quanto devono
sfornare 4 nuove collezioni all’anno con richieste di performance sempre ad altissimo livello, sia in
termine di stile che di vendite. Questo, sia per ogni linea di abbigliamento sia per gli accessori.
Che tipo di formazione hanno i ragazzi che disegnano per la Moschino?
Sono tutti ragazzi che escono da scuole di design, italiane o estere. Noi abbiamo moltissimi
assistenti che arrivano da scuole londinesi, americane, mentre per quanto concerne le scuole italiane
vengono perolopiù dallo IED e dal Marangoni. Tutti ragazzi che hanno comunque una formazione
artistica. Ci sono però anche persone che provengono da scuole più tecniche - come ad esempio il
Secoli – perché non avendo noi la possibilità qui a Milano di avere un reparto di prototipia, in quanto
l’azienda che ci produce, l’Aeffe, è a Cattolica, disporre internamente di una risorsa con competenze
tecniche sui tessuti e la loro resa, sui lavaggi, il restringimento, la tintura è importante.
Quanto queste competenze, merceologiche o di industrializzazione, sono fondamentali nella
formazione di un giovane designer di moda?
Non sono così fondamentali. È invece fondamentale avere talento e una bella mano. Poi c’è
sempre un tecnico che le sistema.
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Mentre la responsabile?
La responsabile di linea se queste conoscenze non le ha apprese attraverso una formazione
specifica, le ha comunque acquisite sul campo. Magari nascono come disegnatori puri poi nel
corso degli anni acquisiscono queste competenze tecniche perché a forza di disegnare ad esempio
giacche in seta che poi lo stilista decide di realizzarle in lana, capisci che quel determinato taglio
così come lo hai pensato non può essere realizzato, e così cominci a ragionare sulla resa dei tessuti.
Nel massimo della creatività stilistica di un team, vengono dati vincoli di costruzione della
collezione, come ad esempio il costo di industrializzazione entro i quali operare? La responsabile
deve valutare tutto?
Certo, sempre di più. Gli assistenti di solito vengono lasciati liberi di esprimere la loro creatività
perché è la responsabile di linea che riporta il tutto all’interno dei binari concordati in fase di
briefing di collezione. Poi qualche volta si può eccedere in una lavorazione particolarmente cara
che non era stata prevista, perché si capisce che è particolarmente bella e che darà forza e lustro
alla collezione. Mentre altre volte bisogna togliere dei particolari come ad esempio dei punti fatti
a mano, dei ricami, degli inserti in pelle perché farebbero alzare il prezzo di quel prodotto senza
che lo si possa giustificare.
Quindi si può dire che la parte del commerciale è diventata più significativa rispetto ad anni
passati? Che in un qualche modo ha messo “le briglia” a questo mondo della creatività oppure no?
Si, perché bisogna evitare sempre di più gli sprechi. C’è un margine di errore che naturalmente
bisogna cercare di limitare ma che non puoi azzerare perché per fare delle belle cose bisogna fare
anche sperimentare. Non è possibile pensare di fare un campionario e renderlo valido al primo
tentativo. Spesso è necessario fare delle prove, e si tratta di investimenti che l’azienda non può
evitare, se vuole raggiungere un buon risultato. Naturalmente ci sono cose che debbono essere
pianificate a tavolino e rappresentano una certezza, perché ti garantiscono una certa serenità per
quanto riguarda il budget. Per il resto, lasciamo comunque un margine della collezione - che può
variare di stagione in stagione - in cui lo stilista è libero di fare un po’ di sperimentazione, che a volte
vanno molto bene al primo tentativo altre volte no. È qui che si generano dei costi di ricerca
finalizzati a cercare di caratterizzare maggiormente il prodotto per renderlo più appetibile in un
contesto di mercato in cui c’è di tutto e di più. Chi si chiama Moschino, Versace o Dolce&Gabbana,
deve comunque saper offrire anche una certa originalità di prodotto a prezzi congrui, perché esiste
una concorrenza di colossi che offrono collezioni fast fashion, molto carine per altro, che a livello
di vendite costituiscono un elemento di disturbo.
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Perfetto, lei cosa ne pensa di queste collezioni fast fashion?
Sono collezioni carine e simpatiche. Danno a tutti la possibilità di comprare di tutto. H&M e
Zara, non hanno, come qualcuno crede, inquinato il mercato, hanno un loro pubblico. Inizialmente
quando sono arrivati sul mercato, si è temuto una certa diminuzione di fatturato. Oggi possiamo
dire che questo pericolo non si è verificato, sicuramente non nel nostro caso, perché si tratta di
collezioni che si sono affiancate al nostro prodotto. La donna oggi compra tranquillamente la
giacca di Moschino e tre paia di pantaloni di Zara.
E le aziende italiane che operano nel fast fashion come si muovono?
Trovo che a differenza dei marchi internazionali come quelli appena citati, si siano mosse
differentemente realizzando un prodotto di livello più alto. Penso a Patrizia Pepe o a LiuJo. Li vedo
spesso anche nei negozi multimarca in cui siamo presenti, hanno un prodotto carino. Alcune volte
forse copiano, ma non c’è problema, sul mercato c’è spazio per tutti.
Quali sono le principali fonti informative di chi si occupa di stile?
I creativi hanno una sensibilità particolare e riescono a percepire quello che va o che non va,
poiché lavorano mediamente con almeno sei mesi di anticipo rispetto alla vendita del loro
prodotto. Hanno quindi delle antenne particolari per captare le tendenze, e oggi sono facilitati in
questo anche dalle tecnologie dell’informazione: con internet è possibile vedere le sfilate di tutto
il mondo e verificare cosa hanno fatto gli altri. Se ci si vuole allineare, ci si allinea; in caso contrario,
se si vuole fare una collezione di rottura ha gli strumenti per farla. Non credo che i vecchi quaderni
di tendenza siano usati come in passato, poi ci sono, come sempre, le informazioni che giungono
da chi produce tessuti e filati quando presentano le loro proposte nelle fiere di settore. Guardando
i loro campionari già si riescono a percepire alcune tendenze che sicuramente saranno presenti
nella stagione che si andrà a progettare. Comunque sia, io credo moltissimo nell’estro degli stilisti.
Dei rapporti con la filiera a monte abbiamo già detto. Guardando invece a valle, i fornitori che
materialmente producono i vostri capi sono coinvolti in una qualche fase di progettazione della
collezione?
No, non entrano. Noi abbiamo rapporti solo con i cosiddetti product manager - che fanno parte
dell’azienda che ci produce - che ci aiutano moltissimo nella realizzazione dei campionari
fornendoci informazioni tecniche sulla modellistica, sulla resa dei tessuti, sull’assemblaggio dei
vari materiali. Anche la parte di modellistica è esterna alla nostra azienda e viene anch’essa svolta
dall’azienda che ci produce. Nessuna di queste funzioni entra nella fase di progettazione creativa,
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ma tutte hanno altresì voce in capitolo relativamente alla parte tecnica del campionario e della
produzione.
Mi può illustrare il processo di definizione del costo del prodotto?
I costi non sono di nostra competenza. Io, nel caso specifico della linea Cheap and Chic, mando
alla società licenziataria un assetto di collezione che rappresenta la collezione ideale che noi
vorremmo. Tale proposta è articolata in termini di numero pezzi da produrre divisi per categoria
merceologica, e ogni categoria merceologica è divisa per fascia prezzo. All’interno di queste fasce
prezzo indichiamo le quantità di capi che noi vorremo si producessero. Questo documento va
all’azienda licenziataria, all’ufficio stile, all’ufficio acquisti tessuti e all’ufficio accessori. Tutti sanno
quello che è il nostro target, anche se non sempre lo si raggiunge in tutte le categorie
merceologiche. Però, se sappiamo che bisogna fare ad esempio 6 pezzi, e all’interno di questi 6
pezzi dobbiamo realizzare 2 giacche, 2 gonne, 2 paia di pantaloni, e che il prezzo di questi 6 pezzi
deve essere compreso tra x e y, dobbiamo cercare di lavorare tutti all’interno di questa griglia.
Questa sarebbe la griglia di collezione perfetta. Poi ci sono delle categorie merceologiche che si
distaccano maggiormente da questi riferimenti altre che vi rientrano con maggiore facilità, e
comunque si cerca sempre di tenere questa guida.
Utilizzate oppure avete utilizzato in passato degli stilisti esterni all’azienda?
Si, li stiamo utilizzando. Sono dei professionisti esterni che stiamo utilizzando su certe linee, a
cui viene chiesto un contributo stilistico in termini di proposte che sono discusse e valutate dalla
Sig.ra Jardini. Lavorano quasi esclusivamente su collezioni specifiche, come ad esempio quella
dell’uomo, visto che i nostri gruppi creativi interni sono più specializzati sulla donna.
Con riferimento all’Italia, qual è la funzione aziendale ritiene più carente tra quella commerciale,
marketing, produttiva e stilistica? E qual è la più forte?
Direi il Marketing per quanto concerne la funzione più carente, in quanto bisognerebbe
utilizzare di più e meglio le strategie di marketing per pubblicizzare e diffondere sia il marchio, sia
le collezioni collegate. Il marketing è fondamentale per il successo di un’azienda. Quella invece
più forte è sicuramente la funzione creativa.
Come giudica quelle aziende in cui non si può riconoscere la figura dello stilista o design?
Chi ha usato molto bene il marketing ha creato un marchio anche senza avere un vero stilista.
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Nelle aziende in cui non emerge chiaramente la figura dello stilista, secondo lei è più forte il ruolo
del product manager o dello stilista?
Secondo me la forza dell’uomo prodotto non può sostituire la forza della stilista. La possibilità
di consolidarsi sul mercato attraverso strategie di marketing senza essere trainato necessariamente
dall’immagine dello stilista è da ricondurre alla forza del brand. Esistono casi di aziende molto
famose di cui nessuno conosce lo stilista perché non si vede, non è presente sui media o nelle varie
occasioni mondane, come nel caso della Maison Martin Margiela. Sono due modi di fare azienda
completamente diversi ma, se ben gestiti, possono portare tutti e due a degli ottimi risultati di
impresa.
Deanna Veroni – Modateca Deanna
La sua azienda ha un profilo un po’ particolare: ce lo può descrivere?
Il nostro è un punto di riferimento per uffici stile, università e scuole. Grazie ad un’idea di mia
figlia, che ha raccolto tutte le testimonianze del mio lavoro, abbiamo infatti creato una Modateca
alla quale hanno accesso tutti coloro che intendono visionare le proposte stilistiche di maglieria
realizzate dagli stilisti con cui ho lavorato lungo un arco di tempo di diversi decenni, più quelle
che sono frutto degli aggiornamenti successivi (aggiornamenti sempre in corso, ovviamente). Si
tratta di un patrimonio importante al quale chiedono di avere accesso gli studenti di scuole di
tutt’Europa, qualcuna anche italiana. La Modateca è quindi una grande libreria di capi fisici, che
servono ai ragazzi per far capire che si parte da un filo, non da un tessuto, e che è necessario toccare
la materia con mano per comprendere come si può arrivare a ideare e quindi costruire un capo di
maglieria. Oltre alla consultazione dell’archivio, però, viene proposto anche uno stage di 8-10 giorni
per mostrare le basi di preparazione di una maglia, dai vincoli tecnico costruttivi a quelli legati alla
tempistica produttiva.
Quali sono stati i cambiamenti nel processo di creazione stilistica del settore Moda? È cambiato il
ruolo dello stilista?
Certamente. È cambiato molto e questo cambiamento è sotto gli occhi di tutti. Lo stilista negli
anni ‘70/’80 non aveva grandissimi problemi perché, nel bene e nel male, si vendeva quasi di tutto,
grazie anche al fatto che le importazioni di abbigliamento dai Paesi extraeuropei erano di gran
lunga inferiori a quelle odierne, ed il mercato interno riusciva ad assorbire una parte molto
consistente della produzione. Oggi le cose sono diverse, sia sul versante delle importazioni, e non
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solo quelle cinesi, sia sul versante della distribuzione, che seleziona molto di più avendo la
possibilità di scegliere da un’offerta particolarmente ampia. Questo significa che lo stilista, quando
comincia a progettare una collezione, deve immediatamente porsi delle domande legate al tipo
di consumatore a cui il capo deve essere venduto, al costo di fabbricazione che può influenzare e non di poco - il prezzo di vendita, al tipo di distribuzione che lo sceglierà per proporlo al
consumatore finale, ecc . In poche parole, è il protagonista di un gioco molto più complesso.
Ma oggi in azienda la collaborazione tra l’area stilistica e l’area commerciale è davvero più stretta
rispetto al passato?
Ritengo di sì, anche perché molti stilisti sono diventati degli industriali e quindi hanno dovuto
inevitabilmente iniziare ad avere rapporti molto più stretti con i commerciali. Anche se questo non
ha mutato il rapporto “conflittuale” tra commerciale e creativo, due figure che si scontreranno
sempre, perchè è sempre stato così e lo sarà sempre. Lo stilista, infatti, nel suo lavoro è portato a
guardare al futuro, cogliendo segnali non ancora evidenti ai più e dando loro un’interpretazione
creativa che assume una certa dose di rischio. Il commerciale, invece, è più legato al momento
contingente, a previsioni di successo basate su un corpo di informazioni più certe e “rassicuranti”.
Lei cosa ne pensa dell’affermazione sempre più condivisa secondo cui lo stilista, a differenza del
passato, si è trasformato quasi in un “uomo prodotto”?
Io vedo che chi osa molto in questo momento sono i giovanissimi, quelli che ancora devono
affermarsi e che hanno, da un lato la necessità di farsi notare, e dall’altro la leggerezza di non sentirsi
schiavo di un risultato commerciale. Tutti gli altri, anche le grandi griffe, non possono non tenere
conto del responso del mercato, e questo costringe anche la funzione creativa, come ho detto in
precedenza, a scendere a patti con le informazioni ed i numeri che giungono da chi si occupa delle
vendite.
Quali sono gli strumenti e gli osservatori più importanti per alimentare la creatività dello stilista?
Io credo che oggi sia la ricerca sul campo ad avere una funzione preminente nel processo di
raccolta dei segnali e delle informazioni necessarie al processo creativo. È necessario cioè viaggiare,
visitare le capitali del mondo, da New York a Shanghai, da Londra a Parigi, da Tokio a Bombay. E in
questi viaggi è necessario osservare attentamente e cogliere tutti gli stimoli che vengono da
situazioni e contesti differenti: una donna che cammina per strada, un capo in un mercatino, una
vetrina, una mostra d’arte, ecc… In questo senso il modo di operare del creativo non è cambiato
rispetto al passato: qualsiasi cosa, se colpisce la sensibilità del creativo, è utile.
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I book di tendenza oggi sono ancora usati?
Sono pochissimi i book capaci di aggiungere qualcosa di originale rispetto a ciò che è possibile
trovare grazie alle molteplici fonti di informazioni oggi disponibili. Questi strumenti informativi
sono infatti stati sostituiti dalla “rete”. Esistono siti specializzati, creati da gruppi di lavoro localizzati
in varie parti del mondo, in cui è possibile trovare di tutto, dalle sfilate alle cartelle colori, dalla
modellistica ai tessuti e filati: la vera fonte di ispirazione oggi è internet.
Alcuni accusano però queste fonti informative di essere troppo dispersive.
Certamente le informazioni sono tantissime, e sta allo stilista saperle filtrare, valutare, e utilizzare
in funzione del tipo di consumatore e di mercato a cui la collezione è indirizzata. Un po’ quello che
succede a chi consulta la mia “modateca” che contiene circa 40.000/50.000 articoli: ogni stilista
viene, guarda, seleziona e sceglie i capi, un tessuto, un filato o un punto particolare. Sulla base
delle scelte effettuate costruirà poi la sua proposta creativa, perché non esiste uno strumento o una
fonte informativa che possa sostituire il lavoro del creativo e soprattutto la “mano”.
Ma utilizzare questi strumenti cercando di trovare risposte preconfezionate, non è un sintomo di
una minor capacità creativa da parte degli stilisti?
Questo può accadere quando gli stilisti sono giovani e non hanno ancora maturato una propria
autonomia creativa. Poi le cose normalmente cambiano. Comunque, all’interno di ogni ufficio stile
c’è una figura professionale che è in grado di coordinare e selezionare i più capaci e meritevoli. Chi
invece si propone come professionista, e non è in grado di avere una propria identità, ben presto
si troverà fuori mercato. È anche vero, però, che gli stilisti autentici sono “artisti” e non è così
scontato incontrarne sulla propria strada. Se consideriamo quante scuole di stilismo ci sono al
mondo, e poi contiamo quanti sono i nuovi stilisti emergenti, si capisce subito che è una
professione in cui emerge solo chi ha delle doti innate, e sono pochissimi.
Ma queste scuole sono per la maggior parte sono private?
Sì, e offrono corsi di specializzazione. Alcune molto conosciute si trovano a Londra e a Parigi,
ma ve ne sono delle ottime anche in Germania, in Olanda e in Belgio, solo per rimanere in ambito
europeo.
E l’offerta italiana?
Come spesso accade dove c’è molta offerta, in Italia, che, insieme alla Francia, è da sempre
patria della moda internazionale, c’è una certa carenza di giovani stilisti. Io faccio parte delle giurie
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di moltissimi concorsi per giovani creativi della moda sia in Italia sia all’estero, e devo dire che sono
i giovani stilisti stranieri ad aggiudicarsi sempre più frequentemente premi e piazzamenti d’onore.
Ma non è solo una questione di vittorie o piazzamenti. Per quanto riguarda i giovani creativi italiani
c’è addirittura un problema nel selezionarli, attraverso i loro book di presentazione, rispetto ai loro
colleghi stranieri. Poi certamente ai concorsi non partecipano tutti, e quindi può essere benissimo
che in giro ci siano ragazzi particolarmente dotati che però rimangono in ombra, ma resta il fatto
che da questo mio osservatorio ne ho incontrati molto pochi. Non so quale sia la ragione, ma ho
l’impressione che i nostri siano meno motivati, con meno passione, o forse convinti che si possa
arrivare semplicemente con un colpo di fortuna e non attraverso un duro lavoro e tanta
abnegazione.
Ma quale è il motivo per cui i giovani stilisti provengono quasi tutti del Nord Europa?
È molto semplice. Prendiamo ad esempio il Belgio. In questo paese, che non ha una particolare
tradizione nella moda, hanno creato una scuola di stilismo in cui si attua una selezione durissima
per cui alla fine del corso ne arrivano 10. Viceversa, in Italia sono molti di più per corso ed arrivano
tutti alla fine. C’è quindi un problema di qualità, ma anche un problema di esubero numerico e di
illusione collettiva rispetto al mondo della moda. Prima di tutto, infatti, non c’è la necessità di un
numero così elevato di creativi, e, in secondo luogo, per quanto sia legittimo che i giovani stilisti
abbiano delle aspettative, non ha senso che si sentano sminuiti una volta che inseriti in azienda
viene loro proposto di svolgere un’attività altrettanto importante, ma di natura più tecnica, come
ad esempio quella legata alla modellistica o alla prototipia. Nelle aziende, infatti, è di gran lunga
maggiore il bisogno di figure tecniche quali le modelliste o le sarte prototipiste, per le quali è
fondamentale una preparazione scolastica, ma soprattutto la formazione aziendale.
Parlando di nuovi modelli organizzati e produttivi, il fast fashion sembra essere, per le piccole e
medie imprese italiane, quello maggiormente premiato dal mercato. Questo continuo progettare
e produrre nuovi capi di abbigliamento, è un fatto che produce una maggiore creatività oppure è
un semplice adattamento di prodotti basici?
Io penso che in linea di massima siano tutte nuove proposte, e non rivisitazioni di prodotti già
in essere a cui vengono semplicemente cambiati alcuni particolari. D’altra parte, se consideriamo
in quanto poco tempo, oggi, il mercato “brucia” ogni nuova proposta di prodotto, non possiamo
stupirci del fatto che nella moda non esistano più le uscite classiche di una volta. L’atto dell’acquisto
ormai non è più scandito dalle uscite stagionali: una donna non esce per fare acquisti per il
guardaroba estivo od invernale, ma molto più semplicemente compra in funzione ad uno stimolo
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d’acquisto che le proviene dal vedere in un negozio un determinato capo. È chiaro che questo tipo
di acquisto è perlopiù rivolto a capi che hanno un giusto mix tra qualità e prezzo, non certamente
a capi particolarmente impegnativi sia sul versante del prezzo che su quello del design. Questo è
forse anche il motivo per cui sempre più spesso vediamo abbinare prodotti completamente diversi,
dal tailleur firmato alla maglina di cotone quasi anonima. Ed ecco perché il rinnovare la vetrina con
proposte “fresche” - soprattutto per le aziende che hanno propri punti di vendita monomarca - è
diventato un imperativo. Così facendo, infatti, il cliente entra più volte ed acquista tutto l’anno. In
America questo sistema di proposta commerciale della moda è in auge ormai da molti anni. Questo
però implica la necessità di una maggiore capacità creativa delle aziende e degli uffici stile, che, a
differenza del passato, sono costretti ad un impegno continuativo. Per certi aspetti questo
costituisce anche un grande problema, perchè i tempi dedicati alla ricerca e alla sperimentazione
si sono ridotti moltissimo, e i verifica quindi una sorta di appiattimento dello stile verso prodotti
più basici.
Una volta dall’ufficio stile usciva un campionario composto da 300 articoli diversi, poi nella
riunione con il commerciale se ne scartavano la metà e nel consuntivo di vendita a fine stagione ci
si accorgeva che il fatturato era realizzato su 30 articoli. Il tutto con un grand dispendio di forze.
Oggi è ancora così?
Non è più così, perché la selezione della collezione dipende fortemente dal canale di
distribuzione. Le aziende che sono presenti sul mercato esclusivamente con i propri punti di
vendita, normalmente hanno un’offerta di prodotto molto ampia che si rinnova anche in stagione.
Chi invece opera con i negozi multimarca normalmente si presenta sul mercato con 4 collezioni,
2 per ogni stagione. Escono cioè con una pre-collezione, seguita - più o meno a breve distanza dalla collezione principale, il tutto per un totale di circa 200 -230 articoli. Quando la collezione è
studiata bene, e quindi è il frutto del lavoro di un ufficio stile capace ed efficiente, ma anche e
soprattutto dalla presenza di un valido “uomo/donna prodotto”, le vendite sono spalmate su tutta
la collezione in modo più o meno uguale. Poi è vero che ci sono i best seller, ma se la collezione è
giusta non ci sono differenze così abissali. Oggi la presenza dell’”uomo/donna prodotto” è
fondamentale in un’azienda, perché riesce molto spesso a far dialogare l’area stile con il
commerciale portando entrambi ad un confronto basato sulle informazioni di mercato e sulla
sensibilità di prodotto.
