Io madre di mia suocera

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Io madre di mia suocera
LIBROTECA PAOLINE
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Monica Follador
IO MADRE
DI MIA SUOCERA
Vivere accanto a un malato di Alzheimer
ISBN eBook PDF 9788831560221
ISBN eBook epub 9788831560238
ISBN volume cartaceo 9788831538541
PAOLINE Editoriale Libri
© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2010
Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano
www.paoline.it
[email protected]
Prima edizione digitale 2012
Realizzazione a cura della Redazione
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A Riccardo, il mio unico vero figlio
PREMESSA
Dammi la serenità di accettare
le cose che non posso cambiare,
la forza di cambiare quelle che posso
e la saggezza
di comprenderne la differenza.
Le persone di una certa età amano il motto: « Impara l’arte e mettila da parte ». Quand’ero più giovane
pensavo si trattasse di un banale modo di dire. Mai
come ora mi rendo conto che si tratta di una realtà
assoluta. Tutto ha un senso nella vita, tutto serve, specie quella piccola preghiera che ho citato all’inizio.
Recitata con poca consapevolezza negli anni di frequenza dei gruppi per familiari di alcolisti, si è così
ancorata in me da divenire motivo di salvezza, soprattutto psicologica… e oggi, dopo vent’anni che la conosco e forse dieci che non la recito più consapevolmente, prendo atto del fatto che, forse, queste due
righe mi hanno salvato la vita.
Vivere con un alcolista in casa richiede la capacità di
mettersi in gioco, se si vuole sopravvivere; chiede l’impegno a cominciare a conoscersi meglio per poter intuire i propri punti di forza e le proprie aspirazioni
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profonde, cosicché, malgrado tutto, malgrado quel che
succede intorno a noi, si possa essere felici. Dipende
solo da noi, anche se sulla nostra vita stanno piovendo
disgrazie e saettano difficoltà imponenti… di cui siamo
solo vittime, non responsabili…
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I.
LA SPIA
Che freddo! C’è un’aria pungente che penetra fino
alle ossa. Ovviamente, come al solito, niente calzini,
solo maniche corte e pantaloni di tela leggera. L’autunno sembra arrivato, ma in cuor mio non voglio accettare che l’estate, con la sua prorompente vitalità, con la
sua gioia, le sue lunghe giornate, stia per volgere al termine. Eppure l’estate lascia posto a una stagione che da
sempre mi emoziona e con i suoi caldi colori m’invita a
lunghe pause di riflessione. Finalmente potrò mettermi
i maglioni che tanto amo e potrò avvolgermi tra morbide e calde coperte, potrò rotolare sulla neve fino a divenire un’autentica valanga… chiedendo poi calore a una
bollente e profumatissima tisana ai frutti di bosco e
all’abbraccio rinvigorente dell’uomo che amo il quale,
stringendomi tra le braccia, mi scalderà la pelle ma anche il cuore…
Intanto però sono qui fuori, sola, con una brezza di
aria fredda che mi alita addosso, con le stelle che mi
stanno a guardare incuriosite e magari si stanno chiedendo che tipo di spia io sia. Appoggiata alla porta in
modo che non mi si possa vedere dall’interno, il mio
sguardo si fa attento e prova a cogliere qualsiasi movimento, qualsiasi gesto possa essermi utile a capire… La
sento che parla, ma non vedo nessuno con lei, neanche
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il gatto che in sordina si avvicina a me nella speranza
che gli apra la porta e possa finalmente entrare per affondare le sue lunghe e affilate unghiette sul comodo
sofà. O forse ormai ha capito che questo rituale non
porta con sé nessuna buona nuova, se non quella di
farsi coccolare strusciandosi contro le mie gambe al
ritmo sempre più accentuato delle sue fusa. A volte mi
piacerebbe essere un gatto! I gatti sono dei re, coccolati, sfamati, indipendenti; se si sentono soli, con un gesto
ruffiano trovano sempre chi è disponibile ad appagarli
ponendo le mani sul loro soffice pelo. Perché i mici
parlano il linguaggio della tenerezza, della morbidezza,
del calore… Rannicchiandosi in grembo, « fusando »,
come mi piace tanto dire, ti guardano negli occhi e sembra ti ringrazino per quel poco che gli stai dando e
che in realtà loro stanno restituendo nell’immediatezza.
