Lucinda Riley
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Lucinda Riley
Lucinda Riley La luce alla finestra Traduzione di Lisa Maldera Titolo originale: The Light Behind the Window Copyright © Lucinda Riley 2012 All rights reserved http://narrativa.giunti.it © 2013 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia ISBN 9788809788183 Prima edizione digitale: ottobre 2013 Per Olivia «Ciò che si è, lo si è per nascita. Ciò che io sono, lo sono da me.» Ludwig Van Beethoven La luce alla finestra Assoluta notte; l’oscurità è il mio mondo. Pesante fardello; non v’è luce oltre la finestra. Giorno clemente; una mano uscì dal buio. Sfiorò la stanza; e l’irradiò col suo tepore. Crepuscolo imminente; da te scaturiscono le ombre. Aleggia un segreto; il cuore si scioglie e palpita. Assoluta luce; l’oscurità era il mio mondo E ora scintilla e brucia; e risplende, del mio amore per te. Sophia de la Martinière Luglio 1943 1 Gassin, sud della Francia, primavera 1998 Émilie sentì la madre allentare la presa sulla sua mano e abbassò gli occhi. Guardando quel viso emaciato le sembrò che mentre l’anima abbandonava il corpo di Valérie, anche il dolore che le aveva deformato i tratti stesse scomparendo, riportando alla luce la bellezza di un tempo. «Ci ha lasciati» mormorò rassegnato Philippe, il dottore. «Sì.» Alle sue spalle Émilie sentì recitare a bassa voce una preghiera a cui non volle unirsi. Invece fissò con meraviglia quasi morbosa quel corpo cereo, tutto ciò che restava di chi per trent’anni aveva condizionato la sua vita. Istintivamente avrebbe voluto scuotere sua madre da quel sonno: Valérie de la Martinière era stata una forza della natura, il suo passaggio dalla vita alla morte era troppo difficile da accettare. Émilie non riusciva a comprendere i propri sentimenti. Eppure si era già immaginata quel momento molte volte nel corso delle ultime settimane. Distolse lo sguardo dal viso esanime della madre e fissò fuori dalla finestra le nuvole vaporose sospese nel cielo azzurro come meringhe ancora da cuocere. Dal vetro aperto entrò il debole canto dell’allodola che annunciava l’arrivo della primavera. Si alzò lentamente, con le gambe ancora rigide a causa della lunga notte di veglia trascorsa a sedere, e andò alla finestra. L’atmosfera del primo mattino non era gravata dalla tristezza che quelle ultime ore avrebbero dovuto portare con sé. Sembrava un’alba qualsiasi: la natura aveva ridipinto il proprio quadro, e la tavolozza dei bruni, dei verdi e degli azzurri della Provenza annunciava il nuovo giorno. Émilie percorse con lo sguardo la terrazza e il giardino alla francese, arrivando ai filari ondulati di vite che circondavano la casa e si estendevano a perdita d’occhio. La vista era magnifica ed era la stessa da secoli. Da bambina Château de la Martinière era stato il suo santuario, un luogo di pace, un rifugio sicuro; quella tranquillità era impressa in maniera indelebile nel profondo del suo animo. E ora le apparteneva, anche se Émilie non sapeva se la madre le avesse lasciato abbastanza denaro da consentirle di mantenere la proprietà, visti i suoi eccessi in campo finanziario. «Mademoiselle Émilie, la lascio un momento da sola per dare l’ultimo saluto a sua madre.» La voce del dottore irruppe nei suoi pensieri. «Io vado di sotto a compilare le pratiche. Mi dispiace molto.» Fece un lieve inchino e uscì dalla stanza. E a me? Dispiace davvero…? Quella domanda balenò spontanea nella mente di Émilie. Tornò alla poltrona e si rimise a sedere, cercando di dare una risposta alle molte questioni che la morte di sua madre aveva sollevato, tentando di trovare una soluzione, soppesando ogni emozione contrastante per far emergere i suoi reali sentimenti. Ma fu impossibile. La donna che giaceva penosamente immobile – così innocua ora, ma che in vita aveva avuto su Émilie un’influenza tale da disorientarla – avrebbe sempre suscitato in lei un inestricabile groviglio di emozioni. Valérie le aveva dato la vita, l’aveva vestita e nutrita e aveva provveduto a darle un solido tetto sopra la testa. Non l’aveva mai picchiata né maltrattata. Semplicemente l’aveva ignorata. Era stata una madre – Émilie cercò la parola giusta – disinteressata. Il che aveva reso lei una figlia invisibile. Allungò la mano e l’appoggiò sopra quella della donna. «Non mi hai mai considerata, maman… non hai mai capito…» Émilie sapeva fin troppo bene di essere nata solo perché Valérie aveva accettato con riluttanza di dare un erede alla casata dei Martinière. Una richiesta esaudita per dovere, che non aveva nulla a che fare con il desiderio di maternità. Visto che era arrivata una bambina anziché il maschio che tutti si aspettavano, Valérie se ne era lavata le mani. Troppo in là con gli anni per concepire di nuovo – Émilie era nata quando la madre era già quarantatreenne – Valérie era semplicemente andata avanti con la propria vita, la vita di una tra le più belle, affascinanti e munifiche signore di tutta Parigi. La nascita e la presenza della figlia sembravano avere lo stesso peso della decisione di aggiungere un quarto chihuahua ai tre che già possedeva. Émilie crebbe confinata in camera sua e, proprio come i cani, veniva coccolata se e quando maman ne aveva voglia. Almeno i chihuahua si tenevano compagnia fra loro, pensò Émilie, mentre lei era stata costretta a trascorrere la maggior parte dell’infanzia in solitudine. Aveva ereditato i tratti dei Martinière anziché i lineamenti delicati e i colori chiari degli antenati slavi di sua madre. Era stata una bambina grassottella, con la pelle olivastra e i capelli color mogano che ogni sei settimane le venivano tagliati a caschetto, con una frangia che formava una severa linea scura appena sopra le folte sopracciglia, un dono di suo padre, Édouard. «A volte ti guardo, mia cara, e faccio fatica a credere di averti messa al mondo io!» aveva commentato sua madre una delle rare volte che era andata a farle visita nella sua cameretta, prima di uscire per andare all’opera. «Ma almeno hai i miei occhi.» A volte Émilie avrebbe desiderato strapparsi quelle iridi blu e sostituirle con i bellissimi occhi nocciola di suo padre. Non le sembrava che quell’azzurro si addicesse al suo viso e inoltre, ogni volta che si guardava allo specchio, rivedeva lo sguardo di sua madre. Spesso aveva pensato di essere nata senza alcuna qualità a cui Valérie attribuisse valore. All’età di tre anni l’avevano portata a lezione di danza, ma ben presto Émilie aveva scoperto che il suo corpo non ne voleva sapere di quei movimenti: mentre le altre bambine fluttuavano nella sala leggere come farfalle, lei non riusciva a mostrare la minima grazia. I suoi piedini larghi preferivano restare ben piantati a terra e qualsiasi tentativo di sollevarli dal suolo finiva per fallire. Le lezioni di piano erano state altrettanto disastrose e nel canto si era rivelata irrimediabilmente stonata. Il suo corpo non si prestava nemmeno a indossare i vestitini che sua madre insisteva per metterle in occasione delle famose feste che organizzava nello splendido giardino colmo di rose della loro casa parigina. Seduta in disparte, Émilie osservava incantata quella donna affascinante, bellissima ed elegante destreggiarsi fra gli ospiti con grazia e sicurezza. Sia durante gli innumerevoli eventi parigini che in estate, al castello di Gassin, Émilie non parlava mai con nessuno e si sentiva sempre a disagio. Come se non bastasse, sembrava che da sua madre non avesse ereditato nemmeno la disinvoltura necessaria nelle occasioni mondane. Eppure un osservatore esterno avrebbe pensato che non le mancasse niente nella vita. Aveva avuto un’infanzia da favola: viveva in una splendida casa a Parigi e faceva parte di un’antica famiglia di nobili origini che disponeva ancora di una ricchezza scampata alle devastazioni della guerra. Il suo era un mondo che la maggior parte delle giovani francesi poteva soltanto sognare. Almeno aveva avuto il suo amato papà. Anche se non le concedeva molto più tempo della madre, ossessionato com’era dalla collezione di libri rari che conservava nel castello, quando Émilie riusciva ad attirare la sua attenzione era capace di darle l’amore e l’affetto che tanto desiderava. Papà aveva sessant’anni quando era nata Émilie ed era morto quattordici anni dopo. Non erano riusciti a trascorrere molto tempo insieme, ma le era stato sufficiente per capire da chi aveva ereditato gran parte della propria personalità. Édouard era silenzioso e riflessivo, preferiva i libri e la pace del castello al costante flusso di ospiti di cui si circondava sua madre. Émilie si era chiesta spesso come due persone così diverse avessero finito per innamorarsi. Ma Édouard sembrava adorare la giovane moglie e, nonostante preferisse vivere in maniera più frugale, non si lamentava mai di quel dispendioso stile di vita, ed era orgoglioso della bellezza e della popolarità di Valérie sulla scena mondana di Parigi. Spesso, quando l’estate volgeva al termine ed era tempo per Valérie ed Émilie di tornare a Parigi, lei supplicava suo padre di farla restare. «Papà, a me piace stare qui in campagna con te. C’è una scuola in paese… potrei seguire lì le lezioni e intanto occuparmi di te, perché di sicuro ti sentirai abbandonato qui al castello da solo.» Édouard le dava un buffetto affettuoso sotto il mento e scuoteva la testa. «No, piccolina. Per quanto bene ti voglio, tu devi tornare a Parigi e studiare per diventare una vera signora come tua madre.» «Ma papà, io non voglio tornare con maman, io voglio stare qui con te…» E poi, quando aveva tredici anni… Émilie ricacciò indietro le lacrime, ancora incapace di ripensare al momento in cui il disinteresse di sua madre si ,era trasformato in abbandono. Ne avrebbe subìto le conseguenze per il resto della vita. «Come hai potuto non vedere né sentire quello che mi stava succedendo,maman? Ero tua figlia!» Una palpebra di Valérie sembrò fremere all’improvviso ed Émilie sobbalzò, temendo che maman fosse ancora viva e l’avesse sentita. Ma quando le afferrò il polso per sentire il battito non avvertì pulsazioni. Erano soltanto le ultime tracce