Lucinda Riley

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Lucinda Riley
Lucinda Riley
La luce
alla finestra
Traduzione di
Lisa Maldera
Titolo originale:
The Light Behind the Window
Copyright © Lucinda Riley 2012
All rights reserved
http://narrativa.giunti.it
© 2013 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia
ISBN 9788809788183
Prima edizione digitale: ottobre 2013
Per Olivia
«Ciò che si è,
lo si è per nascita.
Ciò che io sono, lo sono da me.»
Ludwig Van Beethoven
La luce alla finestra
Assoluta notte;
l’oscurità è il mio mondo.
Pesante fardello;
non v’è luce oltre la finestra.
Giorno clemente;
una mano uscì dal buio.
Sfiorò la stanza;
e l’irradiò col suo tepore.
Crepuscolo imminente;
da te scaturiscono le ombre.
Aleggia un segreto;
il cuore si scioglie e palpita.
Assoluta luce;
l’oscurità era il mio mondo
E ora scintilla e brucia;
e risplende, del mio amore per te.
Sophia de la Martinière
Luglio 1943
1
Gassin, sud della Francia, primavera 1998
Émilie sentì la madre allentare la presa sulla sua mano e abbassò gli occhi.
Guardando quel viso emaciato le sembrò che mentre l’anima abbandonava il corpo
di Valérie, anche il dolore che le aveva deformato i tratti stesse scomparendo,
riportando alla luce la bellezza di un tempo.
«Ci ha lasciati» mormorò rassegnato Philippe, il dottore.
«Sì.»
Alle sue spalle Émilie sentì recitare a bassa voce una preghiera a cui non volle
unirsi. Invece fissò con meraviglia quasi morbosa quel corpo cereo, tutto ciò che
restava di chi per trent’anni aveva condizionato la sua vita. Istintivamente avrebbe
voluto scuotere sua madre da quel sonno: Valérie de la Martinière era stata una
forza della natura, il suo passaggio dalla vita alla morte era troppo difficile da
accettare.
Émilie non riusciva a comprendere i propri sentimenti. Eppure si era già
immaginata quel momento molte volte nel corso delle ultime settimane. Distolse lo
sguardo dal viso esanime della madre e fissò fuori dalla finestra le nuvole vaporose
sospese nel cielo azzurro come meringhe ancora da cuocere. Dal vetro aperto entrò
il debole canto dell’allodola che annunciava l’arrivo della primavera.
Si alzò lentamente, con le gambe ancora rigide a causa della lunga notte di veglia
trascorsa a sedere, e andò alla finestra. L’atmosfera del primo mattino non era
gravata dalla tristezza che quelle ultime ore avrebbero dovuto portare con sé.
Sembrava un’alba qualsiasi: la natura aveva ridipinto il proprio quadro, e la
tavolozza dei bruni, dei verdi e degli azzurri della Provenza annunciava il nuovo
giorno. Émilie percorse con lo sguardo la terrazza e il giardino alla francese,
arrivando ai filari ondulati di vite che circondavano la casa e si estendevano a
perdita d’occhio. La vista era magnifica ed era la stessa da secoli. Da bambina
Château de la Martinière era stato il suo santuario, un luogo di pace, un rifugio
sicuro; quella tranquillità era impressa in maniera indelebile nel profondo del suo
animo.
E ora le apparteneva, anche se Émilie non sapeva se la madre le avesse lasciato
abbastanza denaro da consentirle di mantenere la proprietà, visti i suoi eccessi in
campo finanziario.
«Mademoiselle Émilie, la lascio un momento da sola per dare l’ultimo saluto a
sua madre.» La voce del dottore irruppe nei suoi pensieri. «Io vado di sotto a
compilare le pratiche. Mi dispiace molto.» Fece un lieve inchino e uscì dalla
stanza.
E a me? Dispiace davvero…?
Quella domanda balenò spontanea nella mente di Émilie. Tornò alla poltrona e si
rimise a sedere, cercando di dare una risposta alle molte questioni che la morte di
sua madre aveva sollevato, tentando di trovare una soluzione, soppesando ogni
emozione contrastante per far emergere i suoi reali sentimenti. Ma fu impossibile.
La donna che giaceva penosamente immobile – così innocua ora, ma che in vita
aveva avuto su Émilie un’influenza tale da disorientarla – avrebbe sempre suscitato
in lei un inestricabile groviglio di emozioni.
Valérie le aveva dato la vita, l’aveva vestita e nutrita e aveva provveduto a darle
un solido tetto sopra la testa. Non l’aveva mai picchiata né maltrattata.
Semplicemente l’aveva ignorata.
Era stata una madre – Émilie cercò la parola giusta – disinteressata. Il che aveva
reso lei una figlia invisibile.
Allungò la mano e l’appoggiò sopra quella della donna.
«Non mi hai mai considerata, maman… non hai mai capito…»
Émilie sapeva fin troppo bene di essere nata solo perché Valérie aveva accettato
con riluttanza di dare un erede alla casata dei Martinière. Una richiesta esaudita per
dovere, che non aveva nulla a che fare con il desiderio di maternità. Visto che era
arrivata una bambina anziché il maschio che tutti si aspettavano, Valérie se ne era
lavata le mani. Troppo in là con gli anni per concepire di nuovo – Émilie era nata
quando la madre era già quarantatreenne – Valérie era semplicemente andata
avanti con la propria vita, la vita di una tra le più belle, affascinanti e munifiche
signore di tutta Parigi. La nascita e la presenza della figlia sembravano avere lo
stesso peso della decisione di aggiungere un quarto chihuahua ai tre che già
possedeva. Émilie crebbe confinata in camera sua e, proprio come i cani, veniva
coccolata se e quando maman ne aveva voglia. Almeno i chihuahua si tenevano
compagnia fra loro, pensò Émilie, mentre lei era stata costretta a trascorrere la
maggior parte dell’infanzia in solitudine.
Aveva ereditato i tratti dei Martinière anziché i lineamenti delicati e i colori
chiari degli antenati slavi di sua madre. Era stata una bambina grassottella, con la
pelle olivastra e i capelli color mogano che ogni sei settimane le venivano tagliati a
caschetto, con una frangia che formava una severa linea scura appena sopra le folte
sopracciglia, un dono di suo padre, Édouard.
«A volte ti guardo, mia cara, e faccio fatica a credere di averti messa al mondo
io!» aveva commentato sua madre una delle rare volte che era andata a farle visita
nella sua cameretta, prima di uscire per andare all’opera. «Ma almeno hai i miei
occhi.»
A volte Émilie avrebbe desiderato strapparsi quelle iridi blu e sostituirle con i
bellissimi occhi nocciola di suo padre. Non le sembrava che quell’azzurro si
addicesse al suo viso e inoltre, ogni volta che si guardava allo specchio, rivedeva lo
sguardo di sua madre.
Spesso aveva pensato di essere nata senza alcuna qualità a cui Valérie attribuisse
valore. All’età di tre anni l’avevano portata a lezione di danza, ma ben presto
Émilie aveva scoperto che il suo corpo non ne voleva sapere di quei movimenti:
mentre le altre bambine fluttuavano nella sala leggere come farfalle, lei non
riusciva a mostrare la minima grazia. I suoi piedini larghi preferivano restare ben
piantati a terra e qualsiasi tentativo di sollevarli dal suolo finiva per fallire. Le
lezioni di piano erano state altrettanto disastrose e nel canto si era rivelata
irrimediabilmente stonata.
Il suo corpo non si prestava nemmeno a indossare i vestitini che sua madre
insisteva per metterle in occasione delle famose feste che organizzava nello
splendido giardino colmo di rose della loro casa parigina. Seduta in disparte,
Émilie osservava incantata quella donna affascinante, bellissima ed elegante
destreggiarsi fra gli ospiti con grazia e sicurezza. Sia durante gli innumerevoli
eventi parigini che in estate, al castello di Gassin, Émilie non parlava mai con
nessuno e si sentiva sempre a disagio. Come se non bastasse, sembrava che da sua
madre non avesse ereditato nemmeno la disinvoltura necessaria nelle occasioni
mondane.
Eppure un osservatore esterno avrebbe pensato che non le mancasse niente nella
vita. Aveva avuto un’infanzia da favola: viveva in una splendida casa a Parigi e
faceva parte di un’antica famiglia di nobili origini che disponeva ancora di una
ricchezza scampata alle devastazioni della guerra. Il suo era un mondo che la
maggior parte delle giovani francesi poteva soltanto sognare.
Almeno aveva avuto il suo amato papà. Anche se non le concedeva molto più
tempo della madre, ossessionato com’era dalla collezione di libri rari che
conservava nel castello, quando Émilie riusciva ad attirare la sua attenzione era
capace di darle l’amore e l’affetto che tanto desiderava.
Papà aveva sessant’anni quando era nata Émilie ed era morto quattordici anni
dopo. Non erano riusciti a trascorrere molto tempo insieme, ma le era stato
sufficiente per capire da chi aveva ereditato gran parte della propria personalità.
Édouard era silenzioso e riflessivo, preferiva i libri e la pace del castello al costante
flusso di ospiti di cui si circondava sua madre. Émilie si era chiesta spesso come
due persone così diverse avessero finito per innamorarsi. Ma Édouard sembrava
adorare la giovane moglie e, nonostante preferisse vivere in maniera più frugale,
non si lamentava mai di quel dispendioso stile di vita, ed era orgoglioso della
bellezza e della popolarità di Valérie sulla scena mondana di Parigi.
Spesso, quando l’estate volgeva al termine ed era tempo per Valérie ed Émilie di
tornare a Parigi, lei supplicava suo padre di farla restare.
«Papà, a me piace stare qui in campagna con te. C’è una scuola in paese… potrei
seguire lì le lezioni e intanto occuparmi di te, perché di sicuro ti sentirai
abbandonato qui al castello da solo.»
Édouard le dava un buffetto affettuoso sotto il mento e scuoteva la testa. «No,
piccolina. Per quanto bene ti voglio, tu devi tornare a Parigi e studiare per
diventare una vera signora come tua madre.»
«Ma papà, io non voglio tornare con maman, io voglio stare qui con te…»
E poi, quando aveva tredici anni… Émilie ricacciò indietro le lacrime, ancora
incapace di ripensare al momento in cui il disinteresse di sua madre si ,era
trasformato in abbandono. Ne avrebbe subìto le conseguenze per il resto della vita.
«Come hai potuto non vedere né sentire quello che mi stava
succedendo,maman? Ero tua figlia!»
Una palpebra di Valérie sembrò fremere all’improvviso ed Émilie sobbalzò,
temendo che maman fosse ancora viva e l’avesse sentita. Ma quando le afferrò il
polso per sentire il battito non avvertì pulsazioni. Erano soltanto le ultime tracce di
vita in un corpo che si abbandonava alla morte.
«Maman, cercherò di perdonarti. Proverò a capirti, ma in questo momento non so
dire se sono triste o felice che tu sia morta.» Émilie sentì il proprio respiro farsi
pesante, come per reazione a quelle parole pronunciate ad alta voce. «Ti volevo
così bene, ho cercato di compiacerti in tutti i modi, di guadagnarmi il tuo affetto e
le tue attenzioni, di sentirmi… degna di essere tua figlia. Mio Dio! Ho fatto di
tutto!» Émilie strinse i pugni. «Tu eri mia madre!»