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Quanto incide la conoscenza e lo scambio di informazioni tra chi fornisce la materia prima, come
il tessuto o il filato, e l’ufficio stile di un’azienda o comunque uno stilista? È un rapporto ancora
solido, oppure il suo peso è diminuito nel tempo?
No, al contrario: è sicuramente aumentato. Per prima cosa, perché rappresenta per entrambi un
minimo di sicurezza sui rapporti commerciali e di fornitura, ma anche perché avviene sempre più
frequentemente uno scambio di opinioni e di conoscenza dei bisogni reciproci che portano ad
innovare il prodotto sia sul versante della materia prima sia sul versante del capo finito. Non
dobbiamo infatti scordarci che alcuni tra gli elementi più importanti nella progettazione di una nuova
collezione, sono strettamente collegati al rapporto tra questi due attori della filiera, pensiamo ad
esempio al tema dei colori, alla resa dei tessuti o dei filati, a certi tipi di lavorazioni, ecc…
Le piccole-medie aziende usano ancora moltissimo gli stilisti esterni, magari affiancandoli a questa
figura interna - sempre più importante – dell’uomo prodotto. Su cosa si basa l’interazione tra lo
stilista esterno e l’ufficio stile interno? È una vera e propria consulenza stilistica oppure una ricerca
di conferma rispetto alle ipotesi di prodotto formulate dall’azienda?
Secondo me oggi si configura sempre più come il confronto necessario a verificare le proprie
ipotesi, e ad adattare a queste eventuali suggerimenti migliorativi che provengono da altre fonti
creative. Come abbiamo detto prima, i tempi di ricerca, studio e progettazione, oggi sono molto
cambiati. Tutto corre molto velocemente e quindi può essere necessario per un’azienda,
soprattutto se di dimensioni non particolarmente grandi, avere uno stilista esterno con cui
confrontarsi per avere conferme o smentite sul lavoro prodotto al proprio interno. Certamente
esistono ancora consulenze stilistiche che prevedono la fornitura degli schizzi dell’intera collezione,
ma le vedo destinate maggiormente alle piccole e piccolissime imprese poco strutturate.
Se Lei oggi dovesse indicare qual è la funzione aziendale più carente quale indicherebbe?
Le più carenti sono quelle figure aziendali che stano tra lo stile e la produzione, come ad
esempio le brave modelliste, che da sole rappresentano il 50% della vestibilità di un capo, oppure
le sarte prototipiste. Sono figure indispensabili, e oggi ve ne sono sempre meno. Tra i giovani però
nessuno vuole più fare questi mestieri forse perchè non capiscono che sono proprio queste figure
che realizzano i sogni….
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Marina D’Altri - Studio DeRosa
Ci fornisce un quadro della vostra realtà?
Lo studio De Rosa è stato fondato nel 1999 da una stilista, Maria Clara De Rosa, che colse in
quel periodo l’esigenza degli stilisti di essere rappresentati. Lei stessa stilista, in quegli anni in cui
sembrava che solo i creativi molto giovani potessero avere successo, con i suoi 40 anni si sentiva
fuori dal mercato, e quindi, sentito il parere di molti suoi colleghi stilisti, ha dato vita a questa
iniziativa. Lo studio De Rosa, infatti, è stato il primo studio in Italia ad avere come obiettivo quello
di selezionare e rappresentare esclusivamente stilisti, e ha riscontrato immediatamente un forte
successo, sia per le competenze tecniche e di relazione della fondatrice, che aveva 20 anni di
esperienza come stilista di importanti aziende, sia perché il mercato in quel momento era
particolarmente dinamico e le aziende investivano abbastanza facilmente nel lancio di nuove linee,
nell’allargamento dei brand in portafoglio, nello stile, nella ricerca creativa, ecc… Io sono entrata
6 anni fa provenendo da una lunga esperienza di agente di commercio nel settore della moda ed
ho affiancato per un paio di anni la Sig.ra De Rosa che era intenzionata a chiudere questa
esperienza imprenditoriale e cedere l’azienda. È stata una grande sfida perché ho fatto mia
un’attività che portava addirittura il nome di chi l’aveva inventata, e perché Maria Clara De Rosa ha
sempre lavorato in prima linea, quindi aveva rapporti diretti con tutte le aziende clienti e con tutti
gli stilisti dello Studio. È una sfida che posso dire di aver vinto, dopo 5 anni di gestione diretta,
perché il fatturato è costantemente cresciuto, in particolare quello estero, sul quale mi sono subito
concentrata. Lo Studio ha una struttura operativa piccola e molto flessibile, ed è quindi in grado
di reggere bene anche alle fluttuazioni di mercati molto instabili come ad esempio quello cinese,
dove si fa molta fatica a fidelizzare l’azienda cliente. Il mercato italiano, che da tempo si muoveva
a rilento, mi pare che si stia muovendo un pochino di più, con alcuni positivi segnali di rinnovata
volontà di investimento sullo stile da parte di aziende anche molto interessanti. Questo per tutte
le specializzazioni di prodotto e non solo sul bambino, che è il comparto che più ci ha premiato
negli ultimi anni. Oggi il settore bambino rappresenta il 50% del nostro giro di affari e sicuramente
il nostro studio è il più conosciuto a livello mondiale per la specializzazione in questo comparto.
Tra l’altro il bambino è sempre stato un pochino snobbato dagli addetti al settore, mentre invece
in questi anni è risultato sicuramente uno dei mercati più dinamici e redditizi. Posso dire, senza
alcuna presunzione, che oggi il mio studio rappresenta per molte aziende l’ufficio esternalizzato
di ricerca e selezione nell’ambito dello stile.
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Come avviene il vostro lavoro?
Per prima cosa selezioniamo i curriculum, che riceviamo in grande quantità ogni giorno, e quelli
che riteniamo particolarmente interessanti, principalmente in funzione delle esperienze maturate,
li convochiamo per un colloquio. Purtroppo non siamo in grado di selezionare giovani stilisti senza
adeguate esperienze professionali, e questo mi addolora moltissimo, ma le aziende non sono
interessate a questo tipo di figura professionale e quindi non riusciamo a “piazzarli”. Noi, quindi, non
siamo dei talent scout, ma piuttosto dei cacciatori di teste, e un’esperienza minima di 5 anni nella
posizione è fondamentale per promuovere lo stilista presso le aziende. Sulla base di un profilo
molto preciso che facciamo con l’azienda, siamo poi nelle condizioni di presentare una rosa di
almeno 3 candidati, sempre molto mirati. Normalmente all’interno di quella rosa di candidati
avviene la selezione da parte dell’azienda.
Tornando alla nostra selezione degli stilisti, nel momento dell’incontro cerco di valutare non
solo le competenze tecniche e la “mano” nel disegnare, ma anche la sua consistenza professionale
e umana. Quello che cerco di capire durante questo incontro è se la persona che ho di fronte è un
creativo puro e semplice, oserei dire fine a se stesso, soggetto che oggi non interessa minimamente
alle mie imprese clienti, oppure un creativo che sa cogliere e sintetizzare le tendenze in atto in
quel momento, che sappia quindi leggere ed interpretare quello che si muove nel mondo, dal
costume alla letteratura, dall’arte alla politica, insomma tutto quello che ha a che vedere con la
produzione culturale. Questo sulla base di un profilo molto preciso che ci viene fornito dalla
azienda.
Quali sono stati i cambiamenti occorsi, se sono occorsi, nel processo di creazione stilistica all’interno
dell'impresa moda?
Di cambiamenti ce ne sono stati veramente molti, e non credo di sbagliare se affermo che
vanno imputati a due fattori principali.
Il primo è di natura economica ed è strettamente legato alla crisi nazionale ed internazionale.
Crisi che indubbiamente è stata, ed è, un deterrente molto forte all’acquisto di prodotti che il
consumatore finale non ritiene, forse giustamente, di prima necessità, come nel caso
dell’abbigliamento. Una riduzione dei volumi di acquisto che ha portato a una conseguente
riduzione degli investimenti - anche in ricerca e stile - da parte delle imprese.
Il secondo fattore invece lo riconduco alla presenza sul mercato, originatasi una decina di anni
fa, di grandi gruppi industriali e distributivi come Zara, H&M, Mango, ecc…
Il loro modo di operare, una presenza costate ed innovativa in termini sia di modalità
distributiva sia di assortimento di prodotto, i prezzi assolutamente interessanti, oltre al fatto di
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essere riusciti - in un lasso di tempo molto breve - anche ad interessare un fascia di acquirenti
certamente non abituati ad acquistare ed indossare capi di segmento medio - medio basso, quali
sono i capi di Zara o H&M, ha creato, se possiamo usare questo termine, una vera rivoluzione nel
mercato.
Il loro modello creativo, basato sulla possibilità di avere costantemente all’opera diverse
centinaia di stilisti, tutti molto giovani e perennemente in giro per il mondo, e a cui certamente non
mancano tutti gli strumenti informativi oggi disponibili sul mercato, ha di fatto modificato sia le
richieste delle aziende nei confronti degli stilisti, sia il modo di operare degli stilisti stessi. Infatti,
viene richiesto sempre più spesso allo stilista di differenziarsi rispetto alle proposte creative di
questi brand, ma, nello stesso tempo, di essere comunque abbastanza simile in termini di
“freschezza” del prodotto e di pricing. Ovviamente tutto questo ha fatto sì che in realtà
imprenditoriali mediamente piccole, poco organizzate e con scarse capacità di sostenere
investimenti di medio lungo periodo, si sia creata, e si continui a creare, molta confusione e
insoddisfazione da parte di tutti. Da questa situazione molto confusa credo si siano salvate solo le
aziende che hanno saputo mantenere inalterata la propria personalità senza inseguire facili illusioni
o repentini cambiamenti di traiettoria. E tutto questo, anche se è particolarmente evidente nelle
piccole/medie imprese, è comunque visibile anche in aziende di dimensioni più significative.
In questo contesto com'è cambiato, allora, il ruolo dello stilista?
Per prima cosa è importante dire che una volta lo stilista era una persona che nelle aziende
veniva molto ascoltata – indipendentemente dal fatto che fosse che fosse interna od esterna alla
azienda – e la sua visione del prodotto era un elemento rilevante che entrava nei processi
decisionali dell’azienda. In molte aziende, per la verità, questa figura è stata forse un pochino
troppo mitizzata. Oggi, al contrario, lo stilista è diventato uno degli attori meno ascoltati in azienda:
è costantemente schiacciato, guardato con sospetto, e le sue proposte vengono spesso mortificate
perchè c'è molta paura di rischiare. Difficilmente quindi gli viene concesso uno spazio adeguato.
Tutto viene rapportato, e sacrificato, alle esigenze del commerciale. Questo spesso impedisce alla
moda di svilupparsi liberamente e creativamente, di evolversi. Tutti copiano tutti, con risultati,
secondo me, discutibili. Ci sono sicuramente dei brand e degli stilisti che fanno delle cose molto
originali con un forte contenuto creativo, ma li troviamo ad Hong Hong, a Tokio, a Londra ed anche
Parigi che, nonostante tutto, è sempre un grandissimo stimolo. In Italia, però, nonostante i suoi
grandi brand commerciali che vendono molto, la creatività è molto penalizzata. I grandi creativi
italiani ormai lavorano all'esterno, non in Italia.
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Quindi, se ho capito bene, è in atto, da parte dell'azienda italiana, una limitazione alla creatività
in funzione dei dictat commerciali.
No, non proprio. Gli stilisti che lavorano con me, e che le aziende mi richiedono, non sono dei
creativi puri, delle persone totalmente dedicate allo stile. Sono piuttosto degli ottimi uomini o donne
prodotto. Da anni nessuno mi chiede un creativo, perché il creativo puro non interessa più all’azienda
italiana, che normalmente cerca qualcuno in grado di rinfrescare lo stile all’interno di un quadro
generale che difficilmente muta, un prodotto che sia facilmente industrializzabile, possibilmente con
bassi costi di produzione, e che, in sintesi, porti avanti l’immagine complessiva del marchio.
Noi continuiamo a chiamarli stilisti, ma non sono degli stilisti, sono donne e uomini prodotto,
che garantiscono un apporto creativo “giusto” senza però essere in grado di portare vere rivoluzioni
creative. Forse servirebbe un po’ più di coraggio, ma le aziende italiane non hanno voglia di
rivoluzioni: preferiscono rinunciare alle rivoluzioni creative e portare avanti un discorso creativo
moderno, che stia sul mercato, che abbia anche un prezzo bilanciato. Se questo sia giusto o meno
non saprei dirlo…
Quindi questi “creativi” sono più vicini al mercato finale....
Assolutamente sì, e lo sono molto di più dei creativi “puri”. Il loro plus distintivo, infatti, è quello
di essere totalmente a conoscenza di tutto quello che c'è sul mercato e nel contempo avere la
capacità di sentire e capire quello che succederà, e quindi interpretarlo in relazione al tipo di
prodotto e segmento di mercato sul quale operano.
Quali sono i più importanti osservatori creativi utilizzati dagli stilisti liberi professionisti?
Ora c'è di tutto. Ci sono i vari siti internet, tra i quali il più significativo è certamente WGSN; ci
sono le fiere, in primis quelle dei tessuti che sono fondamentali, perché è da li che si parte, dalla
materia prima; poi i viaggi all’estero nella varie capitali della moda. Tutte queste cose,però, sono
fattibili solo da parte di quegli stilisti che hanno mantenuto un certo numero di clienti, e anche di
un certo livello, che gli consentono di fare ricerca. Molti stilisti, vedendo contrarsi il numero dei
clienti, hanno smesso di fare un certo tipo di ricerca quella soprattutto legata ai viaggi. Certamente
non è una soluzione che hanno preso a cuor leggero, ma d’altra parte quando hanno visto ridursi
il proprio fatturato non hanno potuto fare diversamente.
Ci sono però stilisti, pochi in verità, che ancora oggi, nonostante la crisi, sono pieni di lavoro, mentre
gli altri hanno registrato cali di fatturato significativi, anche del 50%. Anche perché le aziende, in questa
situazione di mercato, hanno giustamente investito molto negli uffici stile interni, per cui il consulente
esterno è meno utilizzato e coinvolto. Molte hanno optato per soluzioni di prodotto commercializzato
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acquistando direttamente nei paesi del Far East o in Cina tagliando drasticamente le consulenze
stilistiche esterne e cercando di valorizzarle ed utilizzare al massimo le risorse umane interne al fine di
ridurre i costi. Alcune ci sono riuscite, altre non sono state in grado di farlo perché all’interno dell’ufficio
stile interno avevano solo la ragazzina stagista che metteva solamente le referenze dei tessuti e dei
bottoni di fianco al figurino dello stilista e chiamava il fornitore per ordinare le pezze.
Parliamo un attimo del tema commercializzato, secondo Lei, può essere una alternativa all’utilizzo
di un consulente stilistico esterno?
A mio avviso no. Anche il commercializzato deve essere inserito all’interno di un concetto, un
tema stilistico ben definito. Non si può andare alla cieca cercando semplicemente cose che
piacciono, magari totalmente sganciate dalla storia dell’azienda e del marchio. Quindi, è sempre
necessario che l’impronta stilistica del marchio sia garantita.
Però il tema commercializzato potrebbe essere più facilmente gestito da un ufficio stile interno, o
no?
Sì e no. A volte agli stilisti esterni viene chiesto solamente di creare dei temi di tendenza per la
collezione e non la puntuale declinazione degli stessi nei vari capi che l’andranno a comporre.
Dentro questi temi vengono costruiti gli acquisti del prodotto commercializzato che viene poi
integrato dall’apporto dell’ufficio stile interno. Questi trend setter sono persone molto in gamba,
in grado di indicare con molta precisione la tendenza colore, il giusto tessuto, la silhouette, ecc…
Sulla base di queste informazioni un buon ufficio stile interno può costruire la collezione,
decidendo cosa acquistare di commercializzato ed integrando il tutto con capi disegnati all’interno
e fatti produrre da laboratori esterni. Difficilmente avviene il contrario, soprattutto all’interno delle
medie e piccole imprese italiane.
Ed il famoso book di tendenza, oggi come viene visto dallo stilista? È sempre uno strumento
informativo importante?
Ha certamente avuto un notevole calo, se vogliamo anche fisiologico, anche perché una volta
gli stilisti acquistavano moltissimi libri e riviste di tendenza, di grafica, e simili. Adesso molti non
comprano niente, un po’ perché fa parte del budget dedicato alla ricerca, ed abbiamo già visto
qual è la dinamica di questo tipo di spesa, un po’ perché preferiscono fare ricerche in rete, anche
se il vero problema è che molti non la sanno usare. La rete, ed in particolate i siti dedicati ai temi
delle tendenza moda, sono strumenti anche insidiosi. Stare tutto il giorno seduti davanti ad un
computer a vedere tutte le vetrine che ci sono nel mondo, ma non avere poi la capacità di
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sintetizzare e selezionare gli elementi forti che emergono da questa visone, crea solo confusione
ed insicurezza, e nessun arricchimento.
Certamente esistono differenze operative tra lo stilista che lavora sulle materie prime, come i tessuti
e i filati, e quello che lavora sul prodotto finito. Chi dei due ha risentito maggiormente della crisi, a Suo
parere?
Credo che tutti e due ne abbiamo risentito in maniera abbastanza simile. Dello stilista che opera
sul prodotto finito abbiamo già detto. Sul tema invece di chi opera nei comparti a monte, abbiamo
visto cosa è successo nei vari distretti di Biella, Como e Prato, dove moltissime strutture produttive
hanno chiuso. Basta andare a Pitti Filati o a Milano Unica per capire quanti siano stati colpiti dalla crisi.
Prendiamo ad esempio i maglifici: oggi in Italia di aziende specializzate nella maglieria ce ne
sono pochissime, o lavorano come conto terzi, oppure sono quasi spariti del tutto. Noi in passato
lavoravamo moltissimo con i maglifici, oggi non riceviamo quasi nessuna richiesta da questo tipo
di aziende. L’assurdo è che c’è un grande ritorno della maglieria all’interno delle collezioni.
Quindi c’è una tendenza sempre più marcata verso il total-look, oppure c'è ancora una forte
divisione?
Io credo che lavorare col filo e col tessuto sia molto diverso; i magliai restano nel loro DNA
magliai, così come gli stilisti di maglieria rimangono fondamentalmente legati a questo tipo di
prodotto. Ovviamente si sono dovuti abituare sempre di più a lavorare la maglia jersey visto il
successo che ha avuto, e che ha ancora. Ma gli stilisti veramente bravi sulla maglieria fanno quello
e basta, perché è un modo completamente diverso di pensare al prodotto. Mentre quelli che fanno
total look sanno fare anche la maglia, ma non hanno quella competenza tecnica specifica dello
stilista di maglieria.
Parliamo ora del product manager...
È una figura fondamentale per la buona riuscita della collezione. Potremmo dire che lo stilista
è l'architetto del prodotto, mentre il product manager è l'ingegnere o il geometra, dipende dalla
grandezza del cantiere. Parlano, dialogano, si devono intendere, però l’uno non deve fare il lavoro
dell’altro e nemmeno entrare nelle competenze specifiche del ruolo. Lo stilista indica delle linee,
dei colori e delle tendenze all’interno di limiti di budget che generalmente sono forniti dal product
manager. Poi, essendo normalmente il product manager una figura professionale a metà tra lo
stile ed il commerciale, in fase di presentazione delle prime idee da parte dello stilista, comincia a
ragionare con lui sui temi dell’industrializzazione dei capi proposti, e quindi dei possibili costi di
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produzione, ma anche di capi che dovrebbero avere un peso diverso nell’ambito della proposta di
collezione. In qualche modo, il product manager, anticipa alcune riflessioni che potrebbero poi
essere portate avanti dall’area commerciale. Lo stilista che collabora da più stagioni con l’azienda
normalmente è in grado di anticipare molte di queste indicazioni, e quindi di fornire sin dall’inizio
della progettazione delle proposte molto motivate dalla cartella colori alla scelta dei tessuti o dei
filati, degli accessori alle lunghezze… Poi intervengono all’interno dell’azienda anche altre figure
come il commerciale ed il marketing, fino ad arrivare, vista la tipicità delle aziende italiane, alla
proprietà con tutte le sue ramificazioni. Il familismo nell’azienda italiana può costituire un limite
enorme ancora oggi.
Se dovesse indicare alcune tipologie di aziende che si sono avvicinate o allontanate dai servizi che
voi offrite, quali indicherebbe?
Le aziende che si sono allontanate dai nostri servizi sono quelle più grandi e strutturate che
hanno sviluppato gli uffici stile interni, per cui non sono più interessate alla nostra offerta né,
credo, potranno tornare ad esserlo. Stessa cosa per le aziende che operano su logiche fast fashion,
come quelle del Centergross. Queste aziende però, a differenza di quelle di maggiori dimensioni,
non hanno sviluppato dei veri e propri uffici stile interni, ma più semplicemente, si fa per dire,
“costringono” tutti quelli che vi operano ad essere costantemente coinvolti in un laboratorio
creativo continuo, una sorta di brainstormig quotidiano dovuto al fatto che le idee devono essere
continuamente in movimento, considerata la necessità di uscite continue di “nuove” collezioni.
Come giudica il fatto che, all’interno dell’impresa moda, le aree marketing e commerciale abbiano
acquisito sempre maggiore peso?
Mi piacerebbe che i vasi comunicanti fossero davvero comunicanti, quindi che ci fosse un
equilibrio, anche se capisco che l’equilibrio perfetto non esiste.
Negli anni ‘80 la moda non esisteva in quanto tale, esistevano le proposte stilistiche dei grandi
stilisti che era completamente diverse l’una dall’altra. Non poteva essere accettato che Coveri, che
era lo stilista del colore, potesse fare, ad esempio, capi simili a quelle di Ferrè. Ogni stilista aveva una
sua peculiarità, un suo tratto distintivo, e i suoi clienti lo compravano per quella sua caratteristica,
senza per questo rinunciare ad acquistare anche capi di altri stilisti ugualmente riconoscibili, per
la specificità che li contraddistingueva. Adesso invece, con l’avvento di questi grandi marchi
commerciali, c’è un fortissimo appiattimento delle proposte stilistiche, e tutto è molto simile, è un
rincorrersi l’un l’altro in funzione di un capo, un particolare, un colore, che in quel preciso momento
sta girando bene sul mercato.
