PERCHE` CORBYN HA VINTO,Appello di Rossi ai

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PERCHE` CORBYN HA VINTO,Appello di Rossi ai
PERCHE' CORBYN
HA VINTO
di Simone Siliani
– Sono ben strani i commentatori politici italiani! Uno, per dire Jeremy Corbyn, vince le primarie del
suo partito, il Labour inglese, con il 59,5% dei consensi (hanno partecipato 422.664 elettori fra iscritti,
sostenitori registrati e sostenitori affiliati), stracciando i suoi avversari (la candidata di Blair, dalle cui
labbra tutti pendiamo in attesa di illuminanti giudizi sulla politica inglese e mondiale, si è fermata al
4,5%) e questi che fanno? Invece di domandarsi perché Corbyn ha vinto, si sperticano a spiegarci che
lui perderà le prossime elezioni generali (che si terranno nel 2020, salvo anticipazioni). Fra questi, vi
sono anche coloro che cercano di spiegare il successo con il funzionamento delle primarie inglesi, che
erano aperte ma con obbligo di registrazione (“registered supporters”) e non spalancate come quelle
italiane del PD o francesi del PSF. Dario Parrini su l’Unità del 14.9.2015 si domanda se Corbyn
avrebbe vinto se invece di 422 mila avessero partecipato alle primarie 4 milioni dei 9,3 milioni di
elettori del Labour Party. A me sembra una domanda, per quanto legittima, che non coglie l’essenza
della questione. Infatti, il Labour ha sempre tenuto primarie “chiuse” per scegliere il proprio leader.
Anzi queste ultime hanno aperto, con regole, ad elettori non iscritti al partito o al sindacato affiliato,
portando a votare 105.598 nuovi elettori di cui ben 88.449 hanno scelto Corbyn (cioè 10 volte di più del
secondo arrivato fra i “registered supporters”, Yvette Cooper, giunta terza alla fine): quindi chi, al di
fuori del partito ha partecipato alle primarie ha votato Corbyn. Ma il punto è che con primarie chiuse
da sempre tradizione del Labour, la base aveva scelto negli ultimi 30 anni candidati moderati, o
dell’establishment, blairiani o comunque “riformisti”. Questa volta no: i laburisti hanno virato
decisamente a sinistra. Perché? Questa sarebbe la vera domanda che analisti e politici italiani
dovrebbero porsi. Tanto più che nel continente c’è, se non proprio un vento, almeno una brezza
“mediterranea” che va in questa direzione: Syriza e Podemos che, per quanto diversi dal Labour (e
anche fra di loro), hanno in comune una opzione politica generale di sinistra (rifiuto il termine
improprio, comunque riduttivo e usato in termini spregiativi, di “populisti”). Perché questo avviene?
Peraltro nella patria del moderatismo di sistema, laburista o conservatore che sia, dove lo stile e le idee
di Blair hanno pervaso il sistema politico nazionale dal 1997 ad oggi. Qualcuno lo spiega con la
parabola discendente di Blair e con le sue goffe uscite contro Corbyn (Mario Ricciardi, “Quel caro,
vecchio Labour”, la rivista il Mulino, 14.9.2015), che è certamente parte della verità, analogamente
all’endorsment negativo di D’Alema contro Renzi che non ha certo indebolito quest’ultimo. Ma a me
non sembra del tutto convincente neppure questa spiegazione.
Mi convince di più il fatto che nella proposta politica di Corbyn (che è uno presente sulla scena politica
inglese da 32 anni, con coerenza e senza cambi repentini e opportunistici di linea politica) vi sono
argomenti forti, capaci di segnare in modo inequivocabile la distanza dalle ricette politiche e finanche
dalla cultura politica che ha governato ininterrottamente il paese negli ultimi 30 anni (pur cambiando
gli interpreti, con indiscutibile continuità di linea politica) e che così pessima prova di sé hanno dato
negli ultimi tempi di fronte alla crisi economico-finanziaria e alle crisi internazionali che hanno investito
l’Europa e anche la Gran Bretagna.
