L`OSSERVATORE ROMANO
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L`OSSERVATORE ROMANO
Spedizione in abbonamento postale Roma, conto corrente postale n. 649004 Copia € 1,00 Copia arretrata € 2,00 L’OSSERVATORE ROMANO GIORNALE QUOTIDIANO Unicuique suum Anno CLVI n. 134 (47.269) POLITICO RELIGIOSO Non praevalebunt Città del Vaticano lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 . Durante la visita al Programma alimentare mondiale il Papa ricorda che la mancanza di cibo deriva dall’iniqua distribuzione delle risorse Non abituarsi allo spreco e alla fame E mentre gli aiuti e i piani di sviluppo sono ostacolati, le armi possono circolare liberamente La mancanza di cibo non è «frutto di un destino cieco» ma di una «egoista e cattiva distribuzione delle risorse». Lo ha ricordato il Papa durante la visita alla sede del Programma alimentare mondiale (Pam), dove si è recato lunedì mattina, 13 giugno, in occasione dell’apertura della sessione annuale della giunta esecutiva dell’agenzia dell’Onu impegnata nella lotta contro la fame. Nel discorso pronunciato di fronte ai rappresentanti di diversi governi del mondo Francesco ha invitato con forza a non assuefarsi alle tragedie che colpiscono l’umanità e a non considerare la povertà «come un dato della realtà tra i tanti», dimenticando, invece, che «la miseria ha un volto: ha il volto di un bambino, ha il volto di una famiglia, ha il volto di giovani e anziani», ma anche «il volto della mancanza di opportunità e di lavoro di tante persone», il volto «delle migrazioni forzate, delle case abbandonate o distrutte». Il Pontefice è tornato a ribadire con chiarezza che la malnutrizione «non è qualcosa di naturale, non è un dato né ovvio né evidente». È invece la conseguenza di una «mercantilizzazione degli alimenti» che genera esclusione e induce «ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo». Tuttavia — è stato il monito di Francesco — «ci farà bene ricordare che il cibo che si spreca è come se lo si rubasse dalla mensa del povero, di colui che ha fame». Un richiamo a «riflettere sul problema della perdita e dello spreco di alimenti, al fine di individuare vie e modalità che, affrontando seriamente tale problematica, siano veicolo di solidarietà e di condivisione con i più bisognosi». Dal Papa anche un deciso appello a «de-burocratizzare la fame», rimuovendo gli ostacoli che impediscono ai piani di sviluppo e alle iniziative umanitarie di realizzare i loro obiettivi. Il Pontefice ha denunciato in particolare lo «strano e paradossale fenomeno» per cui gli aiuti alle vittime della guerra e della fame sono intralciati mentre le armi «circolano con una spavalda e quasi assoluta libertà in tante parti del mondo». In questo modo, ha affermato, «a nutrirsi sono le guerre e non le persone». In alcuni casi, oltretutto, «la fame stessa viene usata come arma di guerra». E così «le vittime si moltiplicano, perché il numero delle persone che muoiono di fame e sfi- nimento si aggiunge a quello dei combattenti che muoiono sul campo di battaglia e a quello dei molti civili caduti negli scontri e negli attentati» Da qui la richiesta rivolta agli Stati, sollecitati a incrementare «decisamente l’effettiva volontà di cooperare con il Programma alimentare mondiale» così da permettere di «realizzare progetti solidi e consistenti e programmi di sviluppo a lungo termine» per debellare quella che Francesco — nel successivo incontro con il personale dell’agenzia — ha definito «una delle più grandi minacce alla pace e alla serena convivenza umana». PAGINE 7 E 8 Dolore e sgomento dopo il massacro perpetrato da un giovane killer in un locale di Orlando, in Florida, mentre l’Is rivendica l’attacco Strage dell’odio WASHINGTON, 13. «Un atto di terrore e di odio». È con il volto tirato delle occasioni più tristi che il presidente statunitense, Barack Obama, ha pronunciato ieri queste parole per definire la terribile strage avvenuta sabato notte a Orlando, in Florida, in un locale frequentato soprattutto da omosessuali. Il bilancio parla