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pagina 12 il manifesto DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010 Intitolata «I Preraffaelliti e il sogno italiano. Da Beato Angelico a Perugino», la mostra aperta da sabato 27 febbraio al 6 giugno, presso il Museo d’arte della città di Ravenna (Mar), è la prima grande rassegna italiana dedicata al celebre movimento artistico dell’Ottocento inglese. L’esposizione, curata dal direttore del Mar Claudio Spadoni, insieme ai britannici Colin Harrison e Christopher Newall, e realizzata in collaborazione con l'Ashmolean Museum di Oxford (dove si svolgerà una seconda edizione della rassegna dal 15 settembre al 5 dicembre), mette in primo piano il rapporto che ebbero con l’Italia quei pittori inglesi della seconda metà dell'800, come Dante Gabriel Rossetti e William Holman Hunt, che aspiravano al recupero di un'arte spontanea e ispirata alla natura, identificandola, appunto, con l'opera degli antichi maestri antecedenti alla rivoluzione di Raffaello. a teatro MOSTRE A Ravenna la prima grande rassegna italiana sui Preraffaelliti CONVEGNI ABITARE PALERMO Rigore e antiretorica nelle pagine di Giorgio Messori Sussurri e grida nel ritorno al sud di Vargas Franca Rovigatti G iorgio Messori è un autore poco noto, e molto insolito nel panorama letterario italiano. Fuori dai generi, appartato, all’apparenza frammentario e quasi spaesato, avvicinabile semmai per toni e atmosfere al mondo mitteleuropeo e all’amato Bichsel, di cui è stato anche traduttore. Particolarmente sensibile alle arti figurative, ha pubblicato con Luigi Ghirri Atelier Morandi (Palomar, 1992) e con Vittore Fossati Viaggio in un paesaggio terrestre (Diabasis, 2007). È morto precocemente a cinquantun anni nel 2006, quando il suo libro più importante, Nella città del pane e dei postini (Diabasis, 2005), cominciava a ricevere i primi riconoscimenti. Riconoscimenti che gli vengono ora tributati in due giornate di convegno (23 e 24 febbraio), alla Sapienza di Roma, da scrittori, poeti e italianisti, che di Messori sono stati amici e estimatori, tra cui Carlo Bordini, Beppe Sebaste, Emanuele Trevi, Andrea Cortellessa. Quella di Messori è una scrittura a superficie calma, come di uno che ti racconta la pelle di un suo personale quotidiano. L’andamento prevalentemente diaristico del bellissimo Nella città del pane e dei postini (la sua stessa dimessa copertina, parete dilavata di casa con finestre) introduce in un susseguirsi apparentemente banale di cose, fatti, incontri. Introduce piano. Ma presto il lettore si accorge di muoversi in un paesaggio molto complesso, di essere a contatto con una mente (un’anima?) raffinata ed esigente, che non si accontenta: non delle apparenze, men che meno di stereotipi e luoghi comuni. E questo per lungo allenamento, fin dall’infanzia muta e dissidente, fin dalla solitaria adolescenza. Allenamento, intanto, alla precisione, che per Messori è una necessità: dire le cose come sono, precisamente come sono. Di questa esigenza etica di precisione fa parte anche la rinuncia alle illusioni, che colora di un tono malinconico la sua scrittura: e che è, precisamente ancora, la nostalgia di un vero che veramente accade, e che dunque non ha bisogno di illudersi. Le cose come sono: senza ombra di retorica, senza solennità, ricorso all’epico, al romantico, al grottesco. Nessun gioco. E invece una grande, vera, gentilezza, una mitezza senza sdolcinature. Questa gentile sincerità mette il lettore in una straordinaria posizione orizzontale, speculare all’apparente orizzontalità della scrittura. Ma subito poi si avverte invece una vorticosa verticalità, peculiare e ardua. Il viaggio narrato nel diario è, sì, a Tashkent, remota capitale del remoto Uzbekistan (dove Messori è stato lettore di italiano), ma è soprattutto un viaggio interiore. Ed è, ancora una volta precisamente, un viaggio nel dolore. Senza autocompiacimenti: ma invece affrontando, attraversando, conoscendo e riconoscendo. In