di vita in un corpo che si abbandonava alla morte. «Maman, cercherò di perdonarti. Proverò a capirti, ma in questo momento non so dire se sono triste o felice che tu sia morta.» Émilie sentì il proprio respiro farsi pesante, come per reazione a quelle parole pronunciate ad alta voce. «Ti volevo così bene, ho cercato di compiacerti in tutti i modi, di guadagnarmi il tuo affetto e le tue attenzioni, di sentirmi… degna di essere tua figlia. Mio Dio! Ho fatto di tutto!» Émilie strinse i pugni. «Tu eri mia madre!» Ammutolì, scioccata dal suono della sua stessa voce che rimbombava nella grande camera da letto. Fissò lo stemma dei Martinière, dipinto duecentocinquant’anni prima sull’imponente testiera del letto. Ormai sbiaditi, i due cinghiali in lotta, l’onnipresente giglio e in basso l’aforisma la vittoria è tutto erano appena distinguibili. Improvvisamente Émilie rabbrividì, nonostante nella stanza facesse molto caldo. Il silenzio del castello era assordante. Quella casa, un tempo piena di vita, era ormai ridotta a un involucro vuoto, che ospitava solo il passato. Osservò il sigillo infilato al mignolo della mano destra, che riportava lo stemma di famiglia in miniatura. Lei era l’ultima dei Martinière. Improvvisamente sentì su di sé il peso di secoli di storia e constatò con tristezza che l’ultima erede di quel nobile lignaggio era una trentenne nubile e senza figli. La famiglia aveva resistito a secoli di brutali devastazioni ma, nell’arco di cinquant’anni, la Prima e la Seconda guerra mondiale avevano lasciato in vita solo suo padre. Almeno non ci sarebbero stati i soliti battibecchi sulla spartizione dell’eredità. In base a un’obsoleta legge napoleonica, fratelli e sorelle ereditavano direttamente e in parti uguali le proprietà dei genitori. Era accaduto che molte famiglie si fossero trovate sull’orlo della rovina perché uno dei figli si era rifiutato di vendere. Tristemente, in questo caso, les héritiers en ligne directe si riducevano a lei. Émilie sospirò. Avrebbe potuto vendere, certo, ma non era quello il momento di pensarci. Ora era tempo di dire addio. «Riposa in pace, maman.» Sfiorò quella fronte cerea con un lieve bacio e si fece il segno della croce. Alzandosi a fatica dalla poltrona, Émilie lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle, risoluta. 2 Due settimane dopo Émilie fece colazione con café au lait e croissant in cucina, appoggiata allo stipite della porta che dava sul cortile retrostante, tappezzato di lavanda. Il castello era rivolto a sud, e quello era il punto migliore per godersi il sole del mattino. Era un bellissimo e profumato giorno di primavera, abbastanza tiepido per starsene all’aperto in maglietta. Quarantotto ore prima, a Parigi, durante il funerale di sua madre, la pioggia era caduta incessantemente mentre la bara veniva interrata. Durante la veglia – organizzata al Ritz per volere della stessa Valérie – Émilie aveva ricevuto le condoglianze di molte persone illustri. Le donne, quasi tutte dell’età di sua madre, erano vestite di nero; somigliavano, aveva pensato Émilie, a uno stormo di vecchie cornacchie. Avevano nascosto i capelli sempre più radi sotto cappellini fuori moda, e vagavano malferme sorseggiando champagne, con i corpi consumati dalla vecchiaia e i visi rugosi coperti da una maschera di trucco. Nel fiore degli anni erano state considerate le donne più belle e potenti di tutta Parigi. Ma ormai il naturale ciclo della vita le aveva rimpiazzate con una nuova generazione di giovani rampanti. Tutte quelle donne stavano semplicemente aspettando la morte, aveva pensato Émilie con malinconia mentre lasciava il Ritz e chiamava un taxi per farsi riaccompagnare a casa, nel suo appartamento. In preda alla tristezza, aveva bevuto molto più vino del solito e il giorno dopo si era svegliata con i postumi della sbornia. Ma almeno il peggio era passato, si era detta Émilie per darsi conforto, sorseggiando il caffè. Nel corso delle ultime due settimane le era stato davvero difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse l’organizzazione del funerale. Aveva capito che se non altro doveva a sua madre quel genere di addio che Valérie avrebbe pianificato alla perfezione. Perciò si era tormentata per decidere se, insieme al caffè, fosse meglio servire cupcakes o petits fours, o se il trionfo di rose bianche che sua madre amava tanto fosse sufficiente per la decorazione del tavolo. Era il genere di decisioni apparentemente insignificanti che Valérie prendeva ogni giorno, e ritrovandosi in quel ruolo Émilie aveva suo malgrado maturato una sorta di rispetto per la disinvoltura che sua madre aveva sempre dimostrato. Ma ora – Émilie sollevò il viso verso il sole, crogiolandosi in quel tepore confortante – era giunto il momento di pensare al futuro. Gérard Flavier, il notaire che si occupava degli affari legali e patrimoniali dei Martinière, stava arrivando da Parigi per incontrarla al castello. Non aveva molto senso mettersi a fare piani prima di conoscere la situazione finanziaria della proprietà. Émilie aveva preso un mese di ferie per affrontare quello che sapeva sarebbe stato un percorso lungo e difficile. Le sarebbe piaciuto condividere quel peso con un fratello o una sorella; le questioni legali e finanziarie non erano proprio il suo forte. Quella responsabilità la terrorizzava. Émilie avvertì qualcosa di soffice contro la caviglia, abbassò gli occhi e vide Frou-Frou, l’ultima dei chihuahua di sua madre, che la guardava con occhi languidi e tristi. Prese in braccio la vecchia cagnetta e se la mise sulle ginocchia, accarezzandole le orecchie. «Pare che siamo rimaste solo io e te, Frou» bisbigliò. «Perciò dobbiamo badare l’una all’altra, vero?» L’espressione seria che vide negli occhi velati della cagnetta la fece sorridere. Non aveva idea di come avrebbe fatto a occuparsi di lei. Sognava di potersi circondare di animali un giorno, ma il suo minuscolo appartamento nel Marais e il lavoro a tempo pieno non la mettevano nella condizione di badare a un cane cresciuto fra coccole e comodità. In realtà, prendersi cura degli animali era il suo pane quotidiano. Émilie viveva per i suoi vulnerabili pazienti, incapaci di esprimere cosa provassero o dove sentissero dolore. «È triste che mia figlia sembri preferire la compagnia degli animali a quella degli esseri umani…» Quelle parole esprimevano appieno ciò che Valérie pensava della vita che sua figlia aveva scelto. Quando Émilie aveva annunciato di volersi laureare in veterinaria, sua madre aveva risposto contraendo le labbra in una smorfia di disgusto. «Non riesco a capire come tu possa voler passare il resto della tua vita a sezionare dei poveri animaletti e osservare le loro interiora.» «Maman, quello è il procedimento, non la motivazione. Io amo gli animali, voglio aiutarli» aveva risposto lei, sulla difensiva. «Se proprio vuoi fare carriera, allora perché non consideri la moda? Ho un’amica che lavora da Marie Claire e sono certa che potrebbe trovarti un posticino. Ovviamente, quando ti sposerai, non vorrai mica continuare a lavorare? Sarai una moglie e quello diventerà il tuo ruolo.» Émilie non biasimava la madre per essere rimasta intrappolata nella propria epoca, ma non poteva fare a meno di desiderare che andasse fiera dei suoi successi. Si era laureata come migliore studentessa del suo anno accademico e aveva subito ottenuto un tirocinio in uno dei più famosi studi veterinari di Parigi. «Forse maman aveva ragione, Frou,» disse sospirando «forse preferisco gli animali alle persone.» Émilie sentì lo scricchiolio della ghiaia sotto gli pneumatici, mise a terra FrouFrou e fece il giro della casa per andare ad accogliere Gérard. «Émilie, come stai?» Gérard Flavier la baciò sulle guance. «Sto bene, grazie» rispose lei. «Com’è andato il viaggio?» «Ho preso un aereo per Nizza e poi ho noleggiato una macchina per arrivare fin qui» disse Gérard, entrando nell’ampio ingresso che gli scuri chiusi avvolgevano nell’ombra. «Sono felice di poter evadere da Parigi per ritrovarmi in uno dei luoghi che preferisco in tutta la Francia. La primavera nel Var è sempre splendida.» «Ho pensato che fosse meglio incontrarci qui al castello» concordò Émilie. «I documenti dei miei genitori sono nella scrivania della biblioteca e ho immaginato che avessi bisogno di consultarli.» «È così.» Gérard percorse il pavimento di marmo consunto e si fermò a studiare una macchia d’umido sul soffitto. «Il castello avrebbe bisogno di un po’ di cure amorevoli, non credi?» sospirò. «Sta invecchiando, come tutti noi.» «Andiamo in cucina?» suggerì Émilie. «Ho appena fatto il caffè.» «Ne ho proprio bisogno» rispose Gérard con un sorriso, seguendola lungo il corridoio che conduceva sul retro della casa. «Siediti pure» disse lei, indicando una delle sedie accanto al lungo tavolo di quercia e avvicinandosi ai fornelli per mettere a bollire altra acqua. «Mi pare che il lusso non sia la priorità qui dentro» disse Gérard osservando il mobilio modesto e funzionale. «Già» confermò Émilie. «D’altra parte questo era uno spazio riservato alla servitù che si occupava della nostra famiglia e degli ospiti. Credo che mia madre non abbia mai toccato una pentola in vita sua.» «Ora chi si occupa delle faccende al castello?» chiese Gérard. «Margaux Duvall, la governante, lavora qui da quindici anni. Arriva dal paese ogni pomeriggio. Dopo la morte di mio padre maman licenziò il resto del personale e smise di venire ogni estate con regolarità. Credo preferisse viaggiare sullo yacht che aveva noleggiato.» «Di sicuro a tua madre piaceva spendere» disse Gérard mentre Émilie gli appoggiava davanti la tazza di caffè. «Per le cose che aveva a cuore» aggiunse. «Cioè non per il castello» dichiarò lei senza mezzi termini. «Esattamente» concordò Gérard. «Da quello che ho potuto constatare traeva molte più soddisfazioni dalla Maison Chanel.» «Sì, maman adorava l’haute couture.» Émilie gli si sedette di fronte con la tazza di caffè in mano. «Anche nell’ultimo anno di vita, nonostante la malattia, ha continuato ad assistere alle sfilate.» «Valérie era senza dubbio un personaggio; ed era