Già, ringraziano… almeno loro! Da quanto tempo
sembra abolita questa parola dal vocabolario della donna che sto guardando, ora di fronte a me. Lei che adesso ha tra le mani una gustosa saponetta che sta cercando di addentare, anche se i denti, da tempo ormai, sono
riposti in una scatoletta colorata in un angolino buio
del mobiletto del bagno. Ricordo come fosse ora il giorno in cui io e mio marito abbiamo preso la decisione di
lasciarla senza dentiera, stanchi di rincorrere il nostro
iperattivo cagnolino. Era felicissimo di aver trovato una
compagna di giochi così creativa… Lei si toglieva la
dentiera, la tirava a Billy e lui, agitando freneticamente
la coda nera e sottile, con un balzo felice la agguantava,
sperando poi che lei tentasse di riprendersela, così il
gioco non sarebbe finito tanto velocemente… E allora
si metteva quatto quatto sull’erba sempre verde e ben
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curata del giardino, con l’addome schiacciato sul prato
e una parvenza di ghigno tra i denti che teneva ben
stretti attorno al lavoro meticoloso del dentista.
Chissà però quanti milioni di pensieri confusi invadevano la mente di Denis, mentre Billy aspettava un
giocoso contrattacco, inutilmente; già dopo pochi istanti, infatti, non c’era più in lei ricordo di quella strana
azione. Sono certa che, se le avessi chiesto che cosa
fosse successo ai suoi denti, mi avrebbe risposto: « I
denti? Quali denti?! Io ce li ho tutti qui i miei! », indicandomi magari le orecchie, o la punta del naso, o la
lingua… E come controbattere a questa convinzione?
È come dire a una persona che non può aver sognato
qualche cosa. La realtà, il sogno, le visioni sono del tutto soggettivi. Provare a riportare Denis, seppur per
qualche attimo, su questo pianeta non ha mai condotto
a nulla di buono, semmai a qualche accesa e assurda
discussione… come tra extraterrestri provenienti da
mondi diversi.
E arrivi al punto di chiederti se sei tu la pazza o è
lei… e forse, in qualche circostanza, non c’è risposta…
Guardandola, con molta empatia, mi sembra di sentire il disgusto per il sapone che sta provando a mordere. Le sue labbra contratte in una smorfia mi fanno
rabbrividire. Si guarda intorno con fare clandestino,
ordina a tutti (anche se io non vedo nessuno) di fare
qualcosa e, nel riporre il sapone sopra il tavolo, in realtà lo riprende e ripete l’azione di poco prima, non ricordando di averla appena compiuta e dimenticando
immediatamente anche la sensazione di schifo che
l’aveva invasa. Vorrei intervenire, bloccarla, mi duole il
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cuore a vederla ridursi così, ma m’impongo di restare
là, nella penombra della sera ormai tarda, in silenzio,
immobile… Voglio solo sapere… Voglio sapere dove
può arrivare, che cosa può combinare… quali sono i
pericoli da eliminare. Pericoli non tali per le persone
normali (che cos’è poi la normalità?); ma per chi come
lei è affetto dal morbo di Alzheimer anche il niente può
trasformarsi in tutto.
Mi serve sapere, conoscere questa malattia che racchiude in sé un fascino terribile, che rappresenta il buio.