Ammutolì, scioccata dal suono della sua stessa voce che rimbombava nella
grande camera da letto. Fissò lo stemma dei Martinière, dipinto
duecentocinquant’anni prima sull’imponente testiera del letto. Ormai sbiaditi, i due
cinghiali in lotta, l’onnipresente giglio e in basso l’aforisma la vittoria è tutto erano
appena distinguibili.
Improvvisamente Émilie rabbrividì, nonostante nella stanza facesse molto caldo.
Il silenzio del castello era assordante. Quella casa, un tempo piena di vita, era
ormai ridotta a un involucro vuoto, che ospitava solo il passato. Osservò il sigillo
infilato al mignolo della mano destra, che riportava lo stemma di famiglia in
miniatura. Lei era l’ultima dei Martinière.
Improvvisamente sentì su di sé il peso di secoli di storia e constatò con tristezza
che l’ultima erede di quel nobile lignaggio era una trentenne nubile e senza figli.
La famiglia aveva resistito a secoli di brutali devastazioni ma, nell’arco di
cinquant’anni, la Prima e la Seconda guerra mondiale avevano lasciato in vita solo
suo padre.
Almeno non ci sarebbero stati i soliti battibecchi sulla spartizione dell’eredità. In
base a un’obsoleta legge napoleonica, fratelli e sorelle ereditavano direttamente e
in parti uguali le proprietà dei genitori. Era accaduto che molte famiglie si fossero
trovate sull’orlo della rovina perché uno dei figli si era rifiutato di vendere.
Tristemente, in questo caso, les héritiers en ligne directe si riducevano a lei.
Émilie sospirò. Avrebbe potuto vendere, certo, ma non era quello il momento di
pensarci. Ora era tempo di dire addio.
«Riposa in pace, maman.» Sfiorò quella fronte cerea con un lieve bacio e si fece
il segno della croce. Alzandosi a fatica dalla poltrona, Émilie lasciò la stanza,
chiudendosi la porta alle spalle, risoluta.
2
Due settimane dopo
Émilie fece colazione con café au lait e croissant in cucina, appoggiata allo stipite
della porta che dava sul cortile retrostante, tappezzato di lavanda. Il castello era
rivolto a sud, e quello era il punto migliore per godersi il sole del mattino. Era un
bellissimo e profumato giorno di primavera, abbastanza tiepido per starsene
all’aperto in maglietta.
Quarantotto ore prima, a Parigi, durante il funerale di sua madre, la pioggia era
caduta incessantemente mentre la bara veniva interrata. Durante la veglia –
organizzata al Ritz per volere della stessa Valérie – Émilie aveva ricevuto le
condoglianze di molte persone illustri. Le donne, quasi tutte dell’età di sua madre,
erano vestite di nero; somigliavano, aveva pensato Émilie, a uno stormo di vecchie
cornacchie. Avevano nascosto i capelli sempre più radi sotto cappellini fuori moda,
e vagavano malferme sorseggiando champagne, con i corpi consumati dalla
vecchiaia e i visi rugosi coperti da una maschera di trucco.
Nel fiore degli anni erano state considerate le donne più belle e potenti di tutta
Parigi. Ma ormai il naturale ciclo della vita le aveva rimpiazzate con una nuova
generazione di giovani rampanti. Tutte quelle donne stavano semplicemente
aspettando la morte, aveva pensato Émilie con malinconia mentre lasciava il Ritz e
chiamava un taxi per farsi riaccompagnare a casa, nel suo appartamento. In preda
alla tristezza, aveva bevuto molto più vino del solito e il giorno dopo si era
svegliata con i postumi della sbornia.
Ma almeno il peggio era passato, si era detta Émilie per darsi conforto,
sorseggiando il caffè. Nel corso delle ultime due settimane le era stato davvero
difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse l’organizzazione del funerale.
Aveva capito che se non altro doveva a sua madre quel genere di addio che Valérie
avrebbe pianificato alla perfezione. Perciò si era tormentata per decidere se,
insieme al caffè, fosse meglio servire cupcakes o petits fours, o se il trionfo di rose
bianche che sua madre amava tanto fosse sufficiente per la decorazione del tavolo.
Era il genere di decisioni apparentemente insignificanti che Valérie prendeva ogni
giorno, e ritrovandosi in quel ruolo Émilie aveva suo malgrado maturato una sorta
di rispetto per la disinvoltura che sua madre aveva sempre dimostrato.
Ma ora – Émilie sollevò il viso verso il sole, crogiolandosi in quel tepore
confortante – era giunto il momento di pensare al futuro.
Gérard Flavier, il notaire che si occupava degli affari legali e patrimoniali dei
Martinière, stava arrivando da Parigi per incontrarla al castello. Non aveva molto
senso mettersi a fare piani prima di conoscere la situazione finanziaria della
proprietà. Émilie aveva preso un mese di ferie per affrontare quello che sapeva
sarebbe stato un percorso lungo e difficile. Le sarebbe piaciuto condividere quel
peso con un fratello o una sorella; le questioni legali e finanziarie non erano
proprio il suo forte. Quella responsabilità la terrorizzava.
Émilie avvertì qualcosa di soffice contro la caviglia, abbassò gli occhi e vide
Frou-Frou, l’ultima dei chihuahua di sua madre, che la guardava con occhi languidi
e tristi. Prese in braccio la vecchia cagnetta e se la mise sulle ginocchia,
accarezzandole le orecchie.
«Pare che siamo rimaste solo io e te, Frou» bisbigliò. «Perciò dobbiamo badare
l’una all’altra, vero?»
L’espressione seria che vide negli occhi velati della cagnetta la fece sorridere.
Non aveva idea di come avrebbe fatto a occuparsi di lei. Sognava di potersi
circondare di animali un giorno, ma il suo minuscolo appartamento nel Marais e il
lavoro a tempo pieno non la mettevano nella condizione di badare a un cane
cresciuto fra coccole e comodità.
In realtà, prendersi cura degli animali era il suo pane quotidiano. Émilie viveva
per i suoi vulnerabili pazienti, incapaci di esprimere cosa provassero o dove
sentissero dolore.
«È triste che mia figlia sembri preferire la compagnia degli animali a quella
degli esseri umani…»
Quelle parole esprimevano appieno ciò che Valérie pensava della vita che sua
figlia aveva scelto. Quando Émilie aveva annunciato di volersi laureare in
veterinaria, sua madre aveva risposto contraendo le labbra in una smorfia di
disgusto. «Non riesco a capire come tu possa voler passare il resto della tua vita a
sezionare dei poveri animaletti e osservare le loro interiora.»
«Maman, quello è il procedimento, non la motivazione. Io amo gli animali,
voglio aiutarli» aveva risposto lei, sulla difensiva.
«Se proprio vuoi fare carriera, allora perché non consideri la moda? Ho un’amica
che lavora da Marie Claire e sono certa che potrebbe trovarti un posticino.
Ovviamente, quando ti sposerai, non vorrai mica continuare a lavorare? Sarai una
moglie e quello diventerà il tuo ruolo.»
Émilie non biasimava la madre per essere rimasta intrappolata nella propria
epoca, ma non poteva fare a meno di desiderare che andasse fiera dei suoi successi.
Si era laureata come migliore studentessa del suo anno accademico e aveva subito
ottenuto un tirocinio in uno dei più famosi studi veterinari di Parigi.
«Forse maman aveva ragione, Frou,» disse sospirando «forse preferisco gli
animali alle persone.»
Émilie sentì lo scricchiolio della ghiaia sotto gli pneumatici, mise a terra FrouFrou e fece il giro della casa per andare ad accogliere Gérard.
«Émilie, come stai?» Gérard Flavier la baciò sulle guance.
«Sto bene, grazie» rispose lei. «Com’è andato il viaggio?»
«Ho preso un aereo per Nizza e poi ho noleggiato una macchina per arrivare fin
qui» disse Gérard, entrando nell’ampio ingresso che gli scuri chiusi avvolgevano
nell’ombra. «Sono felice di poter evadere da Parigi per ritrovarmi in uno dei luoghi
che preferisco in tutta la Francia. La primavera nel Var è sempre splendida.»
«Ho pensato che fosse meglio incontrarci qui al castello» concordò Émilie. «I
documenti dei miei genitori sono nella scrivania della biblioteca e ho immaginato
che avessi bisogno di consultarli.»
«È così.» Gérard percorse il pavimento di marmo consunto e si fermò a studiare
una macchia d’umido sul soffitto. «Il castello avrebbe bisogno di un po’ di cure
amorevoli, non credi?» sospirò. «Sta invecchiando, come tutti noi.»
«Andiamo in cucina?» suggerì Émilie. «Ho appena fatto il caffè.»
«Ne ho proprio bisogno» rispose Gérard con un sorriso, seguendola lungo il
corridoio che conduceva sul retro della casa.
«Siediti pure» disse lei, indicando una delle sedie accanto al lungo tavolo di
quercia e avvicinandosi ai fornelli per mettere a bollire altra acqua.
«Mi pare che il lusso non sia la priorità qui dentro» disse Gérard osservando il
mobilio modesto e funzionale.
«Già» confermò Émilie. «D’altra parte questo era uno spazio riservato alla
servitù che si occupava della nostra famiglia e degli ospiti. Credo che mia madre
non abbia mai toccato una pentola in vita sua.»
«Ora chi si occupa delle faccende al castello?» chiese Gérard.
«Margaux Duvall, la governante, lavora qui da quindici anni. Arriva dal paese
ogni pomeriggio. Dopo la morte di mio padre maman licenziò il resto del personale
e smise di venire ogni estate con regolarità. Credo preferisse viaggiare sullo yacht
che aveva noleggiato.»
«Di sicuro a tua madre piaceva spendere» disse Gérard mentre Émilie gli
appoggiava davanti la tazza di caffè. «Per le cose che aveva a cuore» aggiunse.
«Cioè non per il castello» dichiarò lei senza mezzi termini.
«Esattamente» concordò Gérard. «Da quello che ho potuto constatare traeva
molte più soddisfazioni dalla Maison Chanel.»
«Sì, maman adorava l’haute couture.» Émilie gli si sedette di fronte con la tazza
di caffè in mano. «Anche nell’ultimo anno di vita, nonostante la malattia, ha
continuato ad assistere alle sfilate.»
«Valérie era senza dubbio un personaggio; ed era anche famosa. I giornali hanno
dato grande rilievo alla sua morte» disse. «Comunque non c’è da stupirsi. Quella
dei Martinière è una delle famiglie più prestigiose di tutta la Francia.»
«Lo so,» disse Émilie con una smorfia «anch’io ho visto i giornali. A quanto pare
ho ereditato una fortuna.»
«Non c’è dubbio che la tua famiglia sia stata straordinariamente ricca.
Sfortunatamente, Émilie, i tempi sono cambiati. Il titolo nobiliare esiste ancora ma,
per quanto riguarda il patrimonio, il discorso è diverso.»