di cinquanta persone uccise e 53 ferite, molti giovanissimi. Il killer, ucciso dalla polizia, era affiliato al cosiddetto Stato islamico (Is). È la sparatoria più sanguinosa della storia americana e in assoluto la strage più grave dopo l’11 settembre 2001. Obama ha ordinato bandiera a mezz’asta fino a giovedì su tutti gli edifici pubblici. Immediato il cordoglio internazionale: per il presidente russo, Vladimir Putin, si è trattato di «un crimine barbaro», e nello stesso modo si sono espressi il capo di Stato cinese, Xi Jinping, e i principali leader dell’Unione europea. «La terribile strage avvenuta a Orlando, con un numero altissimo di vittime innocenti, ha suscitato in y(7HA3J1*QSSKKM( +.!z!.!=!&! La persecuzione dei cristiani in Medio oriente PAGINA 5 Papa Francesco e in tutti noi i sentimenti più profondi di esecrazione e di condanna, di dolore e di turbamento di fronte a questa nuova manifestazione di follia omicida e di odio insensato» ha dichiarato il direttore della Sala stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi. «Papa Francesco — si legge ancora nella dichiarazione — si unisce nella preghiera e nella compassione alla sofferenza indicibile delle famiglie delle vittime e dei feriti e li raccomanda al Signore perché possano trovare conforto. Tutti ci auguriamo che si possano individuare e contrastare efficacemente al più presto le cause di questa violenza orribile e assurda, che turba così profondamente il desiderio di pace del popolo americano e di tutta l’umanità». Condanna della strage di Orlando è giunta anche dalla Conferenza episcopale statunitense, il cui presidente, Joseph E. Kurtz, arcivescovo di Louisville, ha parlato di «violenze inenarrabili». Una dura presa di posizione è stata espressa anche dal mondo musulmano statunitense. «Nessuno si sarebbe potuto aspettare questo, nessuno poteva essere preparato per questo, avrebbe potuto succedere ovunque» ha sottolineato Muhammad Musri, presidente della Islamic Society della Florida centrale, ringraziando le forze dell’ordine. «Orlando è una città sicura. Preghiamo per le vittime con i fedeli delle altre religioni» ha aggiunto. Numerosi altri esponenti della comunità musulmana hanno chiesto ai media di non speculare su quanto accaduto. Prosegue il lavoro degli investigatori: sono state identificate finora 48 vittime. Polemiche, intanto, sono esplose sulla sicurezza, e in particolare sull’Fbi. Il killer, identificato come Omar Mir Saddiq Maten, 29 anni, cittadino americano di famiglia afghana, era stato interrogato tre volte dai federali, due nel 2013 e una nel 2014, per sospetti legami al terrorismo. Ciò nonostante, ha potuto acquistare legalmente un fucile e una pistola la settimana scorsa. Ieri un’agenzia legata all’Is ha rivendicato l’azione. Oggi la polizia ha confermato che il killer «aveva giurato fedeltà» all’organizzazione jihadista di Al Baghdadi. Difficile ricostruire con esattezza la dinamica degli eventi. Si sa soltanto che la strage è scattata alle due del mattino, tra sabato e domenica scorsi. A quell’ora il killer si presenta davanti al Pulse, noto locale nel downtown di Orlando, frequentato soprattutto da omosessuali, lesbiche, bisessuali e transessuali. Quella notte sono presenti almeno trecento persone. Il servizio di sicurezza è ridotto al minimo: un solo uomo, all’entrata. È lui la prima vittima del killer, che, armato di tutto punto, con un fucile d’assalto modello Ar15, una pistola e diverse granate, apre il fuoco per entrare. Poco pri- ma Omar Mir Saddiq Maten avrebbe chiamato il 911, il numero delle emergenze, annunciando una strage «nel nome dell’Is». Una volta entrato, il giovane agisce con calcolata freddezza. Superata la security, arriva correndo al “lounge”, la parte più ampia del locale, dove inizia a sparare all’impazzata, uccidendo decine di persone intorno a lui. Subito dopo — ma questa è la fase più oscura di tutta la vicenda — il killer prende in ostaggio una decina di persone con l’obiettivo di usarle come “scudo” contro la polizia. L’irruzione delle forze dell’ordine arriva solo alle cinque del mattino, tre ore dopo l’inizio dell’inferno. Segue un’intensa sparatoria, nella quale un agente è colpito alla testa — resterà vivo, protetto dall’elmetto — e il killer ucciso. Un discorso di Pio XII Anche se crollasse San Pietro MARC LINDEIJER A PAGINA 4 NOSTRE INFORMAZIONI Fiori per le vittime nella strage di Orlando (Ap) Il Santo Padre ha nominato Nunzio Apostolico in Swaziland Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Peter Bryan Wells, Arcivescovo titolare di Marcianopoli, Nunzio Apostolico in Sud Africa, Botswana, Lesotho e Namibia. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 2 lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 Contro l’uscita dall’Unione europea si schiera anche il primate anglicano Justin Welby Brexit non è solo economia Testa a testa nei sondaggi tra favorevoli e contrari LONDRA, 13. «L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue sarebbe una battuta d’arresto non solo economica ma geopolitica». È quanto sostiene il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. L’analisi poi si fa grave anche guardando all’Unione europea. Se- In migliaia salvati nel Canale di Sicilia BRUXELLES, 13. In difficoltà 200 persone a bordo di un barcone al largo dell’isola greca di Creta. Per la Guardia costiera, che ha intercettato un messaggio di Sos, non è facile la localizzazione per intervenire. Sono in salvo, invece, fortunatamente gli oltre 1300 migranti scortati sulle coste della Sicilia dopo essere stati tratti in salvo nell’arco di una giornata. Diverse le imbarcazioni e diversi i porti di attracco ma uguale la dinamica. Al momento sembra ci sia solo una persona che ha perso la vita. E sono stati fermati quattro presunti scafisti. Guardando alla Grecia, si trova anche un altro scenario. Non quello di chi sta arrivando ma di chi, arrivato da tempo, attende di capire la propria sorte. Al nord, al confine con la ex Repubblica jugoslava di Macedonia, 3000 migranti rimangono nei tre diversi campi allestiti ma altri sono diretti in altri alloggi creati per poterli ospitare a nord di Salonicco. Si tratta delle persone che lo scorso mese hanno lasciato il campo profughi di Idomeni, il più grande del Paese, dove le condizioni erano ormai diventate inaccettabili. Intanto a Ventimiglia, al nord dell’Italia, si prepara l’allestimento del centro di accoglienza transitorio al Parco merci delle Ferrovie, per i migranti che erano stati ospitati nei locali della chiesa, che però non aveva strutture idonee, e che in un primo momento si era pensato di far sostare nel Palazzetto dello sport. La proposta però ha sollevato le proteste dei genitori dei 300 ragazzi che usufruiscono delle strutture ricreative. condo Tusk, infatti, il voto favorevole all’uscita del Regno Unito «potrebbe essere l’inizio della distruzione non solo dell’Unione europea, ma di tutta la civiltà politica dell’O ccidente». Guardando alla campagna elettorale in Gran Bretagna, in vista del referendum fissato per il 23 giugno, bisogna riferire dell’ultimo intervento del premier David Cameron, che, nel caso in cui prevalga il sì al divorzio dall’Ue, intravede austerity, nuovi tagli alla sanità e alle pensioni. Il primo ministro del partito conservatore Tory, che ha scelto di portare il Paese al referendum perché, dopo tanto dibattito interno, ci fosse un pronunciamento netto della popolazione, ora usa parole chiare ma allarmate. Votare la Brexit «significherebbe portare il Paese dieci anni indietro». E fa leva su argomenti cari al pragmatismo inglese. Afferma che con la Brexit potrebbero venir meno alle casse del regno «fra 20 e 40 miliardi di sterline». George Osborne, cancelliere dello Scacchiere e titolare del Tesoro, ipo- tizza, fra gli effetti della Brexit, pure un buco di «1-1,5 miliardi di sterline all’anno al bilancio della Difesa, e dunque alla sicurezza nazionale». Un appello forte a rifiutare la Brexit arriva all’elettorato di sinistra anche dal leader del Labour, Jeremy Corbyn, finora accusato da alcuni