anche famosa. I giornali hanno dato grande rilievo alla sua morte» disse. «Comunque non c’è da stupirsi. Quella dei Martinière è una delle famiglie più prestigiose di tutta la Francia.» «Lo so,» disse Émilie con una smorfia «anch’io ho visto i giornali. A quanto pare ho ereditato una fortuna.» «Non c’è dubbio che la tua famiglia sia stata straordinariamente ricca. Sfortunatamente, Émilie, i tempi sono cambiati. Il titolo nobiliare esiste ancora ma, per quanto riguarda il patrimonio, il discorso è diverso.» «Immaginavo.» Émilie non fu sorpresa da quella notizia. «Saprai che tuo padre non era esattamente quel che si può definire un uomo d’affari» proseguì Gérard. «Era un intellettuale, un accademico a cui i soldi non interessavano granché. Ho provato molte volte a parlargli di investimenti, ho cercato di convincerlo a pianificare il suo futuro, ma a lui non importava. Vent’anni fa in effetti la situazione era solida, il patrimonio di famiglia era consistente. Ma fra il disinteresse di tuo padre e la passione di tua madre per il lusso, i capitali si sono ridotti considerevolmente.» Gérard sospirò. «Mi spiace dover portare cattive notizie.» «Me l’aspettavo, e comunque per me non cambia molto» lo rassicurò Émilie. «Voglio solo sistemare questa faccenda e tornare al mio lavoro, a Parigi.» «Émilie, temo che le cose non siano così semplici. Come ti ho detto all’inizio non ho ancora avuto il tempo di esaminare la situazione in maniera dettagliata, ma posso dirti che la proprietà ha molti debiti. E i creditori vanno pagati il prima possibile» spiegò. «Tua madre è riuscita a rimanere scoperta di quasi venti milioni di franchi sulla casa di Parigi. E aveva contratto anche molti altri debiti, che vanno estinti.» «Venti milioni di franchi?» Émilie rimase scioccata. «Com’è possibile?» «Facile. Mentre il patrimonio diminuiva Valérie non ha cercato di moderare il suo tenore di vita. Già da molti anni viveva facendosi prestare denaro. Ti prego, Émilie,» Gérard vide l’espressione nei suoi occhi «non farti prendere dal panico. Sono debiti che possono facilmente essere saldati, non solo grazie alla vendita della casa di Parigi, che credo possa rendere settanta milioni di franchi, ma anche di quello che c’è dentro. Per esempio la magnifica collezione di gioielli di tua madre, adesso custodita in una cassetta di sicurezza in banca, e tutti gli oggetti d’arte e i quadri di valore. Non sei certo povera, credimi, ma bisogna prendere in mano la situazione al più presto e pianificare il futuro.» «Capisco» rispose lentamente Émilie. «Perdonami, Gérard, ma ho preso da mio padre e non ho né interesse né esperienza nel gestire le finanze.» «Mi rendo perfettamente conto della situazione. I tuoi genitori ti hanno lasciato una bella matassa da sbrogliare da sola. Anche se» Gérard alzò un sopracciglio «è sorprendente vedere quanti nuovi parenti sembri aver acquisito.» «Cosa vuoi dire?» «Oh, non ti devi preoccupare, in momenti come questi gli avvoltoi arrivano sempre. Ho ricevuto almeno venti lettere da persone che sostengono di essere imparentate con i Martinière. Finora quattro fratelli e sorelle illegittimi, apparentemente figli di tuo padre, due cugini, uno zio e un domestico della casa di Parigi che giura di avere diritto a un Picasso, promessogli da tua madre negli anni Sessanta.» Gérard sorrise. «Tutto come da copione, ma sfortunatamente secondo la legge francese ogni rivendicazione va verificata.» «Credi che nessuno di loro dica la verità?» Émilie spalancò gli occhi. «Ne dubito fortemente. E se ti può consolare questa cosa accade ogni volta che un decesso viene pubblicizzato in questo modo.» Scrollò le spalle. «Lascia fare a me e non preoccuparti. Preferirei che ti concentrassi sul castello. Come ho già detto, i debiti di tua madre possono essere saldati facilmente, ma ti rimane sempre questa magnifica proprietà che ha urgente bisogno di una ristrutturazione, da quel che ho visto. Qualunque cosa tu decida di fare, sarai una donna benestante, ma pensi di tenere il castello o di venderlo?» Émilie fissò il vuoto e sospirò profondamente. «A essere onesta, Gérard, vorrei non doverci più pensare. Vorrei che qualcun altro prendesse questa decisione. E il vigneto? La cantina rende qualcosa?» chiese. «È una delle questioni su cui devo ancora indagare» rispose Gérard. «Se decidi di vendere il castello possiamo includere anche l’azienda vinicola, che può figurare come attività ben avviata.» «Vendere il castello…» Émilie ripeté le parole di Gérard. Pronunciarle ad alta voce le fece capire quanto fosse grande la responsabilità che gravava sulle sue spalle. «Questa casa appartiene alla nostra famiglia da duecentocinquant’anni. E ora la decisione spetta a me. E la verità è che» sospirò «non ho la più pallida idea di cosa devo fare.» «Capisco benissimo. Come ti ho già detto la difficoltà maggiore sta nel fatto che sei sola.» Gérard scosse la testa in segno di comprensione. «Cosa dire? Non sempre scegliamo noi le situazioni in cui finiamo per ritrovarci. Per quanto mi è possibile, Émilie, cercherò di esserti d’aiuto; è quello che avrebbe voluto tuo padre in questa circostanza. Adesso vado a darmi una rinfrescata; magari più tardi possiamo andare a vedere la vigna e fare quattro chiacchiere con chi se ne occupa.» «Okay» rispose Émilie scettica. «Ho aperto gli scuri della stanza da letto a sinistra dello scalone. C’è una vista splendida. Vuoi che ti accompagni?» «No, ti ringrazio. Sono venuto tante altre volte. Non avrò problemi a trovarla.» Gérard si alzò, fece un cenno del capo a Émilie e uscì dalla cucina, diretto in camera sua. Salendo lo scalone si fermò a mezza via, fissando il viso sbiadito e polveroso del capostipite dei Martinière. Quante nobili famiglie di Francia stavano scomparendo insieme alla loro storia, lasciando solo un’impronta nella polvere. Si domandò come si sarebbe sentito l’uomo del ritratto, il grande Giles de la Martinière – guerriero, nobiluomo e, si diceva, amante di Maria Antonietta – sapendo che il futuro della sua casata sarebbe finito nelle mani di una giovane donna. Una donna che Gérard aveva sempre trovato molto singolare. In tutti quegli anni, durante le sue visite ai Martinière, Gérard aveva avuto a che fare con una bimba bruttina che tendeva a isolarsi, incapace di rispondere a qualunque gesto d’affetto. Una bambina che, nonostante i suoi tentativi di mostrarsi amichevole, sembrava lontana, sfuggente, quasi scontrosa. Gérard riteneva che il mestiere di notaire non si limitasse alla compilazione di colonne di cifre, ma includesse la capacità di comprendere i propri clienti. Ma per lui Émilie de la Martinière era sempre stata un mistero. L’aveva osservata al funerale di Valérie e il suo viso non aveva mai tradito emozioni. Senza dubbio, crescendo, era diventata molto più bella. Poco prima, al piano di sotto, nonostante la recente perdita della madre e la necessità di prendere una decisione fondamentale, Émilie non gli era sembrata affatto vulnerabile. La vita che conduceva a Parigi non avrebbe potuto essere più distante da quella dei suoi antenati. La sua era un’esistenza anonima, mentre la vita dei suoi genitori e la storia della sua famiglia erano decisamente fuori dal comune. Gérard riprese a salire le scale, irritato da quella reazione così tiepida. C’era qualcosa che non quadrava… c’era qualcosa in lei che gli sfuggiva. E non aveva idea di come sciogliere quell’enigma. Quando Émilie si alzò per mettere le tazze nel lavello, la porta della cucina si aprì e apparve Margaux, la governante del castello. Non appena vide la padrona il suo volto si illuminò. «Mademoiselle Émilie!» la domestica corse ad abbracciarla. «Non sapevo che sarebbe venuta! Avrebbe dovuto dirmelo. Le avrei fatto trovare tutto pronto.» «Sono arrivata da Parigi ieri notte» disse Émilie. «È bello rivederti, Margaux.» Margaux fece un passo indietro e scrutò gli occhi della giovane con sguardo pieno di cordoglio. «Come sta?» «Me la cavo…» rispose Émilie in tutta onestà; la vista di Margaux, che sin da quando era una ragazzina si era presa cura di lei durante le estati trascorse al castello, le fece salire un nodo alla gola. «Mi sembra tanto magra. Ha smesso di mangiare?» le domandò squadrandola da capo a piedi. «Certo che mangio, Margaux! E comunque non c’è pericolo che scompaia.» Émilie sorrise debolmente, toccandosi i fianchi. «Guardi che lei ha delle belle forme… aspetti di avere la mia età!» Margaux accennò al proprio corpo appesantito e si mise a ridacchiare. Émilie osservò l’azzurro dei suoi occhi che si stava attenuando e i capelli biondi striati di grigio. Ricordò la bellissima donna che Margaux era stata quindici anni prima e il pensiero di come il passare del tempo distruggesse tutto ciò che trovava sul suo cammino la fece sentire ancora peggio. La porta della cucina si aprì di nuovo. Apparve un ragazzino gracile, con il viso da elfo dominato dagli stessi grandi occhi azzurri di sua madre. Quando vide Émilie rimase di stucco e subito rivolse uno sguardo nervoso a Margaux. «Maman, io ci posso stare qui?» chiese. «Le dispiace se Anton resta al castello con me mentre sbrigo le faccende,mademoiselle Émilie? Ci sono le vacanze di Pasqua e non vorrei lasciarlo a casa da solo. Di solito se ne sta seduto buono buono con il suo libro.» «Certo, non c’è nessun problema» rispose Émilie, rivolgendo al ragazzino un sorriso rassicurante. Margaux aveva perso il marito otto anni prima in un incidente d’auto. Da allora aveva lottato per crescere suo figlio da sola. «Credo che ci sia abbastanza spazio per tutti qui dentro, non vi pare?» «Sì, mademoiselle Émilie. Grazie» disse Anton riconoscente, avvicinandosi a sua madre. «Di sopra c’è Gérard Flavier, il nostro notaire. Resterà qui per la notte, Margaux» aggiunse Émilie. «Dobbiamo andare al vigneto per parlare con Jean e Jacques.» «Gli farò la camera mentre siete via. Vuole che prepari qualcosa per cena?» «No, grazie, più tardi andremo a mangiare in paese» rispose Émilie. «Sono arrivati dei conti da saldare, mademoiselle. Vuole che glieli porti?» domandò Margaux imbarazzata. «Sì, certo.» Émilie sospirò. «Non