Solo se la conosco posso, per quel che mi è possibile,
accettarla. Anche se accettare una malattia che si sta
trasformando in pura pazzia è e sarà tutt’altro che semplice…
È un viaggio all’interno della psiche e chi lo intraprende è chiamato a fermarsi, a riflettere, ad ascoltare
e, cosa più difficile, ad ascoltarsi…
Dammi la serenità di accettare
le cose che non posso cambiare,
la forza di cambiare quelle che posso
e la saggezza di comprenderne la differenza.
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II.
LA GENESI
Sono passati già quattordici anni dall’inizio di questa avventura.
Potrei definirla un calvario, ma l’ottimismo che tanto mi caratterizza mi ha permesso di cogliere molti
aspetti della mia vita migliorati proprio grazie a questa
terribile malattia, che ha tolto la dignità a una persona
a me tanto cara, mia suocera…
Avevo un bel rapporto con lei.
So che in cuor suo un po’ mi detestava perché le avevo portato via quell’unico figlio che adorava, però mi
sono sempre sentita accolta e benvoluta, quasi come
una figlia, seppur di seconda scelta, e a me, tutto sommato, poteva anche andare bene. Avevo bisogno di trovare qualcuno che potesse, anche se parzialmente, riempire il vuoto lasciato dalla morte di mia madre, tre anni
prima… madre che avevo amato, credo, sopra ogni cosa, nelle sue debolezze, nelle sue povertà e nelle sue
grandi doti di umanità e di semplicità, nonché in quella
schiettezza che sempre più riconosco anche in me.
Donna meravigliosa negli ultimi suoi due anni di vita, trascorsi, per metà, a recuperare la vita che aveva
perso negli anni di alcolismo attivo e, per metà, a lottare contro un terribile destino: lo scontro con la morte
che alla fine ha avuto la meglio, portandola lontana da
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noi. Propria ora che si lasciava amare. Ora che era tornata ad amare, che era libera…
È così che la voglio ricordare. Com’era quando apparteneva solo a se stessa e a Dio… ed egoisticamente
un po’ a noi…
Avevo bisogno di lei e credo di averla ritrovata in
parte proprio in mia suocera, che investiva una certa
premura su di me, condita con delicatezza e onestà.
L’amore di una mamma non ha uguali, è impareggiabile e introvabile, ma esistono dei surrogati. Anche una
suocera può essere tale!
Aveva dato alla luce un figlio destinato a me e questo era
un regalo non da poco, anche se ammetto che ogni tanto
quel figlio glielo avrei volentieri rispedito a casa. Le ero riconoscente per averlo creato e cresciuto in modo tale da
star bene con me… onesto, semplice, un ragazzo di cuore,
al quale era mancato il padre molto tempo prima di incontrarmi. A lungo era stato il mio migliore amico, il mio confidente, la spalla sulla quale piangere per qualche delusione
d’amore; poi un giorno è scoppiata la scintilla che, con non
poco imbarazzo, si è rivelata e che abbiamo alimentato. Ci
ha portati in breve all’altare con la consapevolezza che non
sarebbe stato sempre facile e bello, ma noi eravamo pronti
a impegnarci ed eravamo disposti a tingere con i più bei
colori quel disegno di vita che Dio aveva creato per noi.
Finalmente un po’ di gioia! Un matrimonio sereno,
pur se intriso delle normali fatiche dello stare insieme, del
condividere gli stessi spazi, del non dovere e potere più
decidere da soli, come, soprattutto io, ero solita fare.
Con le nostre valigie piene di buona volontà, armati
di pennelli e di calce bianca, una domenica di giugno, a
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pochi mesi dal fatidico sì, decidemmo di fare una sorpresa alla cara « mamma » e, approfittando della sua
assenza per una vacanza in montagna, partimmo con
un entusiasmo estremo per tinteggiarle la casa e fare le
pulizie a fondo, cosa che la nostra giovane età ci consentiva con minor fatica.
Quello fu indubbiamente uno dei giorni più angoscianti nella nostra storia con lei.