di essere stato piuttosto tiepido. Precisamente schierato contro l’ipotesi del divorzio dall’Europa, anche l’arcivescovo di Canterbury, primate anglicano, Justin Welby, che invita a «costruire ponti, non barriere», e dunque a non scavare un fossato con l’Europa. Contro la Brexit si moltiplicano anche i pronunciamenti di economisti internazionali. Ma nessuno scuote gli euroscettici. Nigel Farage, capofila del partito Ukip, risponde che «gli elettori sono stanchi di essere minacciati dai profeti di sventura». C’è poi Iain Duncan Smith, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale fino ad appena due mesi fa, che liquida i toni di Cameron alla stregua di «propaganda» e «minacce senza fondamen- Gravi scontri a Marsiglia, Nizza e Lille Party lungo il Mall Agli Europei poco calcio e molta violenza LONDRA, 13. In una tipica uggiosa domenica londinese, si sono conclusi ieri, domenica, i festeggiamenti per i novant’anni della regina Elisabetta II. Evento principale, lo street party organizzato lungo il Mall, il viale che conduce a Buckingham Palace. Migliaia di tavolini sono stati disposti lungo la strada e nell’adiacente St. James Park per accogliere la folla desiderosa di festeggiare la sovrana. I media hanno parlato di almeno 10.000 persone che hanno preso parte all’evento. «La vostra presenza ci ricorda quanto conti che le POD GORICA, 13. Il Parlamento del Montenegro voterà il 16 giugno prossimo sull’ingresso del Paese nella Nato. A convocare la seduta, riferiscono i media locali, è stato ieri il presidente dell’Assemblea Darko Pajović. Il 19 maggio scorso il Montenegro aveva firmato con la Nato il protocollo di accesso, un passo fortemente osteggiato dalla Russia, che si oppone a un allargamento a est della Nato e a un suo avvicinamento ai propri confini. L’adesione a pieno titolo del Montenegro alla Nato avverrà dopo la ratifica di tale documento da parte di tutti gli altri 28 Stati membri dell’Alleanza. Un sondaggio pubblicato a fine maggio ha rivelato che l’adesione alla Nato è appoggiata dal 46,6 per cento dei montenegrini, mentre i contrari sono il 38,8, con un 14,6 di indecisi. GIORNALE QUOTIDIANO Unicuique suum POLITICO RELIGIOSO Non praevalebunt Città del Vaticano [email protected] www.osservatoreromano.va Il premier britannico in un comizio a Londra (Afp) Conclusi a Londra i festeggiamenti per i 90 anni della regina persone si mettano insieme per aiutare gli altri» ha detto la regina, ringraziando la folla e dicendosi «felice e commossa» per i molti messaggi di auguri ricevuti. In precedenza è stato il principe William, nipote della sovrana, a ringraziare i partecipanti e a sottolineare l’importanza dell’evento. William ha reso omaggio alla regina come a una «leader rispettata nel mondo» e «una guida destinata a portare ancora avanti la Nazione». Ne ha quindi sottolineato i meriti, ma anche la salute tuttora vigorosa e «il sense of humor». Il Montenegro vota sull’adesione alla Nato L’OSSERVATORE ROMANO to». Ricorda quelli che considera scenari da incubo in conseguenza delle migrazioni, vero punto sensibile dei sostenitori della Brexit, definiti sulla stampa britannica brexiters. Nelle decine di studi, pubblicati da quando David Cameron ha lanciato l’idea del referendum sulla Ue, le visioni sono contrapposte. C’è da dire che su due punti alla fine gli esperti finiscono per concordare. Il primo è che, in assenza di precedenti, nessuno può prevedere con esattezza le conseguenze socio-economiche di un’uscita dall’Ue. Il secondo è che, in caso di Brexit, tutto dipenderà dalla capacità di Londra di rinegoziare gli accordi commerciali. A cominciare da quelli con i 27 ex partner della Ue, che globalmente sono il primo referente del Regno Unito, con oltre il 50 per cento degli scambi. E, poi, con i 38 Paesi con cui l’Europa ha fatto accordi che valgono anche per Londra. Ma il punto è che in molti ribadiscono che se il Regno Unito sceglie di restare fuori dal mercato unico, così sarà, e non potrà rientrare a diverso titolo. PARIGI, 13. La Uefa (l’Unione