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Come è oggi l’offerta formativa stilistica italiana? Secondo Lei è adeguata?
No, non è adeguata perché anche su questo tema in Italia, a differenza di altri Paesi, non si è
fatto sistema. Faccio un esempio: in Inghilterra, sei vuoi studiare nel campo della moda, vai a
Londra al Central Saint Martins College o al Royal College of Art. Poi esisteranno anche alcune altre
scuole, ma non sono più di tre o quattro in tutto il paese. Da noi, invece, ce ne sono tantissime che,
spesse volte, utilizzando i finanziamenti pubblici della formazione professionale, danno vita a
miriadi di corsi di stilismo inutili, che ottengono il solo scopo di creare false speranze. L’assurdo è
che pochi di questi ragazzi hanno veramente qualche cosa da dire in termini creativi, hanno
semplicemente una visione stereotipata del ruolo dello stilista e cercano di seguire quel sogno.
Se tu dici loro che nel settore c’è più bisogno di una brava modellista o di una magliaia
campionarista piuttosto che di uno stilista, ti guardano come se tu gli stessi proponendo un lavoro
da terzo mondo. Purtroppo queste figure professionali non hanno appeal nei confronti dei giovani,
mentre sono molto richieste e tra l’altro permettono veramente alle aziende di andare avanti e
continuare a coltivare un know how di prodotto. In Italia, anche le scuole di alta formazione sul
tema dello stile, ce ne sono alcune particolarmente conosciute tra Milano, Firenze e Roma così
come alcuni corsi di Laurea, hanno dei piani studi che spesso mi fanno riflettere. Non dico che non
sia importante studiare la storia del costume del 1300 o del 1500, ma la questione è diversa. Che
tipo di figure professionali ha oggi bisogno l’azienda di moda italiana? Questa è la domanda alla
quale la scuola dovrebbe cercare di dare una risposta in termini formativi. Ho paura, invece, che ci
sia troppa teoria e poca pratica-tecnica.
Che cos'è oggi il Made in Italy secondo Lei?
Per me il Made in Italy è la capacità di industrializzare lo stile. L'equilibrio perfetto tra stile e
industrializzazione del prodotto.
Quelli che sanno fare il vero Made in Italy sono oggi dei 50enni, magari usciti dalle accademie
d’arte e non da scuole di stilismo, perché allora non esistevano, che oltre ad avere una grande
capacità creativa sanno dire perfettamente come correggere una giacca che “cade male”, che sanno
stare dietro alle spalle di una magliaia e dirle come programmare una macchina, che sanno
disegnare velocemente un dettaglio tecnico. Sanno disegnare, hanno una spiccata dote creativa
e sanno soprattutto mettere le mani sul capo.
Cosa ne pensa dei concorsi per giovani stilisti?
Uno può fare tutte le manifestazioni e selezioni che vuole, ma se non c'è investimento su
giovani stilisti da parte di tutto il Sistema Moda italiano, ed in parte anche dello Stato, magari con
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scuole pubbliche attrezzate, con un corpo docente appropriato e preparato, con borse di studio
finalizzate alla creazione di una collezione, non si va da nessuna parte. Le aziende italiane che
investono, o che potrebbero investire, sui giovani stilisti facendogli produrre una propria collezione
sono pochissime. In Francia, invece, questo avviene regolarmente. Quindi, per tornare alla
domanda, in Italia facciamo i concorsi e le manifestazioni per giovani stilisti, ma poi quello che ne
esce, magari anche vincitore, non trova nessuno che lo aiuti, che lo prenda minimamente in
considerazione. Il fattore discriminante oggi in Italia, per potere lavorare in ambito creativo con
un’azienda, è aver già lavorato per alcune stagioni con due o tre aziende simili a quella a cui ti stai
proponendo, e questo ci riporta ad una delle prime domande sulla richiesta di giovani stilisti da
parte delle aziende di cui abbiamo già detto. I concorsi quindi, nonostante ce ne siano parecchi,
non servono moltissimo perché sebbene alcune volte consentano di vedere cose interessanti, poi
per chi le ha proposte non vi è quasi mai una possibilità di darvi seguito e sfruttare la visibilità
ottenuta durante il concorso. Manca cioè una visione d’insieme di come organizzare la formazione
e di come valorizzare operativamente la crescita professionale delle nuove leve ...
Laura Sassatelli – Sebastien Charpentier - PECLERS
Ci racconta qualcosa dell’azienda Peclers e dei suoi famosissimi “cahiers de tendance”?
Diciamo che i quaderni di tendenza sono nati a Parigi (qualche iniziativa simile ma meno
strutturata si è realizzata anche in Italia) negli anni in cui nasceva il prêt-à-porter a livello industriale.
Sono nati all’interno dei cosiddetti Bureaux de Style gestiti prevalentemente da donne che
lavoravano già nell’aerea dello stile come giornaliste di moda o come architetti, e che
appartenevano all’alta borghesia parigina. Prima con consulenze esclusive alle singole aziende
che ne facevano richiesta, poi pian piano con questi quaderni di tendenza che divulgavano la loro
filosofia, il loro modo di “vedere” le tendenze della moda, i cahiers de tendance offrivano quindi
previsioni sui colori, sulle forme, sui volumi e sui dettagli con 18 mesi di anticipo rispetto all’uscita
del prodotto nei negozi. Tra i primi in assoluto c’è stato Promostyl, Fred Carlin, poi noi di Peclers, e
via via molti altri come Nelly Rody, Trend Union etc. In Italia i primi ad essere distribuiti furono
Promostyl e Carlin, poi, dall’inizio del 1985, siamo partiti noi di Peclers, e via via tutti gli altri.
Vorrei sapere se, e come, è eventualmente mutato il ruolo dello stilista, e più in generale se
all’interno dell’azienda ravvisate un cambiamento di ruolo dell’ufficio stile, a vantaggio di altre
funzioni aziendali.
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Noi siamo esterni alle aziende e quindi possiamo rispondere sono in base alle nostre sensazioni,
ma ciononostante abbiamo la percezione che oggi l’ufficio stile abbia perso quell’importanza che
aveva negli anni passati, mentre il marketing ed il commerciale in generale hanno visto accrescere
moltissimo il loro ruolo. Anche se questo sbilanciamento su una delle due funzioni è sbagliato
perché è sempre più evidente che un forte gioco di squadra aiuta l’azienda a qualificarsi sia nei
confronti del trade che del consumatore finale. Del marketing poi se ne parla sempre tantissimo,
ma forse non sempre in modo così competente. Comunque il ruolo dello stilista è cominciato a
mutare già dalla fine degli anni 80 e oggi lo stilista deve assolutamente abbinare alle sue
conoscenze tecniche di prodotto, intese come competenze relative all’industrializzazione del capo,
forti competenze anche di mercato.
Secondo voi che differenza c’è tra uno stilista e un uomo prodotto?
Sono due ruoli molto diversi anche se il primo sta assumendo alcune funzioni del secondo,
soprattutto se svolge il ruolo di consulente esterno all’azienda. In sintesi potremmo dire che lo
stilista svolge compiti molto più creativi, mentre il secondo pur avendo spiccate doti di sensibilità
stilistica deve avere molto presente tutta una serie di indicazioni sul versante sia delle vendite che
dei costi di produzione e delle materie prime. Deve cioè allineare il pensiero creativo dello stilista
ai “freddi” numeri imposti dal mercato. Oggi comunque le aziende non cercano più lo stilista puro,
bensì una persona in grado di saper leggere le tendenze del mercato e soprattutto di sapersi calare
nel ruolo del prodotto sotto tutti i punti di vista, da quello dei costi a quello del posizionamento
nel punto vendita, portando fantasia ed idee sempre molto “fresche”.
In definitiva, possiamo affermare che il peso che lo stilista aveva negli anni ’80 nelle piccole-medie
imprese oggi non è più così rilevante? Se è così, perché secondo lei si è verificato questo
cambiamento?
Sicuramente non è più come negli anni ’80, come testimonia anche il cambiamento della
terminologia usata all’interno dell’azienda. Oggi infatti non si parla più di stilista, ma di Direttore
Creativo, che vuol dire avere nella stessa figura professionale fortissime doti creative ed elevata
sensibilità al prodotto, ma anche competenze tecnico-commerciali tipiche dell’uomo prodotto.
È un bene o un male?
Ritengo che non sia un bene perché si appiattisce il tutto. Diciamo che quelli che una volta
venivano chiamati stilisti, oggi sono quasi del tutto spariti: i più dotati, oppure quelli che
conoscevano le lingue, sono andati all’estero, magari in Cina. Il fatto di aver sostituito lo stilista con
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questa nuova figura di Direttore Creativo, a nostro avviso ha generato un abbassamento della
proposta stilistica a favore di prodotti tutti abbastanza omologati. Invece, quello che bisognerebbe
fare, è distinguersi sempre di più, saper uscire dalla moltitudine di prodotti presenti sugli scaffali
di un punto di vendita, con proposte giuste sia dal punto di vista del look che del prezzo. Che è
quello che sanno fare in pochi.
Ma questo cambiamento è omogeneo su tutti i prodotti, dalla maglieria alla confezione, e anche
nei vari comparti uomo, donna, bambino?
Non esistono differenziazioni così marcate tra i comparti, anzi è possibile affermare, al contrario,
che questo cambiamento interessa l’intero settore.
Quali sono i più importanti osservatori creativi (es. i negozi, la strada, …) che influiscono e
stimolano la creatività di uno stilista?
Fondamentalmente sono rimasti gli stessi: i viaggi in diversi paesi (da quelli più sviluppati a
quelli in via di sviluppo), le fiere di settore, le mostre d’arte, e il design in generale. Oggi i viaggi sono
particolarmente quotati, ma anche Internet è spesso fonte di informazioni valide. Poi è necessario
sapersi guardare attorno, così come si diceva facesse Giorgio Armani quando si sedeva ai tavolini
di un bar a veder passare la gente. Ma forse questa è una delle tante leggende che si raccontano
sui grandi stilisti. Quello che spesso ci chiediamo, comunque, è come facciano queste persone a
vivere sempre così di corsa, sempre impegnate in mille incontri ed appuntamenti in giro per il
mondo, senza, almeno apparentemente, avere mai il tempo per fare “decantare” tutto quello che
hanno visto e assimilato. Siamo convinti che ogni tanto il saper stare in silenzio e lontani dalla
veloce macchina della moda, sarebbe, per un creativo, assolutamente opportuno e vantaggioso.
In generale il Quaderno di Tendenze Moda è venuto un po’ meno come strumento informativo?
In parte sì, ma forse è più appropriato affermare che per certi aspetti si è allargata la fascia di
utenza. Noi da 10 anni vendiamo ad aziende che non sono della moda, ma che attingono spunti
creativi dalla moda.
Però, questo minor utilizzo del Quaderno di Tendenza come strumento informativo da parte degli
stilisti di moda, è dovuto al ridimensionamento del ruolo dello stilista o ad una sostituzione con
altre fonti? O ancora più semplicemente vi è stato un calo di investimenti sul tema della ricerca?
Oggi, come abbiamo già detto, a chi si occupa di stile viene chiesto di “legare” sempre più la
creatività alle regole certe dei numeri, lasciando così meno spazio alla ricerca. C’è un predominio
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della quantità sulla qualità, che è tipico dei nostri tempi. Quindi anche il modo di operare dello
stilista ha dovuto mutare ed adattarsi a tutti questi cambiamenti velocissimi che ci sono stati in
questi ultimi 20 anni. Poi, fortunatamente, ci sono ancora quelli che continuano a puntare sulla
qualità e quindi fanno ricerca, anche se sono sempre meno.
Oggi sono più le grandi imprese oppure le piccole a fare ricerca?
Non si può fare una distinzione così netta: noi vediamo casi che appartengono ad entrambe le
categorie e per questo riteniamo si tratti di un fatto prevalentemente legato alla cultura specifica
dell’azienda. Se, all’interno dell’azienda, la proprietà o il management hanno una visione creativa –
potremmo dire per certi aspetti artistica - della moda allora, indipendentemente dalla dimensione e dai
fatturati l’azienda, si curerà molto la ricerca e si faranno investimenti consistenti in questo senso. Laddove
manchino queste condizioni, invece, anche l’impegno nell’ambito della ricerca sarà di minore entità. Poi
è chiaro che stiamo parlando di un settore in cui se non c’è creatività ed innovazione l’azienda si ferma.
Il ruolo del creativo e della stessa creatività sostituisce un fattore utile per poter uscire
dall’anonimato? E se è così, consente all’impresa di superare le proprie debolezze strutturali?
Certamente la creatività è un elemento imprescindibile per riuscire a connotare il prodotto - ed
anche il brand – perché è sempre sinonimo di qualità. Sul fatto che la creatività possa però
compensare debolezze strutturali, purtroppo non è del tutto vero. Sono moltissimi i casi in cui il
prodotto proposto era molto bello, innovativo e di qualità, ma poi l’azienda che lo proponeva è
finita in malo modo.
Il fatto di essere un’azienda con un significativo giro d’affari, determina una maggiore dipendenza
della area stile ai “diktat” dell’area commerciale?
Certo, nella piccola azienda lo stilista, ancora oggi, ha più mano libera rispetto a possibili vincoli
che giungono dall’area commerciale. Nella grande azienda, dove la funzione commerciale è molto
organizzata e forte, e quindi riesce a fornire molte informazioni strategiche già in fase di briefing
della collezione, lo stilista deve essere molto attento a recepire tutto questo, e a trasferirlo
all’interno delle sue proposte di prodotto.
Le manifestazioni fieristiche dedicate alle materie prime, hanno ancora una forte funzione
informativa per la creazione dell’idea di prodotto o hanno perso il loro ruolo?
Un po’ lo hanno perso, ma rimangono pur sempre un luogo dove è possibile confrontare in
poco tempo e in uno spazio “controllabile” quali saranno i temi forti ed importanti di una stagione.
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Poi, purtroppo, l’entrata in gioco della Cina e di altri paesi in via di sviluppo ha costretto gli
espositori a non esporre direttamente le vere idee innovative per evitarne l’immediata copiatura.
Gli stessi campioni di prodotto ora non sono dati così facilmente: alcune volte, addirittura, sono a
pagamento.
Come giudicate l’offerta formativa italiana relativa allo stilismo?
Non particolarmente valida, soprattutto se confrontata con altri paesi. Da noi oggi gli unici
soggetti che cercano di formare nuove figure di creativi per la moda sono istituti privati - anche
particolarmente costosi - e questo, ovviamente, ne limita l’accesso. Magari ci sono dei giovani con
una fortissima vocazione e passione per la moda che rischiano di non essere valorizzarti a dovere,
mentre dall’altra parte ci sono ragazzi che frequentando queste scuole private e si illudono che il
mondo della moda spalanchi loro le porte. Non è così! Tra le altre cose, a nostro avviso ci sono
carenze anche sul versante degli insegnanti e delle materie di studio. Pochi di quelli che escono da
queste scuole hanno delle solide basi tecniche. Sul tema di una scuola pubblica per la moda sarebbe
forse stato opportuno affrontare la sfida qualche anno fa, quando il settore era al top. Oggi, infatti,
l’attenzione del consumatore si è spostata su altre tipologie di acquisti, l’indice di natalità di nuove
imprese del settore moda è bassissimo, e quindi non c’è più la stessa richiesta di stilisti...
Tornando al tema della progettazione stilistica, in che modo e in che misura è diverso progettare
una collezione per un’azienda con un modello organizzativo orientato al programmato, piuttosto
che al fast fashion? E lo stilista ha una esperienza diversa nell’operare per l’uno o l’altro modello?
Ognuno di questi modelli ha delle differenze molto marcate, e specializzazioni che richiedono
una forte conoscenza delle regole che li governano. In teoria le competenze tecniche di ogni
stilista, lasciando a parte la creatività del singolo perché quelle costituiscono una dote naturale,
dovrebbero essere tali da consentire di poter lavorare su entrambi i fronti. Ma la sempre più
necessaria immedesimazione con il prodotto, il modus operandi dell’azienda, la sensibilità verso
un determinato tipo di consumatore e di mercato, fanno sì che oggi lo stilista sia iper-specializzato
e quindi difficilmente chi opera sul fast fashion riesce a lavorare contemporaneamente anche per
una collezione di programmato.
Se voi doveste indicare quale tipologia di azienda si è maggiormente avvicinata o allontanata dai
vostri servizi, quale citereste? E perché è avvenuto?
Da noi si sono allontanati moltissimo i tessutai, ma per ovvi motivi di andamento del loro
business. Poi, più in generale, si sono allontanati tutti quelli che hanno smesso di fare ricerca e che
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si affidano molto alla riproposizione di capi best seller, o coloro che operano nel commercializzato
acquistando capi finiti da vari produttori di provenienza soprattutto estera. In generale possiamo
dire che hanno rinunciato all’offerta dei quaderni di stile tutti coloro che hanno, di fatto, rinunciato
ad una loro proposta di stile, e che quindi non sono interessati a uno stimolo di riflessione. Oggi
abbiamo - a differenza di 20 anni fa - una clientela molto più sofisticata ed attenta al contenuto
innovativo dell’informazione.
Una clientela che spazia dalla piccola alla media/grande impresa, accomunata dalla voglia di
continuare ad investire nella ricerca e nella qualità del prodotto offerto. Infine si rivolgono ai nostri
prodotti, nonostante non costino pochissimo, anche consulenti privati. In generale, però, possiamo
dire che la nostra clientela è sempre più competente. A differenza di 20 anni fa, quando abbiamo
iniziato a fare questo lavoro, molti pseudo stilisti sono fortunatamente scomparsi così come certe
tipologie di aziende, grazie anche alla scrematura degli operatori e delle aziende operata dalla crisi...
È cambiato il vostro interlocutore all’interno dell’azienda?
Certamente oggi, a differenza del passato, non è più una singola persona che decide, almeno
dal punto di vista del contenuto. A questo si aggiunge poi la questione del budget di spesa per la
ricerca, che fa sì che a decidere sia sempre più spesso un team di persone, composto anche da
funzioni aziendali che non hanno nulla a che fare con lo stile, come ad esempio il marketing o il
commerciale, a decidere congiuntamente quali prodotti o strumenti informativi acquistare.
Sbaglio se affermo che anche in questo campo chi si occupa di stile ha perso potere rispetto alle
altre funzioni aziendali?
No, è assolutamente vero. Oggi per decidere l’acquisto di un nostro prodotto le funzioni
aziendali coinvolte sono molte. Ma attenzione: non è solo un problema di organizzazione più
complessa dell’aziende, che magari a certi livelli si sono date strutture funzionali molto articolate,
il problema maggiore è che tutti vogliono fare i creativi, dall’amministratore delegato al direttore
commerciale, e quindi tutti si sentono in diritto di intervenire sul tema. Tutto questo, però, è figlio
di una tendenza attuale della società moderna che riconosce a chiunque – erroneamente – la
competenza per esprimersi dal punto di vista creativo.
Gli stilisti nei prossimi anni ritorneranno ad avere il potere che anni fa avevano all’interno delle
aziende di moda, oppure no?
Se vogliamo fare in modo tale che vi sia un giusto equilibrio all’interno delle aziende di moda,
dobbiamo far sì che il tema dello stilismo sia affrontato e gestito da chi si occupa di stile. Il che non
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vuol dire tornare agli anni ’70-‘80 quando ciò che diceva lo stilista era legge. Ma non possiamo
nemmeno accettare che da oggi in poi sia l’esatto contrario.
Perché c’è questa forte offerta di figure creative del nord-Europa?
Perché sono seri, hanno voglia di mettersi in discussione e di apprendere, e hanno scuole
strutturate che li preparano a dovere. È il loro momento, lo testimonia anche il fatto che la stessa
Rossana Orlandi è collegata a molti designer olandesi, e più in generale a creativi nordici
Massimiliano Sarracino - WGSN
Spieghiamo innanzitutto cosa è “WGSN”…
WGSN è l’acronimo di Worth Global Style Network, dove Worth sta per il cognome dei due
fratelli, Julian and Marc, che l’hanno fondata nel 1998. Una società giovane, se vogliamo, ma già
molto solida in quanto è stata la prima al mondo ad offrire alle aziende dell’abbigliamento, anche
se poi ci siamo allargati ad altri settori, un servizio di consulenza on line. L’obiettivo di WGSN è
quello di tracciare il percorso di una tendenza da quando nasce a quando si realizza.
Il team di lavoro di WGSN è composto da 200 professionisti tra cui giornalisti, fotografi, designer,
esperti di strategia del brand, grafici, ecc..., che iniziano il loro lavoro facendo un’analisi delle macro
tendenze, e cioè di tutti quegli elementi, fattori ed eventi, che secondo loro caratterizzeranno, con
circa 2 anni di anticipo, la tendenza di una determinata stagione. Per fare questa analisi, il team
analizza le tendenze in atto in vari settori, dalla musica alla scienza, dalla storia all’arte, dalla
tecnologia all’architettura, e più in generale tutto quello che potrebbe avere un’influenza sul design
dell’abbigliamento, cercando di capirne con forte anticipo l’evoluzione e quindi l’impatto che
questa evoluzione potrebbe avere nella società. Quindi, come già detto, l’analisi non è circoscritta
al solo modo della Moda, ma abbraccia anche altri settori che influenzano il modo di pensare e di
consumare delle persone.
Fatto questo primo step, si passa poi allo studio delle tendenze specifiche, perché lo stilista ha
bisogno di sapere quali saranno i colori, le grafiche, le silhoutte, i materiali, le lavorazioni, ecc...
Questa parte delle tendenze viene analizzata dai 12 ai 18 mesi di anticipo rispetto alla stagione
specifica, e viene suddivisa per tipologia di: settore: abbigliamento, calzature, accessori, ecc…;
consumatore: donna, uomo e bambino; comparto: maglieria e confezione; prodotto: intimo, mare,
ecc…; capo: pantaloni, gonne, capospalla, camicie, ecc… Le informazioni per queste varie tipologie
partono dalla cartella colori, passano attraverso collezioni libere da copyright, che quindi possono
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essere utilizzate liberamente dai nostri clienti (anche se questo non avviene mai perché
ovviamente sono collezioni disponibili per tutti, anche per i concorrenti), ma che in realtà sono
offerte per dare un’idea del tema di tendenza ed alimentare la fase creativa dello stilista, arrivando
fino alla grafica e al packaging di prodotto.