c’è più nessun altro che possa pagarli.» «No. Mi spiace così tanto mademoiselle. Dev’essere dura per lei dover fare tutto da sola. So bene come ci si sente» disse Margaux comprendendo il suo stato d’animo. «Ti ringrazio. Ci vediamo dopo, Margaux.» Émilie annuì a madre e figlio e uscì dalla cucina per andare da Gérard. Nel pomeriggio lo accompagnò alla cantina. Il vigneto dei Martinière era una piccola azienda di dieci ettari che produceva circa duemila bottiglie di vino rosé, bianco e rosso, vendute perlopiù a ristoranti, hotel ed enoteche locali. La cantina era buia e fresca, l’aria era impregnata dell’odore del mosto fermentato che proveniva dalle antiche botti di rovere russo, allineate lungo le pareti. Jean Benoit, il direttore della cantina, si alzò da dietro la scrivania non appena li vide entrare. «Mademoiselle Émilie! Che piacere vederla.» Jean la baciò calorosamente sulle guance. «Papà, guarda chi c’è!» Anche se ormai ottantenne e irrigidito dai reumatismi, Jacques Benoit continuava imperterrito ad andare alla cantina ogni giorno per avvolgere accuratamente ogni bottiglia nella carta velina rossa; l’uomo alzò gli occhi e sorrise. «Mademoiselle Émilie, come sta?» «Sto bene, Jacques, grazie. E lei?» «Ah, ormai non riesco più a inseguire i cinghiali su per le colline, come facevo un tempo con suo padre» ridacchiò. «Ma almeno fino a oggi sono sempre riuscito a svegliarmi vivo ogni mattina.» Di fronte a quell’accoglienza calorosa e familiare Émilie si sentì aprire il cuore. Jacques e suo padre erano stati grandi amici ed Émilie aveva pedalato spesso fino alla vicina spiaggia di Gigaro per andare a nuotare insieme a Jean, il quale, avendo otto anni più di lei, le era sempre sembrato adulto. A volte fantasticava che fosse suo fratello. Jean era sempre stato molto gentile e protettivo nei suoi confronti. Aveva perso la madre, Francesca, quando era ancora molto giovane, e suo padre Jacques aveva fatto del suo meglio per tirarlo su da solo. Padre e figlio, così come i loro avi, erano nati e cresciuti nella casetta accanto alla cantina. Era Jean che gestiva la vigna ormai; aveva preso il posto del padre che gli aveva insegnato tutti i segreti per mescolare e far fermentare l’uva che veniva raccolta nelle vigne circostanti. Émilie si accorse che Gérard stava gironzolando imbarazzato dietro di lei. Sottraendosi a quei ricordi disse: «Questo è Gérard Flavier, il nostro notaire di famiglia». «Credo che ci siamo già conosciuti molti anni fa, monsieur» disse Jacques tendendogli una mano tremolante. «Sì, e da allora continuo a gustare la delicatezza del vino che produce» commentò Gérard sorridendo. «Troppo gentile, monsieur» disse Jacques. «Sa, credo che mio figlio mi abbia superato, sfiorando la perfezione con il suo rosé provenzale.» «Immagino, monsieur Flavier, che lei sia qui non per controllare la qualità del prodotto ma il bilancio della cantina.» Jean parve inquieto. «Vorrei capire se questa attività è finanziariamente rilevante» confermò Gérard. «Temo che mademoiselle Émilie sarà costretta a prendere delle decisioni in proposito.» «Be’,» disse Émilie «credo di non potervi più essere d’aiuto. Vado a fare una passeggiata nella vigna.» Rivolse un cenno di saluto ai tre uomini e corse via. Nell’uscire si rese conto che l’imbarazzo provato nasceva dalla consapevolezza che la sua scelta avrebbe deciso il futuro della famiglia Benoit. Il loro modo di vivere era lo stesso da secoli. Si era accorta della grande preoccupazione di Jean, che aveva intuito le conseguenze di un’ipotetica vendita. Un nuovo proprietario probabilmente avrebbe portato con sé un nuovo direttore, e Jean e Jacques sarebbero stati costretti ad andarsene. Non riusciva nemmeno a immaginare un’eventualità del genere, dal momento che i Benoit sembravano essere nati dalla stessa terra che stava calpestando in quel momento. Il sole era già calato all’orizzonte mentre Émilie camminava tra le fragili piantine di vite. Nel corso delle settimane seguenti sarebbero cresciute velocemente, maturando frutti dolci e succosi da raccogliere durante la vendangedi fine estate per produrre il vino nuovo. Si voltò a guardare il castello, trecento metri più lontano, e sospirò angosciata. La pietra chiara e rosata dei muri, gli scuri delle finestre dipinti con il tradizionale azzurro, la cornice di alti cipressi: tutto era addolcito dalla delicatezza del tramonto. Semplice e al contempo elegante, progettato per fondersi in maniera armoniosa con la campagna circostante, l’edificio rappresentava perfettamente la raffinata e nobile famiglia che l’aveva costruito e dalla quale Émilie discendeva. E siamo noi tutto ciò che resta… Émilie fu colta da un improvviso moto d’affetto per il castello. Anche lui era orfano. Ammirato per la sua imponenza, ma ignorato nei bisogni fondamentali, riusciva nonostante tutto a mantenere un’aria di elegante dignità. Émilie avvertì uno strano senso di solidarietà nei confronti di quell’edificio. «Come posso darti ciò di cui hai bisogno?» gli sussurrò. «Cosa devo fare con te? La mia vita è altrove, non…» Sospirò sentendosi chiamare. Gérard la stava raggiungendo. Le si mise accanto e seguì il suo sguardo in direzione del castello. «È bellissimo, vero?» disse. «Sì, lo è. Ma non ho idea di cosa dovrei farne.» «Perché non torniamo indietro? Ti esporrò cos’ho pensato in proposito. Potrebbe esserti d’aiuto» suggerì Gérard. «Grazie.» Venti minuti dopo, appena il sole scomparve completamente dietro la collina sulla quale sorgeva il paesino medievale di Gassin, Émilie sedette con Gérard e ascoltò quello che aveva da dire. «Il vigneto non rende quanto potrebbe, sia in termini di produzione che di profitto. C’è stata un’impennata nel commercio internazionale di rosé negli ultimi anni. Non è più considerato il cugino povero del rosso e del bianco. Se le condizioni meteorologiche resteranno favorevoli nelle prossime settimane, Jean prevede una vendemmia eccezionale. Il punto è, Émilie,» spiegò Gérard «che la cantina è sempre stata gestita dalla tua famiglia come un passatempo.» «Sì, me ne rendo conto» concordò lei. «Jean – che detto fra noi mi ha fatto un’ottima impressione – mi ha riferito che dalla morte di tuo padre, sedici anni fa, non sono più stati investiti fondi nella vigna. Originariamente il patto era che la vigna fornisse alla casa padronale una riserva di vino di queste terre. Negli anni d’oro, quando i tuoi antenati vivevano in grande stile qui al castello, il vino era a loro esclusivo uso e consumo. Ora ovviamente tutto è cambiato, ma il vigneto funziona allo stesso modo di un tempo.» Gérard osservò Émilie in attesa di una risposta, ma non vedendo alcuna reazione da parte sua proseguì. «Quello di cui la cantina ha bisogno è un’iniezione di denaro per riuscire a sfruttare tutto il suo potenziale. Ad esempio, Jean mi ha detto che ci sarebbe terra a sufficienza per raddoppiare le dimensioni del vigneto. Pensa anche che con attrezzature moderne sarebbe possibile ricavarne un discreto profitto. Il punto è,» sintetizzò Gérard «se tu hai intenzione o meno di dare un futuro al castello e alla vigna. Hanno entrambi bisogno di essere rinnovati e saresti costretta a dedicare loro buona parte del tuo tempo.» Émilie si concentrò sul silenzio. Non c’era un filo di vento. Quell’atmosfera serena l’avvolse come uno scialle caldo. Per la prima volta dopo la morte di sua madre Émilie si sentì in pace. E quindi riluttante a prendere una decisione. «Grazie davvero del tuo aiuto, Gérard. Ma non credo di avere una risposta in questo momento» spiegò. «Se me l’avessi chiesto due settimane fa ti avrei detto che ero assolutamente propensa a vendere. Ma ora…» «Capisco» disse Gérard annuendo. «Posso solo darti consigli finanziari, Émilie, le questioni emotive non sono il mio campo. Forse può consolarti sapere che quando venderai la casa di Parigi, con tutto quel che c’è dentro e tutti i gioielli di tua madre, il ricavato sarà sufficiente a coprire le spese di ristrutturazione del castello ma anche a mantenerti per il resto della tua vita. E ovviamente qui c’è la biblioteca» aggiunse. «Tuo padre potrà anche aver trascurato le sue proprietà, ma l’eredità che ti ha lasciato è custodita nel castello. È riuscito a mettere insieme quella che già ai suoi tempi era una preziosa collezione di volumi rari. Ho dato un’occhiata al registro che teneva e credo che l’abbia raddoppiata. I libri antichi non rientrano nelle mie competenze, ma immagino che questa collezione abbia un certo valore.» «Non mi separerò mai da quei libri» rispose con fermezza Émilie, sorprendendo anche se stessa con quella reazione improvvisa. «Mio padre vi ha dedicato tutta la vita. Ho trascorso molte ore in biblioteca con lui quand’ero bambina.» «Ma certo, non c’è ragione per cui tu debba separartene. Però se dovessi decidere di vendere il castello dovresti trovare un posto ben più spazioso del tuo appartamento per sistemare la collezione.» Gérard sorrise beffardo. «È ora di mangiare. Mi faresti compagnia per una cena in paese? Domattina devo partire presto e, con il tuo permesso, vorrei esaminare il contenuto della scrivania di tuo padre per cercare altri documenti contabili.» «Ma certo» rispose Émilie. «Prima però dovrei fare un paio di telefonate,» disse scusandosi «ci vediamo qui fra mezz’ora.» Émilie osservò Gérard alzarsi ed entrare in casa. Si sentiva in imbarazzo in sua compagnia nonostante lo conoscesse da sempre. Un tempo si era rapportata a lui come qualsiasi bambino avrebbe fatto con un adulto. Ora, senza la presenza di terzi, ritrovarsi a conversare con quell’uomo la metteva a disagio. Cercando di spiegare a se stessa quella sensazione, Émilie si rese conto che nell’offrirle il suo aiuto Gérard la trattava in maniera condiscendente. E a tratti leggeva nei suoi occhi un certo risentimento. Forse pensava – e chi poteva biasimarlo – che lei non fosse all’altezza di essere l’ultima a ricevere lo scettro dei Martinière, con tutto il suo carico di storia. Émilie era dolorosamente consapevole di non possedere nemmeno un briciolo del fascino dei suoi predecessori. Nata in una famiglia straordinaria, il suo unico desiderio era quello di essere una persona comune. 