«Immaginavo.» Émilie non fu sorpresa da quella notizia.
«Saprai che tuo padre non era esattamente quel che si può definire un uomo
d’affari» proseguì Gérard. «Era un intellettuale, un accademico a cui i soldi non
interessavano granché. Ho provato molte volte a parlargli di investimenti, ho
cercato di convincerlo a pianificare il suo futuro, ma a lui non importava.
Vent’anni fa in effetti la situazione era solida, il patrimonio di famiglia era
consistente. Ma fra il disinteresse di tuo padre e la passione di tua madre per il
lusso, i capitali si sono ridotti considerevolmente.» Gérard sospirò. «Mi spiace
dover portare cattive notizie.»
«Me l’aspettavo, e comunque per me non cambia molto» lo rassicurò Émilie.
«Voglio solo sistemare questa faccenda e tornare al mio lavoro, a Parigi.»
«Émilie, temo che le cose non siano così semplici. Come ti ho detto all’inizio
non ho ancora avuto il tempo di esaminare la situazione in maniera dettagliata, ma
posso dirti che la proprietà ha molti debiti. E i creditori vanno pagati il prima
possibile» spiegò. «Tua madre è riuscita a rimanere scoperta di quasi venti milioni
di franchi sulla casa di Parigi. E aveva contratto anche molti altri debiti, che vanno
estinti.»
«Venti milioni di franchi?» Émilie rimase scioccata. «Com’è possibile?»
«Facile. Mentre il patrimonio diminuiva Valérie non ha cercato di moderare il
suo tenore di vita. Già da molti anni viveva facendosi prestare denaro. Ti prego,
Émilie,» Gérard vide l’espressione nei suoi occhi «non farti prendere dal panico.
Sono debiti che possono facilmente essere saldati, non solo grazie alla vendita
della casa di Parigi, che credo possa rendere settanta milioni di franchi, ma anche
di quello che c’è dentro. Per esempio la magnifica collezione di gioielli di tua
madre, adesso custodita in una cassetta di sicurezza in banca, e tutti gli oggetti
d’arte e i quadri di valore. Non sei certo povera, credimi, ma bisogna prendere in
mano la situazione al più presto e pianificare il futuro.»
«Capisco» rispose lentamente Émilie. «Perdonami, Gérard, ma ho preso da mio
padre e non ho né interesse né esperienza nel gestire le finanze.»
«Mi rendo perfettamente conto della situazione. I tuoi genitori ti hanno lasciato
una bella matassa da sbrogliare da sola. Anche se» Gérard alzò un sopracciglio «è
sorprendente vedere quanti nuovi parenti sembri aver acquisito.»
«Cosa vuoi dire?»
«Oh, non ti devi preoccupare, in momenti come questi gli avvoltoi arrivano
sempre. Ho ricevuto almeno venti lettere da persone che sostengono di essere
imparentate con i Martinière. Finora quattro fratelli e sorelle illegittimi,
apparentemente figli di tuo padre, due cugini, uno zio e un domestico della casa di
Parigi che giura di avere diritto a un Picasso, promessogli da tua madre negli anni
Sessanta.» Gérard sorrise. «Tutto come da copione, ma sfortunatamente secondo la
legge francese ogni rivendicazione va verificata.»
«Credi che nessuno di loro dica la verità?» Émilie spalancò gli occhi.
«Ne dubito fortemente. E se ti può consolare questa cosa accade ogni volta che
un decesso viene pubblicizzato in questo modo.» Scrollò le spalle. «Lascia fare a
me e non preoccuparti. Preferirei che ti concentrassi sul castello. Come ho già
detto, i debiti di tua madre possono essere saldati facilmente, ma ti rimane sempre
questa magnifica proprietà che ha urgente bisogno di una ristrutturazione, da quel
che ho visto. Qualunque cosa tu decida di fare, sarai una donna benestante, ma
pensi di tenere il castello o di venderlo?»
Émilie fissò il vuoto e sospirò profondamente. «A essere onesta, Gérard, vorrei
non doverci più pensare. Vorrei che qualcun altro prendesse questa decisione. E il
vigneto? La cantina rende qualcosa?» chiese.
«È una delle questioni su cui devo ancora indagare» rispose Gérard. «Se decidi
di vendere il castello possiamo includere anche l’azienda vinicola, che può figurare
come attività ben avviata.»
«Vendere il castello…» Émilie ripeté le parole di Gérard. Pronunciarle ad alta
voce le fece capire quanto fosse grande la responsabilità che gravava sulle sue
spalle. «Questa casa appartiene alla nostra famiglia da duecentocinquant’anni. E
ora la decisione spetta a me. E la verità è che» sospirò «non ho la più pallida idea
di cosa devo fare.»
«Capisco benissimo. Come ti ho già detto la difficoltà maggiore sta nel fatto che
sei sola.» Gérard scosse la testa in segno di comprensione. «Cosa dire? Non
sempre scegliamo noi le situazioni in cui finiamo per ritrovarci. Per quanto mi è
possibile, Émilie, cercherò di esserti d’aiuto; è quello che avrebbe voluto tuo padre
in questa circostanza. Adesso vado a darmi una rinfrescata; magari più tardi
possiamo andare a vedere la vigna e fare quattro chiacchiere con chi se ne occupa.»
«Okay» rispose Émilie scettica. «Ho aperto gli scuri della stanza da letto a
sinistra dello scalone. C’è una vista splendida. Vuoi che ti accompagni?»
«No, ti ringrazio. Sono venuto tante altre volte. Non avrò problemi a trovarla.»
Gérard si alzò, fece un cenno del capo a Émilie e uscì dalla cucina, diretto in
camera sua. Salendo lo scalone si fermò a mezza via, fissando il viso sbiadito e
polveroso del capostipite dei Martinière. Quante nobili famiglie di Francia stavano
scomparendo insieme alla loro storia, lasciando solo un’impronta nella polvere. Si
domandò come si sarebbe sentito l’uomo del ritratto, il grande Giles de la
Martinière – guerriero, nobiluomo e, si diceva, amante di Maria Antonietta –
sapendo che il futuro della sua casata sarebbe finito nelle mani di una giovane
donna. Una donna che Gérard aveva sempre trovato molto singolare.
In tutti quegli anni, durante le sue visite ai Martinière, Gérard aveva avuto a che
fare con una bimba bruttina che tendeva a isolarsi, incapace di rispondere a
qualunque gesto d’affetto. Una bambina che, nonostante i suoi tentativi di
mostrarsi amichevole, sembrava lontana, sfuggente, quasi scontrosa. Gérard
riteneva che il mestiere di notaire non si limitasse alla compilazione di colonne di
cifre, ma includesse la capacità di comprendere i propri clienti.
Ma per lui Émilie de la Martinière era sempre stata un mistero.
L’aveva osservata al funerale di Valérie e il suo viso non aveva mai tradito
emozioni. Senza dubbio, crescendo, era diventata molto più bella. Poco prima, al
piano di sotto, nonostante la recente perdita della madre e la necessità di prendere
una decisione fondamentale, Émilie non gli era sembrata affatto vulnerabile. La
vita che conduceva a Parigi non avrebbe potuto essere più distante da quella dei
suoi antenati. La sua era un’esistenza anonima, mentre la vita dei suoi genitori e la
storia della sua famiglia erano decisamente fuori dal comune.
Gérard riprese a salire le scale, irritato da quella reazione così tiepida. C’era
qualcosa che non quadrava… c’era qualcosa in lei che gli sfuggiva. E non aveva
idea di come sciogliere quell’enigma.
Quando Émilie si alzò per mettere le tazze nel lavello, la porta della cucina si aprì e
apparve Margaux, la governante del castello. Non appena vide la padrona il suo
volto si illuminò.
«Mademoiselle Émilie!» la domestica corse ad abbracciarla. «Non sapevo che
sarebbe venuta! Avrebbe dovuto dirmelo. Le avrei fatto trovare tutto pronto.»
«Sono arrivata da Parigi ieri notte» disse Émilie. «È bello rivederti, Margaux.»
Margaux fece un passo indietro e scrutò gli occhi della giovane con sguardo
pieno di cordoglio. «Come sta?»
«Me la cavo…» rispose Émilie in tutta onestà; la vista di Margaux, che sin da
quando era una ragazzina si era presa cura di lei durante le estati trascorse al
castello, le fece salire un nodo alla gola.
«Mi sembra tanto magra. Ha smesso di mangiare?» le domandò squadrandola da
capo a piedi.
«Certo che mangio, Margaux! E comunque non c’è pericolo che scompaia.»
Émilie sorrise debolmente, toccandosi i fianchi.
«Guardi che lei ha delle belle forme… aspetti di avere la mia età!» Margaux
accennò al proprio corpo appesantito e si mise a ridacchiare.
Émilie osservò l’azzurro dei suoi occhi che si stava attenuando e i capelli biondi
striati di grigio. Ricordò la bellissima donna che Margaux era stata quindici anni
prima e il pensiero di come il passare del tempo distruggesse tutto ciò che trovava
sul suo cammino la fece sentire ancora peggio.
La porta della cucina si aprì di nuovo. Apparve un ragazzino gracile, con il viso
da elfo dominato dagli stessi grandi occhi azzurri di sua madre. Quando vide
Émilie rimase di stucco e subito rivolse uno sguardo nervoso a Margaux.
«Maman, io ci posso stare qui?» chiese.
«Le dispiace se Anton resta al castello con me mentre sbrigo le
faccende,mademoiselle Émilie? Ci sono le vacanze di Pasqua e non vorrei lasciarlo
a casa da solo. Di solito se ne sta seduto buono buono con il suo libro.»
«Certo, non c’è nessun problema» rispose Émilie, rivolgendo al ragazzino un
sorriso rassicurante. Margaux aveva perso il marito otto anni prima in un incidente
d’auto. Da allora aveva lottato per crescere suo figlio da sola. «Credo che ci sia
abbastanza spazio per tutti qui dentro, non vi pare?»
«Sì, mademoiselle Émilie. Grazie» disse Anton riconoscente, avvicinandosi a sua
madre.
«Di sopra c’è Gérard Flavier, il nostro notaire. Resterà qui per la notte,
Margaux» aggiunse Émilie. «Dobbiamo andare al vigneto per parlare con Jean e
Jacques.»
«Gli farò la camera mentre siete via. Vuole che prepari qualcosa per cena?»
«No, grazie, più tardi andremo a mangiare in paese» rispose Émilie.
«Sono arrivati dei conti da saldare, mademoiselle. Vuole che glieli porti?»
domandò Margaux imbarazzata.
«Sì, certo.» Émilie sospirò. «Non c’è più nessun altro che possa pagarli.»
«No. Mi spiace così tanto mademoiselle. Dev’essere dura per lei dover fare tutto
da sola. So bene come ci si sente» disse Margaux comprendendo il suo stato
d’animo.
«Ti ringrazio. Ci vediamo dopo, Margaux.» Émilie annuì a madre e figlio e uscì
dalla cucina per andare da Gérard.