Nadia Khomani su The Guardian del 12 settembre ha presentato una sintesi delle proposte politiche
di Corbyn che, se lette con un minimo di attenzione e senza pregiudizi, ci spiegano perché hanno
affascinato, interessato, convinto il Labour.
In economia Corbyn propone di ridurre il deficit pubblico stimolando con investimenti la crescita e
tassando redditi e patrimoni alti, invece che ridurre i servizi pubblici seguendo i dogmi dell’austerità,
come invece hanno sostenuto Blair, i suoi epigoni e gli altri candidati. Che ve ne pare? Io uno così lo
sosterrei, soprattutto perché la cura dell’austerità l’abbiamo provata in questi anni e, oltre ad aver
ridotto il benessere generale, non ha raggiunto neppure l’obiettivo di ridurre il deficit.
Corbyn propone il “quantitative easing popolare” che consentirebbe alla Banca d’Inghilterra di
stampare moneta da investire in larga scala per energia, trasporti, abitazioni, progetti di
digitalizzazione di servizi, in parte realizzati attraverso una banca nazionale di investimenti. E’
esattamente la strategia di Obama che ha dato buoni risultati in USA senza ridurre il paese sull’orlo
del collasso o venderlo ai “rossi”.
Corbyn dice che finanzierà questi investimenti recuperando 20 miliardi di sterline da tasse dovute e
non riscosse, 20 miliardi dall’elusione fiscale e altri 80 miliardi dall’evasione fiscale. Qual è l’ultimo
politico italiano che ha dichiarato simili intenti?
Poi Corbyn propone di costituire un Servizio Scolastico Nazionale che avvii il servizio universale
educativo dei bambini, dia maggior potere nel settore ai governi locali, ripensi il ruolo delle libere
scuole e accademie, introduca una retribuzione minima per l’apprendistato e investa soldi
nell’educazione degli adulti. Non dice di privatizzare ulteriormente il sistema educativo. Questa è una
proposta chiara che a me, ad esempio, convince. Corbyn dice anche di voler reintrodurre le borse di
studio per studenti meritevoli e bisognosi, tagliate dai precedenti governi. Dice che le finanzierà
aumentando i costi assicurativi di coloro che guadagnano più di 50.000 sterline l’anno. Bene, un punto
a favore, per me elettore del Labour!
Corbyn rivendica di essere uno dei 48 parlamentari ribelli del Labour che ha votato contro la legge del
Governo conservatore della riforma del welfare: chiaro, lineare, giusto perché le leggi della
maggioranza conservatrice se le dovrebbero votare i Tory non il Labour.
E’ anche a favore di una campagna di accoglienza dei profughi del Mediterraneo: una posizione che il
governo italiano, ad esempio, dovrebbe apprezzare.
Sostiene la rinazionalizzazione delle compagnie elettriche per ridurre i costi dell’energia e perché la
liberalizzazione ha creato un “falso mercato” che in realtà è un cartello delle maggiori aziende per
tenere alti i costi al pubblico: non c’è niente di bolscevico in ciò e soprattutto è un’idea giusta. Corbyn
crede nella proprietà pubblica dei servizi essenziali, ma non in modelli di nazionalizzazione dei tempi
passati.
E’ un europeista, contrariamente alla vulgata che lo vorrebbe euroscettico, ma vorrebbe stare in una
UE riformata e dichiara di voler porre all’Europa questioni per lui cruciali come i diritti dei lavoratori,
l’ambiente, la tassazione, ecc. Ma chi è soddisfatto dell’Europa così come è oggi alzi la mano? Forse gli
stregoni dell’austerità e i politici fedeli all’ideologia TINA (“There Is No Alternative”), ma non, credo,
un leader della sinistra socialdemocratica.
Inoltre, Corbyn propone di mettere fine alla privatizzazione della sanità e di finanziare un sistema di
sanità pubblico integrato con l’assistenza sociale, con particolare impegno sulla salute mentale: cosa
c’è di così eversivo e spaventoso in questo programma?
Figurarsi che propone addirittura di fermare i tagli ai servizi e al welfare che spingono le donne e le
famiglie sull’orlo della povertà, nonché l’uguaglianza retributiva di genere e l’impegno a favore delle
donne vittime di violenze domestiche! Un programma rivoluzionario!