3 Il mattino seguente Émilie sentì la macchina di Gérard percorrere il viale e lasciare il castello molto presto. Era stesa sul lettino in cui aveva dormito per tutta l’infanzia. La finestra della sua camera si affacciava a nord-ovest, perciò non entrava molto sole. Ovviamente, pensò, non c’era alcun motivo per non trasferirsi in una qualsiasi delle altre camere, bellissime e spaziose, con ampie finestre che davano sul giardino e sul vigneto, sul lato opposto della casa. Frou-Frou, che la notte precedente aveva guaito così tanto da convincere Émilie a lasciarla dormire sul letto, abbaiò sulla soglia della porta ricordandole che era ora di colazione. Scesa in cucina, Émilie si fece il caffè, poi andò in biblioteca. In quella stanza dai soffitti altissimi, che suo padre aveva sempre tenuto al riparo dalla luce per proteggere i libri. L’odore familiare di muffa la fece sentire al sicuro. Appoggiò la tazza sul consunto piano di pelle della scrivania e aprì gli scuri di una finestra. Un milione di granelli di polvere, stanati dai loro nascondigli per l’improvviso spostamento d’aria, si misero a danzare freneticamente nei raggi di sole. Si sedette sulla poltrona accanto alla finestra e osservò le alte scaffalature che da terra arrivavano al soffitto. Non aveva idea di quanti libri contenesse la biblioteca. Suo padre aveva trascorso gli ultimi anni della propria vita catalogando e ampliando la collezione. Si alzò e cominciò a fare lentamente il giro della stanza: la parete di libri era quattro volte la sua altezza. Come sentinelle imperturbabili, i volumi sembravano studiare la nuova padrona, domandandosi quale destino sarebbe toccato loro. A Émilie tornò in mente il «gioco dell’alfabeto» che faceva con suo padre: doveva scegliere due lettere a piacere, dopodiché lui faceva il giro della biblioteca cercando un autore con quelle iniziali. Raramente era capitato che non riuscisse a trovare un libro corrispondente alle indicazioni di Émilie. Anche quando lei cercava di fare la furba e sceglieva una coppia di lettere come XZ o ZS suo padre riusciva sempre a pescare una copia sciupata e scolorita di un’opera filosofica cinese, o una sottile antologia di un qualche autore russo ormai dimenticato. Nonostante avesse assistito a queste ricerche per anni, Émilie desiderò aver prestato maggior attenzione al metodo eclettico con il quale suo padre sistemava i libri. Studiando gli scaffali si rese conto che i volumi non erano disposti semplicemente in ordine alfabetico. Nel ripiano che aveva di fronte si andava da Dickens a Platone, passando per Guy de Maupassant. La collezione era talmente vasta che i titoli elencati nei cataloghi sulla scrivania rappresentavano solo la punta dell’iceberg della sterminata collezione. Édouard sapeva esattamente dove mettere le mani quando cercava un libro, ma quella era una capacità che aveva portato con sé nella tomba. «Se vendessi questo posto cosa ne sarebbe di voi?» sussurrò ai libri. Per tutta risposta questi le rivolsero uno sguardo muto: migliaia di orfani consapevoli che il loro destino era nelle sue mani. Émilie si scrollò di dosso quei pensieri; non poteva permettere di farsi influenzare dalle emozioni. Se avesse deciso di vendere il castello avrebbe trovato alla collezione una nuova casa. Chiuse gli scuri lasciando i libri al loro sonno e uscì dalla biblioteca. Émilie trascorse il resto della giornata esplorando ogni nicchia e ogni angolo remoto del castello, riscoprendo la bellezza dei fregi antichi che adornavano i soffitti del salone, l’eleganza consunta del mobilio francese e gli innumerevoli quadri appesi alle pareti. All’ora di pranzo andò in cucina e si versò un bicchiere d’acqua. Bevve con avidità, accorgendosi improvvisamente che quasi le mancava il respiro, come se si fosse svegliata da un brutto sogno. Si rese conto che la bellezza scoperta quella mattina la circondava da anni, ma lei non era mai stata capace di apprezzarla o darle valore. In quel momento, anziché vedere la propria eredità e la propria discendenza come un peso di cui liberarsi, sperimentò i primi fremiti di entusiasmo. Quella bellissima casa e le splendide ricchezze che conteneva ora erano sue. Improvvisamente si accorse di aver fame e si mise a rovistare nel frigo e nella credenza, ma inutilmente. Uscì di casa con Frou-Frou in braccio, la sistemò sul sedile del passeggero e guidò fino a Gassin. Quando ebbe parcheggiato salì la ripida scalinata che si inerpicava su per il paese, fino al corso costeggiato di ristoranti e caffè; sedette al tavolo di una terrazza panoramica che si affacciava sulla vista spettacolare del Mediterraneo. Ordinò un quarto di rosé e un’insalata della casa, crogiolandosi al sole di mezzogiorno, senza badare troppo ai pensieri che le passavano per la testa. «Mi scusi mademoiselle, lei è per caso Émilie de la Martinière?» Riparandosi gli occhi dal sole Émilie alzò lo sguardo sull’uomo che si era avvicinato al suo tavolo. «Sì» rispose guardandolo con diffidenza. «Molto piacere.» L’uomo le tese la mano. «Mi chiamo Sebastian Carruthers.» Émilie ricambiò la stretta con qualche esitazione. «La conosco?» «No, non mi conosce.» Notò l’accento inglese, nonostante lo sconosciuto parlasse un francese quasi perfetto. «Posso chiederle allora come fa lei a conoscermi?» disse in tono nervoso. «È una lunga storia che prima o poi mi piacerebbe condividere con lei. Aspetta qualcuno?» chiese, indicando la sedia vuota vicino al tavolo. «Non… no» disse lei, scuotendo la testa. «Posso sedermi, allora? Vorrei scambiare due parole.» Prima che Émilie avesse il tempo di rifiutare, Sebastian aveva già scostato la sedia dal tavolo. Adesso che non era più accecata dal sole constatò che l’uomo aveva circa la sua età, era magro e indossava abiti informali ma di qualità, che gli cadevano a pennello. Aveva una manciata di lentiggini sul naso, capelli castani e affascinanti occhi nocciola. «Mi è dispiaciuto sapere della morte di sua madre» disse. «Grazie.» Émilie bevve un sorso di vino, e subito emersero le buone maniere che le erano state inculcate sin da piccola. «Posso offrirle un bicchiere di rosé?» disse. «Volentieri.» Sebastian fece un cenno al cameriere. Quando ebbe davanti un bicchiere Émilie gli versò il vino dalla brocca. «Come ha saputo della morte di mia madre?» domandò. «Difficile che un francese non lo sappia» rispose Sebastian, con occhi pieni di comprensione. «Era piuttosto famosa. La prego di voler accettare le mie condoglianze. Dev’essere un periodo duro per lei.» «Sì, lo è» rispose freddamente. «Mi dica, lei è inglese?» «Indovinato!» Sebastian alzò gli occhi al cielo fingendosi inorridito al pensiero. «Ho cercato di lavorare sul mio accento. Ma, sì, purtroppo lo sono. Tuttavia ho trascorso un anno a Parigi a studiare Belle Arti. E ammetto di essere francofilo a tutti gli effetti.» «Capisco» commentò piano Émilie. «Ma…» «In effetti,» fece lui «questo non spiega come faccia a sapere che lei è Émilie de la Martinière. Be’, vede,» Sebastian alzò le sopracciglia assumendo un’espressione misteriosa «il legame fra me e lei ha radici in un lontanissimo passato.» «Non saremo parenti?» Émilie si ricordò improvvisamente del monito di Gérard del giorno prima. «No, assolutamente no,» rispose sorridendo «ma mia nonna era per metà francese. Ho scoperto di recente che lavorò a stretto contatto con suo padre, Édouard de la Martinière, durante la Seconda guerra mondiale.» «Capisco.» Émilie non conosceva quasi nulla del passato di suo padre dal momento che lui non ne parlava mai. Ed era a disagio perché non riusciva a capire cosa volesse da lei quell’inglese. «Non so molto della vita di mio padre a quei tempi.» «Non ne sapevo molto neanche io finché mia nonna, poco prima di morire, mi raccontò che si trovava qui durante l’occupazione. E mi raccontò anche dell’uomo coraggioso che fu Édouard» aggiunse Sebastian. A questa rivelazione Émilie avvertì un nodo alla gola. «Non ne sapevo nulla… deve capire che io sono nata quando mio padre aveva già sessant’anni, più di vent’anni dopo la fine della guerra.» «Mi rendo conto» disse Sebastian annuendo. «E inoltre» Émilie mandò giù un bel sorso di vino «non era il tipo d’uomo che amava vantarsi dei propri trionfi.» «Be’, mi è parso che Constance, mia nonna, lo stimasse molto» disse Sebastian. «Mi ha raccontato anche del bellissimo castello di Gassin dove abitò mentre era qui in Francia. La residenza è molto vicina al paese, giusto?» «Sì» rispose Émilie; nel frattempo era arrivata l’insalata che aveva ordinato. «Lei mangia qualcosa?» chiese, sempre in virtù delle sue buone maniere. «Se non le dispiace sarei felice di farle compagnia.» «Ma certamente.» Sebastian ordinò e il cameriere si ritirò velocemente. «Allora, cosa la porta qui a Gassin?» domandò Émilie. «Questa è una bella domanda» disse Sebastian. «Dopo essermi laureato all’Accademia di Belle Arti a Parigi, sono diventato commerciante d’arte. Espongo in una piccola galleria di Londra, ma trascorro la maggior parte del tempo alla ricerca di quadri di valore per i miei clienti danarosi. Sono venuto in Francia per provare a convincere il proprietario di uno Chagall a vendere. Il tizio vive a Grasse che, come saprà, non è lontano da qui» spiegò. «Mi è capitato di leggere di sua madre sul giornale e mi è venuto subito in mente il legame che mia nonna aveva con la sua famiglia. Perciò ho pensato di fermarmi qui e visitare il castello di cui ho sentito tanto parlare. Questo paese è davvero bellissimo.» «Sì, è vero» rispose Émilie, perplessa per quella strana conversazione. «Mi dica, Émilie, lei vive al castello?» chiese Sebastian. «No» rispose, a disagio per quella domanda diretta. «Al momento vivo a Parigi.» «Dove io ho moltissimi amici» fece Sebastian, entusiasta. «Un giorno spero di poter trascorrere più tempo in Francia, ma per il momento sto cercando di farmi un nome nel Regno Unito. Che peccato non essere riuscito a mettere le mani sullo Chagall. Sarebbe stato il mio primo colpo grosso.» «Mi dispiace» disse lei. «Grazie. Me ne farò una ragione. Non