Nel pomeriggio lo accompagnò alla cantina. Il vigneto dei Martinière era una
piccola azienda di dieci ettari che produceva circa duemila bottiglie di vino rosé,
bianco e rosso, vendute perlopiù a ristoranti, hotel ed enoteche locali.
La cantina era buia e fresca, l’aria era impregnata dell’odore del mosto
fermentato che proveniva dalle antiche botti di rovere russo, allineate lungo le
pareti.
Jean Benoit, il direttore della cantina, si alzò da dietro la scrivania non appena li
vide entrare.
«Mademoiselle Émilie! Che piacere vederla.» Jean la baciò calorosamente sulle
guance. «Papà, guarda chi c’è!»
Anche se ormai ottantenne e irrigidito dai reumatismi, Jacques Benoit continuava
imperterrito ad andare alla cantina ogni giorno per avvolgere accuratamente ogni
bottiglia nella carta velina rossa; l’uomo alzò gli occhi e sorrise.
«Mademoiselle Émilie, come sta?»
«Sto bene, Jacques, grazie. E lei?»
«Ah, ormai non riesco più a inseguire i cinghiali su per le colline, come facevo
un tempo con suo padre» ridacchiò. «Ma almeno fino a oggi sono sempre riuscito a
svegliarmi vivo ogni mattina.»
Di fronte a quell’accoglienza calorosa e familiare Émilie si sentì aprire il cuore.
Jacques e suo padre erano stati grandi amici ed Émilie aveva pedalato spesso fino
alla vicina spiaggia di Gigaro per andare a nuotare insieme a Jean, il quale, avendo
otto anni più di lei, le era sempre sembrato adulto. A volte fantasticava che fosse
suo fratello. Jean era sempre stato molto gentile e protettivo nei suoi confronti.
Aveva perso la madre, Francesca, quando era ancora molto giovane, e suo padre
Jacques aveva fatto del suo meglio per tirarlo su da solo.
Padre e figlio, così come i loro avi, erano nati e cresciuti nella casetta accanto
alla cantina. Era Jean che gestiva la vigna ormai; aveva preso il posto del padre che
gli aveva insegnato tutti i segreti per mescolare e far fermentare l’uva che veniva
raccolta nelle vigne circostanti.
Émilie si accorse che Gérard stava gironzolando imbarazzato dietro di lei.
Sottraendosi a quei ricordi disse: «Questo è Gérard Flavier, il nostro notaire di
famiglia».
«Credo che ci siamo già conosciuti molti anni fa, monsieur» disse Jacques
tendendogli una mano tremolante.
«Sì, e da allora continuo a gustare la delicatezza del vino che produce»
commentò Gérard sorridendo.
«Troppo gentile, monsieur» disse Jacques. «Sa, credo che mio figlio mi abbia
superato, sfiorando la perfezione con il suo rosé provenzale.»
«Immagino, monsieur Flavier, che lei sia qui non per controllare la qualità del
prodotto ma il bilancio della cantina.» Jean parve inquieto.
«Vorrei capire se questa attività è finanziariamente rilevante» confermò Gérard.
«Temo che mademoiselle Émilie sarà costretta a prendere delle decisioni in
proposito.»
«Be’,» disse Émilie «credo di non potervi più essere d’aiuto. Vado a fare una
passeggiata nella vigna.» Rivolse un cenno di saluto ai tre uomini e corse via.
Nell’uscire si rese conto che l’imbarazzo provato nasceva dalla consapevolezza
che la sua scelta avrebbe deciso il futuro della famiglia Benoit. Il loro modo di
vivere era lo stesso da secoli. Si era accorta della grande preoccupazione di Jean,
che aveva intuito le conseguenze di un’ipotetica vendita. Un nuovo proprietario
probabilmente avrebbe portato con sé un nuovo direttore, e Jean e Jacques
sarebbero stati costretti ad andarsene. Non riusciva nemmeno a immaginare
un’eventualità del genere, dal momento che i Benoit sembravano essere nati dalla
stessa terra che stava calpestando in quel momento.
Il sole era già calato all’orizzonte mentre Émilie camminava tra le fragili piantine
di vite. Nel corso delle settimane seguenti sarebbero cresciute velocemente,
maturando frutti dolci e succosi da raccogliere durante la vendangedi fine estate
per produrre il vino nuovo.
Si voltò a guardare il castello, trecento metri più lontano, e sospirò angosciata.
La pietra chiara e rosata dei muri, gli scuri delle finestre dipinti con il tradizionale
azzurro, la cornice di alti cipressi: tutto era addolcito dalla delicatezza del
tramonto. Semplice e al contempo elegante, progettato per fondersi in maniera
armoniosa con la campagna circostante, l’edificio rappresentava perfettamente la
raffinata e nobile famiglia che l’aveva costruito e dalla quale Émilie discendeva.
E siamo noi tutto ciò che resta…
Émilie fu colta da un improvviso moto d’affetto per il castello. Anche lui era
orfano. Ammirato per la sua imponenza, ma ignorato nei bisogni fondamentali,
riusciva nonostante tutto a mantenere un’aria di elegante dignità. Émilie avvertì
uno strano senso di solidarietà nei confronti di quell’edificio.
«Come posso darti ciò di cui hai bisogno?» gli sussurrò. «Cosa devo fare con te?
La mia vita è altrove, non…» Sospirò sentendosi chiamare.
Gérard la stava raggiungendo. Le si mise accanto e seguì il suo sguardo in
direzione del castello.
«È bellissimo, vero?» disse.
«Sì, lo è. Ma non ho idea di cosa dovrei farne.»
«Perché non torniamo indietro? Ti esporrò cos’ho pensato in proposito. Potrebbe
esserti d’aiuto» suggerì Gérard.
«Grazie.»
Venti minuti dopo, appena il sole scomparve completamente dietro la collina sulla
quale sorgeva il paesino medievale di Gassin, Émilie sedette con Gérard e ascoltò
quello che aveva da dire.
«Il vigneto non rende quanto potrebbe, sia in termini di produzione che di
profitto. C’è stata un’impennata nel commercio internazionale di rosé negli ultimi
anni. Non è più considerato il cugino povero del rosso e del bianco. Se le
condizioni meteorologiche resteranno favorevoli nelle prossime settimane, Jean
prevede una vendemmia eccezionale. Il punto è, Émilie,» spiegò Gérard «che la
cantina è sempre stata gestita dalla tua famiglia come un passatempo.»
«Sì, me ne rendo conto» concordò lei.
«Jean – che detto fra noi mi ha fatto un’ottima impressione – mi ha riferito che
dalla morte di tuo padre, sedici anni fa, non sono più stati investiti fondi nella
vigna. Originariamente il patto era che la vigna fornisse alla casa padronale una
riserva di vino di queste terre. Negli anni d’oro, quando i tuoi antenati vivevano in
grande stile qui al castello, il vino era a loro esclusivo uso e consumo. Ora
ovviamente tutto è cambiato, ma il vigneto funziona allo stesso modo di un
tempo.»
Gérard osservò Émilie in attesa di una risposta, ma non vedendo alcuna reazione
da parte sua proseguì.
«Quello di cui la cantina ha bisogno è un’iniezione di denaro per riuscire a
sfruttare tutto il suo potenziale. Ad esempio, Jean mi ha detto che ci sarebbe terra a
sufficienza per raddoppiare le dimensioni del vigneto. Pensa anche che con
attrezzature moderne sarebbe possibile ricavarne un discreto profitto. Il punto è,»
sintetizzò Gérard «se tu hai intenzione o meno di dare un futuro al castello e alla
vigna. Hanno entrambi bisogno di essere rinnovati e saresti costretta a dedicare
loro buona parte del tuo tempo.»
Émilie si concentrò sul silenzio. Non c’era un filo di vento. Quell’atmosfera
serena l’avvolse come uno scialle caldo. Per la prima volta dopo la morte di sua
madre Émilie si sentì in pace. E quindi riluttante a prendere una decisione.
«Grazie davvero del tuo aiuto, Gérard. Ma non credo di avere una risposta in
questo momento» spiegò. «Se me l’avessi chiesto due settimane fa ti avrei detto
che ero assolutamente propensa a vendere. Ma ora…»
«Capisco» disse Gérard annuendo. «Posso solo darti consigli finanziari, Émilie,
le questioni emotive non sono il mio campo. Forse può consolarti sapere che
quando venderai la casa di Parigi, con tutto quel che c’è dentro e tutti i gioielli di
tua madre, il ricavato sarà sufficiente a coprire le spese di ristrutturazione del
castello ma anche a mantenerti per il resto della tua vita. E ovviamente qui c’è la
biblioteca» aggiunse. «Tuo padre potrà anche aver trascurato le sue proprietà, ma
l’eredità che ti ha lasciato è custodita nel castello. È riuscito a mettere insieme
quella che già ai suoi tempi era una preziosa collezione di volumi rari. Ho dato
un’occhiata al registro che teneva e credo che l’abbia raddoppiata. I libri antichi
non rientrano nelle mie competenze, ma immagino che questa collezione abbia un
certo valore.»
«Non mi separerò mai da quei libri» rispose con fermezza Émilie, sorprendendo
anche se stessa con quella reazione improvvisa. «Mio padre vi ha dedicato tutta la
vita. Ho trascorso molte ore in biblioteca con lui quand’ero bambina.»
«Ma certo, non c’è ragione per cui tu debba separartene. Però se dovessi decidere
di vendere il castello dovresti trovare un posto ben più spazioso del tuo
appartamento per sistemare la collezione.» Gérard sorrise beffardo. «È ora di
mangiare. Mi faresti compagnia per una cena in paese? Domattina devo partire
presto e, con il tuo permesso, vorrei esaminare il contenuto della scrivania di tuo
padre per cercare altri documenti contabili.»
«Ma certo» rispose Émilie.
«Prima però dovrei fare un paio di telefonate,» disse scusandosi «ci vediamo qui
fra mezz’ora.»
Émilie osservò Gérard alzarsi ed entrare in casa. Si sentiva in imbarazzo in sua
compagnia nonostante lo conoscesse da sempre. Un tempo si era rapportata a lui
come qualsiasi bambino avrebbe fatto con un adulto. Ora, senza la presenza di
terzi, ritrovarsi a conversare con quell’uomo la metteva a disagio.
Cercando di spiegare a se stessa quella sensazione, Émilie si rese conto che
nell’offrirle il suo aiuto Gérard la trattava in maniera condiscendente. E a tratti
leggeva nei suoi occhi un certo risentimento. Forse pensava – e chi poteva
biasimarlo – che lei non fosse all’altezza di essere l’ultima a ricevere lo scettro dei
Martinière, con tutto il suo carico di storia. Émilie era dolorosamente consapevole
di non possedere nemmeno un briciolo del fascino dei suoi predecessori. Nata in
una famiglia straordinaria, il suo unico desiderio era quello di essere una persona
comune.
3
Il mattino seguente Émilie sentì la macchina di Gérard percorrere il viale e lasciare
il castello molto presto. Era stesa sul lettino in cui aveva dormito per tutta
l’infanzia. La finestra della sua camera si affacciava a nord-ovest, perciò non
entrava molto sole. Ovviamente, pensò, non c’era alcun motivo per non trasferirsi
in una qualsiasi delle altre camere, bellissime e spaziose, con ampie finestre che
davano sul giardino e sul vigneto, sul lato opposto della casa.