Da qualche tempo ci eravamo accorti che non era
più la stessa; benché il figlio si fosse allontanato solo di
qualche centinaio di metri, la sua assenza sembrava
averle tolto la vitalità, il motivo per continuare a esistere e restare efficiente. L’aggressività cresceva di giorno
in giorno; con noi, ma anche con le persone con le quali era solita ritrovarsi per il caffè, per una partita a carte,
due chiacchiere in compagnia. Perdeva il controllo di
sé per un nulla, per cadere in un vittimismo spietato
subito dopo.
Ognuno ha i suoi tempi per trovare un nuovo equilibrio. Pensavamo si trattasse di questo… ma lo scenario generale che si presentò quel giorno fu per noi del
tutto nuovo, illuminante e angosciante.
Da allora le nostre vite cambiarono, si aprirono a
questa nuova dimensione per chiudersi inevitabilmente
ad altre, senza via di scampo.
Senza esserne schiava, fino allora mia suocera aveva
gestito bene la casa, teneva pulito e in ordine ed era
impressionante la meticolosità con la quale si prendeva
cura di se stessa.
Aveva interi mobiletti carichi di creme per la pelle,
specie per le mani e il viso, lime di tutte le misure e
tanti smalti dello stesso trasparente colore ma di effica15
cia diversa. Non si truccava né vestiva in modo appariscente. Era una donna normalissima che impegnava
parte del suo tempo di vita da pensionata nell’aiutare
chi aveva bisogno e che si rendeva disponibile per le
pulizie della chiesa e dell’oratorio.
Per il fratello e le sorelle era forse facilmente irascibile, ma sempre pronta a dire una parola o a dare una
mano.
Leggeva tantissimo, si nutriva di gialli Mondadori,
con quella copertina così gialla da far venire l’ittero; si
addormentava spesso con la penna tra le mani nell’ultimo disperato tentativo di risolvere anche il più difficile
dei cruciverba, che magari la sonnolenza rendeva più
complicato. Non era quella che si può definire una donna di cultura, ma era colta e volenterosa. Aveva allevato
un figlio con amore e fatica, da sola, a causa della prematura scomparsa del marito, trovato tra l’altro in tarda età.
Davvero pochi gli anni di felicità e io gliene avevo portato via una fetta, anche se le avevo regalato la gioia di vedere il proprio figlio sistemato, realizzato nella vita coniugale, aperto alla vita e alla famiglia.
Quella casa, sempre ben tenuta, era diventata nel
giro di poco tempo un vero porcile; ovunque immondizia, alimentari scaduti, prodotti aperti, rovesciati, chissà poi se casualmente; gelati sciolti nel frigorifero, che
colavano disinibiti dalle griglie per scivolare sull’ammasso di verdura andata a male deposta sul fondo;
quantità industriali di grissini, bustine di tè deteinato
alla pesca e biscotti…
Segni inequivocabili della costante dimenticanza degli acquisti in precedenza fatti. Parte di questi scaduti
da tempo.
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Vasetti di yogurt forati, intrisi di muffe maleodoranti… e lei era partita da un solo giorno!
Come un temporale improvviso in una splendida
giornata d’estate, un sipario nero calò sull’entusiasmo
di partenza, rabbuiando la nostra vivacità, i nostri progetti futuri.
Frustrati e delusi, riassettammo l’intero appartamento, consapevoli che non sarebbe durato a lungo così.
Purtroppo la nostra predizione si avverò!
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III.
AIUTO!
Mille pensieri insorgono nella mente quando ci si
trova ad affrontare certe difficoltà e, quando ci si rende
conto di essere impotenti e ignoranti in materia, non
resta che chiedere aiuto. Ma a chi?
I medici di base tendono a minimizzare gli eventi,
considerandoli spesso normali a una certa età e si limitano a prescrivere qualche terapia rinvigorente. Per noi
era però lampante che c’era un problema importante di
fondo, anche se non ne conoscevamo l’entità. Così richiedemmo una visita psichiatrica e, in un caldo pomeriggio di luglio, la portammo dallo specialista.