Si chiude poi il cerchio con la copertura degli eventi in tempo reale, e cioè le sfilate: Milano,
Parigi, Londra, New York e tante altre; le fiere: 180 fiere internazionali di settore analizzate ogni
anno, comprese le calzature e l’accessorio; le vetrine dei negozi: il team monitora ogni mese le
principali città della moda nel mondo, come ad esempio Londra, Parigi, Milano, Tokio, Los Angeles,
New York, mentre visita periodicamente altre città come ad esempio Berlino in occasione di Bread
& Butter, oppure Anversa, Rio de Janeiro, San Paolo, Buenos Aires, ecc… ed infine una serie di scatti
fotografici per le strade delle varie città, nei concerti di musica più importanti, negli eventi culturali
o mondani, ecc… In sintesi, quindi, WGSN vuole essere, ed è, uno strumento di supporto
informativo per le aziende della moda, ma anche di altri settori come ad esempio il food.
E il team italiano come è composto?
Il team italiano è formato da sei persone, di cui tre si occupano di assistenza clienti perché
l’obiettivo di WGSN è sì di avere nuovi clienti, ma soprattutto di fidelizzarli. Quando parliamo di
assistenza post vendita non parliamo evidentemente dei solo problemi tecnici di funzionamento
del sito o di collegamento dell’utente, ma soprattutto di un’attività di training molto specifica.
Infatti in azienda più persone possono utilizzare il nostro servizio: da chi si occupa ovviamente di
stile a chi si occupa di marketing, commerciale, visual e management aziendale. Per ognuna di
queste figure, esiste sul sito uno spazio dedicato e quindi l’assistenza post vendita (o per meglio
dire l’attività di training) è volta a fare comprendere al meglio il funzionamento del servizio e far
sì che venga “sfruttato” in tutte le sue potenzialità. In questo modo, dopo il primo anno di
abbonamento abbiamo una forte percentuale di rinnovi pluriennali, anche perché i clienti sanno
che potranno sempre contare sul nostro aiuto, anche attraverso delle conference call o dei meeting
presso la loro sede per garantire l’utilizzo ottimale del servizio.
Bene, adesso vorremo capire dal vostro punto di vista come è cambiato, se è cambiato, il
processo di creazione stilistica nella moda, e se è cambiato il ruolo dello stilista ed il motivo.
Indubbiamente ci sono stati cambiamenti molto visibili negli ultimi due o tre anni, a causa della
crisi economica. Infatti, il momento economico molto particolare ha indotto, se non addirittura
costretto, molte imprese, e di conseguenza molti stilisti, a fare ricerca in modo diverso da come si
faceva in passato. Paradossalmente, WGSN, che è un servizio in abbonamento con un investimento
importante da parte dell’aziende, in questa fase congiunturale ha incrementato moltissimo il
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proprio giro di affari, perché, rispetto a prima, gli stilisti viaggiano di meno e non solo per una
questione di investimento ma anche per una questione di tempistica. Sino a qualche anno fa, si
lavorava sul programmato con due, o al massimo quattro, collezioni stagionali all’anno. Oggi, anche
le aziende che storicamente hanno sempre lavorato con queste tempistiche, ne propongono oltre alle normali due o quattro collezioni all’anno – almeno altre due cosiddette “flash di stagione”.
Per non parlare delle aziende che operano in ambito del fast fashion, basta citare per tutte Zara:
queste imprese hanno un turnover di collezioni altissimo, anche una al mese.
Tutto questo ha portato ad una frenesia totale, sia in termini di creatività sia di nuove proposte al
mercato, a scapito, chiaramente, della normale attività di ricerca che un creativo era abituato a fare
prima di lanciarsi nelle nuove proposte di prodotto. Quindi tutto il periodo di tempo tra una collezione
e l’altra dedicato alla ricerca è stato perso. Prendiamo ad esempio il caso delle fiere, una volta c’erano
tre o quattro fiere di riferimento a cui un creativo non mancava mai. Oggi non esistono più fiere
irrinunciabili: ogni fiera dà un qualche spunto ed essendo materialmente impossibile seguirle tutte, è
necessario fare una selezione molto attenta degli eventi fieristici a cui partecipare, e non è detto che
i risultati siano sempre alla stessa altezza stagione dopo stagione. Inoltre si ha una pressione molto
forte sul versante produttivo, vista la necessità di immettere sul mercato proposte sempre nuove, e
quindi non si ha più tempo per trovare con calma le giuste fonti informative e i giusti tempi creativi.
Lo stilista, infatti, si è molto spostato sul versante commerciale, nel senso che questi tempi lo
costringono a ragionare quasi esclusivamente su quello che si sta vendendo, sulle informazioni
che gli giungono dalle vendite e dal marketing e non, come in passato, a concentrarsi su un’idea
creativa nata grazie ad una complessa fase di ricerca, che comunque doveva essere confrontata con
le altre funzioni aziendali, come è normale che sia. Lo stilismo fine a se stesso non è mai stato
premiante per un’azienda. In più, come dicevo all’inizio, la crisi economica ha fatto si che tutte le
imprese, chi più chi meno, abbiano ridotto i budget per la ricerca, e questo impedisce allo stilista
di essere un giorno a Berlino per una fiera, ed il giorno dopo a Las Vegas, come invece accadeva in
passato. Lo stilista oggi deve scegliere tra le due perché non ha un budget a disposizione per
partecipare ad entrambe. Ed ecco che uno strumento di supporto come WGSN viene ad essere
utilizzato per completare l’informazione venuta meno a causa del budget di ricerca e dei tempi di
lavoro ridotti.
Grazie alle nostre immagini, lo stilista può dunque visionare quanto di significativo non ha
potuto vedere in prima persona. Quindi, tornando alla domanda sul cambiamento, credo che esso
sia dovuto al minor tempo per le attività di ricerca, al minor budget a disposizione per questo tipo
attività, e al mutato ruolo del commerciale che oggi interviene in modo massiccio sulle scelte di
prodotto rispetto a qualche anno fa. Per fare un esempio estremo, possiamo dire che nelle aziende
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che operano nell’ambito del fast fashion, oggi non è quasi mai presente uno stilista nel vero senso
della parola, perché tale ruolo viene svolto da un product manager con una forte sensibilità al
contenuto stilistico del prodotto che individua continuamente capi che possano essere venduti in
un lasso di tempo molto breve, massimo 6 mesi, con la conseguente ricaduta su tutti i tempi a
monte.
Dalla sua precedente risposta ne deduco che si sono modificate le relazioni tra le varie aree di
lavoro, quale il marketing, lo stile ed il commerciale. Se così è, chi ha perso e chi ha vinto?
Per prima cosa non direi che c’è un vincitore ed un vinto, perché tutti hanno un obiettivo
comune. Però è indubbio che in questa fase storica della moda lo stilista sia quello che più di altri
ha dovuto adattarsi alle necessità di altre funzioni aziendali. È vero anche che si partiva da posizioni
molto disomogenee, perché in passato lo stilismo si imponeva forse con troppa “prepotenza”,
soprattutto nella media-piccola impresa. Da un lato, quindi, questo riequilibrio organizzativo è un
fatto assolutamente positivo. Dall’altro, però, per il modo in cui è avvenuto e sta avvenendo, si
rivela pericoloso, perché penalizza fortemente, a causa della tempistica di cui abbiamo già parlato,
il lavoro di ricerca e quindi rischia una sorte di banalizzazione o per meglio dire di
omogeneizzazione del prodotto.
Parliamo un momento del marketing: se prendiamo come riferimento le aziende Moda italiane,
quanto pesa nelle strategie aziendali il marketing? Ed in generale, per l’area stile è più forte
l’interazione con il marketing o con il commerciale?
Non credo che ci sia una risposta univoca alla domanda, anche se, soprattutto negli ultimi anni,
abbiamo visto fenomeni di marchi e di aziende che sono nate e si sono sviluppate esclusivamente
grazie a precise strategie di marketing. Aziende che a volte non avevano nemmeno un ufficio
prodotto o stile interno, ma che utilizzavano uffici stile esterni, molte volte dei loro stessi fornitori.
In questi casi era il marketing che dettava le regole, i tempi, i costi, ecc… Il commerciale e lo stile,
quando quest’ultimo era presente, erano costretti ad adattarsi alle regole dell’ufficio marketing. In
questi casi la comunicazione, il testimonial, l’essere presenti ad determinate trasmissioni televisive,
facevano si che il prodotto in quanto tale non avesse una così grande importanza rispetto al fatto
che era di quella determinata marca. Per altre aziende, quelle storiche, con una specifica identità
di brand guadagnata nel corso degli anni sul prodotto e sullo stile, più che sul marketing spinto,
l’interazione tra le aree stile, commerciale e marketing è molto forte e, pur a fronte del fatto che il
commerciale ha negli ultimi anni guadagnato qualche posizione in più rispetto alla altre aree, non
vi è una differenza così marcata. Sono aziende, queste ultime, che vedono nel consumatore finale
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un soggetto che identifica quella marca, quel prodotto, con uno stile riconoscibile in termini di
colori, forme o dettagli. Per questo vi sarà sempre una coerenza che li porta ad essere facilmente
identificabili, e questo non può che essere il risultato di un lavoro svolto da un team.
Ma tutto questo processo di cambiamento lo stilista come lo ha vissuto?
Diciamo che in tanti si sono, forse loro malgrado e con una certa difficoltà, adattati, reinventati
nel nuovo ruolo, accettando il fatto che pur essendo dei creativi devono comunque confrontarsi
con la parte commerciale. Altri, invece, hanno continuato a basarsi sulla loro creatività non
accettando il confronto con chi, secondo loro, pretende ingiustamente di avere voce in capitolo sul
tema dei colori, delle forme, dei materiali. In questo caso, gli stilisti hanno quindi cercato la
collaborazione con quelle aziende che continuavano ad investire moltissimo sul tema della
creatività, le famose aziende trend setter, che però, purtroppo, sono poche.
Cosa intende per aziende trend-setter?
Penso ad esempio ad un Marithé Francois Girbaud, oppure a Martin Margiela, sono aziende
che propongono capi difficilmente proposti da altri creativi, non sono dei follower ma bensì degli
“apri pista”. In queste aziende l’impronta dello stilista è ancora molto forte e presente, a differenza
delle altre dove il marketing ed il commerciale hanno per certi aspetti il sopravvento.
Quali sono i più importanti osservatori creativi che influiscono sulla progettazione stilistica di
un’azienda?
Il viaggio era, e rimane, la principale fonte di ispirazione. Questo perché visitando una città ed
entrando in contatto con una realtà diversa, oltre al fatto di vedere persone che possono o meno
vestire in un determinato modo, lo stilista, che è un personaggio che fa del nutrimento creativo e
culturale il suo obiettivo primario, può anche partecipare ad eventi culturali, analizzare nuove
modalità distributive, visionare capi di marchi non distribuiti in Italia, e nel contempo vedere la
fiera specializzata. WGSN è uno strumento diverso dal viaggio, non lo sostituisce, anche se spesso
lo stilista teme che l’azienda - vedendo i nostri report dalle principali città della moda nel mondo
- possa non consentirgli più di andare in quelle città. Ma ripeto, sarebbe un errore, e noi lo diciamo
sempre molto chiaramente sia allo stilista sia all’azienda. WGSN diventa invece importante per
focalizzare meglio i viaggi dei creativi di una azienda, perché può portare sul loro PC le immagini,
i temi, le cartelle colori, offerte da manifestazioni fieristiche a cui lo stilista non può partecipare
direttamente per la concomitanza con altri eventi, o per una mera questione di budget.
Ovviamente anche Internet è diventato uno strumento informativo molto seguito, e non solo
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perché ci siamo noi, ma anche perché vi sono molti siti di moda, blog, riviste di design, ecc… che
consentono di completare una fase di ricerca.
E di quaderni di tendenza moda?
Sì certo, anche quelli. Però credo che questo tipo di strumento - visti i tempi così veloci in cui
sta operando il sistema moda internazionale - sia forse il più penalizzato, tanto che in parte è
sostituto dalla ricerca fatta su internet, visto l’aggiornamento immediato e costante
dell’informazione che questo mezzo consente di attuare.
Quanto incide il rapporto con i fornitori a monte e a valle dell’azienda nella progettazione della
collezione?
Anche in questo caso c’è da fare una distinzione tra azienda ed azienda. Oggi sono più le realtà
che fanno il commercializzato, cioè imprese che hanno in testa una idea di prodotto e poi vanno
sul mercato a cercarlo presso strutture che sono anche in grado di garantirne la produzione. Questo
vuol dire che in questa tipologia di azienda il peso della creatività è abbastanza relativo, perchè
sono più attente, come dicevamo prima, a quanto il trade chiede in quello specifico momento. In
queste aziende non sono quasi mai presenti dei veri stilisti, ma piuttosto degli uomini/donne
prodotto con una forte sensibilità anche ai contenuti stilistici del prodotto. In altre realtà, come
spesso capita di vedere nelle aziende del programmato, il rapporto tra ufficio stile e fornitori è
molto presente. Sovente lo stilista interagisce con il fornitore, parlano, discutono, si confrontano
sui vari tessuti o filati piuttosto che su determinati finissaggi. Tra l’altro, se fino ad alcuni anni fa
questo avveniva su iniziativa dell’ufficio stile, oggi, forse anche a causa anche della crisi, è il
fornitore che propone, stimola lo stilista, cerca di entrare il più possibile nel processo creativo e
produttivo dell’azienda, perché ha capito che è per lui fondamentale fidelizzare il cliente. Oggi i
fornitori delle aziende italiane della moda devono veramente investire moltissimo sia in ricerca sia
nel servizio al cliente se non vogliono essere risucchiati dal mercato.
È diverso creare una collezione per un’azienda che lavora con i tempi del programmato, del fastfashion o del pronto moda?
È molto diverso. Lo stilista che opera nel programmato riesce ancora, seppur con una certa
fatica, a svolgere la sua funzione di creativo, ha ancora il tempo per fare ricerca, per pensare, creare,
provare e proporre nuove idee. Il modello aziendale del programmato alimenta ancora lo sforzo
creativo da parte dello stilista, e questo è fondamentale per creare nuovi trend, nonostante anche
all’interno di questa tipologia di azienda il peso dell’area marketing e commerciale sia comunque
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forte. Nel caso degli altri modelli organizzativi la figura dello stilista, invece, non è più così
fondamentale come lo era in passato. L’azienda, soprattutto quella del fast fashion, può anche
decidere di avvalersi della collaborazione di un creativo che per esempio è stato per 10 anni da
Prada, ma di questo suo background ne utilizzerà al massimo un 10%. In queste aziende - come
accennavamo anche prima – la figura del creativo oggi è più vicina a quelle di product manager,
con una alta sensibilità al contenuto stilistico del capo, oppure a quella di un buyer. In sintesi
devono avere più il polso del mercato che una spiccata dote creativa.
Ritiene che l’offerta formativa italiana legata alla figura del creativo di moda sia adeguata?
Io credo che si possa fare senz’altro di più. Da questo punto di vista però, forse lo step più
difficile è dato dal fatto che il creativo l’italiano è condizionato dal vivere in un paese che ha sempre
fatto scuola nella moda e quindi, sbagliando, non ha il giusto approccio ai temi della formazione.
Involontariamente, infatti, si trasmette un modello sbagliato anche ai giovani che intendono
seguire questa strada, e alle strutture deputate all’attività formativa. Aver fatto un corso in una
delle scuole italiane, per altro quasi tutte private, quindi abbastanza costose, e non sempre a livelli
eccelsi, e successivamente aver fatto uno stage presso una azienda, non è sufficiente per essere un
valido stilista. Però, molti dei giovani italiani che fanno questo percorso non lo capiscono, e
ritengono di essere già nelle condizioni di potere gestire l’ufficio stile delle più importanti maison
di moda esistenti. Forse c’è un pochino troppa superbia. Gli stilisti che vengono dall’estero sono
molto diversi, sia in termini di formazione sia di disponibilità a continuare il processo formativo
all’interno dell’impresa in posizioni adeguate all’esperienza acquisita. C’è comunque anche una
carenza da parte della aziende che, a mio avviso, investono poco sul potenziale dei giovani talenti.
Purtroppo vuoi per la crisi vuoi perché l’imprenditore italiano da sempre è abituato a ragionare
sul breve medio periodo, non è facile per i giovani creativi trovare imprese disposte ad investire sul
loro potenziale.
Sono molte le strutture di formazione italiane che utilizzano il vostro servizio?
Rispetto al nostro potenziale non sono molte, ma dobbiamo dire che due anni fa non ne
avevamo nemmeno una quindi il trend, per certi aspetti, è positivo. Sono perlopiù scuole di
formazione professionale, ma abbiamo anche un istituto statale, e per loro ovviamente esiste un
prezzo dedicato.
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Quale funzione aziendale tra marketing, commerciale, creativa e produttiva è quella oggi più
carente e quale più forte?
La funzione creativa è la più debole, perché si muove all’interno di un mondo sempre più
frenetico, dove lo stilista non trova più il tempo necessario per fare ricerca ed innovazione ed è,
come area aziendale, sempre più condizionata da obbiettivi commerciali. La funzione marketing,
invece, è in questo momento la più forte in quanto ha fatto la fortuna, ed in certi casi però anche
la sfortuna, di molte aziende che sono nate più su strategie di marketing azzeccate che sul prodotto
in quanto tale. È chiaro comunque che le sole strategie di marketing non possono alla lunga tenere
in piedi un’azienda di moda, ed ecco perché chi ha saputo implementare queste strategie grazie
ad un prodotto e ad una distribuzione giusta è andato avanti, alcune volte anche molto bene,
mentre altri che non hanno saputo prednere le decisioni giuste si sono persi lungo la strada.
Quali categorie di aziende si sono allontanate dai vostri servizi e quali si sono invece avvicinate?
Negli ultimi 2-3 anni c’è stata una forte crescita del nostro fatturato perché molte aziende per
tagliare i costi classici di ricerca hanno investito molto sul nostro servizio. Le imprese che non
hanno rinnovato sono fondamentalmente quelle che hanno dovuto tagliare drasticamente il
budget dedicato alla ricerca, e quelle che non sono riuscite a trovare un valore aggiunto nel nostro
servizio, anche perché forse cercavano solamente alcuni tipi di informazione, come ad esempio le
sfilate piuttosto che le vetrine dei negozi, e le hanno trovate gratis su altri siti. Il nostro, ed è bene
ricordarlo, è un servizio che comunque necessita di un investimento non solo dal punto di vista
economico, ma anche da un punto di vista della capacità di lettura e di analisi delle informazioni
che vi sono raccolte. Posso però dire che non esiste un profilo tipo del cliente WGSN, in quanto
viene utilizzato da più soggetti che possono essere gli stilisti “puri” ancora rimasti, i responsabili del
marketing o delle vendite, i manager, o il trade…
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6. La natura ibrida della moda: due casi di eccellenza
6.1 Il caso Il caso Sportswear Company22
La famiglia Rivetti
La storia della famiglia Rivetti nel campo dell’abbigliamento è fondamentalmente una storia di
passioni e intuizioni. A partire da Giuseppe Rivetti – figlio di Giovanni Battista, primo macchinista
cardatore dell’industria tessile italiana – il quale, mutuando la passione dal padre, iniziò a vendere
di nascosto le mucche dei propri allevamenti per comprare dei telai e fondare nel 1872, a Biella, il
proprio lanificio: la “Giuseppe Rivetti e Figli”.
Una passione che trova un’importante occasione di affermazione aziendale negli anni ’20,
quando il lanificio decide di comprare ed assorbire il GFT, Gruppo Finanziario Tessile, con sede a
Torino, e di mettere il gruppo così costruito nelle mani di un bizzarro e geniale personaggio col
gusto della sfida: lo “zio Pinot”, che ebbe l’idea di iniziare a gommare i tessuti dei lanifici per renderli
più performanti. Un’intuizione e un gusto per la sperimentazione che avrebbe poi costituito
l’ossatura dell’esperienza di Stone Island costituendone, di fatto, il DNA più vero.
Durante la guerra, gli stabilimenti di Torino subirono gravi danneggiamenti e Silvio Rivetti, padre
di Carlo, si imbarcò per gli Stati Uniti, alla ricerca di nuovi mercati. Lì si imbatté nell’azienda Palm
Beach Incorporated, i cui proprietari facevano un prodotto che in Europa non esisteva ancora:
l’abbigliamento confezionato su misure “teoriche”, quelle che oggi si chiamano comunemente taglie.
Quella relazione professionale lo folgorò, tanto da indurlo a rimanere a lavorare alla Palm Beach
per sei mesi come operaio, e, dopo avere assimilato le strategie e i sistemi di produzione delle
maggiori aziende americane, a convincere i fratelli a cedere le loro azioni dei lanifici per acquistare
tutto il GFT, che aveva realizzato intanto un’unità di abbigliamento prodotto in serie noto al
pubblico con il nome Facis (Fabbrica Abiti Confezionati in Serie).
Poiché la morfologia degli italiani differiva da quella degli americani, il GFT mise in atto un
programma di rilevazione di misure che coinvolse più di 25.000 italiani, e che permise alla Facis di
vestire praticamente tutta la nazione, per la prima volta, con abiti non sartoriali. Sulla base di questa
intuizione, negli anni immediatamente successivi, gli anni del miracolo economico italiano, il GFT
arrivò addirittura a vendere - in un solo sabato pomeriggio e in un solo negozio di Torino quattromila abiti blu.
Nei primi anni ’70, però, lo scenario economico cambia e anche per il settore abbigliamento si
rivela necessario adottare strategie di rinnovamento. Marco Rivetti, cugino di Carlo, notò la
presenza di un couturier francese che operava all’interno di un’azienda di capi spalla donna
comprata dal GFT l’anno precedente. Questo couturier disegnava e sdifettava i capi, li portava per
22. Stone Island è un marchio
di Sportswear Company Spa,
di cui Carlo Rivetti è Presidente
e Amministratore Delegato.
112
la campagna vendita a Parigi, e poi li faceva produrre in GFT: era Emanuel Ungano. Fu questa
presenza a instillare nella proprietà la convinzione che da quel momento fosse necessario
aggiungere qualcosa di nuovo alla proposta di abbigliamento in serie fatta fino a quel momento.
Si trattava della moda, intesa come contenuto fashion con cui caratterizzare le collezioni di capi di
abbigliamento.