Frou-Frou, che la notte precedente aveva guaito così tanto da convincere Émilie
a lasciarla dormire sul letto, abbaiò sulla soglia della porta ricordandole che era ora
di colazione.
Scesa in cucina, Émilie si fece il caffè, poi andò in biblioteca. In quella stanza
dai soffitti altissimi, che suo padre aveva sempre tenuto al riparo dalla luce per
proteggere i libri. L’odore familiare di muffa la fece sentire al sicuro. Appoggiò la
tazza sul consunto piano di pelle della scrivania e aprì gli scuri di una finestra. Un
milione di granelli di polvere, stanati dai loro nascondigli per l’improvviso
spostamento d’aria, si misero a danzare freneticamente nei raggi di sole.
Si sedette sulla poltrona accanto alla finestra e osservò le alte scaffalature che da
terra arrivavano al soffitto. Non aveva idea di quanti libri contenesse la biblioteca.
Suo padre aveva trascorso gli ultimi anni della propria vita catalogando e
ampliando la collezione. Si alzò e cominciò a fare lentamente il giro della stanza:
la parete di libri era quattro volte la sua altezza. Come sentinelle imperturbabili, i
volumi sembravano studiare la nuova padrona, domandandosi quale destino
sarebbe toccato loro.
A Émilie tornò in mente il «gioco dell’alfabeto» che faceva con suo padre:
doveva scegliere due lettere a piacere, dopodiché lui faceva il giro della biblioteca
cercando un autore con quelle iniziali. Raramente era capitato che non riuscisse a
trovare un libro corrispondente alle indicazioni di Émilie. Anche quando lei
cercava di fare la furba e sceglieva una coppia di lettere come XZ o ZS suo padre
riusciva sempre a pescare una copia sciupata e scolorita di un’opera filosofica
cinese, o una sottile antologia di un qualche autore russo ormai dimenticato.
Nonostante avesse assistito a queste ricerche per anni, Émilie desiderò aver
prestato maggior attenzione al metodo eclettico con il quale suo padre sistemava i
libri. Studiando gli scaffali si rese conto che i volumi non erano disposti
semplicemente in ordine alfabetico. Nel ripiano che aveva di fronte si andava da
Dickens a Platone, passando per Guy de Maupassant.
La collezione era talmente vasta che i titoli elencati nei cataloghi sulla scrivania
rappresentavano solo la punta dell’iceberg della sterminata collezione. Édouard
sapeva esattamente dove mettere le mani quando cercava un libro, ma quella era
una capacità che aveva portato con sé nella tomba.
«Se vendessi questo posto cosa ne sarebbe di voi?» sussurrò ai libri.
Per tutta risposta questi le rivolsero uno sguardo muto: migliaia di orfani
consapevoli che il loro destino era nelle sue mani. Émilie si scrollò di dosso quei
pensieri; non poteva permettere di farsi influenzare dalle emozioni. Se avesse
deciso di vendere il castello avrebbe trovato alla collezione una nuova casa. Chiuse
gli scuri lasciando i libri al loro sonno e uscì dalla biblioteca.
Émilie trascorse il resto della giornata esplorando ogni nicchia e ogni angolo
remoto del castello, riscoprendo la bellezza dei fregi antichi che adornavano i
soffitti del salone, l’eleganza consunta del mobilio francese e gli innumerevoli
quadri appesi alle pareti.
All’ora di pranzo andò in cucina e si versò un bicchiere d’acqua. Bevve con
avidità, accorgendosi improvvisamente che quasi le mancava il respiro, come se si
fosse svegliata da un brutto sogno. Si rese conto che la bellezza scoperta quella
mattina la circondava da anni, ma lei non era mai stata capace di apprezzarla o
darle valore. In quel momento, anziché vedere la propria eredità e la propria
discendenza come un peso di cui liberarsi, sperimentò i primi fremiti di
entusiasmo.
Quella bellissima casa e le splendide ricchezze che conteneva ora erano sue.
Improvvisamente si accorse di aver fame e si mise a rovistare nel frigo e nella
credenza, ma inutilmente. Uscì di casa con Frou-Frou in braccio, la sistemò sul
sedile del passeggero e guidò fino a Gassin. Quando ebbe parcheggiato salì la
ripida scalinata che si inerpicava su per il paese, fino al corso costeggiato di
ristoranti e caffè; sedette al tavolo di una terrazza panoramica che si affacciava
sulla vista spettacolare del Mediterraneo. Ordinò un quarto di rosé e un’insalata
della casa, crogiolandosi al sole di mezzogiorno, senza badare troppo ai pensieri
che le passavano per la testa.
«Mi scusi mademoiselle, lei è per caso Émilie de la Martinière?»
Riparandosi gli occhi dal sole Émilie alzò lo sguardo sull’uomo che si era
avvicinato al suo tavolo.
«Sì» rispose guardandolo con diffidenza.
«Molto piacere.» L’uomo le tese la mano. «Mi chiamo Sebastian Carruthers.»
Émilie ricambiò la stretta con qualche esitazione. «La conosco?»
«No, non mi conosce.»
Notò l’accento inglese, nonostante lo sconosciuto parlasse un francese quasi
perfetto. «Posso chiederle allora come fa lei a conoscermi?» disse in tono nervoso.
«È una lunga storia che prima o poi mi piacerebbe condividere con lei. Aspetta
qualcuno?» chiese, indicando la sedia vuota vicino al tavolo.
«Non… no» disse lei, scuotendo la testa.
«Posso sedermi, allora? Vorrei scambiare due parole.»
Prima che Émilie avesse il tempo di rifiutare, Sebastian aveva già scostato la
sedia dal tavolo. Adesso che non era più accecata dal sole constatò che l’uomo
aveva circa la sua età, era magro e indossava abiti informali ma di qualità, che gli
cadevano a pennello. Aveva una manciata di lentiggini sul naso, capelli castani e
affascinanti occhi nocciola.
«Mi è dispiaciuto sapere della morte di sua madre» disse.
«Grazie.» Émilie bevve un sorso di vino, e subito emersero le buone maniere che
le erano state inculcate sin da piccola. «Posso offrirle un bicchiere di rosé?» disse.
«Volentieri.» Sebastian fece un cenno al cameriere. Quando ebbe davanti un
bicchiere Émilie gli versò il vino dalla brocca.
«Come ha saputo della morte di mia madre?» domandò.
«Difficile che un francese non lo sappia» rispose Sebastian, con occhi pieni di
comprensione. «Era piuttosto famosa. La prego di voler accettare le mie
condoglianze. Dev’essere un periodo duro per lei.»
«Sì, lo è» rispose freddamente. «Mi dica, lei è inglese?»
«Indovinato!» Sebastian alzò gli occhi al cielo fingendosi inorridito al pensiero.
«Ho cercato di lavorare sul mio accento. Ma, sì, purtroppo lo sono. Tuttavia ho
trascorso un anno a Parigi a studiare Belle Arti. E ammetto di essere francofilo a
tutti gli effetti.»
«Capisco» commentò piano Émilie. «Ma…»
«In effetti,» fece lui «questo non spiega come faccia a sapere che lei è Émilie de
la Martinière. Be’, vede,» Sebastian alzò le sopracciglia assumendo un’espressione
misteriosa «il legame fra me e lei ha radici in un lontanissimo passato.»
«Non saremo parenti?» Émilie si ricordò improvvisamente del monito di Gérard
del giorno prima.
«No, assolutamente no,» rispose sorridendo «ma mia nonna era per metà
francese. Ho scoperto di recente che lavorò a stretto contatto con suo padre,
Édouard de la Martinière, durante la Seconda guerra mondiale.»
«Capisco.» Émilie non conosceva quasi nulla del passato di suo padre dal
momento che lui non ne parlava mai. Ed era a disagio perché non riusciva a capire
cosa volesse da lei quell’inglese. «Non so molto della vita di mio padre a quei
tempi.»
«Non ne sapevo molto neanche io finché mia nonna, poco prima di morire, mi
raccontò che si trovava qui durante l’occupazione. E mi raccontò anche dell’uomo
coraggioso che fu Édouard» aggiunse Sebastian.
A questa rivelazione Émilie avvertì un nodo alla gola. «Non ne sapevo nulla…
deve capire che io sono nata quando mio padre aveva già sessant’anni, più di
vent’anni dopo la fine della guerra.»
«Mi rendo conto» disse Sebastian annuendo.
«E inoltre» Émilie mandò giù un bel sorso di vino «non era il tipo d’uomo che
amava vantarsi dei propri trionfi.»
«Be’, mi è parso che Constance, mia nonna, lo stimasse molto» disse Sebastian.
«Mi ha raccontato anche del bellissimo castello di Gassin dove abitò mentre era
qui in Francia. La residenza è molto vicina al paese, giusto?»
«Sì» rispose Émilie; nel frattempo era arrivata l’insalata che aveva ordinato. «Lei
mangia qualcosa?» chiese, sempre in virtù delle sue buone maniere.
«Se non le dispiace sarei felice di farle compagnia.»
«Ma certamente.»
Sebastian ordinò e il cameriere si ritirò velocemente.
«Allora, cosa la porta qui a Gassin?» domandò Émilie.
«Questa è una bella domanda» disse Sebastian. «Dopo essermi laureato
all’Accademia di Belle Arti a Parigi, sono diventato commerciante d’arte. Espongo
in una piccola galleria di Londra, ma trascorro la maggior parte del tempo alla
ricerca di quadri di valore per i miei clienti danarosi. Sono venuto in Francia per
provare a convincere il proprietario di uno Chagall a vendere. Il tizio vive a Grasse
che, come saprà, non è lontano da qui» spiegò. «Mi è capitato di leggere di sua
madre sul giornale e mi è venuto subito in mente il legame che mia nonna aveva
con la sua famiglia. Perciò ho pensato di fermarmi qui e visitare il castello di cui
ho sentito tanto parlare. Questo paese è davvero bellissimo.»
«Sì, è vero» rispose Émilie, perplessa per quella strana conversazione.
«Mi dica, Émilie, lei vive al castello?» chiese Sebastian.
«No» rispose, a disagio per quella domanda diretta. «Al momento vivo a Parigi.»
«Dove io ho moltissimi amici» fece Sebastian, entusiasta. «Un giorno spero di
poter trascorrere più tempo in Francia, ma per il momento sto cercando di farmi un
nome nel Regno Unito. Che peccato non essere riuscito a mettere le mani sullo
Chagall. Sarebbe stato il mio primo colpo grosso.»
«Mi dispiace» disse lei.
«Grazie. Me ne farò una ragione. Non è che lei ha qualche quadro di valore
inestimabile di cui si vorrebbe liberare appeso alle pareti del suo bel castello?» Gli
occhi di Sebastian ridevano, ironici.
«Non lo so» rispose Émilie onestamente. «Far valutare le opere d’arte del
castello rientra nella lista di cose che dovrò fare.»