tale viaggio interiore, Messori fa un uso concreto e sapiente di memoria e dimenticanza, alterna nebbie e lucidissime messe a fuoco. Per questo (e per molto altro) Nella città del pane e dei postini è un libro quietamente travolgente, che induce anche il lettore più pigro a un proprio percorso interiore, lo invita a una propria verticalità. Questo fa di Giorgio Messori uno scrittore etico, e dunque assolutamente necessario nella confusione che oggi assedia. Il viaggio nel proprio (nel comune) dolore produce una sorta di (mai conclamata: ma sottile e reale) pulizia e catarsi: l’ingresso in una plausibile, infine, dimensione di realtà. Come il viaggio spaesato e improbabile di Giorgio, che lo ha portato invece a innamorarsi, finalmente, a sposare la donna della sua vita, a comprare una casa col giardino e con una finestra la notte illuminata. Come la copertina della Città, in cui, dopo aver letto il libro, riconosci la luce alla finestra e intravvedi, sia pur confusamente, l’ombra di una donna affaccendata. CLAUDE PARENT, LA CHIESA DI NEVERS ARCHITETTURA A Parigi una mostra su Claude Parent e la «funzione obliqua» Emanuele Piccardo C on due libri, una mostra antologica (aperta fino al 2 maggio), cicli di conferenze e film, la Cité de l’Architecture di Parigi rende omaggio a Claude Parent – architetto, sperimentatore, teorico, visionario, utopista – all’interno di un progetto curato da Frédéric Migayrou, direttore del Museo d’arte Moderna del Pompidou, e Francis Rambert, a capo dell’Institut Français d’Architecture. Con il filosofo Paul Virilio, il pittore Michel Carrade e lo scultore Morice Lipsi, Parent ha fondato nel ’63 il gruppo Architecture Principe, equivalente francese (con Utopie Group) del movimento dell’architettura radicale internazionale nato in Inghilterra, Italia, Austria e Stati Uniti. Già nel primo anno di lavoro, Parent e Virilio, elaborano la teoria della «funzione obliqua» che rompe con la tradizione dell’angolo retto di matrice razionalista per introdurre il movimento nell’architettura. «Se assumiamo una posizione orizzontale nello spazio – afferma Parent – non abbiamo coscienza del nostro corpo, il corpo non parla. Viceversa lo stare su un piano inclinato dona la parola al corpo che ci trasmette le sensazioni emanate dallo spazio». Questa rottura della linea ortogonale trova espressione nella chiesa di S. Bernadette du Banlay a Nevers (1963-66), dove si individua una analogia concettuale e spaziale con i bunker, per la scelta del beton brut, gli angoli arrotondati, la forma monolitica, dura. Incontro decisivo per Parent è anche quello con André Bloc, artista e fondatore della rivista «L’Architecture d’Aujourd’hui». La collaborazione tra i due culmina nella casa realizzata da Parent per l’amico a Cap d’Antibes (1959-62): due scatole asimmetriche in cemento e vetro sospese nel vuoto, sostenute da un esile telaio in acciaio tinteggiato del colore del mare. Si crea così una separazione concettuale e fisica tra cellule abitative e struttura portante; e un’ulteriore rottura avviene con l’inserimento della sinuosa scala a chiocciola in contrasto con la geometria dell’architettura. La ricerca di Claude Parent si colloca nella linea sperimentale della «New Babylon» di Costant e della «architettura mobile» di Yona Friedman. Altro elemento fondamentale della sperimentazione di Parent riguarda il suo rapporto con il neo-plasticismo di Theo Van Doesburg e Piet Mondrian evidente nelle architetture della Maison Parent a Neully sur Seine (1950-63) e della Maison de l’Iran alla Città universitaria di Parigi (1959-62). In entrambi i casi è evidente come la linea bidimensionale di Mondrian trovi una corrispondenza nella costruzione finita. La mostra parigina definisce l’importanza dell’opera di Parent, enfatizzata dall’elegante allestimento del suo allievo Jean Nouvel, attraverso maquette, schizzi, disegni, videointerviste agli architetti che hanno subito l’influenza del maestro della «funzione obliqua», sulla