Insomma, la lettura del fenomeno Corbyn che si pretende di dare in Italia è fatta con i paraocchi e
soprattutto condizionata dall’assorbimento acritico del blairismo quasi come categoria del pensiero e
non invece come una esperienza politica che ha avuto il suo apogeo e poi la sua fase discendente.
Ecco, io uno così lo avrei votato, mi avrebbe convinto e appassionato e, se non fossi stato iscritto al
Labour mi sarei registrato per votarlo. Penso che molti abbiano ragionato così in Inghilterra. Vincerà
le prossime elezioni politiche generali? Non lo sappiamo, ma ha il tempo per costruire un profilo, un
progetto e un programma politici per tentare di farlo: non avrà un risultato peggiore dei due precedenti
candidati laburisti (Gordon Brown e Ed Milliband), orientati verso il centro dello schieramento
politico ma inesorabilmente sconfitti da Cameron.
I tempi, forse, stanno cambiando anche in Europa e se la sinistra socialdemocratica non vuole essere
spazzata via per la sua insipienza o per il timore di non essere abbastanza credibile e accettata dai
poteri dominanti, dovrebbe chiedersi se posizioni più decise, nette, finanche radicali non siano oggi più
realistiche e possibili dell’accoglimento supino dello status quo.
APPELLO DI ROSSI
AI SOCIALISTI
EUROPEI: SALVARE
LA GRECIA DALLA
DESTRA LIBERISTA
Pubblichiamo un intervento sulla situazione della Grecia che il Presidente toscano Enrico Rosi ha
scritto per HuffingtonPost con il seguente titolo : I socialisti europei salvino la Grecia dalle mani
della destra liberista
L’annuncio dello slittamento del Consiglio straordinario a 28 è un pessimo presagio. L’assenza di
un’intesa politica e il mancato accordo sarebbero una catastrofe. Bisogna fare tutto il possibile. Sulla
crisi greca Renzi deve rilanciare.
Tsipras fa un grosso passo avanti, presenta una proposta non molto diversa dalle richieste della U.E., e
paga il prezzo di perdere un pezzo di Syriza (17 deputati su 149) e ottiene un grande mandato dal
parlamento greco.
Ieri alla riunione dei ministri finanziari dell’Europa, il ministro tedesco Schaeuble ha mostrato il volto
ringhioso della destra liberista e pro austerity, chiedendo di sospendere per 5 anni la Grecia dall’euro.
Una proposta “irresponsabile” che metterebbe a rischio persino la tenuta del governo Merkel. Sarebbe
un limbo infinito – per un paese che da cinque anni prova a restare nell’euro – impiegarne altri cinque
per provare a rientrarci.
Sarebbe la catastrofe non solo per l’economia della Grecia e per le possibili conseguenze su altri paesi,
ma anche per la stessa idea di un’Europa unita e solidale. La partita è davvero storica. Appare chiaro il
divorzio tra le destre economiche del centro nord europa e gli interessi dei popoli e delle democrazie di
tutti i paesi europei.
Spetta prima di tutto alle forze del socialismo europeo intuire lo spazio che si apre e prendere una
posizione netta per salvare la Grecia, l’euro e la prospettiva di avanzare verso gli Stati Uniti d’Europa.
È l’occasione anche per smarcarsi dalla subalternità della socialdemocrazia tedesca alle politiche di
unità nazionale con la destra.
Hollande pare deciso a seguire questa strada. Per Renzi è l’occasione straordinaria per diventare un
giovane leader del socialismo europeo e della lotta per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. In
quest’impresa avrebbe certamente l’appoggio di Obama e dei democratici americani.
La risposta alla crisi del socialismo europeo e alle difficoltà del PD in Italia è nell’impegno radicale e
determinato a battere le politiche di austerità delle destre e avanzare sulla strada dell’unità, per
un’Europa dei popoli e dei lavoratori. Il sogno di un grande uomo di sinistra come Altiero Spinelli
di Enrico Rossi, Presidente Regione Toscana
Nel filmato
Enrico Rossi a Bruxelles: Grecia, si trovi un accordo. No al Grexit e basta con l’austerità.