è che lei ha qualche quadro di valore inestimabile di cui si vorrebbe liberare appeso alle pareti del suo bel castello?» Gli occhi di Sebastian ridevano, ironici. «Non lo so» rispose Émilie onestamente. «Far valutare le opere d’arte del castello rientra nella lista di cose che dovrò fare.» «Immagino che vorrà far valutare e autenticare la sua collezione dai più grandi esperti di Parigi. Ma se nel frattempo le servisse un occhio allenato e subito disponibile per avere qualche dritta, sarei felice di darle una mano.» Appena arrivò il suo toast, Sebastian tirò fuori il portafoglio e sfilò un biglietto da visita. «Le assicuro che non sono un impostore» aggiunse con enfasi. «Se necessario posso farle avere le mie referenze.» «È molto gentile da parte sua, ma il nostro notaire di famiglia si sta già occupando di tutto.» Émilie avvertì una nota severa nella propria voce. «Ovviamente» commentò lui; versò del rosé in entrambi i bicchieri e si decise ad assaggiare il toast. «Allora,» disse, cambiando velocemente discorso «cosa fa a Parigi?» «Lavoro come veterinario in una grande clinica nel Marais. Non pagano molto ma amo il mio lavoro» rispose lei. «Davvero?» Sebastian alzò un sopracciglio. «Sono sorpreso. Avrei pensato, considerato la famiglia da cui proviene, che si occupasse di qualcosa di molto più prestigioso, o che non lavorasse affatto.» «Sì. È quello che pensano tutti… mi dispiace, adesso devo proprio andare.» Émilie fece cenno che le portassero il conto. «Mi scusi, Émilie, è stato un commento infelice» si affrettò a dire Sebastian. «Quello che intendevo è che mi fa piacere per lei! Non volevo offenderla.» Émilie fu assalita dal bisogno imperioso di allontanarsi da quell’uomo e dalle sue incessanti domande. Frugò nella borsa, prese una manciata di franchi e li mise sul tavolo. «È stato un piacere conoscerla» disse prendendo in braccio Frou-Frou e correndo via. Scese gli scalini più in fretta che poté, sentendosi inspiegabilmente scossa, e sull’orlo del pianto. «Émilie! La prego, aspetti!» Ignorando la voce che la inseguiva continuò a scendere i gradini con determinazione finché Sebastian non la raggiunse. «Guardi,» disse ansimando «se l’ho offesa sono davvero dispiaciuto. Pare sia un mio talento…» Lei continuò a scendere e Sebastian si mise al passo. «Se la cosa può consolarla anch’io sono nato con un grosso fardello sulle spalle. Inclusa una villa diroccata nella brughiera dello Yorkshire che dovrei, non so come, riuscire a salvare e restaurare, nonostante non abbia un soldo bucato da investirci.» Erano ormai arrivati alla macchina ed Émilie non poté far altro che restare immobile dov’era. «E allora perché non la vende?» gli chiese. «Perché fa parte della mia eredità e…» si strinse nelle spalle «è complicato. Comunque, non ho intenzione di tediarla con una storia strappalacrime, sto solo cercando di dirle che so cosa significa essere segnati dal proprio passato. Siamo nella stessa situazione.» Émilie rimase in silenzio mentre cercava nella borsa le chiavi della macchina. «Non voglio paragonarmi a lei,» proseguì Sebastian «sto solo provando a immedesimarmi nella sua situazione.» «Grazie.» Aveva trovato le chiavi. «Ora devo andare.» «Mi perdona?» Si voltò a guardarlo, biasimandosi per la propria sensibilità, ma incapace di controllarla. «Vorrei solo…» Fissò il paesaggio lussureggiante, cercando le parole per spiegarsi. «Voglio essere giudicata per quella che sono.» «Lo capisco, davvero. Senta, non la disturberò oltre, è stato un piacere conoscerla.» Sebastian le porse la mano. «Buona fortuna per tutto.» «Grazie. Addio.» Émilie aprì la portiera e lasciò andare un’irritata Frou-Frou sul sedile del passeggero. Entrò in macchina, accese il motore e si avviò lentamente giù per la collina, cercando di capire il perché di quella reazione così violenta. Forse, abituata com’era al più formale protocollo francese, la confidenza di Sebastian l’aveva destabilizzata. In realtà, si disse Émilie, stava solo cercando di mostrarsi amichevole. Era lei il problema. Sebastian aveva toccato un tasto dolente e lei aveva reagito di conseguenza. Lo guardò mentre scendeva a piedi la collina e si sentì in colpa e in imbarazzo. Aveva trent’anni, si disse, rimproverando se stessa. La proprietà dei Martinière era sua e poteva disporne come voleva. Forse era giunto il momento di iniziare a comportarsi come un’adulta e non più come una bambina capricciosa. Si accostò a Sebastian, fece un sospiro profondo, e abbassò il finestrino. «Dal momento che è venuto fin qui per vedere il castello sarebbe un peccato non riuscirci. Mi permette di darle un passaggio?» «Ne è sicura?» L’espressione di Sebastian fece eco alla sorpresa nella sua voce. «Voglio dire, certo, mi piacerebbe moltissimo vedere il castello, specialmente con qualcuno che lo conosce così bene.» «Allora salga, la prego.» Si allungò e tolse la sicura dallo sportello. «Grazie» disse lui richiudendo la portiera, e di nuovo si avviarono giù per la collina. «Mi dispiace molto averla turbata. È sicura di potermi perdonare?» «Sebastian,» sospirò «non è stata colpa sua, sono io. Qualsiasi riferimento alla mia famiglia riporta a galla vecchi dolori mai del tutto superati. Ed è ora che impari ad affrontarli.» «Be’, succede a tutti, specialmente quando i familiari che ci hanno preceduto erano persone importanti e di successo.» «Mia madre era senza dubbio una personalità di spicco» disse Émilie. «Ha lasciato un vuoto nella vita di molte persone quando se n’è andata. Come ha detto lei è difficile essere all’altezza. E io ho sempre saputo di non esserlo.» Émilie si domandò se parlasse così liberamente per colpa dei due bicchieri di vino che aveva bevuto a pranzo. Si sentì improvvisamente in imbarazzo per aver detto quelle cose. Era elettrizzata e spaventata al tempo stesso. «Be’, non posso dire che fosse così anche per mia madre, o meglio “Victoria”, come voleva che la chiamassimo» disse Sebastian. «Non me la ricordo nemmeno. Ha partorito me e mio fratello in una comune hippy negli Stati Uniti. Quando io avevo tre anni e mio fratello due, ci portò in Inghilterra e ci scaricò dai nonni, nello Yorkshire. Qualche settimana dopo ripartì. Da allora non abbiamo più avuto sue notizie.» «Oh, Sebastian!» esclamò Émilie, scioccata. «Non sa nemmeno se sua madre sia ancora viva?» «No,» confermò lui «ma la nonna è stata una madre a tutti gli effetti per noi, la nostra vera madre, dal momento che eravamo così piccoli quando siamo andati a vivere con lei. Se Victoria mi passasse accanto per strada non la riconoscerei.» «È fortunato ad aver avuto sua nonna, ma dev’essere stato lo stesso molto triste per lei» disse Émilie, compassionevole. «E non sa chi sia suo padre?» «No. In effetti non so nemmeno se io e mio fratello siamo figli dello stesso uomo. Di sicuro non ci somigliamo. Ma comunque sia…» Sebastian aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Ha conosciuto suo nonno?» chiese Émilie. «È morto quando avevo cinque anni. Era un brav’uomo, ma durante la guerra era stato in Nord Africa e le ferite subite lo avevano reso cagionevole di salute. I miei nonni erano molto affiatati. Così la mia povera nonna non solo perse sua figlia, ma anche suo marito. Credo che la nostra presenza l’abbia aiutata ad andare avanti, in realtà» disse Sebastian. «Era una donna eccezionale, a settantacinque anni saltava ancora le staccionate, è stata arzilla fin quando non si è ammalata. Credo che non ci siano più donne del suo stampo» commentò, con una vena di tristezza nella voce. «Mi scusi,» disse tutt’a un tratto «sto parlando troppo.» «No, affatto. Mi conforta sapere che ci sono altre persone cresciute in circostanze difficili. A volte…» Émilie sospirò «credo che avere una lunga e pesante storia alle spalle sia terribile come non averla affatto.» «Concordo pienamente.» Sebastian annuì e le rivolse un sorrisetto. «Mia cara, se qualcuno da fuori ascoltasse la nostra conversazione penserebbe che siamo una coppia di ragazzini privilegiati e viziati che piangono miseria. Guardiamo in faccia la realtà, nessuno dei due vive in mezzo a una strada.» «Sì. Di certo chiunque lo penserebbe. Specialmente di me» concordò. «E come dargli torto? Non sanno quello che c’è dietro. Guardi,» indicò l’orizzonte «il castello è proprio là.» Sebastian vide l’elegante edificio rosa pallido in lontananza, annidato nella valle sotto di loro, e non riuscì a trattenere un moto d’ammirazione. «È davvero bellissimo, proprio come me l’aveva descritto mia nonna. Decisamente diverso dalla nostra casa nella desolata brughiera dello Yorkshire. Anche se il paesaggio brullo conferisce a Blackmoor Hall un altro tipo di fascino» aggiunse. Émilie svoltò nel lungo viale che portava al castello e andò a parcheggiare sul retro. «È sicura di avere tempo per farmi fare un giro?» le domandò Sebastian guardandola. «Posso sempre tornare un altro giorno.» «No, non c’è problema» lo rassicurò Émilie incamminandosi insieme a FrouFrou verso il castello. Così lui la seguì nell’ingresso e poi in cucina. Gli mostrò ogni singola stanza, aspettando pazientemente mentre si fermava a studiare ogni dipinto, ogni mobile e l’intera collezione di oggetti d’arte che giaceva impolverata e abbandonata sulle mensole dei caminetti, sugli scrittoi e sui tavoli. Quando lo condusse nel salone, Sebastian puntò dritto verso uno dei quadri appesi. «Questo mi ricorda Luxe, calme et volupté, che Matisse dipinse nel 1904 mentre si trovava a Saint Tropez. L’uso del puntinismo è simile.» Sebastian sfiorò la tela a olio. «Anche se questo è un paesaggio puro, solo scogli e mare, nessuna figura.» «Lusso, calma e voluttà» ripeté Émilie. «Papà mi leggeva Baudelaire.» «Esatto!» Sebastian si voltò con occhi brillanti d’entusiasmo nel constatare che conosceva la poesia. «Matisse si ispirò all’Invitation au voyage per dipingere il suo quadro, che ora si trova al Musée National d’Art Moderne a Parigi.» Tornò a osservare la tela che aveva di fronte. «Non c’è nessuna firma a quanto pare, a meno che non sia nascosta da qualche parte sotto la cornice. Potrebbe anche essere una bozza. Soprattutto se consideriamo