cui scia è nata l’architettura de-costruttivista cui fanno capo, tra gli altri, Coop Himmelb(l)au, Frank Gehry, Zaha Hadid, Bernard Tschumi, Odile Decq e, appunto, Jean Nouvel. UNA SCENA DI «URBAN RABBITS» DEL CNAC /FOTO PHILIPPE CIBILLE IN ALTO, FRANCISCO JAVIER GARCIA BARCELONA «FÁBRICA FABRA Y COATS» A DESTRA «BAL» DI SEMIH KAPLANOGLU Gianni Manzella PALERMO A vent'anni di distanza dal memorabile Palermo Palermo di Pina Bausch, un altro artista della scena internazionale prova a raccontare la capitale siciliana con gli occhi incantati del viaggiatore. Come nel caso della signora di Solingen, anche per Enrique Vargas si tratta infatti di una tappa di un viaggio nelle città che ha già toccato Barcellona e Napoli e Copenhagen. E come ogni viaggio finisce per rivelare più di sé che dell'altro. Ma Abitare Palermo, per lo spettatore che in passato ha frequentato a lungo i labirintici paesaggi creati dall'artista colombiano, è anche un tornare sui propri passi, ritrovare nella memoria luoghi ben conosciuti – senza l'emozione della scoperta che può ancora toccare chi allora non c'era, ma forse con un diverso sentimento di partecipazione, più prossimo alla nostalgia. Perché quello che dice è l'esperienza del tempo. E te ne rendi conto, quasi in maniera dolorosa, quando all'incrocio del mito tre tessitrici ti mettono in mano quel filo bianco di lana che è oracolo o talismano ma soprattutto è il filo della vita, per una volta nelle tue mani. Eccoci allora nell'oscurità della grande sala che si dilata nell'andirivieni fra una stazione e l'altra dello spettacolo, rese d'improvviso visibili per un momento o a mala pena percepibili alla vista, bisogna affidarsi a tutti i propri sensi. Due figure femminili invitano a scegliere chi seguire, e ogni scelta naturalmente comporta una perdita. Cala un modellino della città, distribuito a pezzi agli spettatori perché poi lo ricostruiscano come un puzzle. Voci misteriose sussurrano parole all'orecchio, e più che le storie bisbigliate conta quel contatto, quella rottura del diaframma che separa lo spettatore dall'attore, come quando uno di loro ti prende per mano e ti porta via bendato. Siamo nella navata del Nuovo Montevergini che fu in passato aula bunker per processi di mafia e centro sociale, e ora è il cuore di un vero e proprio atelier teatrale. Ma l'architettura della seicentesca chiesa barocca non appare che per brevi bagliori, quando l'azione si fa più corale. È il momento della musica e della festa di piazza, del ballo popolare in cui ci si mescola senza più divisioni di ruoli. O l'approdo a un fiabesco palazzo fatto da una luminosa ragnatela di quei fili bianchi, che crescerà anche grazie al filo della nostra vita, destinato simbolicamente a intrecciarsi con gli altri, in una costruzione in divenire. Perché non c'è solo l'esperienza sensoriale nel lavoro di Vargas e degli attori del Teatro de los Sentidos. Dietro quelle sonorità, quei profumi da cogliere nel buio, per il breve istante del loro manifestarsi, sta l'evocazione di una zona di mistero, qualcosa che il teatro non può dare se non come desiderio. E che, fuori da lì, chiede di essere vissuto. LA STAGIONE PARIGINA Un tram che si chiama Isabelle Huppert Gianfranco Capitta PARIGI P rotagonista della scena parigina, seppure in maniera «indiretta», è stato questa settimana Dario Fo, il cui Mistero buffo è entrato nel repertorio della Comédie Française. Ingresso ad opera della stessa direttrice Muriel Mayette, che certo sta imprimendo all'antica istituzione una positiva sterzata verso il presente, con un'affezione particolare per l'Italia. È stata lei due anni fa a far arrivare in versione francese La festa di Spiro Scimone, e ha già programmato per la prossima stagione la Malattia della famiglia M. di Fausto Paravidino. È un segnale di attenzione e di responsabilità delle istituzioni sotto qualsiasi governo, distante anni luce da quanto avviene da noi, dove le uniche notizie rilevanti sembrano estenuanti e dolorosi