Erano gli anni in cui si stava affermando il fenomeno del Prêt à Porter Made in Italy, la cui fortuna
stette proprio nel saper coniugare capacità imprenditoriali e creatività, e per il GFT iniziò una nuova
fase di lavoro, che lo vedeva porsi sul mercato come licenziatario (un modello all’epoca tutto da
inventare), degli allora astri nascenti della moda fra cui Giorgio Armani e Valentino. Di lì a pochi anni
il GFT diventa il partner industriale più ambito dagli stilisti che, tra gli anni Ottanta e i primi anni
Novanta, hanno dato vita all’affermazione del Made in Italy facendone uno dei più noti e fortunati
protagonisti della storia del Sistema Moda italiano e leader europeo dell’abbigliamento.
Nel 1975 entra in azienda anche Carlo Rivetti, che, verso la fine del decennio, ha l’intuizione di
aprire nel gruppo un terzo fronte oltre all’abbigliamento formale uomo e donna, che fosse in
qualche modo anticiclico: l’abbigliamento informale.
Di lì a pochi anni, all’inizio degli anni ’80, al GFT viene segnalata un’azienda emiliana
d’avanguardia, con un approccio all’ideazione dell’abbigliamento informale del tutto innovativo:
era la C.P. Company, per metà di proprietà dell’imprenditore Trabaldo Togna e per l’altra metà di
Massimo Osti, di professione grafico, che ne era anche il designer e il direttore creativo. Carlo Rivetti
ne rimase letteralmente folgorato.
A partire dal 1984, sotto la guida del nuovo amministratore delegato Carlo Rivetti, che era
azionista di controllo del GFT accanto al cugino Marco, l’azienda di Ravarino si trasforma nel polo
dell’abbigliamento casual del grande gruppo torinese.
C.P. Company e Stone Island
«Una volta abbiamo fatto un cappottino che si trasformava e diventava un aquilone: un giorno
sono arrivato e ho visto tutto l’ufficio organizzazione nel prato a far volare l’aquilone e mi dissero:
“Dottor Carlo, vola!“. E io ho pensato di aver trovato l’azienda della mia vita. Il designer mi ha detto:
“Questa è l’unica azienda al mondo che permette di fare queste cose”. Ma non è che noi lo abbiamo
permesso, lo abbiamo quasi chiesto! Questo è il trucco! Questo è un nuovo modo di competere,
altrimenti ci mangiano!»
(Carlo Rivetti)
113
C.P. Company (che era anche il nome del già famoso marchio aziendale) era nata nel 1975 ed
era specializzata nella produzione di abbigliamento informale, di cui era considerata il capostipite
italiano grazie alla capacità di declinarne forme e contenuti al di là del tradizionale jeans, attraverso
un attento lavoro su nuovi materiali, nuove linee e nuove funzionalità. Artefice del brand era
Massimo Osti, grafico e intellettuale bolognese, che a metà degli anni ’70, si interessò alle
produzioni di capi di origine militare e ai loro aspetti vissuti e consumati dall’uso, decidendo di
valorizzarne la valenza culturale fino a concepire – e realizzare – l’idea di un’imponente opera di
catalogazione a partire dall’analisi delle loro caratteristiche funzionali, e dei loro dettagli in termini
di forme, tasche, chiusure e accessori.
L’idea ispiratrice della collezione era quindi quella riportare nell’armadio maschile capi di
abbigliamento provenienti da due filoni fondamentali del vestire: le uniformi della tradizione
militare e gli abiti da lavoro. Le uniformi e l’abbigliamento da lavoro, infatti, hanno sempre unito
funzionalità ed eleganza: ogni loro particolare rispecchia la funzione specifica per cui è stato
pensato e realizzato, e volumi e vestibilità, pesi e caratteristiche dei tessuti, tasche ed altri
dettagli ingegnosi, sono sempre stati creati per svolgere azioni molto precise. Per riprodurne le
caratteristiche, a Ravarino si mettono quindi a punto un sofisticato laboratorio di tintura in capo
e una stamperia sperimentale, all’interno dei quali viene realizzato un lavoro di ricerca sui
materiali e sulle trame dei capi, mischiandoli, spalmandoli, trasformandoli tramite la tintura a
capo finito.
È quindi da questo filone storico che proviene la filosofia che ha sempre caratterizzato il
marchio C.P. Company, che può essere sintetizzata dal concetto di “funzionalità creativa”.
Questa ricerca costante nel tempo ha consentito di portare nell’archivio di C.P. Company
circa 40.000 capi databili tra la fine del secolo scorso ad oggi, un patrimonio essenziale su cui si
fonda gran parte del know how dell’azienda al quale si è affiancata poi, negli primi anni 2000,
un’altra linea di ricerca, quella indirizzata verso la messa a punto delle funzioni d’uso
dell’abbigliamento attraverso una ricerca tecnologica applicata ai tessuti, ai capi finiti e ai
processi per produrli.
Ai fornitori di C.P. Company venivano infatti richiesti articoli studiati ad hoc, con caratteristiche
particolari: dagli intrecci di fibre con pesi ultra leggeri capaci di assorbire i colori in modo originale,
alle tecniche più innovative di spalmatura, bloccatura e smerigliatura.
I tessuti greggi, una volta realizzati i capi d’abbigliamento, erano quindi tinti e ulteriormente
trattati nella tintoria e stamperia sperimentale dell’azienda, un reparto capace di coniugare
tecnologia avanzata, know how e ingegno umano, con il risultato di ottenere giacche e giacconi,
maglie, camicie e pantaloni praticamente unici.
114
Le collezioni C.P. Company affiancavano dunque ai capi storici nuovi temi attenti all’evoluzione
del gusto contemporaneo, raffinati e sempre funzionali. Per un uomo – e da un certo punto in poi
anche per la donna – che si muove nel lavoro e nel tempo libero della dimensione metropolitana.
«Mi ricordo quando abbiamo dovuto decidere il cambio epocale del mondo di riferimento di
C.P.Company: eravamo in aereo in viaggio tra Tokio e New York; erano gli anni in cui andavano per
l’uomo i capi unti, puzzolenti che andavano bene per pescare e non capivamo cosa ci facesse un
giovane professionista nella piazza centrale del suo paese con questa giacca unta, puzzolente e
con una tasca porta salmone; allora decidemmo che il punto di riferimento a cui era giusto ispirarsi
era un giovane metropolitano. Quindi facemmo un cambio epocale: dalla caccia – pesca passammo
alla metropoli.
Perché? Probabilmente perché eravamo in viaggio tra due città che sono tra le più importanti del
mondo; ciò che ci fece scattare tutto fu il vedere tanta gente con le mascherine antismog. E lì
capimmo che il cow boy a cavallo della Malboro country non esiste! Il Barbour con la tasca da
salmone era un falso ideologico e quindi bisognava dare capi performanti a della gente che è
obbligata a vivere in città anche se non la ama.»
Grande attenzione fu quindi rivolta all’evoluzione dell’abito da lavoro metropolitano, alla
reinterpretazione dei mestieri, alla personalizzazione delle uniformi che consente di utilizzarne gli
spunti senza doverne subire il rigore, grazie alla ricerca di dettagli funzionali e sui trattamenti.
È percorrendo questa strada che prese forma il secondo marchio destinato ad affiancare il
marchio C.P. Company: Stone Island.
Quest’ultimo nasce casualmente da una prova di tintura su un tessuto tipicamente industriale,
un telone da camion che aveva la particolarità di essere rosso da un lato e blu dall’altro. Che farne?
Per poterlo trasformare in un capo di abbigliamento, lo si mette in una lavatrice con acqua e pietre
pomice e lo si lava, a lungo, per ammorbidirne e domarne la struttura.
Il prototipo che esce da questa sperimentazione è sorprendente, ma esula totalmente dal lessico
di C.P. Company, non gli appartiene. Viene quindi deciso di fare una minicollezione di sette giacconi
in quell’unica tela, denominata “Tela Stella”, e di dare a questa proposta un nome: Stone Island.
Stone Island ha un’impronta marina, perché ricorda le vecchie cerate corrose dal mare, e
un’impronta militare, frutto del lavoro di catalogazione e di studio condotto da Osti sui capi militari.
Anche il nome evoca l’amore per il mare e il trattamento utilizzato per ottenere i capi. Il badge,
l’etichetta ricamata in tessuto che la contraddistingue dalla prima stagione, raffigura la Rosa dei
Venti ed è esibita come la mostrina di un capo militare.
115
Nasce così Stone Island, un brand caratterizzato allora come oggi da un’impronta di originalità
estrema che dà vita a pezzi “quasi unici”, e che per questo è considerato la nuova frontiera
dell’abbigliamento. È il 1983 e il successo della collezione è immediato.
Massimo Osti decide quindi che è giunto il momento di dedicarsi esclusivamente al lato creativo
dell’impresa e, d’accordo con i soci, decide di dare struttura e risorse all’azienda attraverso una joint
venture con una grande azienda: il GFT, Gruppo Finanziario Tessile di Torino. Il GFT rileva quindi le
quote di Osti ed entra in scena Carlo Rivetti che si innamora del prodotto, della ricerca, della filosofia
e della tensione creativa che si respira a Ravarino, e decide di investire nello sportswear.
Subito dopo quel primo risultato in “Tela Stella”, considerato già all’avanguardia, l’azienda si
concentra su nuovi filoni di ricerca su tessuti, trattamenti, spalmature... E, contemporaneamente,
la collezione si popola di altre tipologie di capi: maglie, pantaloni, magliette, camicie.
Stone Island si propone quindi fin dalle sue origini come il risultato della ricerca estrema su
fibre e tessuti innovativi mai utilizzati in precedenza dall’industria dell’abbigliamento. Attraverso
lo studio della forma e la “manipolazione” della materia, Stone Island trova quindi un linguaggio
proprio, tracciando ad ogni nuova collezione una frontiera sempre più avanzata nell’innovazione
dei materiali, dei modelli e delle tecniche di produzione, quando invece, nel mondo produttivo
imperante, sono ancora dominanti processi e materiali legati alla tradizione. L’esperienza e il
contributo tecnico/creativo dei suoi stilisti più famosi, Massimo Osti prima e Paul Harvey
successivamente, consentono infatti di affiancare alle fibre naturali conosciute materiali innovativi
tipici delle tecnologie più avanzate applicate nell’industria, come le cosiddette “fibre intelligenti”,
le fibre di carbonio, la fibra di vetro o di ceramica, perfino l’alluminio. Procedimenti di produzione
mutuati spesso da settori industriali totalmente diversi che, applicati ad un capo d’abbigliamento,
invece di standardizzarlo lo rendono un pezzo irripetibile.
Così, già dal 1986, Stone Island è in grado di proporre al mercato nuovi materiali che combinano
in maniera insolita soluzioni di tessuto tradizionali (ad es. un raso di cotone di derivazione militare)
con trattamenti del tutto innovativi come la spalmatura poliuretanica interna o esterna, o una
spalmatura argento solo esterna.
Stone Island esplode e diventa mania. Con un posizionamento di prezzo e di brand già alto,
Stone Island offre ai consumatori italiani la possibilità di dare espressione al loro desiderio di
indipendenza dal fashion system imperante, mentre le strutture del GFT ne favoriscono
l’espansione all’estero.
Seguono gli anni dei tessuti termosensibili, che cambiano drasticamente colore con il variare
della temperatura interagendo con chi li porta: da giallo a verde scuro, da bianco a blu acceso, da
rosa a grigio, fino ai capi mimetici che al freddo perdono il motivo stampato (Ice Jacket).
116
Il tema delle interazioni e delle mutazioni del colore in funzione di un elemento esterno
prosegue e dà vita alla fortunata serie delle Reflective jacket, realizzate in un tessuto giapponese
ad alta rifrangenza, spalmato con migliaia di microsfere di vetro che rifrangono la luce proveniente
anche dalle più deboli fonti luminose dando vita a insolite combinazioni di bianco metallico o
rosso, verde, giallo, blu accesi,
Dopo la ricerca sul linguaggio dei colori segnaletici e mimetici, il lavoro dell’azienda si concentra
sulla creazione di nuovi tessuti: tessuti con una spessa laminatura in gomma che consente di
confezionarli a taglio vivo (il ‘Radiale’), tessuti con un sottile strato di nylon con una spalmatura
ultralucida (l’‘Oltre’), e il ‘Formula Steel’, un canvas di nylon che prende colori formidabili.
E poi giubbotti costruiti in un monofilato di nylon che crea una fitta rete derivata dalla
tecnologia del filtraggio delle acque; pellicole di nylon leggerissimo spalmato sotto vuoto con un
film microscopico di acciaio inox, utilizzato nella tecnologia aeronautica per proteggere i computer
di bordo, tessuti non tessuti, feltri in Kevlar® e poliestere, reti romboidali di poliestere usate
nell’industria delle costruzioni e spalmate in poliuretano, reti romboidali di nylon usate
nell’industria delle costruzioni spalmate in poliuretano… Solo alcuni degli esempi di ciò che ha
prodotto la filosofia di ricerca di Stone Island.
Nel 1996 termina la collaborazione con Massimo Osti, che aveva da qualche stagione aperto
con alcuni soci la Massimo Osti Production, e Carlo Rivetti affida Stone Island a Paul Harvey, uno
stilista inglese geniale che raccoglie la sfida di succedere a Osti e traghettare Stone Island verso gli
anni 2000.
Una scommessa che si rivelerà straordinariamente vincente. Paul Harvey interpreta con grande
capacità creativa la filosofia aziendale lavorando sulle linee, sulla rielaborazione dei materiali e,
spingendo ulteriormente il piede sul pedale della ricerca, indagando materie che esulano
totalmente dal campo dell’abbigliamento, e dando vita ad architetture e soluzioni tecniche
estremamente innovative.
Entrano così nelle collezioni Stone Island canvas pesanti di nylon utilizzato per foderare i carri
armati e rasi gommati sottoposti a complesse sequenze che ne vedono prima la stampa, poi la
decolorazione tramite corrosione su gran parte della superficie e infine la sovratintura. O nuovi
elementi come i cappucci in gomma realizzati da stampo o i giacconi realizzati con una rete
metallica 100% acciaio e 100% bronzo, accoppiate ad una base tessile.
È poi la volta di materiali tecnicamente molto sofisticati sottratti ai loro utilizzi e adattati alle
esigenze fashion della collezione: poliestere accoppiato sottovuoto ad un film 100% acciaio inox,
nato per schermare i circuiti di bordo degli aeroplani, e il Kevlar®, cinque volte più resistente
dell’acciaio a parità di peso, e altamente termoisolante, che Stone Island reinterpreta
117
accoppiandolo ad una maglina di nylon e a una spalmatura poliuretanica, per far sì che prenda il
colore tramite la tintura a capo finito.
I laboratori dell’azienda passano quindi ad esplorare nuovi orizzonti rispetto al trattamento
delle fibre, alle sperimentazioni delle reti accoppiate a più strati, alle sottili membrane performanti
termo castrate, che, grazie alla loro trasparenza, rivelano le architetture interne dei capi, e ai tessuti
non tessuti, pressati, spalmati e poi tinti in capo. E nascono i piumini ultraleggeri, in un nylon opaco
che pesa 30 grammi al metro quadro.
Stone Island negli anni 2000
«”Senza qualità e creatività, nell'abbigliamento si può aspirare a essere solo meteore”. Ma cosa
permette a un marchio di durare decenni, superando indenne alcune stagioni di super vendite,
evitando poi di passare di moda, diventando anzi un long seller, magari persino un brand di culto?
“Non ho una risposta, ma è proprio questa la storia di Stone Island”, sorride Carlo Rivetti, presidente
della Sportswear Company di Ravarino (Modena), l'azienda che controlla i marchi Stone Island e
C.P.Company.
“Deve essere un misto di scienza tessile e coraggio imprenditoriale... forse c'è stato un pizzico di
fortuna, sicuramente ci abbiamo messo impegno e passione. Ma questa crisi sta lanciando segnali
importanti, che gonfiano un po' il nostro orgoglio e soprattutto ci fanno essere più ottimisti sul
futuro”. Rivetti ha appena finito di confrontare gli ordini per la primavera-estate 2010 con quelli
della stessa stagione 2009: Stone Island è cresciuta del 20%, un risultato in assoluta controtendenza
rispetto a un mercato in cui molti marchi, anche affermati, perdono almeno una cifra di fatturato.
“Stone Island resta un marchio di fascia medio-alta: non abbiamo abbassato i prezzi, avremmo
potuto farlo solo a scapito di qualità e creatività. E sarebbe stato un boomerang. Abbiamo lavorato
su altre cose, cercando prima di tutto modi per andare incontro ai nostri partner della distribuzione,
ai buyer. Siamo riusciti ad anticipare la presentazione delle collezioni e le abbiamo ottimizzate,
riesaminando tutti i dati di vendita nei negozi, di proprietà e multimarca. Accanto a maglioni e
capispalla abbiamo reintrodotto un jeans cinque tasche, con tanto di badge (così Rivetti chiama la
tipica etichetta simbolo del marchio, ndr), esterno, naturalmente staccabile. Anche per i jeans,
abbiamo scelto il migliore dei denim giapponesi e studiato la forma più contemporanea: il risultato
è che il cinque tasche ha letteralmente trainato gli ordini della prossima stagione, anche sul web”.»
(In “Sole 24 Ore”, del 10 novembre 2009)
118
Nel 2008 Paul Harvey lascia Stone Island e il mondo dell’abbigliamento, e Carlo Rivetti assume
la direzione creativa dell’azienda. Carlo Rivetti rivede la struttura creativa, sostituendo al designer
unico una squadra multiculturale che sappia valorizzare ulteriormente l’identità del marchio. Nasce
la collaborazione con Aitor Throup con i progetti “Modular Anatomy”, e “Articulated Anatomy”.
Nascono i capi “Hand Painted Camouflage” tinti, stinti e poi dipinti a mano con effetti mimetici, e
le collaborazioni con grafici internazionali come Trevor Jackson.
Sulle radici storiche di Stone Island, si decide quindi di rivisitare i risultati già raggiunti, per
superarli con il contributo di nuove sensibilità provenienti da mondi creativi diversi ma non per
questo meno capaci di interpretare le origini e gli obiettivi dell’identità del brand.
Nel febbraio 2010 arriva l’ultimo importante cambiamento aziendale: Carlo Rivetti e la sorella
Cristina cedono lo storico marchio di abbigliamento informale C.P. Company alla Fgf Industry S.p.A.,
dello stilista imprenditore Enzo Fusco, azienda che produce e distribuisce, tra gli altri, i marchi
Blauer Usa, Bpd, Design by Enzo Fusco, Sweet Years. La società, che ha sede a Montegalda, in
provincia di Vicenza, e possiede uno showroom in via Durini, a Milano, lavora con lo studio stilistico
Borromeo design, che gestisce interamente i campionari e le collezioni.
C.P. Company, che è stato il marchio guida di un certo tipo di vestire informale, e che tanto ha
significato per Carlo e Cristina Rivetti, viene ceduto a favore di un lavoro esclusivo dell’azienda su
Stone Island, dei due il brand più focalizzato sulla ricerca e sull’innovazione dei materiali, e con un
target di consumatori meglio controllabile. Due le ragioni di questa scelta addotte da Carlo Rivetti:
la necessità di concentrare le energie e le risorse su un solo marchio, e la convinzione di aver trovato
in Enzo Fusco e nella sua azienda la persona e la struttura capaci di garantire lo sviluppo di C.P.
Company nel rispetto della sua identità.
I processi creativi di Sportswear Company
L’organizzazione dei processi creativi dell’azienda è il frutto della complessa e felice esperienza
collaborativa sperimentata nel corso degli anni tra la figura del designer, quella del commerciale
e la struttura interna preposta alla prototipizzazione e ingegnerizzazione della collezione. Questo
già a partire dalla prima configurazione societaria dell’azienda, quando era ancora C.P. Company23
e lo stilista di riferimento era Massimo Osti.
Con un’organizzazione produttiva interna composta da un laboratorio di sperimentazione
tecnica, un ufficio di modellistica CAD CAM avanzatissimo, un Direttore Tecnico e un Direttore
Prodotto, l’azienda, infatti, ha sempre guidato tutte le fasi del ciclo produttivo, a partire dalle prove
23. C.P. Company modifica la
sua natura giuridica in
Sportswear Company Spa a
cavallo tra gli anni ’80 e ’90.
119
tessili per la realizzazione di trattamenti speciali e innovativi sui tessuti e per il tinto in capo, che
da sempre costituiscono l’elemento fondante per poter offrire agli stilisti la libertà creativa
necessaria a interpretare il mondo Sportswear Company, fino ad arrivare alle fasi di lancio della
produzione.
Sportswear Company, infatti, pur avvalendosi di figure creative centrali per autorevolezza e
per ruolo decisionale nella gestione dell’immagine dei brand aziendali, ha sempre vantato una
rigorosa organizzazione dei reparti che ruotano intorno allo stilista, con particolare riferimento al
breafing e allo sviluppo della collezione, alla modellistica e alla progettazione stilistica CAD CAM,
e, infine, all’industrializzazione della collezione.
A rendere il percorso creativo di un prodotto firmato Sportswear Company più originale e
strutturato rispetto a quello seguito tradizionalmente da altre imprese di pari dimensione e
notorietà, sono sempre state, infatti, da un parte l’elevata creatività dello staff stilistico, ma dall’altra
le procedure gestionali della collezione. Caratteristiche che hanno sempre reso l’azienda una realtà
più simile ad un laboratorio di ricerca e di analisi strategica che ad una tradizionale azienda di
abbigliamento.
Si è già detto che il punto di forza di Sportswear Company risiede nella capacità di progettare
capi caratterizzati da una forte sperimentazione sui processi tintura e di trattamento sui tessuti. Si
tratta di un’indagine costante, approfondita e senza frontiere, sulla trasformazione e sulla
nobilitazione di fibre e tessuti, che porta l’azienda a scoprire materiali e tecniche produttive spesso
mai utilizzati.
Le fasi di ricerca più salienti sono realizzate nel laboratori del colore e di tintura dell’azienda, un
laboratorio in grado di coniugare tecnologia avanzata, esperienza e capacità umana, e che negli
anni ha messo a punto più di 60.000 ricette di tinture diverse (disponibili sia in versione cartacea
che digitale in un archivio che ha valenza non solo tecnica ma anche culturale), dando vita ad un
archivio di tessuti trattati fisicamente disponibili per gli stilisti via via impegnati nella progettazione
delle nuove collezioni. L’archivio, infatti, raccoglie le sperimentazioni, le ricette di tintura e le
manipolazioni tessili messe a punto dal primo giorno di lavoro dell’azienda, e costituisce un
patrimonio inalienabile di conoscenze e di esperienze sempre a disposizione della curiosità e
dell’esigenza creativa dei designer.