«Immagino che vorrà far valutare e autenticare la sua collezione dai più grandi
esperti di Parigi. Ma se nel frattempo le servisse un occhio allenato e subito
disponibile per avere qualche dritta, sarei felice di darle una mano.» Appena arrivò
il suo toast, Sebastian tirò fuori il portafoglio e sfilò un biglietto da visita. «Le
assicuro che non sono un impostore» aggiunse con enfasi. «Se necessario posso
farle avere le mie referenze.»
«È molto gentile da parte sua, ma il nostro notaire di famiglia si sta già
occupando di tutto.» Émilie avvertì una nota severa nella propria voce.
«Ovviamente» commentò lui; versò del rosé in entrambi i bicchieri e si decise ad
assaggiare il toast. «Allora,» disse, cambiando velocemente discorso «cosa fa a
Parigi?»
«Lavoro come veterinario in una grande clinica nel Marais. Non pagano molto
ma amo il mio lavoro» rispose lei.
«Davvero?» Sebastian alzò un sopracciglio. «Sono sorpreso. Avrei pensato,
considerato la famiglia da cui proviene, che si occupasse di qualcosa di molto più
prestigioso, o che non lavorasse affatto.»
«Sì. È quello che pensano tutti… mi dispiace, adesso devo proprio andare.»
Émilie fece cenno che le portassero il conto.
«Mi scusi, Émilie, è stato un commento infelice» si affrettò a dire Sebastian.
«Quello che intendevo è che mi fa piacere per lei! Non volevo offenderla.»
Émilie fu assalita dal bisogno imperioso di allontanarsi da quell’uomo e dalle sue
incessanti domande. Frugò nella borsa, prese una manciata di franchi e li mise sul
tavolo. «È stato un piacere conoscerla» disse prendendo in braccio Frou-Frou e
correndo via. Scese gli scalini più in fretta che poté, sentendosi inspiegabilmente
scossa, e sull’orlo del pianto.
«Émilie! La prego, aspetti!»
Ignorando la voce che la inseguiva continuò a scendere i gradini con
determinazione finché Sebastian non la raggiunse.
«Guardi,» disse ansimando «se l’ho offesa sono davvero dispiaciuto. Pare sia un
mio talento…» Lei continuò a scendere e Sebastian si mise al passo. «Se la cosa
può consolarla anch’io sono nato con un grosso fardello sulle spalle. Inclusa una
villa diroccata nella brughiera dello Yorkshire che dovrei, non so come, riuscire a
salvare e restaurare, nonostante non abbia un soldo bucato da investirci.»
Erano ormai arrivati alla macchina ed Émilie non poté far altro che restare
immobile dov’era. «E allora perché non la vende?» gli chiese.
«Perché fa parte della mia eredità e…» si strinse nelle spalle «è complicato.
Comunque, non ho intenzione di tediarla con una storia strappalacrime, sto solo
cercando di dirle che so cosa significa essere segnati dal proprio passato. Siamo
nella stessa situazione.»
Émilie rimase in silenzio mentre cercava nella borsa le chiavi della macchina.
«Non voglio paragonarmi a lei,» proseguì Sebastian «sto solo provando a
immedesimarmi nella sua situazione.»
«Grazie.» Aveva trovato le chiavi. «Ora devo andare.»
«Mi perdona?»
Si voltò a guardarlo, biasimandosi per la propria sensibilità, ma incapace di
controllarla. «Vorrei solo…» Fissò il paesaggio lussureggiante, cercando le parole
per spiegarsi. «Voglio essere giudicata per quella che sono.»
«Lo capisco, davvero. Senta, non la disturberò oltre, è stato un piacere
conoscerla.» Sebastian le porse la mano. «Buona fortuna per tutto.»
«Grazie. Addio.» Émilie aprì la portiera e lasciò andare un’irritata Frou-Frou sul
sedile del passeggero. Entrò in macchina, accese il motore e si avviò lentamente
giù per la collina, cercando di capire il perché di quella reazione così violenta.
Forse, abituata com’era al più formale protocollo francese, la confidenza di
Sebastian l’aveva destabilizzata. In realtà, si disse Émilie, stava solo cercando di
mostrarsi amichevole. Era lei il problema. Sebastian aveva toccato un tasto dolente
e lei aveva reagito di conseguenza. Lo guardò mentre scendeva a piedi la collina e
si sentì in colpa e in imbarazzo.
Aveva trent’anni, si disse, rimproverando se stessa. La proprietà dei Martinière
era sua e poteva disporne come voleva. Forse era giunto il momento di iniziare a
comportarsi come un’adulta e non più come una bambina capricciosa.
Si accostò a Sebastian, fece un sospiro profondo, e abbassò il finestrino.
«Dal momento che è venuto fin qui per vedere il castello sarebbe un peccato non
riuscirci. Mi permette di darle un passaggio?»
«Ne è sicura?» L’espressione di Sebastian fece eco alla sorpresa nella sua voce.
«Voglio dire, certo, mi piacerebbe moltissimo vedere il castello, specialmente con
qualcuno che lo conosce così bene.»
«Allora salga, la prego.» Si allungò e tolse la sicura dallo sportello.
«Grazie» disse lui richiudendo la portiera, e di nuovo si avviarono giù per la
collina. «Mi dispiace molto averla turbata. È sicura di potermi perdonare?»
«Sebastian,» sospirò «non è stata colpa sua, sono io. Qualsiasi riferimento alla
mia famiglia riporta a galla vecchi dolori mai del tutto superati. Ed è ora che
impari ad affrontarli.»
«Be’, succede a tutti, specialmente quando i familiari che ci hanno preceduto
erano persone importanti e di successo.»
«Mia madre era senza dubbio una personalità di spicco» disse Émilie. «Ha
lasciato un vuoto nella vita di molte persone quando se n’è andata. Come ha detto
lei è difficile essere all’altezza. E io ho sempre saputo di non esserlo.»
Émilie si domandò se parlasse così liberamente per colpa dei due bicchieri di
vino che aveva bevuto a pranzo. Si sentì improvvisamente in imbarazzo per aver
detto quelle cose. Era elettrizzata e spaventata al tempo stesso.
«Be’, non posso dire che fosse così anche per mia madre, o meglio “Victoria”,
come voleva che la chiamassimo» disse Sebastian. «Non me la ricordo nemmeno.
Ha partorito me e mio fratello in una comune hippy negli Stati Uniti. Quando io
avevo tre anni e mio fratello due, ci portò in Inghilterra e ci scaricò dai nonni, nello
Yorkshire. Qualche settimana dopo ripartì. Da allora non abbiamo più avuto sue
notizie.»
«Oh, Sebastian!» esclamò Émilie, scioccata. «Non sa nemmeno se sua madre sia
ancora viva?»
«No,» confermò lui «ma la nonna è stata una madre a tutti gli effetti per noi, la
nostra vera madre, dal momento che eravamo così piccoli quando siamo andati a
vivere con lei. Se Victoria mi passasse accanto per strada non la riconoscerei.»
«È fortunato ad aver avuto sua nonna, ma dev’essere stato lo stesso molto triste
per lei» disse Émilie, compassionevole. «E non sa chi sia suo padre?»
«No. In effetti non so nemmeno se io e mio fratello siamo figli dello stesso
uomo. Di sicuro non ci somigliamo. Ma comunque sia…» Sebastian aveva lo
sguardo perso nel vuoto.
«Ha conosciuto suo nonno?» chiese Émilie.
«È morto quando avevo cinque anni. Era un brav’uomo, ma durante la guerra era
stato in Nord Africa e le ferite subite lo avevano reso cagionevole di salute. I miei
nonni erano molto affiatati. Così la mia povera nonna non solo perse sua figlia, ma
anche suo marito. Credo che la nostra presenza l’abbia aiutata ad andare avanti, in
realtà» disse Sebastian. «Era una donna eccezionale, a settantacinque anni saltava
ancora le staccionate, è stata arzilla fin quando non si è ammalata. Credo che non
ci siano più donne del suo stampo» commentò, con una vena di tristezza nella
voce. «Mi scusi,» disse tutt’a un tratto «sto parlando troppo.»
«No, affatto. Mi conforta sapere che ci sono altre persone cresciute in circostanze
difficili. A volte…» Émilie sospirò «credo che avere una lunga e pesante storia alle
spalle sia terribile come non averla affatto.»
«Concordo pienamente.» Sebastian annuì e le rivolse un sorrisetto. «Mia cara, se
qualcuno da fuori ascoltasse la nostra conversazione penserebbe che siamo una
coppia di ragazzini privilegiati e viziati che piangono miseria. Guardiamo in faccia
la realtà, nessuno dei due vive in mezzo a una strada.»
«Sì. Di certo chiunque lo penserebbe. Specialmente di me» concordò. «E come
dargli torto? Non sanno quello che c’è dietro. Guardi,» indicò l’orizzonte «il
castello è proprio là.»
Sebastian vide l’elegante edificio rosa pallido in lontananza, annidato nella valle
sotto di loro, e non riuscì a trattenere un moto d’ammirazione. «È davvero
bellissimo, proprio come me l’aveva descritto mia nonna. Decisamente diverso
dalla nostra casa nella desolata brughiera dello Yorkshire. Anche se il paesaggio
brullo conferisce a Blackmoor Hall un altro tipo di fascino» aggiunse.
Émilie svoltò nel lungo viale che portava al castello e andò a parcheggiare sul
retro.
«È sicura di avere tempo per farmi fare un giro?» le domandò Sebastian
guardandola. «Posso sempre tornare un altro giorno.»
«No, non c’è problema» lo rassicurò Émilie incamminandosi insieme a FrouFrou verso il castello. Così lui la seguì nell’ingresso e poi in cucina.
Gli mostrò ogni singola stanza, aspettando pazientemente mentre si fermava a
studiare ogni dipinto, ogni mobile e l’intera collezione di oggetti d’arte che giaceva
impolverata e abbandonata sulle mensole dei caminetti, sugli scrittoi e sui tavoli.
Quando lo condusse nel salone, Sebastian puntò dritto verso uno dei quadri appesi.
«Questo mi ricorda Luxe, calme et volupté, che Matisse dipinse nel 1904 mentre
si trovava a Saint Tropez. L’uso del puntinismo è simile.» Sebastian sfiorò la tela a
olio. «Anche se questo è un paesaggio puro, solo scogli e mare, nessuna figura.»
«Lusso, calma e voluttà» ripeté Émilie. «Papà mi leggeva Baudelaire.»
«Esatto!» Sebastian si voltò con occhi brillanti d’entusiasmo nel constatare che
conosceva la poesia. «Matisse si ispirò all’Invitation au voyage per dipingere il suo
quadro, che ora si trova al Musée National d’Art Moderne a Parigi.» Tornò a
osservare la tela che aveva di fronte. «Non c’è nessuna firma a quanto pare, a meno
che non sia nascosta da qualche parte sotto la cornice. Potrebbe anche essere una
bozza. Soprattutto se consideriamo che Matisse si trovava a Saint Tropez quando
dipingeva con questo stile. È a due passi da qui, se non sbaglio…»
«Papà conobbe Matisse a Parigi» disse Émilie. «Pare frequentasse la galleria che
aveva messo a disposizione dell’intellighenzia artistica. Lo stimava molto e
conversavano spesso, ma non so se sia mai venuto al castello.»