Mai scorderò il malessere, il disagio, il senso di colpa
provato nel farla entrare nel reparto di psichiatria, dove
c’erano persone che urlavano, qualcuno legato… e lei
ancora apparentemente normale, mentre ci sembrava
di percorrere i corridoi del miglio verde…
Per non farla sentire una nullità e per far sì che accettasse la visita, le avevamo detto che tutte le donne
della sua età erano state convocate per un test di ricerca
sulla memoria; dopo qualche inutile tentativo da parte
sua di dissuaderci, accettò, seppur con il suo consueto
broncio.
Pensavo di poter avere qualche minuto per spiegare
il caso al medico, ma, evidentemente, la sensibilità non
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è stata distribuita in ugual misura a tutti gli appartenenti al genere umano e, senza alcuna possibilità di intervenire, la condusse dentro a un turbinio di domande banalissime e pertanto imbarazzantissime, alle quali lei,
con nostra grande sorpresa, non sapeva rispondere.
Il suo sguardo smarrito ci supplicava di portarla via
da là, da quel violentatore di pensieri che sembrava si
divertisse a metterla in imbarazzo, che voleva a tutti i
costi sapere tutto di lei… Perché poi? Mica aveva problemi, lei! Da sempre era una signora autosufficiente,
che si arrangiava e non solo, aiutava anche gli altri. Che
cosa voleva questo medico da lei? Non aveva mica tempo da perdere per certe idiozie!
Ci sono momenti della vita in cui ti chiedi se quello
che stai facendo è giusto, se lo stai facendo davvero per
il bene dell’altro, se mai riuscirà a perdonarti per tanta
umiliazione, mentre comprendi che si sta arrampicando sugli specchi per difendersi dalla terribile accusa di
non essere più del tutto padrone di se stesso. Mi piace
pensare a questo singolare aspetto come a un istinto di
sopravvivenza psicologica che scaturisce nei momenti
di emergenza.
Quanta forza, quanta rabbia quando ci si pone sulla
difensiva nei confronti del nemico. L’energia vitale
sprizza ovunque come l’acqua da una fontana zampillante in un refrigerante parco di città.
Eravamo consapevoli del fatto che aveva dei problemi, ma ancora non ci eravamo resi conto che aveva già
perso la percezione e la consapevolezza degli aspetti
forse più banali e scontati della vita.
Quando fuori c’è un’afa tremenda, una calura insopportabile e si gronda come una mela messa a cuocere in
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forno, non dovrebbe essere così difficile capire che non
si è in inverno o in autunno.
Lei però non conosceva più neanche la sua età, nemmeno approssimativamente. Né il numero dei figli.
Vuoto totale!
Alla fine del consulto, il tanto temuto e odiato verdetto: « Mi dispiace, ci sono altri accertamenti da fare,
ma per quella che è la mia esperienza si tratta del morbo di Alzheimer… ».
Bastarono frammenti di secondo per riportare alla
mente le sofferenze, le fatiche, le umiliazioni patite da
una mia carissima amica che, per tale malattia, aveva
perso il padre.
Un brivido freddo mi percorse la schiena.
A parte la desolazione che avevo visto in tale circostanza, non sapevo nulla di questo morbo. Immagini
confuse spaziavano per la mia mente. Mia nonna… sì,
anche lei evidentemente aveva avuto a che fare con la
stessa sorte; ricordo che in una fredda serata d’inverno,
di punto in bianco si mise a sgridarci perché avevamo
lasciato fuori al freddo quel gran signore che stava conducendo un programma alla tivù e non c’era stato verso
di farle capire che quel conduttore era al di là dello
schermo e che era felice, non sentiva freddo…
Era tempo di accettare che certe cose non si possono
cambiare.
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