La tintoria sperimentale di Sportswear Company costituisce senza ombra di dubbio il cuore
dell’azienda: è qui che nascono tutti i colori, ed è il risultato di 30 anni di storia, di sperimentazioni,
di know how e di investimenti. Spesso i macchinari utilizzati sono unici perchè realizzati ad hoc, e
alcuni di essi sono addirittura fuori produzione. Ognuno di essi consente una diversa prova di
tintura su varie pezzature, da piccoli pezzi fino a 11 kg di tessuto, arrivando a ottenere 6 diversi
120
colori da un unico bagno giocando su temperatura e acidità dell’acqua, tipo di fibra, stampe a
riserva… Si tratta quindi di un lavoro di ricerca di alto profilo, svolta artigianalmente e verificata
formula per formula.
Un secondo reparto di importanza strategica nell’attività di design delle collezioni Stone Island
è il CQT (Controllo Qualità Tessuti): si tratta di un reparto che fa parte dell’Ufficio prodotto, dove la
ricerca tessile viene “normalizzata” e resa disponibile all’azienda. Tutte le prove di tintura, infatti,
hanno effetti molto impattanti sui tessuti, poiché consistono in procedimenti che di fatto cuociono
il tessuto dando quindi luogo a fenomeni di restringimento. Il reparto, oltre ad esaminare le varie
problematiche, procede ad analizzarne e misurarne gli effetti rispetto al calcolo delle rese e alle
successive fasi di taglio e assemblaggio del capo finito, realizzando un repertorio dei tessuti trattati,
e archiviandoli in modo da renderli disponibili per qualsiasi necessità di verifica dell’ufficio creativo.
Questa fortissima vocazione alla ricerca sui tessuti e sui trattamenti, che guida da sempre il
lavoro degli stilisti impegnati nelle collezioni di Sportswear Company, è però integrata strettamente
con tutti gli altri processi aziendali, in un gioco continuo tra input commerciali e libertà creative,
tra vincoli operativi e stimoli di ricerca che conferisce ai processi creativi interni una forte impronta
organizzativa.
Da oltre un ventennio, infatti, il percorso dei prodotti C.P. Company e Stone Island è organizzato
su tre reparti fondamentali per lo sviluppo della collezione: l’ufficio stile, l’ufficio prodotto, l’ufficio
industrializzazione. E, in passato come oggi, i passaggi informativi tra gli uffici sono regolati dai
medesimi processi, sebbene siano diventati con il passare degli anni più precisi nella strutturazione,
più puntali nel timing e meglio integrati nel complessità delle attività aziendali.
In questo percorso, la prima fase è costituita dal cosiddetto “briefing”, che costituisce il
momento in cui le informazioni provenienti dal mercato diventano le linee guida per impostare il
lavoro sulla collezione successiva e in cui esse vengono diffuse e condivise dai creativi, dal
commerciale e anche dalle altre funzioni aziendali (controllo gestione, prodotto, produzione,
acquisti).
Si tratta di un approccio operativo incentrato su una filosofia di integrazione delle funzioni, e
sull’obiettivo strategico di massimizzare il valore economico delle capacità creative, di ricerca e di
industrializzazione dei prodotti e dei marchi aziendali. Le varie funzioni, infatti, sono chiamate ad
analizzare i dati di vendita delle passate stagioni rispetto al proprio ambito di competenza, e a
fornire elementi di criticità o di opportunità di sviluppo che possano essere utilizzati per la
definizione della nuova collezione. Per queste ragioni, il brief è frutto di incontri che si realizzano
prima al vertice aziendale, e successivamente tra quest’ultimo e gli stilisti, e comporta un grado di
collaborazione altissima tra i creativi e l’ufficio prodotto.
121
Tale fase, infatti, ha come obiettivo l’elaborazione di un documento che faccia proprie le
esigenze commerciali dell’azienda, e che, allo stesso tempo, fornisca allo stilista il quadro di
riferimento per esercitare la sua autonomia creativa e sviluppare così le sue proposte, in un “gioco”
di vincoli e di opportunità che lo vede libero di rappresentare la parte creativa ed emozionale
dell’impresa e definire le componenti estetiche della collezione stagionale (fogge, colori, materiali),
all’interno però di un contesto informativo che lo aiuta a finalizzare la sua creatività in maniera
sostenibile dall’azienda, sia in termini produttivi che commerciali.
Lavorare sul venduto e sull’analisi del proprio mercato, potersi confrontarsi preventivamente
con le analisi dell’ufficio prodotto e acquisti per verificare eventuali criticità tecnico/operative,
analizzare i dati forniti dal controllo di gestione relativamente alle necessità commerciali e
finanziarie della struttura, consente di dare continuità all’identità dell’azienda permettendo di
contestualizzare le nuove tendenze sulla propria storia, e facilitando così la riconoscibilità del
marchio da parte del cliente.
Sulla base di questi presupposti si sviluppano i cosiddetti concept, cioè le tematiche di
innovazione da utilizzare come linee guida per la ricerca sulla nuova stagione. L’azienda, cioè,
decide la strategia, cosa vuole investire, quali sono le fasce prezzo, le fasce di mercato e fornisce
quindi agli stilisti le linee guida della collezione, un calendario di attività e una struttura di
collezione divisa per famiglia di prodotto. Dal momento in cui gli stilisti ricevono il brief, esso
diventa operativo ed inizia la progettazione creativa vera e propria.
All’interno di questo schema operativo, la fase iniziale del lavoro stilistico vede innanzitutto
uno scambio di idee tra i creativi, quindi la sperimentazione delle prime idee di ricerca nel
laboratorio di tintura per validarne la realizzabilità e l’adeguatezza, e infine (nella seconda fase)
l’ufficio prodotto per le prove di idoneità.
L’ufficio prodotto interviene in due diversi momenti: nella prima valuta la fattibilità del progetto
indipendentemente dalle compatibilità commerciali; nella seconda, avvia una fase sperimentale
che terrà conto degli aspetti economici. L’ufficio prodotto garantisce così il coordinamento degli
studi e degli staff stilistici, mentre l’ufficio modelli è l’ideale anello di congiunzione tra le varie fasi
di sperimentazione, ricerca e industrializzazione del prodotto.
Dalle prove di idoneità nascono i disegni, dai disegni nascono i modelli e da questi ultimi i
prototipi. I prototipi, uniti ad una scheda costo, ritornano quindi allo stilista che li ha ideati per un
ultimo controllo e, così validati, possono essere immessi nel circuito finale dell’industrializzazione.
Sebbene il brief sia una fase organizzativa di assoluto interesse per tutte le aziende
d’abbigliamento (tanto che l’applicazione che ne ha fatto Sportswear Company è diventata
modello di riferimento per molte esperienze formative sull’organizzazione aziendale di settore), i
122
processi creativi sopra descritti si configurano come un sistema organizzativo su misura per
un’azienda che ha come tratto distintivo un approccio indirizzato prioritariamente alla
sperimentazione tecnologica sui materiali, e che, proprio per questo, opera al di fuori (o comunque
a latere) dei condizionamenti imposti dal sistema moda nel suo complesso, e delle sicurezze da
esso garantite attraverso l’articolata macchina comunicativa del fashion system.
In altri termini, pur in presenza di un’ovvia attenzione ai contenuti moda in voga
stagionalmente e all’evoluzione del consumatore e delle sue aspettative, la particolare attenzione
dell’azienda Sportswear Company per la ricerca rende il lavoro creativo anche più rischioso di
quanto non sia tradizionalmente, tanto da imporre un attento e strutturato governo di tutti i suoi
processi, a partire dalla strutturazione della collezione.
All’inizio della sua storia così come oggi, la strutturazione della collezione è infatti articolata su
livelli diversi. Ma se all’inizio degli anni 2000 la collezione era declinata sui concetti di basic,
innovazione stagionale e ricerca esasperata, oggi tale articolazione si è specificata in una
differenziazione che ha nella ricerca il minimo comune denominatore e nella sua declinazione in
forme, dettagli e risultati tecnici la risposta alle esigenze di occasioni di consumo differenziate.
- il primo costituisce la parte di collezione in grado di offrire rassicurazione al cliente e al
commerciale dell’azienda. Si basa essenzialmente sulla consultazione di dati storici organizzati
sulla base di analisi del campionario per famiglia di prodotti, per numero di cartelle colori, modelli
e articoli, di fatturato e analisi delle vendite per area geografica e famiglia di prodotti a confronto
su stagioni passate e/o corrispondenti. Sono i cosiddetti riportati, ovvero i capi best seller da
riproporre alla luce dei nuovi concept stagionali.
Se in passato, però, questa fascia di collezione si configurava come “basic” sulla base di un
criterio che incrociava fondamentalmente la tipologia di capo (basic appunto) con il prezzo al
cliente, oggi si configura invece come una parte di collezione dove la tipologia di capo è fattore
meno scontato, poiché l’azienda ha sviluppato la capacità di offrire ricerca e contenuto innovativo
pur nel rispetto di una fascia di prezzo vincolante.
- il secondo livello è costituito dalla collezione cosiddetta Inland, dove l’innovazione stagionale
e la ricerca incrociano fondamentalmente criteri legati alle lunghezze, alla funzione d’uso e al colore.
- il terzo ed ultimo livello è quello denominato Outland e costituisce la parte di collezione dove
gli stilisti possono esprimere il massimo grado di creatività e libertà progettuale, e che ha una
struttura di prezzo sicuramente meno vincolata. È la porzione di collezione in cui la creatività e
l’immagine sono predominanti, e che identifica Stone Island presso il cliente trade e quello finale,
come esemplificativa dello spirito con cui l’azienda ha interpretato l’innovazione stagionale e la
propria identità stilistica.
123
La strutturazione dei processi organizzativi di Stone Island legati alla creatività mostra
chiaramente quanto le collezioni prodotte siano il frutto di uno scambio continuo tra i vari reparti,
grazie ad un’informazione condivisa e ad una capacità di tradurre in opportunità di lavoro un
vincolo commerciale al quale oggi nessuno - nemmeno chi, come Stone Island, può godere di un
posizionamento di prodotto e di prezzo di livello molto alto - può rinunciare. Una capacità che
questo brand ha guadagnato grazie al profilo umano e professionale di stilisti che non hanno mai
ceduto alla tentazione di affermare il proprio ruolo ricorrendo alla facile equazione che vuole lo
stilista una sorta di artista a cui tutto è dovuto, e grazie alla contaminazione di una piccola realtà
aziendale degli anni ’80 con un grande gruppo industriale necessariamente attento agli aspetti
gestionali di carattere sia organizzativo sia finanziario. Senza dimenticare il ruolo dell’attuale
Presidente e AD Carlo Rivetti, che di quel gruppo è stato rappresentante per molti anni, e che poi
ha trasferito all’azienda da lui interamente acquisita il patrimonio esperienziale del GFT ma anche
- e forse soprattutto – una innata passione per lo sportswear e per l’innovazione stilistica e
gestionale.
Oltre alla felice corrispondenza interna tra i reparti aziendali, non va dimenticato però il ruolo
che ha sempre giocato anche la rete di relazioni esterne tra l’azienda e i suoi fornitori, quegli stessi
fornitori che si trovano a condividerne gli stimoli creative attraverso la fornitura di materiali e tessuti
speciali, e che diventano essi stessi fonte informativa privilegiata per gli stilisti e l’ufficio prodotto
ogniqualvolta la filiera a monte produce opportunità di innovazione da sperimentare sul capo
d’abbigliamento. Una fonte informativa che per Stone Island si rivela di fondamenta importanza
e che costituisce per gli stilisti un riferimento di ispirazione primario, insieme alla ricerca svolta
sulla strada per poter cogliere tutti i segnali che vengono dal mondo dell’evoluzione culturale e
sociale, così come da quella distributiva e di consumo. Nessuna ricerca affidata a fonti informative
convenzionali, quindi, come i quaderni tendenza o gli appuntamenti standardizzati di fiere ed altre
occasioni.
Dal monostilista al team creativo
«Tanti anni fa avevamo un signore di ottima cultura, di scarsa attitudine al lavoro e di scarsa
preparazione manageriale che andava in giro per il mondo: faceva “l’annusatore”. Un bel giorno
tornò e disse: “Dobbiamo andare in Germania e cercare un creativo tedesco”. Negli anni ‘80 la
Germania era credibile per le macchine e per gli elettrodomestici, non era pensabile che esistesse
creatività tedesca nel mondo della moda. Ma questo signore insisteva: “Come no! I segnali sono
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chiarissimi: dalla Germania sta arrivando musica, stanno arrivando film (“Il Tamburo di latta “, “Il
cielo sopra Berlino“ )… se questo paese è in grado di produrre questi prodotti soft, allora sarà anche
in grado di avere uno stilista…”. E nel giro di pochi mesi arrivò Joop e poi Jil Sander.» (Ibidem)
Nella fase di progettazione della collezione la combinazione dei vari contributi, sia in termini
di informazioni che di professionalità, è molto delicato e dipende dalla storia e dalle caratteristiche
dell’azienda.
Laddove è presente una figura creativa riconosciuta come l’artefice della fortuna e della
visibilità aziendale, tale da legittimare sia il marchio che il prodotto, la fase creativa è
inevitabilmente legata ai suoi input e al suo coordinamento, per quanto possa essere complessa
e gestita con l’apporto di squadre di lavoro collaterali.
È però anche meno complessa la ricerca stilistica che deve essere realizzata per poter esprimere
stagionalmente l’identità del brand, essendo questa già incarnata e risolta dallo stilista di
riferimento, che filtra, indirizza, corregge e valida tutto ciò che non nasce direttamente dalla sua
“penna” ma è frutto del lavoro del team da lui coordinato.
Nel caso però in cui lo stilista di riferimento è parte integrante di una struttura aziendale che
intende valorizzarne al massimo il ruolo e le potenzialità creative senza per questo rinunciare ad
un controllo in itinere della collezione e della sua adeguatezza alle proprie necessità commerciali
e di costo, ecco che l’integrazione tra stilista e team può dare risultati organizzativi molto
interessanti, dove si riconosce il ruolo della creatività diffusa e insita in tutti gli snodi
dell’organizzazione aziendale24, prima e dopo la progettazione stilistica in senso stretto.
Sportswear Company è un ottimo esempio di questa organizzazione aziendale, fatta di cultura
di prodotto condivisa da tutto il personale addetto a vario titolo alla produzione del capo di
abbigliamento, e dunque messa al servizio del raggiungimento degli obiettivi aziendali. Una
creatività che non risiede solo nello stilista, figura alla quale viene comunque riconosciuta la
capacità di tradurre in proposta di prodotto l’identità del brand, ma che attraversa tutti i processi
organizzativi aziendali.
In questo senso va la decisione di Massimo Osti di cedere il 50% della C.P. Company al Gruppo
GFT di Carlo Rivetti, al quale lo stesso Rivetti riconosce la straordinaria capacità di essere “stilista”
nell’accezione più pregnante del termine pur nella mediazione con una struttura aziendale rigorosa.
A breve, però, Carlo Rivetti si è dovuto porre un problema: sostituire la figura di Massimo Osti,
che decide di abbandonare il campo, e trovare qualcuno che potesse disegnare la Stone Island
del nuovo millennio.
Già nel 1994, aggirandosi per i padiglioni di una fiera di Monaco di Baviera, Rivetti si imbatte
nello stand di un piccolo marchio tedesco, e nei capi lì esposti intravide la stessa cifra stilistica del
24. Volonté P. (a cura di); 2003;
La creatività diffusa. Culture
e mestieri della moda oggi;
Franco Angeli, Milano
125
proprio marchio. Si trattava di una collezione disegnata da Paul Harvey, un inglese che viveva, per
pura coincidenza, a Sant’Arcangelo di Romagna, con il quale Stone Island avviò una collaborazione
già dal 1996.
«Uno stilista famoso rischia di diventare autoreferenziale. Non è importante avere uno stilista
famoso per avere un prodotto innovativo, ma uno stilista con una particolare propensione
all’innovazione e che non abbia una storia troppo consolidata alle spalle. Se non ha una sua storia
personale alle spalle, infatti, è molto meglio: sarà più propenso all’innovazione!»
«… Tutti noi ci portiamo dietro compromessi, scheletri nell’armadio che non vanno bene con
l’innovazione. Ma questo succede perché il mercato si aspetta da un grande nome quello per cui lui
è diventato famoso. A parte il fatto che se uno famoso entra qua sviene, e non saprebbe sfruttare
nemmeno tutta la forza innovativa che c’è in questa azienda.»
È con Paul Harvey che inizia la “seconda vita” di Stone Island, nel segno, contemporaneamente,
dell’innovazione e della continuità.
Paul Harvey, infatti, nonostante le ben 24 collezioni disegnate in 12 anni di collaborazione, non
ha mai cercato di rivoluzionare Stone Island, ritenendo che fosse importante dare continuità a
quell’esperienza e a quella ricerca che da sempre contraddistinguevano il brand.
Laureato in ricerca tessile alla Saint Martin’s School of Arts di Londra, Paul Harvey è uno stilista
che rivela un approccio al disegno guidato dalla funzionalità, cosa che gli ha consentito di
interpretare al meglio le necessità di Stone Island, traghettando con successo il brand nel nuovo
secolo.
Quando nel 2008, dopo dodici anni di felice collaborazione, Paul Harvey decise di abbandonare
il campo della moda per dedicarsi a tutt’altro impegno, e a Carlo Rivetti si pone il problema di una
nuova scelta, rispetto alla quale aveva già matura però una convinzione, e cioè che forse era finita
l’epoca della gestione creativa “monostilista”, dell’uomo solo al comando”.
Alla fine del 2008 i tempi erano infatti profondamente cambiati: il Sistema Moda aveva già
cominciato ad affrancarsi dalla dipendenza rispetto allo stilista monarca assoluto delle sorti
aziendali, e aveva viceversa sperimentato un nuovo rapporto di “dipendenza” dal mercato e dal
consumatore, un legame che apriva le porte a nuove sfide e – perché no – a nuove difficoltà.
Soprattutto, nel caso specifico di uno sportswear tecnologicamente così avanzato come quello di
Stone Island, diventava necessario fare fronte all’esigenza di essere anche multiculturali per essere
davvero contemporanei, e quindi di attingere a fonti creative più diversificate da quelle che
potevano essere offerte da una sola - per quanto straordinariamente ricca - personalità.
126
«Mi sento l’allenatore e scelgo i ragazzi da mandare in campo in base alla partita che dobbiamo
giocare. Perché bisogna essere più sensibili, più veloci, più pronti a cogliere i segnali di forza e di
debolezza.»
Ecco quindi che nasce l’idea di un team stilistico, di un gioco di squadra che schiera in campo
più cervelli e sensibilità, che abbiano altrettante visioni del mondo e che possano quindi portare
un contributo che appare sempre più frammentato e difficile da interpretare. È sulla base di questo
presupposto organizzativo che lavora Stone Island dal 2008 in poi, arricchendosi del contributo di
risorse creative sempre nuove, sia nell’identità degli stilisti che collaborano al disegno della
collezione (persone di età e provenienza culturali differenti), sia nella forma delle fonti informative
stesse (rapporto diretto con il trade e il consumatore, fashion blog,…).
Le parole d’ordine scelte da Rivetti per guidare questa nuova fase aziendale sono infatti focus
e ingegnerizzazione, intendendo con ciò la necessità di guidare la collezione verso obiettivi di
razionalizzazione che, senza tradire lo spirito di ricerca e innovazione del prodotto, sappiano però
dare risposte concrete al bisogno di ottimizzazione dei processi e dei costi.
La prima conseguenza di questa diversa strategia commerciale è misurabile, nel campo della
ricerca stessa che sta alla base della filosofia Stone Island. Se prima, ad esempio, si poteva arrivare
a lavorare su 47 tessuti diversi articolati in 2 modelli per tessuto, oggi si lavora solo su 4 tessuti,
approfondendone però la presentazione e rendendoli più esplicativi, per non disorientare il trade
e il mercato finale con proposte troppo forti e “dirompenti”. Non si tradisce quindi la ricerca, e non
la si limita nelle soluzioni adottate, ma la si costringe ad un numero di espressioni e di varianti
numericamente inferiori e più facilmente assimilabili dal mercato di riferimento.
Si tratta di un cambiamento indotto dal mercato e dalla sua evoluzione: in un momento di
mercato così difficile la minore vastità della collezione è infatti apprezzata dal trade che non si
sente impegnato ad un budget di acquisto troppo impegnativo, così come dal consumatore finale
che insieme ai capi di punta, dove l’innovazione tecnologica è ancora fortemente caratterizzante,
trova anche i capi di minore peso innovativo e di più bassa fascia di prezzo.
Con questo processo di razionalizzazione cambia il numero delle proposte a cui si decide di
dare concretizzazione e visibilità commerciale, ma non cambia lo spirito con cui si pensa ogni
stagione alla nuova collezione. Ancora oggi infatti Stone Island è costituita per l’80% da capi con
forte contenuto tecnico legato ai trattamenti e alla ricerca su tessuti. Un’impostazione della
collezione che quindi privilegia ancora, e forse più che in passato, la struttura di Ravarino,
intendendo con questo la dotazione di laboratori e di uffici per lo sviluppo del prodotto, rispetto
all’Ufficio Stile.
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A tal punto questo disegno è importante che Carlo Rivetti dichiara di avere come vera priorità
la ricerca di un ingegnere tessile con cui allargare le competenze tecniche della struttura di
Ravarino. Una figura cioè che sia capace di raccogliere gli input di ricerca presenti sul mercato e di
tradurle in opportunità operative per l’ufficio stile, e che abbia una visione di insieme e di più largo
respiro del lavoro di ricerca rispetto alle pur straordinarie competenze ad oggi presenti nel
laboratorio di Ravarino che rimangono comunque indispensabili.
In questa fase di rinnovamento ciò che cambia è anche l’organizzazione dei processi creativi.
Dopo l’esperienza di Massimo Osti e Paul Harvey, che Rivetti dichiara insostituibili per le loro
straordinarie competenze tecniche e creative, la scelta è caduta sul team stilistico.
Un team fatto di persone giovani e di diversa provenienza culturale, con trascorsi creativi anche
di diversa origine (di design non necessariamente fashion, ma anche grafico, ad es.), che possano
riempire di idee e contenuti il laboratorio stilistico (e chimico) dell’azienda e dunque consentire di
distillare le soluzioni più idonee alle necessità di rinnovamento delle collezioni Stone Island.