IL CONFLITTO
DEGLI EQUILIBRI
Possiamo chiedere al sole di non sorgere ogni mattina? Oppure alla leonessa di non difendere i suoi
piccoli dall’assalto dei predatori della savana? Non sarebbe quanto meno verosimile. Parimenti non si
poteva chiedere alla Presidente della Camera di non difendere le prerogative del Parlamento quando ha
sostenuto l’inconsistenza dei motivi di necessità e urgenza che avevano portato il Governo a presentare
un decreto legge per la riforma della RAI. Al di là del merito (non mi pare sussistano molti dubbi circa
le buone ragioni della presidente Boldrini sul caso in specie), il fatto è che questo non può essere
rubricato come uno scontro per motivi politici. Dovrebbe invece essere considerato per quello che è,
cioè un tipico conflitto nelle democrazie mature fra potere legislativo e potere esecutivo. Conflitto
fisiologico entro certi limiti; accentuato quando le democrazie si trovano in fasi di trasformazione dei
propri assetti interni o in prossimità di momenti topici della propria esistenza, come possono anche
essere le scadenze elettorali straordinarie. Non c’è dubbio che la democrazia italiana sia immersa in un
(lungo) processo di modifica radicale dei propri assetti. Prescindendo da quelli politici legati alla
scomposizione delle forze politiche, mi limito a segnalare come il particolare dinamismo dell’esecutivo
che opera come se ci si trovasse de jure e non de facto in un regime ad esecutivo rafforzato (premierato
semipresidenziale o presidenziale
ROMA – IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO MATTEO RENZI
che sia), in un ambiente parlamentare in cui il sistema elettorale maggioritario con parlamentari
nominati dai vertici dei partiti (nel caso del partito di maggioranza relativo coincidente con il capo del
Governo) certamente è un potente attrattore di potere verso l’esecutivo. E ciò tende a comprimere le
prerogative parlamentari suscitando, ovviamente, reazioni in chi ha il compito di tutelarle.
La decretazione d’urgenza, male atavico del sistema istituzionale italiano nonostante i limiti che la
Costituzione vi avrebbe apposto, è oggettivamente lo strumento principale dell’esercizio del potere
dell’esecutivo nel terreno di quello parlamentare: quando esso è abusato, il conflitto sorge di
conseguenza. Ma tale abuso non dovrebbe essere giustificato quale arma contro l’opposizione, ché
allora lo si dichiarerebbe automaticamente come strumento antidemocratico, cioè atto a comprimere la
dialettica democratica maggioranza-opposizione, e non strumento straordinario cui ricorrere
eccezionalmente in presenza oggettiva di motivi di urgenza improrogabili.
R
O
M
A
–
L
A
P
RESIDENTE DELLA CAMERA LAURA BOLDRINI
La Costituzione italiana conosce gli strumenti per ricomporre l’equilibrio dei poteri quando esso si
rompe. Tuttavia non direi che essa si caratterizzi, fra le Costituzioni democratiche, per questo, quanto
piuttosto per la vocazione sociale e orientata verso i diritti, individuali e collettivi. Diversamente da
altre Costituzioni che si sono costruite proprio attorno all’obiettivo di garantire – sempre, anche nei
momenti di crisi – l’equilibrio fra i diversi e autonomi poteri costituenti lo Stato.
E’ il caso di quella americana che è costantemente preoccupata di limitare il potere del Presidente,
consapevole della sua vastità in una repubblica appunto presidenziale, e di rimetterlo in equilibrio con
il legislativo e il giudiziario. Non di meno il conflitto fra di essiè all’ordine del giorno.. Se ne discute in
queste settimane a Washington. Si lamenta da un lato una crescente invasione di campo da parte di
Obama nelle prerogative del parlamento attraverso gli executive orders in politica interna e, dall’altra
parte una essessiva timidezza del Presidente nell’esercizio dei suoi poteri di Commander in chief in
politica estera, in particolare nel settore mediorientale nei confronti dell’ISIS. Potremmo dire,
situazione simile a quella italiana dove la posizione dell’esecutivo sulla vicenda libica è apparsa timida,
quasi esiziale. Quanto quella europea.