delle associazioni calcistiche europee) ha avvertito Russia e Inghilterra: ai prossimi incidenti tra tifosi, entrambe le squadre saranno fuori dai campionati europei. «Sono comportamenti inaccettabili — ha fatto sapere la Uefa — disgustosi da parte di pseudo-tifosi che non dovrebbero trovare spazio nel mondo del calcio. Uno sport che dobbiamo proteggere e difendere». Questa la principale conseguenza internazionale di quanto accaduto nei giorni scorsi con terribili scontri tra tifosi in diverse città francesi, soprattutto Marsiglia. Il bilancio parla da solo: quattro persone sono gravi negli ospedali di Marsiglia, un inglese di una cinquantina d’anni è in fin di vita, aggredito da un russo che gli è saltato sopra a piedi uniti fino a lasciarlo in arresto cardiaco. I feriti sono 35, più tre poliziotti contusi. Laurent Nunez, il prefetto di Marsiglia, ha fatto sapere che il tifoso inglese più grave è «stabile». In cella sono finiti in dieci, di diverse nazionalità, ma soprattutto britannici. Oggi compariranno in tribunale e saranno giudicati per direttissima. I media hanno sottolineato più volte l’inadeguatezza delle misure di sicurezza: a fronteggiare le due tifoserie c’erano solo 1200 agenti. Il Governo britannico si è offerto di inviare rinforzi per prevenire nuove vio- lenze. Gravi scontri sono stati segnalati ieri anche a Nizza, tra francesi, nordirlandesi e polacchi alla vigilia di Polonia-Irlanda del nord: bilancio di nove feriti e tre fermati. Alta tensione anche a Parigi, dove si giocava un’altra delle cinque partite a rischio, Turchia-Croazia. Segnalati, in questo caso, solo disordini: 15 fermi fra i dintorni dello stadio e quelli della fan zone di Campo di Marte. A Lille, alla vigilia di GermaniaUcraina, trenta tedeschi hanno assalito i dirimpettai ucraini nella principale piazza della città. Qualche ferito medicato sul posto, un fermo. Al Senato francese la legge sul lavoro e il sindacato rilancia la protesta PARIGI, 13. La contestata riforma del codice del lavoro è all’esame del Senato francese e il principale sindacato dei lavoratori, Cgt, annuncia una manifestazione nazionale «imponente» per martedì. La Francia è già alle prese con le conseguenze di giorni di scioperi, proteste e ora anche delle violenze degli hooligan che hanno segnato l’inizio degli europei di calcio Euro 2016. I senatori, in maggioranza su posizioni di destra, avranno il progetto di legge in esame sino al 24 giugno. Un voto decisivo è in agenda per il 28 giugno. Solo dopo questo voto, il testo passerà all’esame di una commissione mista Riunione intergovernativa tra Cina e Germania La regina Elisabetta GIOVANNI MARIA VIAN direttore responsabile Giuseppe Fiorentino vicedirettore Piero Di Domenicantonio II (Reuters) Servizio vaticano: [email protected] Servizio internazionale: [email protected] Servizio culturale: [email protected] Servizio religioso: [email protected] caporedattore Gaetano Vallini segretario di redazione Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998 [email protected] www.photo.va PECHINO, 13. Angela Merkel è arrivata a Pechino per la quarta edizione del Consiglio dei ministri congiunto tra Cina e Germania. È la nona visita del cancelliere tedesco a suggello delle relazioni molto intense tra Berlino e Pechino. Durante le consultazioni il cancelliere tedesco intende affrontare il tema dell’eccessiva produzione industriale cinese, soprattutto nel settore metallurgico, secondo quanto reso noto dalla stessa Angela Merkel in una dichiarazione. Il cancelliere, che è accompagnata da sei mi- Segreteria di redazione telefono 06 698 83461, 06 698 84442 fax 06 698 83675 [email protected] Tipografia Vaticana Editrice L’Osservatore Romano don Sergio Pellini S.D.B. direttore generale nistri e cinque sottosegretari con i quali parteciperà oggi alla riunione dei ministri congiunta, ha tenuto ieri un discorso all’Accademia cinese di Scienze e poi ha avuto un primo incontro con il premier cinese, Li Keqiang. Nel frattempo, sono cinque i feriti nella duplice esplosione