Oggi il gruppo è costituito da sei persone, di cui due lavorano presso lo show room di Milano
e gli altri da remoto (Berlino, Londra, …), e sono coordinate da un responsabile di prodotto che si
interfaccia con la struttura produttiva di Ravarino. A Ravarino, intanto, i laboratori tecnici di tintoria,
ricerca qualità materie prime, maglieria a ricerca prodotti, si interfacciano con il team creativo
milanese attraverso Carlo Rivetti.
Tutti sono quindi chiamati con pari dignità a portare il proprio contributo sulla base della propria
specializzazione e degli incarichi ricevuti, e il leit motiv della gestione è la discussione. La guida di
Rivetti e la scelta di un’organizzazione per gruppi i lavoro, ha consentito di superare anche le difficoltà
incontrate nel corso della prima sperimentazione di questa nuova gestione del team stilistico, quando
la struttura orizzontale senza incarichi precisi, facilitava certo la trasversalità dell’impegno sulla
collezione e la libera circolazione di idee e energie, ma creava altresì pesanti problemi relazionali
rendendo spesso inefficace il lavoro della squadra, quando addirittura comprometterne i risultati.
La nuova configurazione, improntata come si è detto alla strutturazione per compiti, vede però
anche una stretta collaborazione con attori esterni al gruppo aziendale, come i fornitori di fibre e
tessuti, che costituiscono gli attori più avanzati del palcoscenico tecnico di settore, e con il mondo
del consumo attraverso la forma tradizionale del rapporto con il trade e attraverso nuove forme di
gestione del rapporto con il consumatore finale, si tratti di visit tour a premio presso l’azienda, la
relazione con i blogger (fashion o no che siano), una diversa comunicazione sul sito aziendale.
A questo proposito, se prima il trade era organizzato tramite la proposta commerciale filtrata
dagli agenti e la ricerca aziendale aveva il sopravvento sulla possibilità di interazione preventiva
con il mercato distributivo, oggi Rivetti ha deciso di dare una svolta a questo rapporto, valorizzando
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il trade e interagendo con loro in modo determinate. Questo a partire anche da una nuova
disponibilità ad accogliere – laddove possibile - alcune richieste di mediazione sui capi, e ad
ascoltare direttamente i titolari/buyer dei negozi di riferimento e valorizzare così i mercati di
riferimento. Una relazione rinnovata nella sostanza ma anche nella forma, come testimonia l’ultima
occasione di relazione con il mercato tedesco che Rivetti ha voluto creare, organizzando un
incontro tra la sua famiglia e 15 venditori tedeschi all’ultima October Fest, in occasione
dell’apertura della nuova filiale Stone Island in Germania.
«"Oggi la scelta vincente è quella di essere sempre più vicini ai nostri clienti (negozianti) e ai nostri
consumatori finali. L'esperienza che abbiamo maturato in Germania, ove 18 mesi fa, abbiamo
aperto una filiale diretta a Monaco di Baviera, ci ha insegnato molto e il tasso di crescita degli ordini
(+35% della P/E 2011 sulla P/E 2010) ha premiato i nostri investimenti. Avere una presenza fissa sul
territorio ci consente non solo di monitorare meglio il mercato ma anche di farci sentire molto più
vicini ai negozianti trasferendo ad essi non solo merce, ma anche e soprattutto la nostra filosofia.
Un atteggiamento che è molto apprezzato e che ci permette di migliorare servizio e performance".
Elementi chiave che permettono a Stone Island di continuare nella sua crescita puntando sempre
più sull'affermazione del brand. "Il prodotto è qualcosa che abbiamo sempre avuto e che ci è
ampiamente riconosciuto, ora quello a cui puntiamo è l'affermazione della marca che sta
allargando il suo range anagrafico verso una nuova fascia di clientela. Siamo riusciti, infatti, ad
agganciare una nuova generazione (quella dei 25/30 anni) che entra nei negozi alla ricerca del
nostro prodotto e che va ad affiancare lo zoccolo duro della nostra clientela storica (45/55 anni)". Un
nuovo target che necessita, inevitabilmente, di nuovi mezzi di comunicazione sui quali l'azienda
sta ponendo grande attenzione. "Da qui in avanti il web sarà uno degli strumenti primari del nostro
piano di comunicazione. Ritengo che rappresenti il mezzo di informazione che meglio permette di
parlare con il nostro consumatore finale permettendoci di fargli scoprire non solo il prodotto ma
anche e soprattutto tutto ciò che sta dietro ad esso". Un processo di disintermediazione della
comunicazione, quindi, poco impositivo, spontaneo e democratico che deve saper crescere insieme
alla nuova generazione di consumatori.»
(In: “Moda on line”, 29 novembre 2010)
Quanto al mercato finale, da segnalare l’attivazione di canali diretti con i propri consumatori
attraverso l’organizzazione di “viaggi premio” presso la struttura di Ravarino vinti da alcuni consumatori
inglesi, così da dar loro modo di cogliere quali sono le caratteristiche dell’azienda e il suo approccio
alla ricerca e alla innovazione, e come si costruisce la creatività dei più apprezzati capi Stone Island.
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Nel rapporto però con il consumo finale è entrato prepotentemente anche un diverso modo
di concepire la comunicazione web, oggi affidata a strumenti che mettono in contatto diretto la
figura di Carlo Rivetti con i consumatori di Stone Island, attraverso la sua parola e il suo volto. Un
modo per rinnovare la comunicazione, affrancandola dall’istituzionalità e personalizzandola quindi
in modo deciso e consapevole. Così facendo, si crea una relazione diretta con l’azienda e si lega il
brand al suo titolare, che ne diventa quindi garante unitamente al lavoro delle persone che vi
collaborano.
«Sono un veterano del tessile-abbigliamento, a tratti il potenziale rivoluzionario di internet mi
spaventa. Ma il più delle volte mi affascina: il sito Stone Island non sarà mai solo un altro canale di
vendita... Serve per parlare direttamente ai clienti, creare una comunità, è un canale preferenziale per
dare informazioni e anticipazioni. Magari lanceremo concorsi di co-design per aspiranti stilisti di Stone
Island, entreremo in contatto con le comunità che già oggi esistono su Facebook di fan del nostro
marchio. Ci sono persone di tutte le età, dal giovane blogger inglese al "paninaro" milanese: negli anni
‘80 eravamo parte integrante della sua divisa. È cresciuto, ma non si è dimenticato della qualità e della
particolarità dei nostri tessuti e magari oggi compra Stone Island per sé e per suo figlio».
Grazie alla ristrutturazione dei processi organizzativi interni appena descritti, Stone Island ha
anticipato di circa un mese i tempi di inizio della progettazione, cosa che apre un ulteriore spazio
di approfondimento per la ricerca e per la corretta organizzazione della collezione da presentare
al trade, e che consente poi, a caduta, di chiudere in tempi più rapidi anche la campagna vendite.
I clienti infatti, grazie al peso del brand nella composizione del loro assortimento - sia in termini di
immagine che di valorizzazione economica - stanno reagendo bene alla proposta anticipata di
Stone Island, mostrando quasi di viverla come la scelta prioritaria su cui articolare successivamente
il resto degli acquisti.
Ma tale anticipazione non va letta come una sollecitazione diretta che proviene dal mercato e
dalle sue necessità. I negozi multimarca con cui si relaziona Stone Island sono infatti strutturati
per gestire le campagne acquisti nei tempi canonici del sistema distributivo internazionale. Così
come, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il lavorare d’anticipo non si combina con una
disponibilità dell’azienda a moltiplicare le proposte di collezione, attraverso flash o mini collezioni
con cui alimentare di nuove proposte la distribuzione. Al contrario Rivetti ha voluto concentrare
la collezione, restringendola ad un numero minore e più pregnante di proposte, così da rafforzare
la percezione del brand nelle sue valenze di marchio dalla forte connotazione innovativa pur nel
più ampio spettro di proposte in termini di capi e prezzi.
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Se a questo si aggiunge il segnale di quest’ultima campagna in corso, che vede il trade rispondere
alla riduzione dei consumi non abbassando in modo proporzionale gli acquisti tra i fornitori, come
successo negli anni passati, ma scegliendo i fornitori e dunque riducendone il numero, ecco che la
strategia scelta da Stone Island si inserisce in un percorso di focalizzazione e valorizzazione del brand
dal quale è ragionevole aspettarsi buone performance così come quelle registrate nell’anno in corso.
«"La nostra parola d'ordine è concentrazione. Negli ultimi anni Stone Island ha continuato la sua
curva di crescita ed oggi, grazie al fatto che tutte le mie risorse e quelle della mia azienda sono
focalizzate sul brand posso dire che tutte le condizioni sono realmente positive". Parole chiare e
precise, quindi, che consentiranno al brand di proseguire la sua espansione sia sul territorio nazionale,
ove viene generato il 40% del turnover, che sulle principali piazze estere che vedono in testa Germania,
UK, Belgio e Francia. "Il nostro obiettivo è quello di crescere senza allargarci troppo concentrando le
nostre risorse nei mercati già consolidati poiché tale strategia ci permette di ottenere risultati
immediati". In una fase come quella attuale verrebbe spontaneo pensare ad una collezione femminile,
ma in realtà non fa parte dei nostri progetti. Siamo bravi a fare ciò che facciamo e riteniamo
assolutamente inutile allargarci a segmenti, seppur interessanti, che ci distoglierebbero,
inevitabilmente dal nostro core business. Quello che, invece, stiamo portando avanti è il
completamento merceologico dell'offerta di Stone Island, attualmente riconosciuto come un brand
forte nella realizzazione di capo spalla (nella foto la Liquid Reflective Jacket) e maglieria, che potrebbe
crescere in altre categorie sempre legate al mondo dell'abbigliamento". Niente brand extension,
quindi, così come, a livello geografico, l'azienda non mira ad allargare il suo range d'azione,
fortemente concentrato sulla Vecchia Europa, in maniera forzata».
(In: “Moda on line”, 29 novembre 2010)
6.2 Il caso Cavalli
Lo studio di caso è stato condotto attraverso ripetuti contatti diretti con l’azienda Roberto
Cavalli spa, che hanno portato alla disponibilità di materiale informativo interno da parte della
stessa azienda, e a colloqui personali con le seguenti figure: Paolo Ottolia (Direttore Sviluppo
Prodotto Abbigliamento Donna Prima Linea), Elisabetta Rocchini (Responsabile Risorse Umane),
Fulvio Olearo (Direttore Operativo), Francesca Tacconi (Direttore Generale Sviluppo Prodotto). Il
report è stato stilato sulla base dei contenuti ricavati da questi due tipi di fonti, oltre ad altre
informazioni complementari reperite su vari media (giornali, TV, Internet).
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Le origini e il debutto
«Durante questi primi quarant’anni ho inseguito il sogno della bellezza. Ho disegnato abiti per le
donne che sono la massima espressione della bellezza, e per gli uomini che della bellezza delle
donne hanno bisogno per completare se stessi».
Roberto Cavalli
Il fondatore della casa di moda che porta il suo nome, Roberto Cavalli, e che ha festeggiato
proprio a settembre 2010 i 40 anni di attività, ama definirsi “l’artista della moda”. Oltre alla
peculiarità della sua cifra creativa, della quale si cercherà di dar conto in queste poche pagine, ne
ha ben donde anche a partire dalla propria formazione, nonché dalle stesse origini della sua
famiglia. Una “famiglia di artisti”, come richiamato in alcune interviste, all’interno della quale spicca
il nome del nonno, Giuseppe Rossi, esponente della corrente pittorica dei Macchiaioli, e autore di
diverse opere esposte al Museo degli Uffizi, a Firenze. Da lui, Roberto afferma di aver acquisito “la
passione per i colori, le fantasie, la creatività”; dalla madre, sarta, apprese invece da giovane i
rudimenti della lavorazione sartoriale.
Questa inclinazione di fondo si concretizzò nelle sue scelte scolastiche; terminati gli studi
primari a diciassette anni, si iscrisse all’Istituto d’arte della sua città, cominciando ad interessarsi al
rapporto tra moda e pittura. Un percorso che decise di non finire con il diploma. Iniziò dunque un
periodo di esperienza diretta che lo portò a frequentare in particolare il distretto serico comasco,
patria al tempo delle più raffinate produzioni di seta del mondo; osservando il lavoro dei telai e
della stampe su seta, nacque in lui l’idea di inventare un processo di stampa che permettesse di
imprimere i suoi disegni su abiti interi. Il settore gradì questa innovazione, e Cavalli si ritrovò a
gestire in breve tempo uno studio con sedici collaboratori per seguire tutti i lavori
commissionatigli. Nel 1969 l’incontro con Mario Valentino, nome italiano storico e universalmente
riconosciuto dell’abbigliamento in pelle, che portò all’idea di trasferire il metodo di stampa dalla
seta alla pelle. Fu ancora un successo imprenditoriale, che aprì alla collaborazione con lo stesso
Mario Valentino, e poi con Pierre Cardin ed Hermès.
Per il passo successivo bisogna aspettare solamente l’anno seguente, quando a Parigi, in febbraio,
al Salon du Prêt-à-porter, presentò la prima collezione col proprio marchio; abiti da sera, costumi da
bagno, e capi in pelle stampata, con motivi ispirati alla natura (fra cui già l’animalier che sarà uno dei
tratti più caratteristici dello stile Cavalli attraverso gli anni), che riscossero l’interesse generale.
Nel 1972, alla Sala Bianca di Palazzo Pitti, nella sua Firenze, tempio della nascente moda italiana,
quel successo si amplifica all’insegna dell’innovazione più folgorante, e all’apertura al denim e
132
dunque al jeans, indumento allora semisconosciuto al panorama della moda, che con Cavalli
diventa protagonista.
Il 1972 è anche l’anno dell’inaugurazione della sua prima boutique, nel “beau-monde” di Saint
Tropez, in Costa Azzurra, con testimonial d’eccezione come Brigitte Bardot e Sofia Loren. Sul finire
degli anni ’70, l’incontro con quella che sarà la donna della sua vita, e componente fondamentale
della sua vita artistica e lavorativa, Eva Duringer, concorrente al titolo di Miss Universo a Santo
Domingo dove Cavalli fu chiamato a far parte della giuria; Eva affianca Roberto da subito nel lavoro,
e la sua figura all’interno dell’azienda cresce progressivamente: attualmente, è a capo dell’ufficio
creativo di tutte le linee che nascono con marchio Cavalli.
Il trend favorevole, tuttavia, conosce un progressivo affievolimento a causa del contesto di
mercato contingente. Gli anni ’80 sono gli anni del Neobarocco e del Massimalismo, ma anche
dell’avvento sulla scena dello stile giapponese (Miyake, Kawakubo, Yamamoto) con le sue linee
“architettoniche” e asimmetrie tipiche, che si distanziano dai cliché occidentali. Lo stesso Cavalli,
in interviste recenti in occasione del quarantennale di attività, ha parlato di quel periodo come di
un periodo di “frustrazione” (“Volevo chiudere”), a causa del prevalere di una tendenza artistica
che pareva “mortificare la femminilità”.
Il successo: i prodromi dello stile di vita Cavalli
Eppure, fu proprio l’onda di ritorno, di rigetto di quel movimento che parve schiudere le porte
al nuovo, strepitoso successo. Successo che parte ancora una volta dall’innovazione tecnologica:
è il sodalizio con un produttore di Prato a condurre alla possibilità di applicare il procedimento
“stretch” al denim dei jeans, attraverso l’introduzione di un filo di lycra nel tessuto.
Alle particolari stampe ottenute, lo stilista applicò ancora un peculiare processo di
invecchiamento, ottenuto con carta vetrata e una lavorazione tramite getto di sabbia.
La novità venne presentata al Modit e a Milano Collezioni, nel 1994, e ottenne uno straordinario
risultato in termini di attenzione da parte di pubblico e osservatori.
Può essere probabilmente indicata in questa occasione la vera e propria nascita del marchio
globale Cavalli, che si lega fortemente alla valorizzazione delle forme femminili, e richiama
nell’immaginario collettivo un vero e proprio stile di vita, elegante ma trasgressivo, sofisticato e
stravagante, e insieme sensuale, che punta in prima istanza ad esaltare la femminilità e il corpo
della donna, all’opposto del minimalismo imperante, rispetto al quale, al tempo, il mondo del
fashion cercava una via d’uscita.
133
Perché questo successo? La spiegazione più semplice, in alcune interviste, la danno gli stessi
collaboratori dello showroom milanese che all’epoca spiegano: ”Non è successo nulla di
particolare…è semplicemente arrivato il suo momento”.
In realtà, l’approccio stilistico si adatta perfettamente al contesto della moda, e quindi
economico-culturale, degli anni ’90. L’onda lunga, nel campo delle relazioni col consumatore, è
ancora quella degli anni ’80, del brand come tramite fra azienda e cliente, e perno della relazione
fra i due che si concretizza nei termini di una proposta di soddisfacimento non soltanto di un
bisogno materiale, ma soprattutto di uno psicologico e sociale, dunque di fusione del consumatore
con uno stile di vita i cui stilemi stanno nell’immagine integrata offerta dal prodotto-servizio stesso.
Ma quello degli anni ’90, se da un lato continua ad essere un consumo edonistico, dall’altro si
sviluppa attraverso una segmentazione di mercato più spinta, all’interno della quale trovano già
spazio, come criteri di costruzione del segmento, l’attenzione a tematiche specifiche come le
responsabilità sociali e l’ambiente; il consumatore è più maturo, più consapevole, meno soggetto
alla fascinazione e al colpo di fulmine comunicativo a causa dell’aumento esponenziale
dell’esposizione al messaggio pubblicitario. E’ l’inizio della rivoluzione che porterà, negli anni
Duemila, al consumatore proattivo (il cosiddetto prosumer).
La donna, in questo contesto, continua nella sua rincorsa al ruolo storicamente dominante
dell’uomo, e all’affermazione di sé come soggetto protagonista; non più donna fragile, donna
oggetto, ma donna in carriera emancipata e libera. Dunque, attraverso il consumo, questa tende
ad esaltare il suo vivere quotidiano in tutti gli aspetti; non solo nel lavoro, ma nello svago e nel
tempo libero che questo rende possibile attraverso il guadagno. Queste occasioni sono la base
per l’ampliamento dei bisogni espressivi cui la moda dà risposta attraverso i suoi prodotti; inizia in
questa fase l’integrazione di gamma del brand, dal wear agli accessori e poi ancora oltre.
Il marchio Roberto Cavalli arriva, nel corso degli anni ’90, ad essere distribuito in oltre 30 paesi,
direttamente dagli show room di Milano, New York, Düsseldorf. Il mercato interno è in questa fase
il segmento più importante, pesando per poco più di un terzo del fatturato (Europa un quarto,
Asia un quinto), ma si espandono anche la Russia e gli Usa, nei quali riesce a esporre i propri modelli
nei più importanti department store (Selfridges, Saks Fifth Avenue, Harvey Nichols Bergdorf &
Goodman, Neiman Marcus, Harrods e Printemps).
Tuttavia, mancano ancora alcuni tasselli per un marketing integrato che permetta di essere in
piena sintonia con la prospettiva di griffe globale per la quale le potenzialità si sono già
ampiamente manifestate. Prima di tutto, sulla strategia di distribuzione; a Saint-Barthelemy, nelle
Antille francesi, nel 1994, apre la prima boutique monomarca, che sarà seguita nel tempo da
Venezia (1997), e poi progressivamente da una rete capillare, volta a coprire i luoghi più “in” e
134
connotati da un’immagine capace di sposarsi comunicativamente al meglio con il brand: Parigi,
New York, Milano, Roma, Marbella, Capri, Firenze, Porto Cervo, Seul, Miami, Città del Messico, Las
Vegas, Dubai, Istanbul, Taipei, Valencia, Costa Mesa e Forte dei Marmi.
Poi, sulla gamma del portafoglio prodotti; alla linea principale si affiancano progressivamente
nuove linee e nuovi marchi. La Roberto Cavalli spa, infatti, ovvero l’azienda controllata e gestita
dallo stilista, dalla moglie e dalla figlia, produce la cosiddetta “prima linea” della collezioni,
comprensiva dei capi top che sfilano nelle passerelle di tutto il mondo. A questa si affianca
progressivamente una “seconda linea” composta da prêt-à-porter e accessori, prodotti invece tutti
da licenziatari. Questo consente dunque di mantenere una struttura industriale relativamente
snella, nella quale questa seconda parte del fatturato viene ad assumere un ruolo relativo sempre
maggiore.
Nel 1998 nasce la linea “giovane” Just Cavalli, caratterizzata da prezzi più contenuti e modelli più
giovani e semplici (sempre però nel peculiare stile Cavalli), la cui realizzazione è affidata ad Ittierre
Group; l’idea è assecondare il cambiamento di un mercato che è in espansione per awareness, ma
non ha le caratteristiche tipiche del target Roberto Cavalli (nelle parole di un’intervista dello stesso
stilista: “Mi hanno messo su un piedistallo i miei fan come una rockstar. Tanti vogliono i miei abiti, mi
fermano, ti adoro, mi dicono, vorrei un tuo abito ma non me lo posso permettere. Rivolgiti a Just,
rispondo". L’anno successivo è la volta della linea uomo (RC Menswear), che si giova della sinergia
con l’immagine di un testimonial d’eccezione: il rocker Lenny Kravitz.
“Era il 1999 e dovevo cominciare il tour per la promozione del mio album “Flash”. Ero affascinato
dal modo di vestire di Miles Davis, e quindi avevo bisogno di qualcuno che creasse per me uno stile
che fosse insieme espressione di una urban class, e di street vibe. Ho incontrato Roberto, e ho visto
i suoi abiti: bene, lui aveva già tutto questo”.
(Lenny Kravitz)
Cavalli e gli anni 2000: l’esaltazione del lifestyle
I primi anni del decennio sono caratterizzati dal proseguimento della strategia di ampliamento
gamma, che va ad assecondare proprio l’accentuarsi di quella progressiva infiltrazione del brand in tutti
i meandri del vissuto individuale, alla ricerca della definizione di un lifestyle che plasmi e identifichi la
personalità stessa del consumatore. Il targeting è basato su una specializzazione di mercato, nella quale
il riferimento è un consumatore che ha praticamente le medesime caratteristiche in termini di reddito,
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e le stesse esigenze in termini espressivi e di bisogni di status; tuttavia, è appunto la gamma dei
prodotti che si complessifica, e spazia progressivamente anche molto al di fuori del wear.