W
A
S
H
I
N
G
TON – IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI BARACK
OBAMA
Il dibattito circa l’estensione dei poteri presidenziali e il loro esercizio non è nuovo in America, anzi
affonda le sue radici in tempi lontani. Nel sostituire la legge della Confederazione per scrivere l’attuale
Costituzione, i padri costituenti inserirono la figura
del Presidente per bilanciare i poteri straripanti del Congresso. Ma, parallelamente allo sviluppo della
nazione, è andato espandendosi il potere dell’esecutivo. Dopo il Watergate, il Congresso si è ripreso
buona parte del terreno perduto. Ma, da allora, i presidenti hanno lottato per rafforzare il loro potere.
Se lo sono ampiamente riconquistato sotto George Bush a partire dall’esercizio dei poteri di
commander in chief per combattere il terrorismo dopo l’11 settembre, anche se la Corte Suprema è
intervenuta per stigmatizzare il fatto che Bush si fosse spinto troppo in avanti nel sottrarre poteri al
Congresso. Obama ha mantenuto sostanzialmente invariato l’impianto ereditato dai suoi predecessori
in politica estera, ma non in politica interna. Di recente ha usato ampiamente i suoi poteri esecutivi per
attuare la sua riforma sanitaria e per una politica più inclusiva sugli immigrati. Ma una Corte del Texas
ha temporaneamente sospeso quest’ultima. All’opposto Obama ha posto il veto sulla legge emanata dal
Congresso relativa all’oleodotto di Keystone e lo ha fatto sostenendo che quella legge limitava il potere
del Presidente di decide su infrastrutture come questa che attraversano confini internazionali. La
legge, ha scritto nel suo messaggio di veto, tenta di “invertire processi decisionali consolidati” e
“confligge con procedure definite dall’esecutivo”. Tuttavia, Obama ha sorprendentemente autolimitato
il potere presidenziale in fatto di politica estera. Mentre ha usato le autorizzazioni all’uso della
forza ottenute a suo tempo da Bush per bombardare negli ultimi 6 mesi le postazione dell’ISIS, non ha
voluto utilizzare le autorizzazioni che nel 2002 servirono all’invasione dell’Iraq.
Anzi la sua proposta al Congresso vieta a lui e al suo successore di lanciare “una duratura offensiva di
terra” contro l’IS e ha stabilito che questo stesso executive order scadrà fra tre anni, richiedendo al suo
successore di tornare di fronte al Congresso nel caso egli ritenesse ancora necessario intervenire
nell’area.
Una politica sulla separazione dei poteri condizionata da una visione politica, sostengono alcuni
commentatori. Certamente figlia dell’estrema polarizzazione della politica americana degli ultimi anni,
sfociata in una condizione frequente di “potere diviso”, con un Congresso dominato da una
maggioranza diversa da quella che ha eletto il Presidente. Condizione che forse spiega anche una
tendenza delle Corti ad evitare di entrare nel contenzioso fra esecutivo e legislativo. Compito che,
dunque, viene lasciato al potere supremo, quello del popolo, nel momento elettorale. Ma la crescente
conflittualità fra potere esecutivo e potere legislativo rischia di essere deflagrante fra un’elezione e
l’altra, anche in una democrazia che si è dotata di forti e penetranti strumenti di check & balance
per stabilizzare l’equilibrio dei poteri.
Guardare all’esperienza americana può essere assai utile per un paese come il nostro in cui
l’approvazione di una legge elettorale ipermaggioritaria come l’Italicum potrebbe accentuare lo
squilibrio di potere in favore dell’esecutivo, portando le minoranze parlamentari ad esasperare lo
scontro distruttivo con la maggioranza, spostandolo anche sul piano costituzionale. Una condizione che
forse sacrificherebbe troppo dell’equilibrio dei
poteri che connota le democrazie avanzate sull’altare della governabilità.
di Simone Siliani