che Matisse si trovava a Saint Tropez quando dipingeva con questo stile. È a due passi da qui, se non sbaglio…» «Papà conobbe Matisse a Parigi» disse Émilie. «Pare frequentasse la galleria che aveva messo a disposizione dell’intellighenzia artistica. Lo stimava molto e conversavano spesso, ma non so se sia mai venuto al castello.» «Be’, come molti artisti, trascorse gli anni della Seconda guerra mondiale qui al sud, lontano dai combattimenti. Matisse è in assoluto il mio pittore preferito.» Sebastian fremeva per l’eccitazione. «Posso tirarlo giù un momento per vedere se dietro c’è scritto qualcosa, magari una dedica? Spesso gli artisti regalavano dei dipinti ai mecenati più generosi. Come nel caso di suo padre, forse.» «Ma sì, certo.» Émilie si avvicinò a Sebastian mentre lui rimuoveva con una certa soggezione il dipinto dal muro, rivelando un rettangolo scuro sulla parete. Girò il quadro per studiarlo insieme a lei, ma dietro non c’era scritto niente. «Non importa, non è la fine del mondo» la rassicurò Sebastian. «Se Matisse l’avesse firmato sarebbe stato semplicemente meno complicato provare che è suo.» «Pensa davvero che lo sia?» «Dopo quello che mi ha raccontato e vista la tecnica adoperata, che Matisse stava sperimentando proprio nel periodo in cui ha dipinto Luxe, calme et volupté,direi che con tutta probabilità lo è. Ovviamente bisognerà farlo autenticare.» «E se fosse davvero un Matisse quanto potrebbe valere?» chiese lei. «Dal momento che non è firmato, non posso dirlo con esattezza. Matisse è stato un pittore particolarmente prolifico ed è vissuto a lungo. Vorrebbe vendere il quadro?» «Questo è un altro interrogativo da inserire nella mia lista.» All’idea Émilie si strinse nelle spalle, esausta. «Be’,» disse Sebastian rimettendo con cura il dipinto al suo posto «io ho dei contatti, se cercasse qualcuno in grado di stabilirne l’autenticità. Ma sono sicuro che il suo notaire avrà i suoi. Ad ogni modo grazie per avermi mostrato il quadro e questo bellissimo castello.» «Piacere mio» disse Émilie, accompagnandolo fuori dal salone. «Sa,» disse Sebastian grattandosi la testa «sono quasi sicuro che mia nonna mi abbia parlato di un’incredibile collezione di libri antichi, o me lo sono immaginato?» «No.» Émilie si rese conto di aver dimenticato la biblioteca durante il loro giro. «È proprio qua. Gliela mostro.» «Grazie, sempre che abbia tempo» rispose lui. «Ma certo.» Quando entrò nella biblioteca, Sebastian rimase a bocca aperta. «Mio Dio,» disse avvicinandosi lentamente agli scaffali «ma è una collezione straordinaria. Lo sa il cielo quanti libri ci sono qui dentro. Lei ne è a conoscenza? Quindici, ventimila?» «Non ne ho la più pallida idea.» «Sono catalogati? Magari secondo qualche criterio?» domandò. «Sono nell’ordine in cui mio padre scelse di disporli, e suo padre prima di lui. La collezione venne iniziata più di duecento anni fa. Solo gli ultimi acquisti sono catalogati.» Émilie indicò i registri in pelle appoggiati sulla scrivania di suo padre. Sebastian ne aprì uno, prese a sfogliarlo e vide le centinaia di voci registrate con la calligrafia impeccabile di Édouard. «So che non sono affari miei, Émilie, ma questa è davvero una collezione incredibile. Vedo che suo padre si è procurato moltissime prime edizioni rare, senza contare i libri che dovevano già trovarsi qui. Di sicuro è una collezione tra le più pregiate di tutta la Francia. I volumi dovrebbero essere inseriti meticolosamente in un database.» Émilie, sopraffatta, si abbandonò nella poltrona di pelle di suo padre. «Mio Dio,» bisbigliò «sembra che le cose da fare aumentino anziché diminuire. Mi sono appena resa conto che sistemare gli affari dei miei genitori sarà un lavoro a tempo pieno.» «Di certo ne vale la pena» disse Sebastian per incoraggiarla. «Ma io ho la mia vita, una vita che mi piace. È serena e…» Émilie avrebbe voluto dire «sicura» ma sapeva che sarebbe suonato strano, perciò optò per «organizzata». Sebastian le si avvicinò e si inginocchiò accanto alla sua sedia, appoggiando un braccio sullo schienale per darle conforto. «La capisco, Émilie. E se vuole semplicemente ritornare alla sua vita può sempre mettere tutto nelle mani di qualcuno di cui si fida.» «Ma di chi posso fidarmi?» esclamò lei con enfasi. «Be’, ha detto che c’è il suo notaire, tanto per cominciare» suggerì Sebastian. «Forse potrebbe mettere tutto in mano a lui.» «Ma…» Émilie sentì arrivare le lacrime. «Dovrei occuparmene io, per il nome della mia famiglia, non posso lavarmene le mani come se nulla fosse.» «Émilie,» disse Sebastian in tono pacato «è successo tutto da poco, è normale che si senta oppressa. Sua madre è morta solo da un paio di settimane. È ancora sotto shock, soffre per il lutto. Perché non si concede un po’ di tempo prima di decidere?» Le dette un colpetto affettuoso sulla mano e poi si alzò. «Io ora devo andare, ma ha il mio biglietto da visita, e non c’è bisogno che le dica quanto sarei felice di poterla aiutare. Questo castello per me sarebbe una manna dal cielo, soprattutto per via dei quadri.» Sorrise. «Per un po’ rimarrò sicuramente a Gassin, perciò se decidesse di coinvolgermi per l’autenticazione del dipinto mi chiami pure al numero che trova sul biglietto.» «Grazie» disse Émilie, controllando di averlo ancora nella tasca dei jeans. «Sarei felice anche di metterla in contatto con i commercianti di libri rari e mobili antichi che conosco a Parigi. Alla fine,» aggiunse Sebastian «qualunque cosa decida di fare con il castello sarebbe una buona idea far stimare il valore degli oggetti al suo interno. Pensa che i suoi genitori abbiano assicurato tutto quanto?» «Non ne ho la più pallida idea.» Émilie scrollò le spalle, ne dubitava, conoscendo suo padre, e segnò mentalmente sulla sua lista di chiederlo a Gérard. «La ringrazio per il suo interessamento» disse riconoscente, alzandosi in piedi. Poi rivolse a Sebastian un debole sorriso e lo accompagnò alla macchina, passando dalla porta sul retro. «Mi spiace se le sono sembrata… emotiva. Non è da me. Magari un’altra volta potremmo fare quattro chiacchiere su cosa le ha raccontato sua nonna a proposito di mio padre.» «Volentieri. E la prego, non si scusi» aggiunse mentre saliva in auto. «Non solo è in lutto, ma sembra che le abbiano lasciato anche una bella gatta da pelare.» «Me la caverò. Per forza di cose» disse Émilie, salendo a sua volta. Poi mise in moto la macchina e iniziò a percorrere il viale. «E sono certo che ci riuscirà. Come le ho già detto, se c’è qualcosa che posso fare per aiutarla sa dove trovarmi.» «Grazie.» «Il mio alloggio è proprio qua, svoltando a sinistra,» Sebastian indicò una curva «se mi lascia qui posso proseguire a piedi. È un pomeriggio talmente bello.» «Okay.» Émilie fermò la macchina. «Grazie ancora.» «Stia bene, Émilie» disse Sebastian scendendo dall’auto. Poi, salutandola con la mano, si avviò lentamente lungo la strada. Émilie fece inversione e tornò al castello. Inquieta, iniziò a vagare per le stanze avvertendo il vuoto opprimente della solitudine. Quando scese la notte e la temperatura si abbassò, Émilie si barricò in cucina accanto ai fornelli, mangiò il cassoulet che Margaux le aveva lasciato. Ma l’appetito l’abbandonò presto, per la gioia di Frou-Frou. Dopo cena mise il catenaccio alla porta sul retro e chiuse a chiave. Arrivata al piano di sopra, fece scorrere lentamente l’acqua dentro la vecchia vasca coperta di calcare. Si immerse nell’acqua tiepida, trastullandosi con il pensiero morboso di essere distesa come in una bara fatta su misura per lei. Uscì dall’acqua, si asciugò e, insolitamente, lasciò cadere l’accappatoio sul pavimento restando nuda davanti allo specchio. Con grande sforzo Émilie si costrinse a osservare il proprio corpo. L’aveva sempre considerato il risultato scadente di una strana combinazione di geni. Da bambina grassa, era diventata un’adolescente grassottella. Nonostante sua madre la pregasse di mangiare meno e in maniera più sana, attorno ai diciassette anni Émilie aveva deciso di lasciar perdere tutte le diete a base di cocomero e melone e, nascosta sotto vestiti ampi e comodi, lasciò che la natura facesse il suo corso. Nello stesso periodo si rifiutò di partecipare ancora alle feste organizzate per presentarla alla crème de la crème dei giovani della sua età. Le Rallye era un evento organizzato da un gruppo di madri affinché la loro progenie stringesse le giuste amicizie e scegliesse fra queste un futuro marito o una futura moglie. La competizione fra gli adolescenti francesi per entrare a far parte del giro era serrata. Valérie, portando il nome de la Martinière, era la regina assoluta del gruppo. E si era disperata quando Émilie aveva annunciato di non voler più prendere parte ai cocktail nelle grandi ville, che erano il cuore di questi eventi. «Come puoi voltare le spalle al tuo nome?» le aveva chiesto Valérie, offesa. «Lo odio, maman. Io sono più che un cognome e un conto in banca. Mi dispiace, ma non parteciperò più.» Quando Émilie osservò allo specchio i suoi seni pieni e rotondi, i fianchi femminili e le gambe tornite, si accorse di aver perso peso nelle ultime settimane. Quello che vide, a dispetto del suo occhio ipercritico, la sorprese. Anche se, con la sua ossatura robusta non sarebbe mai stata una silfide, non era certo grassa. Prima di iniziare a scovare dei difetti si allontanò dalla sua immagine riflessa nello specchio, indossò la camicia da notte e andò a letto. Spense la luce e ascoltò l’assoluto silenzio che la circondava, domandandosi cosa portasse con sé quell’inaspettata, nuda rivelazione. Erano passati sei anni dall’ultima volta in cui aveva avuto quello che si poteva vagamente definire «un ragazzo». Olivier, un attraente veterinario dell’ambulatorio di Parigi, non era rimasto nella sua vita più di qualche settimana. Non lo amava, ma avere un corpo vicino la notte, una persona con cui poter parlare qualche volta a cena aveva alleviato il peso della sua solitudine. Alla fine Olivier se n’era andato per il suo scarso entusiasmo. Lei lo sapeva. Émilie, d’altronde, non aveva idea di cosa fosse l’amore; un misto di attrazione fisica, mentale… una sorta di fascinazione forse. Ma sapeva di non essersi mai innamorata in vita sua. Del resto, chi mai avrebbe potuto amarla? Quella notte Émilie si rigirò nel letto con la testa che le esplodeva per tutte le decisioni che avrebbe dovuto prendere e le responsabilità cui non poteva sottrarsi. Ma ciò che più di tutto disturbava il suo sonno era il ricordo del volto di Sebastian. Nonostante il poco tempo che aveva trascorso al castello, la sua presenza l’aveva fatta sentire al sicuro. Sembrava un uomo affidabile, serio e… sì, era anche molto attraente. Quando per un attimo le aveva toccato la mano in biblioteca, lei non si era ritratta come era solita fare appena sentiva che qualcuno invadeva il suo spazio. Émilie si rese conto di essere patetica. Era davvero così triste e sola da lasciarsi turbare da un uomo conosciuto per caso un paio d’ore prima? E poi perché mai un uomo bello e realizzato come Sebastian avrebbe dovuto interessarsi a lei? Era fuori dalla sua portata e probabilmente non l’avrebbe più rivisto. A meno che non avesse deciso di chiamare quel numero sul biglietto da visita chiedendo il suo aiuto per valutare il presunto Matisse… Émilie scosse la testa avvilita, sapeva che non avrebbe mai trovato il coraggio di farlo. Era una strada senza uscita. Da tempo aveva deciso che stava meglio da sola. Nessuno avrebbe potuto ferirla o abbandonarla. E con quel pensiero impresso nella mente, riuscì finalmente ad addormentarsi. 