Nel 2000 viene lanciata la linea Underwear, prodotta da Albisetti, che più tardi affiancherà a
questa la produzione di una linea di Beachwear. La maglieria vedrà la nascita del marchio Class, di
estetica più ricercata, e orientata all’evoluzione del casual wear verso un concetto di eleganza
rilassata e décontracté, la cui produzione è affidata a Dressing spa. Ma questo è anche l’anno
dell’apertura agli accessori. Nel 2000 viene realizzata, in collaborazione con il Gruppo Sector, la
prima linea di orologi con marchio Cavalli (Timewear), che in brevissimo tempo assicura risultati
notevoli. A questa produzione seguirà quella di occhiali, Eyewear, prodotta da Marcolin. E poi
ancora Freedom per il casual, due collezioni di underwear, una di beachwear, scarpe (distribuita,
per cinque anni, da Roberto Botticelli), due linee per bambino/a-ragazzino/a, Angels & Devils
(prodotta e distribuita su licenza da Simonetta), profumi e una linea di oggetti e décor per la casa
(piatti zebrati, bicchieri rifilati d'oro, cuscini animalier, e altro ancora).
Il tutto, mentre si riflette sulla riconducibilità al lifestyle anche dei luoghi del consumo, che
rientrano appieno in questo marketing mix integrato. La boutique monomarca continua ad essere
un pilastro della strategia a cui si aggiunge il “fantasy store”, ambiente dove lo shopping si fonda
con l’entertainment, ed è possibile consumare divertendosi circondati da architetture sempre
innovative; Cavalli la utilizza, interpretandola ovviamente a modo suo, cioè puntando sul rilancio
d’immagine, attraverso l’add-on costituito dal suo imprinting inconfrondibile, di strutture magari
celebri e finite nel dimenticatoio.
Nel 2001 si inaugura l’apertura della sua boutique cafè a Firenze, Il Cafè Giacosa, noto come
ritrovo della buona società fiorentina e luogo di nascita del celebre cocktail Negroni; la struttura è
personalizzata con i suoi motivi animalier, idea ripresa anche a Milano con il Just Cavalli Cafè, l’anno
seguente, anche in questo caso andando a valorizzare la Torre Branca, progettata da Gio Ponti nel
1933 nel Parco Sempione in occasione della V Mostra Triennale di Milano come simbolo di
modernità in una città in evoluzione. E ancora, e sempre a Firenze, il Cavalli Club, ricavato all’interno
della piccola chiesa sconsacrata adiacente alla basilica del Carmine nella centralissima piazza
omonima, avvalendosi nuovamente della creatività dell’architetto Italo Rota; e infine il Cavalli Club
di Dubai che, all’interno di uno degli hotel più famosi dell’Emirato, ricopre uno spazio comprensivo
di tre ristoranti, un bar e una boutique, cosparsi da 463mila cristalli Swarovski, foderati di visone
bianco ecologico e divisi da una tenda di 100 metri che riproduce il Ponte Vecchio di Firenze, a
richiamare le origini della cultura di Roberto Cavalli.
Naturalmente, ad agire come collante e a rendere omogenea questa serie di attività ormai
disparate, sta il brand e la sua immagine percepita, che viene sapientemente rilanciata in maniera
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periodica, attraverso ogni possibile “link” mediatico, sia esso una partecipazione straordinaria a un
evento, una partnership all’insegna del co-branding o il rapporto con qualche celebrity che va a
legare il proprio nome e la rispettiva immagine al mondo variegato di Cavalli. Che si tratti di una
mostra che ripercorra la genesi di quello che ormai viene definito “stile Cavalli” (come quella del
2002, intitolata More and more more and more - The looks Roberto Cavalli Wants for You e curata
sempre da Italo Rota) o di uscite roboanti come il Columbus Day Parade di New York City del 2003
nel quale, unico rappresentante ufficiale italiano, Roberto Cavalli ha sfilato guidando un’Alfa Romeo
Spider alla testa del corteo, seguito da 20 modelle alla guida di 20 moto Ducati con in testa un
casco firmato Roberto Cavalli; oppure di creazioni originali come le divise per il team di ciclismo
dì Mario Cipollini (stampate a zebra, naturalmente) o delle Bunnies di Playboy; o ancora, di abiti
confezionati per le protagoniste della serie TV “Sex and the city” piuttosto che per il tour mondiale
della cantante Shakira; i riferimenti semantici di Cavalli sono fra i più facilmente riconoscibili
dell’intera industria della moda, e richiamano eccesso, glamour, colore e soprattutto joie de vivre.
Questa impostazione aziendale prosegue pressoché inalterata fino ad oggi, attraverso tanti
successi e (più recentemente) qualche mutamento nella corporate governance. Infatti, una
situazione contingente di difficoltà, legata da un lato alla necessità di capitale per il proseguimento
della strategia di apertura ai nuovi mercati emergenti, dall’altro alla flessione contemporanea dei
ricavi (che ha interessato particolarmente il 2009) dovuta, soprattutto, al forte calo del mercato
statunitense in piena crisi globale e alla crisi del principale partner licenziatario, Ittierre Holding,
aveva comportato una profonda riflessione circa la possibilità di allargare a un fondo di
investimento la struttura aziendale, impostata su base familiare. L’ipotesi è tramontata, e invece si
è optato per l’ingresso di figure manageriali esterne come un nuovo Chief Executive Officer, nella
figura di Gianluca Brozzetti, e un Chief Operating Officer come Carlo Di Biagio. Dopo aver
festeggiato nel 2010 il 40ennale d’attività, il nuovo anno si è aperto all’insegna di due importanti
partnership siglate con la Staff International di Renzo Rosso per la produzione di Just, e con ISA Seta
per la realizzazione e la distribuzione di accessori in seta, intimo, abbigliamento per mare e gym,
per donna e uomo, con il marchio Roberto Cavalli.
I processi creativi in Cavalli
“Le mie stampe nascono sempre dalle mie fotografie e dalle stampe nascono i miei vestiti. L’oggetto
più comune può far rinascere in me ricordi lontani e diventare fonte di ispirazione per una collezione
o un semplice dettaglio di un abito. Ho fissato nella mia mente e poi nella mia macchina fotografica
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quei momenti, cose, persone. Ho guardato un cielo nero e ho aspettato con pazienza, per ore, che
si aprisse un varco di sole. Ecco, il nero non è mai assoluto. Dietro c’è sempre una luce”.
(Roberto Cavalli, intervista per la mostra “Il nero non è mai assoluto”, Milano 23 novembre 2010)
Esaminando il caso Cavalli dal punto di vista della gestione dei processi creativi, dobbiamo
partire da due considerazioni di fondo. La prima, è che la particolare impostazione dell’azienda,
orientata a valorizzare al massimo il proprio profilo artigianale, rispetto a quello industriale, è
intrinsecamente portata ad esaltare il ruolo e la natura del processo creativo.
In Cavalli la creatività si respira, trasuda da molti aspetti della vita aziendale, anche da quelli
meno immediatamente ad essa collegati nell’immaginario collettivo. La seconda, è che la cifra
stilistica dello stilista-artista, con la sua forza comunicativa-evocativa ed immediata riconoscibilità,
fa sì che il profilo della creatività aziendale rispecchi la strategia dello “style-setter”, piuttosto che
dello “style-taker”.
Il vantaggio competitivo costituito dall’aver saputo creare un intero sistema semantico,
conformato come lifestyle, da offrire in pasto al consumatore, fa sì che il processo creativo assuma
le forme di una digestione autonoma, da parte del proprio stile, dei canoni cangianti del mercato,
e delle sue esigenze, piuttosto che un vero e proprio adeguamento alle tendenze, come avviene
ad esempio in molti casi all’interno dell’industria della moda; potremmo dire, pur consapevoli di
quanto sia tranchant, e probabilmente incompleta, un’affermazione del genere, che è Cavalli a fare
la moda, non la moda a influenzare Cavalli, anche se è evidente che una contaminazione col
contesto di mercato, anche sul piano dei contenuti socioculturali, non può non esistere.
Non è raro, nel ripercorrere la vita dell’azienda, imbattersi in scelte artistiche e stilistiche di vera
e propria controtendenza rispetto al contesto di mercato, ma questo è sempre risultato un
elemento vincente, per Cavalli, mai un gap; dell’eccentricità, della capacità di sorprendere, stupire,
affermare la propria personalità, il brand ha fatto dei tratti distintivi veri e propri.
Questo approccio si riflette nelle descrizioni (come quelle offerte nell’ambito della recente
mostra da lui organizzata a Milano “Il nero non è mai assoluto”, nella quale ha mostrato una parte
del proprio gigantesco archivio fotografico) che lo stesso Roberto dà della genesi del suo personale
processo creativo, all’interno delle quali lo stilista sa valorizzare proprio la sua formazione e le sue
origini familiari così impregnate di artisticità.
Lo stilista si definisce persona in prima istanza curiosa, amante del viaggio e dell’esotico, e
capace di recepire un’ispirazione artistica da qualsiasi cosa colpisca il suo occhio; anzi, in queste
occasioni di comunicazione “extra-aziendale” ha avuto anche modo di esaltare questa componente
costitutiva del proprio essere e evidentemente del suo peculiare modo di tradurre immagini e
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contenuti in moda, che evochi a sua volta sensazioni ed emozioni, proprio contrapponendola con
malinconia alla tendenza sempre più “business-oriented” del proprio settore, ormai inevitabilmente
attratto verso le logiche stringenti dei numeri e dunque dei profili commerciale ed industriale.
Questa contrapposizione è naturalmente presente (e comunque, tipica del settore stesso) nella
ricerca di equilibri dinamici, all’interno del rapporto intra-aziendale delle varie fasi della catena di
produzione, soprattutto esprimendosi nella dialettica fra rigidità di budget e di gamma e libero
sfogo della capacità espressiva e creativa.
La genesi di prodotti e collezioni, all’interno di Cavalli, è sempre frutto di un processo complesso che
integra funzioni assai diverse fra loro.
E’ interessante notare come la fase di marketing analysis, e di definizione del planning relativo,
e dunque in estrema istanza la fase iniziale del processo, sia affidata al merchandising. Questo
reparto, che dipende direttamente dall’Amministratore Delegato, agisce da tramite con il mercato,
assolvendo una funzione di costante monitoraggio: analizza l’attività dei competitor, osserva
tendenze commerciali e comportamenti della distribuzione, questo anche se a causa della
peculiarità della composizione commerciale della Cavalli (per la quale la quota di venduto assolta
dai negozi monomarca è comunque una fetta minoritaria del totale), non si giova di un sistema
informativo integrato direttamente collegato con i punti vendita.
Dunque, il merchandising assolve a una funzione rispetto alla quale lo stile (ci viene ricordato in più
occasioni in azienda) “non andrebbe mai a farsi le relative domande”, avendo come obiettivo peculiare
quello di affermare l’idea di “ciò che è bello” (e non tanto, si noti bene, “di ciò che è lusso”, dato che il
“lusso” evoca un carattere di aspirazione, dunque di difficile accessibilità) sul mercato stesso.
E’ dunque comprensibile come la definizione del briefing delle collezioni veda un ruolo
protagonista da parte del Merchandising, che assieme al reparto Amministrazione definisce i
“paletti” entro i quali dovrà muoversi il combinato Stile/Prodotto/Produzione, che viene da subito
coinvolto in maniera integrata in questa fase di redazione del “merchandising plan”; questo è
comprensivo di numero “pacchetti” stagionali per campagna (solitamente 5, con scadenze temporali
determinate), linee guida della collezione, e struttura delle stesse, ripartite in due principali famiglie
(wear w accessori) e, all’interno di esse, nelle singole tipologie di prodotto. Il piano fornisce anche i
target di prezzo ideali (avendo già come parametro di riferimento il retail price finale, e dunque
definendo obiettivi cui conformare l’attività di realizzazione prodotto con costi conseguenti) e
obiettivi di venduto di massima, calcolati sull’andamento della precedente stagione, nonché il
budget da allocare per l’intera collezione, suddiviso a sua volta nelle varie sottocategorie.
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Esiste naturalmente un margine di “trattativa” fra i due diversi gruppi di funzioni, dal momento
che l’alta esperienza e professionalità del gruppo “creativo” permette già in questa fase sinergica
di ridurre i margini di aleatorietà rispetto al budget di massima messo a disposizione, ricavando
alcune alternative in termini di caratteristiche del prodotto, percorribili rispetto ai costi
corrispondenti. L’ampio gruppo di lavoro coinvolto decide la suddivisione del budget complessivo
nella tassonomia corrispondente, cercando di ridurre al massimo i margini di discrepanza possibili.
A questo punto, si entra nella fase creativa vera e propria, che vede protagonisti soprattutto il
reparto Stile e il reparto Prodotto, con una altissima collaborazione ed interazione fra gli attori
delle due aree.
Innanzitutto, occorre puntualizzare una diversità di approccio fra il momento della sfilata per
la passerella, che ha a disposizione uno specifico budget dedicato, e quello per la pre-collezione.
Nel primo caso, non c’è merchandising plan a monte, e alla creatività viene data la maggior libertà
d’espressione possibile. E’ il momento nel quale si fa più importante l’affermazione dello stile e dei
suoi concept più rilevanti, quelli che poi verranno piegati a esigenze più concrete legate al mercato
e agli andamenti delle vendite al momento della sfilata per la vendita. Per la sfilata in passerella
dunque si vive una maggiore esasperazione dell’aspetto creativo; in fase di precollezione, è invece
determinante legare al merchandising plan e alle sue componenti di costo/prezzo le proposte
creative.
La strutturazione della collezione ricalca ripartizioni tipiche del settore fra componenti più
riconoscibili e rassicuranti per il consumatore (basic), innovative (novità stagionale) e
maggiormente creative (ricerca esaperata), ma senza affidarsi con una certa sistematicità a formule
consuete (es. 30%-40%-30% oppure 50%-30%-20%).
Tuttavia, all’interno dell’azienda si è attivato periodicamente, ed è tutt’ora in corso, un dibattito
circa la necessità di individuare alcuni prodotti “iconici” che possano assumere carattere
continuativo, dunque costituire anche un elemento di maggiore sicurezza in termini di rendimento
commerciale, apportando allo stesso tempo stabilità stilistica. Un prodotto cui viene riconosciuta
questa potenzialità, ad esempio, è la “Diva Bag”, borsa per donna prodotta in varie declinazioni,
recentemente presentata.
Il reparto creativo vero e proprio è composto da due principali strutture, una relativa a pelle e
maglieria (che richiedono una competenza tecnica specifica), comprendente a sua volta 2 uffici con
altrettanti stilisti dedicati, e una per gli accessori, che ha uno stilista capo dal quale dipendono 2
figure dedicate rispettivamente a borse e a scarpe.
Anche nel caso di Cavalli, dunque, si può parlare di team creativo, con ampio spazio
all’autonomia dei gruppi di lavoro. La omogeneità del lavoro è data dal coordinamento operato
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dalle tre figure di spicco in ambito Stile, che sono Roberto ed Eva Cavalli e la Fashion Coordinator
Lucia Becattini; quest’ultima lavora con gli stilisti avendo voce in capitolo, e agisce anche da tramite
fra Stile e Merchandising.
Il reparto si è arricchito di risorse umane nel corso degli anni, rispecchiando l’ampliamento di
gamma della produzione e quindi in linea con l’accresciuta necessità di competenze tecniche
specifiche.
Il reperimento di stilemi, utili per rielaborare in maniera creativa idee stilistiche precise, che
nascono da questo sapiente mix fra ispirazione individuale (come, ad esempio, lo sviluppo dei
“colpi d’occhio” reperibili nelle immagini dello stesso Roberto Cavalli), ragionamento sull’evoluzione
stilistica interna (funzione alla quale risponde, ad esempio, il “Museo” interno contenente le varie
creazioni e i vari concept elaborati nella quarantennale vita dell’azienda) e attenzione per la moda,
è affidato a un team di assistenti di ricerca, che lavorano sulle varie fonti (che vanno dalle
pubblicazioni cartacee a internet, strumento il cui uso è molto cresciuto nel corso del tempo) per
ricostruire una sorta di “sfera semantica”, cui un particolare concetto artistico o stilistico può
agganciarsi attraverso vari punti di vista.
Questa attività nasce su precisa richiesta dei creativi, i quali identificano le priorità degli stessi
concetti da indagare (ad esempio, può essere inoltrata la richiesta di “tirar fuori l’idea del Barocco”
piuttosto che quella di ricostruire il concetto di “urban jungle”). I risultati di questa attività
confluiscono in un “mood board”, una bacheca che raccoglie i diversi stimoli accostandoli, e che
serve per stimolare i processi creativi di sviluppo dei concetti.
Una gamba di un tavolino può diventare dunque un modo particolare di tagliare un abito; un
materiale tipico di un’epoca o di uno stile, può essere ripreso e utilizzato per arricchire elementi del
tessuto; una fotografia in bianco e nero di una metropoli, piuttosto che l’accostamento di colori di
una macchia erbosa, fornire basi per le stampe e per la selezione dei colori. Naturalmente, in questa
dialettica fra reperimento di stilemi e processo creativo, emergono come fondamentali alcune
caratteristiche dello staff. Da più parti vengono messe in evidenza non solo (o non tanto)
l’importanza della formazione tecnica, quanto l’elasticità mentale, la capacità di legare i concetti
in maniera innovativa e, soprattutto, l’ecletticità della cultura.
Un bravo stilista è soprattutto un uomo dalla cultura enorme ed eterogenea; alcuni dei nostri sono capaci
di citare a braccio dove e quando è stato adottato un tessuto, o un colore, o un modello di abito, per la
prima volta, ma anche chi ha scritto una particolare canzone e dove, chi sono gli interpreti principali di
un peculiare filone cinematografico, o gli interpreti più rappresentativi di un movimento artistico.
(Francesca Tacconi)
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Trattandosi comunque di un processo fortemente sinergico, e dove le interazioni continue sono
all’ordine del giorno, non è facile individuare i confini precisi dell’attività dello Stile e quella del
Prodotto; evidentemente, si tratta di un processo dialettico nel quale la prima funzione è quella
dell’esplorazione della creatività, e la seconda quella di inquadrare la prima all’interno di una sintesi
con le indicazioni del merchandising plan, e dunque con una necessità di rispondenza ai costi e ai
prezzi, nonché canoni di prodotto, corrispondenti richiesti dal mercato.
L’obiettivo comune è comunque quello di arrivare, attraverso il classico processo che porta alla
stesura di figurini, e poi ai modelli, alla definizione infine di prototipi condivisi che siano già
corredati di schede tecniche relative, contenenti caratteristiche e (nella versione successiva delle
DIBA, “distinte di base”) relativi costi di realizzazione.
L’Ufficio Prodotto recepisce le indicazioni stilistiche e le traduce nei prototipi stessi, richiedendo
i prezzi di realizzazione al fornitore; l’Ufficio Acquisti interviene a sua volta in questa fase del
processo, aiutando nella ricerca e nella selezione dei materiali qualora si debba provvedere a fasi
interne di realizzazione, come la stampa (anch’esso è gestore di una porzione precisa del budget,
ricavata all’interno del merchandising plan sopra descritto, per l’acquisto materiali per la
realizzazione dei prototipi). Nel caso di fasi interne, i relativi costi di produzione, anch’essi inseriti
nella DIBA del prodotto, vengono individuati dall’Ufficio Costi e Pricing (del quale è comunque
responsabile il Direttore Operativo).
A conclusione del procedimento, la scheda tecnica del prodotto, a seguito di nuova verifica di
congruità con i canoni di sostenibilità economica indicati, sarà codificata tramite software PLM, in
modo da poter essere avviata all’industrializzazione, esterna od interna che sia, e dunque inserita
nella gestione informativa dell’intero processo di produzione, basato su un data entry intelligente,
attivo anche nelle fasi successive del processo aziendale, compresa la gestione della logistica.
Una funzione peculiare dell’azienda, sulla quale vale la pena di gettare uno sguardo a parte, è
quella di stamperia, che permette di manipolare internamente i materiali di lavoro, creando
elementi del tutto peculiari che da sempre corrispondono a una grossa componente del valore
aggiunto e del vantaggio competitivo (nonché della identificabilità stilistica) di Cavalli.
Stampa e decorazione sono legate ormai indissolubilmente, anche nell’immaginario collettivo,
a quei canoni di ricchezza ed opulenza che sono tratti distintivi dello stile della maison; il rapporto
fra questa funzione e la funzione creativa è ovviamente molto stretto, con collegamento diretto al
Reparto Prototipia interno, che lavora con sistemi di progettazione CAD/CAM. Il reparto si è
modificato nel corso del tempo, soprattutto grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie digitali, che
consentono più elasticità e una più facile gestione del processo. C’è tuttavia, dall’altro lato, anche
un po’ di nostalgia per il vecchio procedimento di stampa tramite quadri sovrapposti, che offriva
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un risultato meno “appiattito” dal punto di vista estetico, che dava ampie alternative d’effetto e nel
quale la vividezza dei colori era esaltata al massimo grado, nonché una esclusività stilistica che
invece adesso, con la tecnologia a costo relativamente basso e standardizzata, è diventata
appannaggio di tutti.
Anche nel caso di Cavalli abbiamo dunque a che fare con una struttura complessa che deve
sintetizzare in maniera vincente una parte oggettiva di rispondenza a canoni sempre più rigidi di
performance produttive e contenimento dei costi e dunque dei prezzi, con aspetti creativi, soft, di
traduzione brillante e innovativa delle competenze personali.
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7. Uno slogan per concludere
L’industria della moda nel suo sviluppo come industria di beni di consumo di massa si è
configurata negli ultimi quarant’anni come un industria ibrida (Ricchetti, 2006), in cui le
competenze manifatturiere e quelle creative sono strettamente e inestricabilmente intrecciate.
Lo sviluppo di competenze creative o di un’economia dei servizi creativi indipendente da un
sistema industriale manifatturiero, spesso vagheggiato da chi pensa ad un mercato globale della
moda diviso tra fabbriche localizzate in Paesi a basso costo del lavoro, Cina in testa, e centri della
creatività localizzati nei Paesi oggi dentali (Italia, UK, Francia e USA), ci sembra di difficile
realizzazione.
Il modello Wimbledon, come lo ha definito molti anni fa Tony Blair, “non importa de che
nazionalità siano i giocatori di tennis, l’importante è che le partite vengano giocate a Wimbledon” può
essere valido per i servizi finanziari, per il mondo della comunicazione o dei media, ma non per il
Sistema della Moda, in cui la creatività genera valore soltanto nel momento in cui è incorporato in
abiti, combinando intimamente elementi immateriali con la materialità di tessuti, filati fibre tessili
e pelle.
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