cambi di direzione, da nord a sud. Un altro esempio di vitalità francese riguarda le arti circensi. Il Centre national des Arts du Cirque è non solo un luogo consolidato di formazione, ma dotato di grande senso di responsabiità culturale. Da diversi anni, chiama un artista internazionale, che sia coreografo o regista di prosa, per «mettere alla prova» i suoi diplomandi, che non si troveranno così costretti a rimanere nel recinto della pista del circo, ma possano misurare le proprie chances davanti a pubblici diversi. Quest'anno l'artista ospite è l'ungherese Arpad Schilling, regista ben noto al pubblico italiano (un impegnativo Shakespeare al Piccolo di Milano) per usare drammaturgicamente la fisicità egli attori. Urban Rabbits (arriverà dal 24 aprile a Roma, Ferrara e Modena) è una favola minimale, che insegue queste creature prodigiose, più veloci e scattanti di urbani conigli, sulle funi e sulle reti elastiche, sui trapezi e nei capitomboli clamorosi che con sapore beckettiano reinventano un'arte antica e spesso logorata, ma che qui sembra riacquistare un senso esistenziale profondo. Gli artisti sono giovanissimi e di nazionalità diversa, ma comune è il maturo piacere di parlare attraverso il corpo, sondarne le possibilità, rilanciarne pericolosamente l'espressione, scoprir- ne la vitalità anche dove uno non penserebbe. All'opposto esatto di un ipotetico diagramma spettacolare, va invece una delle star incontestabili dell'immaginario transalpino, Isabelle Huppert. La gran dama del teatro e del cinema francese ha costruito a propria millimetrica misura una megaproduzione al prestigioso Odeon diretto da Olivier Py. Ha chiamato un regista sempre più acclamato della scena europea, il polacco Krysztof Warlicowski, e ha scelto un testo esemplare del novecento, Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, di cui ha chiesto una nuova traduzione al canadese/mediorientale Wajdi Mouawad. La vicenda di Blanche Dubois a questo punto ha preso il titolo più limitato Un tramway (all'Odeon fino al 2 aprile). Ed è un tram piuttosto spericolato quello che, per tre ore senza intervallo, procede sul grande palcoscenico avendo come unica bussola per la propria rotta il patrimonio Huppert. Non che manchino gli altri personaggi (il mitico Kowalski di Marlon Brando ha l'asciutta efficacia di un attore polacco in ascesa, Andrej Chyra, prediletto da Wajda), né tanto meno un grande apparato scenografico, che Malgorzata Szczesniak dispone in verticale e orizzontale su più piani, con pavimento che può riflettere o trasparire, muoversi o scoprire sotto di sé una intera pista di bowling, per un paio di nervosi tiri al birillo di Kovalski. Né mancano i costumi, e soprattutto le mises Huppert, dalla guépière che fa Marlene, al tailleur finale di quell'azzurro che qui Blanche predilige, perché uguale a quello «delle madonne della pittura italiana del '400». O almeno così dice l'attrice, che canta, balla (anche da sola, per diversi minuti, in una discoteca di rock duro) interroga e riflette. Quella di Blanche, e della sua compressione erotica destinata all'infelicità, smette di essere una sorta di «autobiografia sentimentale» del suo autore, per divenire un catalogo d'attrice, che può contare anche sui video che ingigantiscono in diretta le espressioni del viso nei primi piani e le movenze nei campi più lunghi. Ma la tragedia non c'è più e finisce per scarseggiare anche il desiderio. il manifesto DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010 pagina 13 CULTURA&VISIONI LA VOIX HUMAINE Poulenc musica Cocteau È andata in scena a Bologna e avrà repliche a Bolzano (il 22 e 23 marzo) La voix humaine che negli anni 50 Francis Poulenc realizzò mettendo il musica il monologo femminile scritto da Cocteau negli anni 20. È un testo col quale si sono cimentate in scena molte attrici e che ha avuto anche una versione cinematografica con la splendida Magnani, regia di Rossellini, che qui viene proposto nella versione in cui la cantante (qui Cristina Zavalloni) è accompagnata dal solo pianoforte (qui Andrea Rabaudengo). Per chi sta alla tastiera non ci sono gran problemi tecnici da superare; per chi canta è THÉÂTRE DU SOLEIL Mnouchkine guida i naufraghi della speranza Gherardo Vitali Rosati PARIGI V iaggi avventurosi e utopie politiche si intrecciano ne Les Naufragés du Fol Espoir, il nuovo spettacolo che il Théâtre du Soleil porta in scena fino a giugno alle porte di Parigi. Ispirandosi a un romanzo postumo di Jules Verne (Les Naufragés du «Jonathan»), Ariane Mnouchkine, regista e fondatrice del Soleil, orchestra scene epiche e corali, sempre illuminate da un preciso intento politico. Protagonisti di questa nuova avventura della sua troupe sono un gruppo di cineasti che nel 1914 si apprestano a mettere in scena il romanzo di Verne. Ecco allora che i due piani temporali avanzano parallelamente: alle vicende che precedono la prima guerra mondiale fanno eco intrighi e avventure di fine Ottocento, e proprio mentre nel film si gira la misteriosa scena della morte di Rodolfo d’Asburgo-Lorena, giunge sul set la notizia dell’attentato di Sarajevo. C’è un che di sinistro che fin dall’inizio incombe su cineasti e personaggi: da un lato le disavventure dei naufragi che si rovineranno alla ricerca dell’oro, dall’altro la Grande Guerra pronta a interrompere ogni esperienza artistica. Ma questi pionieri della settimana arte non perdono mai l’entusiasmo: un po’ come Ariane Mnouchkine e i suoi attori nel loro lavoro quotidiano, sembra- no quasi trovare maggiore grinta nelle avversità che li circondano. E il regista della storia non può che ricordare la leader del Soleil, con i suoi puntuali tentativi di introdurre tematiche politiche all’interno dell’opera. Attraverso il cinema nel teatro, i trentacinque attori della compagnia – che da sempre si occupano di tutte le fasi dello spettacolo: dalla scrittura del testo alla costruzione delle scene – presentano affascinanti cimeli come antiche macchine da presa o una pioneristica gru, ma sopratutto si preoccupano di realizzare vari trucchi di scena. Un ventilatore e un sacchetto di coriandoli bastano a simulare con sufficiente realismo una tempesta di neve accompagnata da sibili e tuoni realizzati dal bravo Camille (Jean-Jacque Lemêtre, lo storico musicista del Soleil). Mostrando esplicitamente gli artifici del teatro, gli attori possono presentare scene epiche e impegnative come una disastrosa tempesta nel mare o il naufragio di un enorme bastimento. Ma questo dispositivo metateatrale non fa che mostrare apertamente il tradizionale metodo di lavoro del Soleil, che non si perita mai di svelare i meccanismi del teatro, con attrezzi e scenografie spesso animati dagli attori sulla scena. Les Naufragés du Fol Espoir è la storia di una ostinata resistenza alle avversità politiche, e se il finale sembra porre fine ad ogni ottimismo, nella complessa drammaturgia ideata da Hélène Cixous interviene un terzo piano narrativo. La voce fuori campo, che racconta entusiasta le avventure dei cineasti, è infatti la nipote di uno di loro. Pare allora che la guerra, con tutti i suoi bombardamenti, non abbia potuto soffocare la Folle Speranza di quegli ostinati amanti dell’arte. tutta una tensione tra il realismo della parola e l'enfasi lirica della melodia. Cristina non ci è parsa al suo top, ma abbandonata un po’ troppo sentimentalmente al testo musicale. Del resto non le giovava la messinscena, con una telecamera che riproponeva il suo primo piano ingrandito alle sue spalle, un po’ come quando uno parla dal palco di un congresso popolare. Le luci livide risultavano in un bianco e nero terreo che metteva in evidenza un personaggio preda della ferita di un abbandono, il che riduce ad ancor più sciocca l'immagine della donna abbandonata quale è nel testo teatrale di Cocteau, così come nella resa di Poulenc, venata di mondanità anni 40. A Bolzano, la cantante avrà alle spalle l'orchestra e molto, nell'insieme, potrebbe cambiare. G. Ca. BERLINALE · Premi a Polanski e Wakamatsu IDENTITÀ GOLOSE L’Orso d’oro in Turchia «Miele» di Kaplanoglu Niente sprechi, chi sa cucinare usa proprio tutto Cristina Piccino Francesca Angeleri BERLINO MILANO B N al, Miele, del regista turco Semih Kaplanoglu è l'Orso d'oro di questa sessantesima Berlinale, giuria con presidente Werner Herzog che non ha voluto dimenticare il magnifico Caterpillar di Wakamatsu premiando la sua attrice protagonista, Shinobu Terajima, e nemmeno ignorare il Ghost Writer di Roma Polanski col premio alla migliore regia, che se suona anche un poco bizzarro vista la carriera del regista dall'altra parte è forse l'indicazione migliore, il premio a un cinema che inventa se stesso negli anni, continuando a sorprendere, a essere vitale, a provocare con intelligenza. Premiato, con l'Orso d'argento uno dei più favoriri in gara, il rumeno Se vuoi soffiare soffia opera prima di Florin Serban, con un cast di attori non professionisti, che sembrava poter essere il vincitore. Migliore interprete maschile Grigory Dobrygin ex-aequo col suo partner Sergei Puskepalis coprotagonista di How I Ended this Summer del regista russo Alexander Popolosky. Dispiace un poco per The Hunter di Rafi Pitt che nonostante le imperfezioni aveva la potenza di entrare nella costruzione interiore, emozionale, di del regime di paura e oppressione che ora governa il suo paese, l'Iran... Sembra che la giura (Francesca Comencini, Jean Maria Morales, Yu Nan, Nurredine Farah, Rene Zellweger, Ornella Foboess, oltre al presidente Herzog) abbia scommesso per i premi maggiori su un cinema «nuovo», un esordiente per l'Orso d'argento che è anche un po' il premio a una generazione nuova cresciuta negli ultimi anni in Romania grazie a talenti e alla sperimentazione di formule produttive collettive e di reciproco sostegno tra i cineasti. Kaplanoglu non è un nome nuovo, il precedente Latte è stato in gara a Venezia mentre Uovo, prima parte di questa trilogia, lo ha lanciato alla Quinzaine di Cannes. Diciamo che il suo è un cinema nel quale è molto forte quella tendenza «meditativa» di un certo cinema moderno, giocato sulle sospensione, i silenzi, l'incanto di relazioni che vivono oltre il tempo, in una realtà non precisamente connotata, spazio emozionale più che narrativo. La relazione del padre e del figlioletto, immersa in una natura di cui il bimbo, la cui balbuzie lo fa parlare solo sussurrando, è probabilmente piaciuta molto a Herzog, un film come Caterpillar di Wakamatsu era troppo vicino al suo modo di filmare, qui i personaggi eccentrici e la natura sono vicini ma anche di segno opposto - dovendo trovare un riferimento siamo più dalle parti del cinema giapponese di una Naomi Kawase, il soffio del vento e il respiro del cuore in equilibrio sfalsato. C'è forse un eccesso di compiacimento in questo gesto del filmare, e certo gli occhioni del bimbo, i suoi gesti rabbiosi e di affetto, quel mondo contadino ancora oggi arcaico, ove i ragazzini conoscono i nomi dei fiori e il sapore del miele che gli corrisponde, sono molto concilianti. Non c'è il disturbante pensiero critico, che dissacra i luoghi comuni di un Wakamatsu. Diciamo che Bal è un poi quel tipo di cinema «europeo» che arriva da altri paesi e che però cerca la sua identità in un immaginario dell'altrove. Un cinema più conciliante, proprio come il film rumeno, nonostante parli di un ragazzo in carcere e della sua rabbiosa voglia di reagire al mondo. on c’è niente da fare. Anche i più restii si devono rassegnare. La cucina è una cosa seria. E la serietà nasce e si rigenera nella responsabilità. Senza voler indulgere troppo sulle variazioni della carbonara, sulle performance sempre più sofisticate di alcuni chef, sulla rielaborazione o meno della tradizione culinaria, intorno all’argomento ruota un universo che, allo stato attuale, necessita di una codificazione sociale e culturale oltre che papillogustativa. Si verifica sempre più una necessità di analisi, si spera di volta in volta