4 A causa della notte travagliata Émilie quel mattino si svegliò tardi, e davanti a una tazza di caffè compilò una lista infinita di cose da fare. Poi, su un foglio a parte, iniziò a scrivere una serie di domande che sentiva il bisogno di porre a se stessa. All’inizio tutto ciò che desiderava era vendere le due case il prima possibile, sistemare le complicazioni legate alle proprietà di famiglia e tornare alla sua rassicurante vita a Parigi. Ma ora… Si grattò il naso con la matita e iniziò a vagare con lo sguardo per la cucina in cerca d’ispirazione. La casa di Parigi l’avrebbe venduta, non aveva bei ricordi legati a quel luogo. Ma negli ultimi giorni aveva cambiato idea quanto al castello. Non solo era la «sede» secolare della sua famiglia – costruita dal conte Louis de la Martinière nel 1750 – ma ne aveva sempre amato l’atmosfera. La rasserenava, le ricordava i giorni felici trascorsi con suo padre. Doveva forse considerare l’ipotesi di tenerlo? Émilie si alzò e iniziò a girovagare per la cucina, rimuginando. Non era ridicolo, per non dire sconveniente, che una donna vivesse tutta sola in una casa di quelle dimensioni? Sua madre, ovviamente, non era stata di quell’avviso, ma d’altronde era immersa in un contesto sociale completamente diverso. Émilie se ne era tirata fuori anni prima e sapeva come viveva la gente normale. Ad ogni modo il pensiero di vivere lì, in mezzo a quella pace e a quella tranquillità, iniziava ad attirarla sempre più. Per tutta la vita si era sentita un’estranea in mezzo alla sua famiglia e ora, per la prima volta, si sentiva davvero a casa. Era sorpresa di quanto fosse forte il suo desiderio di rimanere. Si sedette al tavolo della cucina e andò avanti con la lista di domande per Gérard. Se avesse riportato il castello alla sua antica gloria, di certo sarebbe stato un bene, non solo per lei ma anche per la storia stessa della Francia. Avrebbe reso un servizio alla nazione. Con questo pensiero prese il cellulare e chiamò Gérard. Dopo una lunga conversazione Émilie tornò ai suoi appunti. Gérard le aveva ripetuto che il restauro del castello non sarebbe stata un’impresa facile. Il problema principale era la mancanza di denaro nelle casse: qualsiasi intenzione avesse, tutto dipendeva dalla vendita degli altri beni. Le era parso sconcertato da quel suo improvviso cambio di rotta. «Émilie, è ammirevole che tu voglia tenere viva la storia della tua famiglia, ma restaurare un’abitazione di quelle dimensioni è un’impresa mastodontica. Senza esagerazioni, direi che sarebbe un lavoro a tempo pieno per te, almeno per i prossimi due anni. E il peso ricadrà tutto sulle tue spalle. Sei sola.» Émilie si aspettava che aggiungesse anche «e sei una donna», ma grazie al cielo si era trattenuto. E forse Gérard stava pensando a quanto lavoro sarebbe ricaduto sulle sue spalle, visto che dava per scontato che lei non sarebbe riuscita a gestire il progetto. Irritata dalla sua condiscendenza, ma consapevole di non aver fatto molto per scoraggiare il suo atteggiamento, Émilie tirò fuori il portatile dalla custodia e lo aprì. Poi ridacchio fra sé e sé per aver creduto anche solo per un istante che in quella casa, che non veniva ristrutturata dagli anni Quaranta, potesse esserci una connessione internet. Andò quindi alla macchina e guidò fino a Gassin insieme a Frou-Frou. Salì gli scalini che si arrampicavano su per la collina e chiese a Damien, l’amichevole proprietario della brasserie Le Pescadou, se potesse usare la sua connessione. «Mademoiselle de la Martinière, ma certo che può» disse lui accompagnandola nel piccolo ufficio sul retro del ristorante. «Mi scuso per non averle ancora dato il benvenuto, ma mi trovavo a Parigi. In paese sono tutti molto tristi per il suo lutto. Anche la mia famiglia risiede qui da molti secoli. Ha intenzione di vendere il castello ora che sua madre è morta?» domandò. Émilie sapeva che era quello ciò che Damien voleva davvero sapere. Il suo bar e il suo ristorante erano il centro dei pettegolezzi di Gassin. «Al momento non saprei» rispose Émilie. «Devo fare un’analisi prima di decidere.» «Ma certo. Spero che scelga di non vendere ma, se volesse, conosco più di un agente immobiliare disposto a pagare una fortuna per trasformare il castello in un hotel. Me l’hanno chiesto in molti negli ultimi anni.» Volgendo lo sguardo alla finestra, Damien indicò l’edificio in fondo alla valle, le tegole di terracotta ingrigite scintillavano al sole. «Come le ho appena detto, Damien,» ripeté Émilie «devo ancora decidere.» «Be’, mademoiselle, se avesse bisogno di qualcosa non esiti a chiamarci. Eravamo tutti molto affezionati a suo padre. Era un brav’uomo. Dopo la guerra noi del villaggio eravamo così poveri» spiegò Damien. «Le Comte ci ha aiutati a far pressioni sul governo per costruire strade decenti e ha incoraggiato i turisti a visitare Saint Tropez. La mia famiglia ha aperto questo ristorante negli anni Cinquanta e da allora il villaggio ha iniziato a fiorire. Suo padre promosse anche lo sviluppo delle vigne che adesso producono i nostri eccellenti vini.» Damien indicò con un ampio gesto i vigneti che ricoprivano la valle sotto di loro. «Quando ero bambino, intorno c’era solo campagna, campi di granoturco e vacche al pascolo. Ora il nostro rosé provenzale è famoso in tutto il mondo.» «È confortante sapere che mio padre abbia aiutato la regione che amava tanto» rispose Émilie. «I Martinière sono parte di Gassin, mademoiselle. Spero che deciderà di rimanere con noi.» Damien ebbe mille riguardi nei suoi confronti: le portò una brocca d’acqua, del pane e un plat au fromage. Quando Émilie riuscì a connettersi, Damien la lasciò sola. Controllò le e-mail, poi tirò fuori il biglietto da visita di Sebastian e guardò le immagini della sua galleria su internet. «Arté» si trovava in Fulham Road a Londra e commerciava soprattutto dipinti moderni. Émilie si sentì rassicurata constatando che esisteva davvero. Si decise allora a telefonare a Sebastian. Rispose la segreteria telefonica, perciò lasciò il suo numero e un breve messaggio nel quale chiedeva di essere ricontattata a proposito della conversazione avuta il giorno precedente. Quando ebbe finito, ringraziò Damien per la connessione e per il pranzo, e rientrò al castello. Era piena di energie, più motivata di quanto non si sentisse da anni. Non c’era dubbio che se avesse scelto di restaurare la casa avrebbe dovuto rinunciare alla carriera di veterinaria a Parigi e trasferirsi lì per sovrintendere ai lavori. Forse era proprio ciò di cui aveva bisogno e, ironicamente, era anche l’ultima cosa a cui avrebbe pensato fino a pochi giorni prima. Avrebbe dato nuovo slancio alla sua vita. Il suo entusiasmo andò sfumando quando, avvicinandosi alla casa, vide un’auto della polizia parcheggiata fuori. Fermò la macchina all’istante, afferrò Frou-Frou e uscì. In casa trovò Margaux che parlava con un gendarme. «Mademoiselle Émilie,» gli occhi di Margaux erano colmi di spavento «credo che qualcuno sia entrato in casa. Sono arrivata alle due, come al solito, e la porta davanti era aperta. Oh, mademoiselle, mi dispiace così tanto.» Émilie sentì lo stomaco contorcersi quando realizzò che, tutta presa dall’idea di ristrutturare il castello, era uscita per andare in paese dimenticando di chiudere la porta sul retro. «Margaux, non è colpa tua. Credo di aver lasciato io la porta aperta. Hanno portato via qualcosa?» Émilie pensò subito al dipinto della sala. «Ho guardato dappertutto e non mi sembra manchi niente. Ma dia un’occhiata anche lei» disse Margaux. «A volte si tratta di gente di passaggio» disse il gendarme. «Ci sono molti zingari che, pensando si tratti di un posto deserto, entrano alla ricerca di gioielli e soldi da rubare.» «Be’, qui non ne hanno trovati di certo» rispose Émilie in tono cupo. «Mademoiselle Émilie, ha per caso con sé la chiave dell’ingresso principale?» chiese Margaux. «Sembra sia sparita. Mi domandavo se l’avesse nascosta da qualche parte anziché lasciarla come al solito infilata nella serratura.» «No, non ce l’ho.» Émilie scrutò la serratura vuota, che tutt’a un tratto aveva assunto un’aria triste senza la grande chiave arrugginita. Si concentrò cercando di ricordare se quella mattina l’avesse vista al suo posto. Ma non era un dettaglio che avrebbe potuto notare andando in cucina. «Se non riusciste a trovarla dovreste chiamare subito un fabbro per far sostituire la serratura» disse il gendarme. «I ladri potrebbero aver preso la chiave con l’intenzione di usarla per un colpo in futuro.» Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto? Download/Read Online Unlimited Books