«Be’, come molti artisti, trascorse gli anni della Seconda guerra mondiale qui al
sud, lontano dai combattimenti. Matisse è in assoluto il mio pittore preferito.»
Sebastian fremeva per l’eccitazione. «Posso tirarlo giù un momento per vedere se
dietro c’è scritto qualcosa, magari una dedica? Spesso gli artisti regalavano dei
dipinti ai mecenati più generosi. Come nel caso di suo padre, forse.»
«Ma sì, certo.» Émilie si avvicinò a Sebastian mentre lui rimuoveva con una
certa soggezione il dipinto dal muro, rivelando un rettangolo scuro sulla parete.
Girò il quadro per studiarlo insieme a lei, ma dietro non c’era scritto niente.
«Non importa, non è la fine del mondo» la rassicurò Sebastian. «Se Matisse
l’avesse firmato sarebbe stato semplicemente meno complicato provare che è suo.»
«Pensa davvero che lo sia?»
«Dopo quello che mi ha raccontato e vista la tecnica adoperata, che Matisse stava
sperimentando proprio nel periodo in cui ha dipinto Luxe, calme et volupté,direi
che con tutta probabilità lo è. Ovviamente bisognerà farlo autenticare.»
«E se fosse davvero un Matisse quanto potrebbe valere?» chiese lei.
«Dal momento che non è firmato, non posso dirlo con esattezza. Matisse è stato
un pittore particolarmente prolifico ed è vissuto a lungo. Vorrebbe vendere il
quadro?»
«Questo è un altro interrogativo da inserire nella mia lista.» All’idea Émilie si
strinse nelle spalle, esausta.
«Be’,» disse Sebastian rimettendo con cura il dipinto al suo posto «io ho dei
contatti, se cercasse qualcuno in grado di stabilirne l’autenticità. Ma sono sicuro
che il suo notaire avrà i suoi. Ad ogni modo grazie per avermi mostrato il quadro e
questo bellissimo castello.»
«Piacere mio» disse Émilie, accompagnandolo fuori dal salone.
«Sa,» disse Sebastian grattandosi la testa «sono quasi sicuro che mia nonna mi
abbia parlato di un’incredibile collezione di libri antichi, o me lo sono
immaginato?»
«No.» Émilie si rese conto di aver dimenticato la biblioteca durante il loro giro.
«È proprio qua. Gliela mostro.»
«Grazie, sempre che abbia tempo» rispose lui.
«Ma certo.»
Quando entrò nella biblioteca, Sebastian rimase a bocca aperta. «Mio Dio,» disse
avvicinandosi lentamente agli scaffali «ma è una collezione straordinaria. Lo sa il
cielo quanti libri ci sono qui dentro. Lei ne è a conoscenza? Quindici, ventimila?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Sono catalogati? Magari secondo qualche criterio?» domandò.
«Sono nell’ordine in cui mio padre scelse di disporli, e suo padre prima di lui. La
collezione venne iniziata più di duecento anni fa. Solo gli ultimi acquisti sono
catalogati.» Émilie indicò i registri in pelle appoggiati sulla scrivania di suo padre.
Sebastian ne aprì uno, prese a sfogliarlo e vide le centinaia di voci registrate con
la calligrafia impeccabile di Édouard. «So che non sono affari miei, Émilie, ma
questa è davvero una collezione incredibile. Vedo che suo padre si è procurato
moltissime prime edizioni rare, senza contare i libri che dovevano già trovarsi qui.
Di sicuro è una collezione tra le più pregiate di tutta la Francia. I volumi
dovrebbero essere inseriti meticolosamente in un database.»
Émilie, sopraffatta, si abbandonò nella poltrona di pelle di suo padre. «Mio Dio,»
bisbigliò «sembra che le cose da fare aumentino anziché diminuire. Mi sono
appena resa conto che sistemare gli affari dei miei genitori sarà un lavoro a tempo
pieno.»
«Di certo ne vale la pena» disse Sebastian per incoraggiarla.
«Ma io ho la mia vita, una vita che mi piace. È serena e…» Émilie avrebbe
voluto dire «sicura» ma sapeva che sarebbe suonato strano, perciò optò per
«organizzata».
Sebastian le si avvicinò e si inginocchiò accanto alla sua sedia, appoggiando un
braccio sullo schienale per darle conforto. «La capisco, Émilie. E se vuole
semplicemente ritornare alla sua vita può sempre mettere tutto nelle mani di
qualcuno di cui si fida.»
«Ma di chi posso fidarmi?» esclamò lei con enfasi.
«Be’, ha detto che c’è il suo notaire, tanto per cominciare» suggerì Sebastian.
«Forse potrebbe mettere tutto in mano a lui.»
«Ma…» Émilie sentì arrivare le lacrime. «Dovrei occuparmene io, per il nome
della mia famiglia, non posso lavarmene le mani come se nulla fosse.»
«Émilie,» disse Sebastian in tono pacato «è successo tutto da poco, è normale
che si senta oppressa. Sua madre è morta solo da un paio di settimane. È ancora
sotto shock, soffre per il lutto. Perché non si concede un po’ di tempo prima di
decidere?» Le dette un colpetto affettuoso sulla mano e poi si alzò. «Io ora devo
andare, ma ha il mio biglietto da visita, e non c’è bisogno che le dica quanto sarei
felice di poterla aiutare. Questo castello per me sarebbe una manna dal cielo,
soprattutto per via dei quadri.» Sorrise. «Per un po’ rimarrò sicuramente a Gassin,
perciò se decidesse di coinvolgermi per l’autenticazione del dipinto mi chiami pure
al numero che trova sul biglietto.»
«Grazie» disse Émilie, controllando di averlo ancora nella tasca dei jeans.
«Sarei felice anche di metterla in contatto con i commercianti di libri rari e
mobili antichi che conosco a Parigi. Alla fine,» aggiunse Sebastian «qualunque
cosa decida di fare con il castello sarebbe una buona idea far stimare il valore degli
oggetti al suo interno. Pensa che i suoi genitori abbiano assicurato tutto quanto?»
«Non ne ho la più pallida idea.» Émilie scrollò le spalle, ne dubitava, conoscendo
suo padre, e segnò mentalmente sulla sua lista di chiederlo a Gérard. «La ringrazio
per il suo interessamento» disse riconoscente, alzandosi in piedi. Poi rivolse a
Sebastian un debole sorriso e lo accompagnò alla macchina, passando dalla porta
sul retro. «Mi spiace se le sono sembrata… emotiva. Non è da me. Magari un’altra
volta potremmo fare quattro chiacchiere su cosa le ha raccontato sua nonna a
proposito di mio padre.»
«Volentieri. E la prego, non si scusi» aggiunse mentre saliva in auto. «Non solo è
in lutto, ma sembra che le abbiano lasciato anche una bella gatta da pelare.»
«Me la caverò. Per forza di cose» disse Émilie, salendo a sua volta. Poi mise in
moto la macchina e iniziò a percorrere il viale.
«E sono certo che ci riuscirà. Come le ho già detto, se c’è qualcosa che posso
fare per aiutarla sa dove trovarmi.»
«Grazie.»
«Il mio alloggio è proprio qua, svoltando a sinistra,» Sebastian indicò una curva
«se mi lascia qui posso proseguire a piedi. È un pomeriggio talmente bello.»
«Okay.» Émilie fermò la macchina. «Grazie ancora.»
«Stia bene, Émilie» disse Sebastian scendendo dall’auto. Poi, salutandola con la
mano, si avviò lentamente lungo la strada.
Émilie fece inversione e tornò al castello. Inquieta, iniziò a vagare per le stanze
avvertendo il vuoto opprimente della solitudine.
Quando scese la notte e la temperatura si abbassò, Émilie si barricò in cucina
accanto ai fornelli, mangiò il cassoulet che Margaux le aveva lasciato. Ma
l’appetito l’abbandonò presto, per la gioia di Frou-Frou.
Dopo cena mise il catenaccio alla porta sul retro e chiuse a chiave. Arrivata al
piano di sopra, fece scorrere lentamente l’acqua dentro la vecchia vasca coperta di
calcare. Si immerse nell’acqua tiepida, trastullandosi con il pensiero morboso di
essere distesa come in una bara fatta su misura per lei. Uscì dall’acqua, si asciugò
e, insolitamente, lasciò cadere l’accappatoio sul pavimento restando nuda davanti
allo specchio.
Con grande sforzo Émilie si costrinse a osservare il proprio corpo. L’aveva
sempre considerato il risultato scadente di una strana combinazione di geni. Da
bambina grassa, era diventata un’adolescente grassottella. Nonostante sua madre la
pregasse di mangiare meno e in maniera più sana, attorno ai diciassette anni Émilie
aveva deciso di lasciar perdere tutte le diete a base di cocomero e melone e,
nascosta sotto vestiti ampi e comodi, lasciò che la natura facesse il suo corso.
Nello stesso periodo si rifiutò di partecipare ancora alle feste organizzate per
presentarla alla crème de la crème dei giovani della sua età. Le Rallye era un
evento organizzato da un gruppo di madri affinché la loro progenie stringesse le
giuste amicizie e scegliesse fra queste un futuro marito o una futura moglie. La
competizione fra gli adolescenti francesi per entrare a far parte del giro era serrata.
Valérie, portando il nome de la Martinière, era la regina assoluta del gruppo. E si
era disperata quando Émilie aveva annunciato di non voler più prendere parte ai
cocktail nelle grandi ville, che erano il cuore di questi eventi.
«Come puoi voltare le spalle al tuo nome?» le aveva chiesto Valérie, offesa.
«Lo odio, maman. Io sono più che un cognome e un conto in banca. Mi dispiace,
ma non parteciperò più.»
Quando Émilie osservò allo specchio i suoi seni pieni e rotondi, i fianchi
femminili e le gambe tornite, si accorse di aver perso peso nelle ultime settimane.
Quello che vide, a dispetto del suo occhio ipercritico, la sorprese. Anche se, con la
sua ossatura robusta non sarebbe mai stata una silfide, non era certo grassa.
Prima di iniziare a scovare dei difetti si allontanò dalla sua immagine riflessa
nello specchio, indossò la camicia da notte e andò a letto. Spense la luce e ascoltò
l’assoluto silenzio che la circondava, domandandosi cosa portasse con sé
quell’inaspettata, nuda rivelazione.
Erano passati sei anni dall’ultima volta in cui aveva avuto quello che si poteva
vagamente definire «un ragazzo». Olivier, un attraente veterinario dell’ambulatorio
di Parigi, non era rimasto nella sua vita più di qualche settimana. Non lo amava,
ma avere un corpo vicino la notte, una persona con cui poter parlare qualche volta
a cena aveva alleviato il peso della sua solitudine. Alla fine Olivier se n’era andato
per il suo scarso entusiasmo. Lei lo sapeva.