più seria. Identità Golose è un congresso e perché abbia un senso bisogna vederlo in questa prospettiva. Quest’anno si è destreggiato (dal 31 gennaio al 2 febbraio) tra le polemiche di Striscia e i contenuti di Slow Food: «questa non è una fiera per vendere prodotti» - affermaPaolo Marchi, critico gastronomico e curatore - noi cerchiamo di registrare ciò che succede. In questo momento, ci sono esempi di cucina profondamente legati al rispetto etico delle materie prime. La crisi è anche chiedersi se è ragionevole uccidere una bestia per mangiarne poi solo il filetto. Non a caso il titolo dell’edizione 2010 è stato Il lusso della semplicità, essenzialità nel senso di: io ti presento una carota, una pasta, un prosciutto ma è il migliore che tu possa mangiare. È chiaro che è una cosa d’elite, però in questo modo si alza il livello medio al punto che anche Mc Donald introduce un panino con dentro la bresaola Igp». Il concetto pare essere quindi quello di togliere il superfluo per focalizzarsi sulle materie prime. Certo, a conti fatti, sono ancora poche le realtà presenti che puntano sulla coerenza dall’inizio alla fine del prodotto, da dove arriva, come ci arriva, le ripercussioni che ha sull’uomo e sull’ambiente. Ma qualcosa c’è e anche di abbastanza significativo. Come la cooperativa di pescatori dell’Alaska, luogo in cui la pesca sostenibile è obbligatoria dal 1951, «ogni specie è controllata diversamente a seconda di come e dove si pesca. I controlli sono rigidi e la pesca illegale è contenuta. I cuochi italiani, però, a differenza degli americani o dei nordeuropei, non sembrano essere particolarmente interessati al discorso. Negli Usa si riuniscono in associazioni che stabiliscono, per norma, l’utilizzo unico di prodotti del mare sostenibili». Presente al congresso anche un’azienda biologica italiana, Casa Barone, che tratta la coltivazione del pomodorino nel Parco Nazionale del Vesuvio. Il proprietario ha rilevato un fondo abbandonato ubicato su un terreno sorto sulle eruzioni del vulcano. L’etica agricola potrebbe in futuro fondersi con l’etica sociale, poiché pare ci sia in progetto la realizzazione di una cooperativa formata da extracomunitari. Certo i prezzi sono più elevati del normale, ma il sapore piace soprattutto agli chef più giovani, per i quali la ricerca gastronomica va oltre il buon sapore. Come per lo chef californiano Daniel Patterson del ristorante Coi che dice «credo che gli chef abbiano la responsabilità di pensare al loro posto nelle comunità e di creare un esempio attraverso il modo in cui interagiscono con l’ambiente e con la società». Patterson mira ad andare oltre il clichè del lusso uguale caviale e champagne, interpretandolo invece come un duro lavoro sulla materia prima e il rispetto di essa. «La cosa più importante è far capire alla collettività, non solo a chi lavora nel settore, come si cucina e si mangia il vero cibo. Se sai cucinare, puoi usare tutto dell’animale. Possiamo avere una dieta più sana ed ecosostenibile. Questo renderebbe le persone più felici, che mangiano meglio e si connettono in maniera più profonda tra loro e la propria cultura». Per questo il piatto che ha presentato era a base di germogli curati personalmente e amorevolmente da lui durante il suo passaggio in Italia. L’unione tra cucina e sostenibilità è stata servita anche nel piatto dello chef cinese Alvin Leung, tatuaggi e capelli verdi a far da sfondo a una forte personalità culinaria. Le sue sperimentazioni passano attraverso l’utilizzo di un formaggio di latte di Yak prodotto da una piccola comunità del Quebeq. «È una fondazione di beneficienza che collabora con l’Università del Wisconsin. I quebecans di norma utilizzano solo il burro e la carne di yak. Questo formaggio potrà rendere la loro economia meno precaria anche perché ci sono circa 138 milioni di yak sul territorio. Io lo uso nel piatto Yak and Mac, che è la trasposizione del vostro cacio e maccheroni». È più forte del parmigiano, ma: perché no?