Émilie, d’altronde, non aveva idea di cosa fosse l’amore; un misto di attrazione
fisica, mentale… una sorta di fascinazione forse. Ma sapeva di non essersi mai
innamorata in vita sua. Del resto, chi mai avrebbe potuto amarla?
Quella notte Émilie si rigirò nel letto con la testa che le esplodeva per tutte le
decisioni che avrebbe dovuto prendere e le responsabilità cui non poteva sottrarsi.
Ma ciò che più di tutto disturbava il suo sonno era il ricordo del volto di Sebastian.
Nonostante il poco tempo che aveva trascorso al castello, la sua presenza l’aveva
fatta sentire al sicuro. Sembrava un uomo affidabile, serio e… sì, era anche molto
attraente. Quando per un attimo le aveva toccato la mano in biblioteca, lei non si
era ritratta come era solita fare appena sentiva che qualcuno invadeva il suo spazio.
Émilie si rese conto di essere patetica. Era davvero così triste e sola da lasciarsi
turbare da un uomo conosciuto per caso un paio d’ore prima? E poi perché mai un
uomo bello e realizzato come Sebastian avrebbe dovuto interessarsi a lei? Era fuori
dalla sua portata e probabilmente non l’avrebbe più rivisto. A meno che non avesse
deciso di chiamare quel numero sul biglietto da visita chiedendo il suo aiuto per
valutare il presunto Matisse…
Émilie scosse la testa avvilita, sapeva che non avrebbe mai trovato il coraggio di
farlo.
Era una strada senza uscita. Da tempo aveva deciso che stava meglio da sola.
Nessuno avrebbe potuto ferirla o abbandonarla. E con quel pensiero impresso nella
mente, riuscì finalmente ad addormentarsi.
4
A causa della notte travagliata Émilie quel mattino si svegliò tardi, e davanti a una
tazza di caffè compilò una lista infinita di cose da fare. Poi, su un foglio a parte,
iniziò a scrivere una serie di domande che sentiva il bisogno di porre a se stessa.
All’inizio tutto ciò che desiderava era vendere le due case il prima possibile,
sistemare le complicazioni legate alle proprietà di famiglia e tornare alla sua
rassicurante vita a Parigi. Ma ora…
Si grattò il naso con la matita e iniziò a vagare con lo sguardo per la cucina in
cerca d’ispirazione. La casa di Parigi l’avrebbe venduta, non aveva bei ricordi
legati a quel luogo. Ma negli ultimi giorni aveva cambiato idea quanto al castello.
Non solo era la «sede» secolare della sua famiglia – costruita dal conte Louis de la
Martinière nel 1750 – ma ne aveva sempre amato l’atmosfera. La rasserenava, le
ricordava i giorni felici trascorsi con suo padre.
Doveva forse considerare l’ipotesi di tenerlo?
Émilie si alzò e iniziò a girovagare per la cucina, rimuginando. Non era ridicolo,
per non dire sconveniente, che una donna vivesse tutta sola in una casa di quelle
dimensioni?
Sua madre, ovviamente, non era stata di quell’avviso, ma d’altronde era immersa
in un contesto sociale completamente diverso. Émilie se ne era tirata fuori anni
prima e sapeva come viveva la gente normale. Ad ogni modo il pensiero di vivere
lì, in mezzo a quella pace e a quella tranquillità, iniziava ad attirarla sempre più.
Per tutta la vita si era sentita un’estranea in mezzo alla sua famiglia e ora, per la
prima volta, si sentiva davvero a casa. Era sorpresa di quanto fosse forte il suo
desiderio di rimanere.
Si sedette al tavolo della cucina e andò avanti con la lista di domande per Gérard.
Se avesse riportato il castello alla sua antica gloria, di certo sarebbe stato un bene,
non solo per lei ma anche per la storia stessa della Francia. Avrebbe reso un
servizio alla nazione. Con questo pensiero prese il cellulare e chiamò Gérard.
Dopo una lunga conversazione Émilie tornò ai suoi appunti. Gérard le aveva
ripetuto che il restauro del castello non sarebbe stata un’impresa facile. Il problema
principale era la mancanza di denaro nelle casse: qualsiasi intenzione avesse, tutto
dipendeva dalla vendita degli altri beni.
Le era parso sconcertato da quel suo improvviso cambio di rotta. «Émilie, è
ammirevole che tu voglia tenere viva la storia della tua famiglia, ma restaurare
un’abitazione di quelle dimensioni è un’impresa mastodontica. Senza esagerazioni,
direi che sarebbe un lavoro a tempo pieno per te, almeno per i prossimi due anni. E
il peso ricadrà tutto sulle tue spalle. Sei sola.»
Émilie si aspettava che aggiungesse anche «e sei una donna», ma grazie al cielo
si era trattenuto. E forse Gérard stava pensando a quanto lavoro sarebbe ricaduto
sulle sue spalle, visto che dava per scontato che lei non sarebbe riuscita a gestire il
progetto. Irritata dalla sua condiscendenza, ma consapevole di non aver fatto molto
per scoraggiare il suo atteggiamento, Émilie tirò fuori il portatile dalla custodia e lo
aprì. Poi ridacchio fra sé e sé per aver creduto anche solo per un istante che in
quella casa, che non veniva ristrutturata dagli anni Quaranta, potesse esserci una
connessione internet. Andò quindi alla macchina e guidò fino a Gassin insieme a
Frou-Frou. Salì gli scalini che si arrampicavano su per la collina e chiese a
Damien, l’amichevole proprietario della brasserie Le Pescadou, se potesse usare la
sua connessione.
«Mademoiselle de la Martinière, ma certo che può» disse lui accompagnandola
nel piccolo ufficio sul retro del ristorante. «Mi scuso per non averle ancora dato il
benvenuto, ma mi trovavo a Parigi. In paese sono tutti molto tristi per il suo lutto.
Anche la mia famiglia risiede qui da molti secoli. Ha intenzione di vendere il
castello ora che sua madre è morta?» domandò.
Émilie sapeva che era quello ciò che Damien voleva davvero sapere. Il suo bar e
il suo ristorante erano il centro dei pettegolezzi di Gassin.
«Al momento non saprei» rispose Émilie. «Devo fare un’analisi prima di
decidere.»
«Ma certo. Spero che scelga di non vendere ma, se volesse, conosco più di un
agente immobiliare disposto a pagare una fortuna per trasformare il castello in un
hotel. Me l’hanno chiesto in molti negli ultimi anni.» Volgendo lo sguardo alla
finestra, Damien indicò l’edificio in fondo alla valle, le tegole di terracotta
ingrigite scintillavano al sole.
«Come le ho appena detto, Damien,» ripeté Émilie «devo ancora decidere.»
«Be’, mademoiselle, se avesse bisogno di qualcosa non esiti a chiamarci.
Eravamo tutti molto affezionati a suo padre. Era un brav’uomo. Dopo la guerra noi
del villaggio eravamo così poveri» spiegò Damien. «Le Comte ci ha aiutati a far
pressioni sul governo per costruire strade decenti e ha incoraggiato i turisti a
visitare Saint Tropez. La mia famiglia ha aperto questo ristorante negli anni
Cinquanta e da allora il villaggio ha iniziato a fiorire. Suo padre promosse anche lo
sviluppo delle vigne che adesso producono i nostri eccellenti vini.» Damien indicò
con un ampio gesto i vigneti che ricoprivano la valle sotto di loro. «Quando ero
bambino, intorno c’era solo campagna, campi di granoturco e vacche al pascolo.
Ora il nostro rosé provenzale è famoso in tutto il mondo.»
«È confortante sapere che mio padre abbia aiutato la regione che amava tanto»
rispose Émilie.
«I Martinière sono parte di Gassin, mademoiselle. Spero che deciderà di
rimanere con noi.»
Damien ebbe mille riguardi nei suoi confronti: le portò una brocca d’acqua, del
pane e un plat au fromage. Quando Émilie riuscì a connettersi, Damien la lasciò
sola. Controllò le e-mail, poi tirò fuori il biglietto da visita di Sebastian e guardò le
immagini della sua galleria su internet.
«Arté» si trovava in Fulham Road a Londra e commerciava soprattutto dipinti
moderni. Émilie si sentì rassicurata constatando che esisteva davvero. Si decise
allora a telefonare a Sebastian. Rispose la segreteria telefonica, perciò lasciò il suo
numero e un breve messaggio nel quale chiedeva di essere ricontattata a proposito
della conversazione avuta il giorno precedente.
Quando ebbe finito, ringraziò Damien per la connessione e per il pranzo, e
rientrò al castello. Era piena di energie, più motivata di quanto non si sentisse da
anni. Non c’era dubbio che se avesse scelto di restaurare la casa avrebbe dovuto
rinunciare alla carriera di veterinaria a Parigi e trasferirsi lì per sovrintendere ai
lavori. Forse era proprio ciò di cui aveva bisogno e, ironicamente, era anche
l’ultima cosa a cui avrebbe pensato fino a pochi giorni prima. Avrebbe dato nuovo
slancio alla sua vita.
Il suo entusiasmo andò sfumando quando, avvicinandosi alla casa, vide un’auto
della polizia parcheggiata fuori. Fermò la macchina all’istante, afferrò Frou-Frou e
uscì. In casa trovò Margaux che parlava con un gendarme.
«Mademoiselle Émilie,» gli occhi di Margaux erano colmi di spavento «credo
che qualcuno sia entrato in casa. Sono arrivata alle due, come al solito, e la porta
davanti era aperta. Oh, mademoiselle, mi dispiace così tanto.»
Émilie sentì lo stomaco contorcersi quando realizzò che, tutta presa dall’idea di
ristrutturare il castello, era uscita per andare in paese dimenticando di chiudere la
porta sul retro.
«Margaux, non è colpa tua. Credo di aver lasciato io la porta aperta. Hanno
portato via qualcosa?» Émilie pensò subito al dipinto della sala.
«Ho guardato dappertutto e non mi sembra manchi niente. Ma dia un’occhiata
anche lei» disse Margaux.
«A volte si tratta di gente di passaggio» disse il gendarme. «Ci sono molti zingari
che, pensando si tratti di un posto deserto, entrano alla ricerca di gioielli e soldi da
rubare.»
«Be’, qui non ne hanno trovati di certo» rispose Émilie in tono cupo.
«Mademoiselle Émilie, ha per caso con sé la chiave dell’ingresso principale?»
chiese Margaux. «Sembra sia sparita. Mi domandavo se l’avesse nascosta da
qualche parte anziché lasciarla come al solito infilata nella serratura.»
«No, non ce l’ho.» Émilie scrutò la serratura vuota, che tutt’a un tratto aveva
assunto un’aria triste senza la grande chiave arrugginita. Si concentrò cercando di
ricordare se quella mattina l’avesse vista al suo posto. Ma non era un dettaglio che
avrebbe potuto notare andando in cucina.
«Se non riusciste a trovarla dovreste chiamare subito un fabbro per far sostituire
la serratura» disse il gendarme. «I ladri potrebbero aver preso la chiave con
l’intenzione di usarla per un colpo in futuro.»
Fine dell'estratto Kindle.
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