registrata ieri pomeriggio all’aeroporto internazionale di Shanghai, a causa di un ordigno rudimentale lanciato da un uomo. Ignote per ora natura e motivazioni del gesto. Tariffe di abbonamento Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198 Europa: € 410; $ 605 Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665 America Nord, Oceania: € 500; $ 740 Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30): telefono 06 698 99480, 06 698 99483 fax 06 69885164, 06 698 82818, [email protected] [email protected] Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675 paritaria dei due rami del Parlamento, cioè Assemblea nazionale e Senato, incaricata di trovare un accordo. Bisogna ricordare che il governo ha fatto approvare all’Assemblea nazionale tramite l’articolo 49-3, che ne impone l’adozione escludendo il voto. Si tratta di un’arma che la Costituzione autorizza, che ha sollevato comunque grandi polemiche e proteste in Francia, ma che al Senato non può essere adottata. Ma, in caso di fallimento del voto della commissione mista, è l’Assemblea nazionale che avrà l’ultima parola e lo scenario ritenuto più probabile in questo caso è che il primo ministro, Manuel Valls, torni a utilizzare l'articolo 49-3. Nell’esame del Senato non è prevista la modifica del punto più contestato, il principio di inversione della gerarchia delle norme, con il primato dell’accordo d’impresa sull’accordo di settore. Questa disposizione divide la sinistra ed è il cavallo di battaglia del sindacato, che da oltre tre mesi ha organizzato manifestazioni di piazza, e astensioni dal lavoro in vari settori. La stampa riferisce di una maggioranza dell’opinione pubblica francese che, malgrado la tradizionale solidarietà del Paese con le vertenze di settore, è stanca dei molti e prolungati disservizi. Da parte sua, il segretario generale del Cgt, Philippe Martinez, assicura che martedì i manifestanti daranno «prova di una mobilitazione mai vista» dall’inizio delle manifestazioni. Concessionaria di pubblicità Aziende promotrici della diffusione Il Sole 24 Ore S.p.A. System Comunicazione Pubblicitaria Ivan Ranza, direttore generale Sede legale Via Monte Rosa 91, 20149 Milano telefono 02 30221/3003, fax 02 30223214 [email protected] Intesa San Paolo Ospedale Pediatrico Bambino Gesù Società Cattolica di Assicurazione Credito Valtellinese L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 pagina 3 Civili scavano tra le macerie a Idlib (Reuters) I cecchini dell’Is frenano le forze libiche Senza tregua la battaglia per liberare Sirte TRIPOLI, 13. È di quattro morti e 17 feriti il bilancio degli scontri tra milizie filogovernative libiche e i combattenti del cosiddetto Stato islamico (Is) avvenuti ieri nella città di Sirte: le vittime sono miliziani provenienti da Misurata, Tarhuna e Tri- Ampio rimpasto nel Governo algerino ALGERI, 13. Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, ha disposto un nuovo rimpasto di Governo, il quinto da quando c’è il premier Abdelmalik Sellal, confermato alla guida dell’Esecutivo. Lo ha reso noto sabato sera la presidenza della Repubblica, attraverso un comunicato. Il capo dello Stato algerino ha sostituito il ministro dell’Energia, Khebri Salah, con il direttore generale della società nazionale di Sonelgaz, Noureddine Bouterfa. Altro cambio importante al vertice del dicastero delle Finanze, dove Abderrahmane Benkhalfa è stato sostituito da Baba Ammi, responsabile delle politiche monetarie presso lo stesso Ministero. Il ministro del Turismo, Ammar Ghoul, è stato invece sostituito dal ministro delle Risorse idriche, Abdelouaheb Nouri. Inoltre, Ghania Idalia, deputata del Fronte di liberazione nazionale (Fln) eletta nella circoscrizione di Blida (45 chilometri a sud-est di Algeri), è stata nominata ministro delle Relazioni con il Parlamento. All’attuale ministro dei Trasporti, Boudjemaa Talai, è stato aggiunto anche il portafoglio dei Lavori Pubblici. Sotto la pressione del crollo dei prezzi dei prodotti petroliferi, la sua principale risorsa, l’Algeria si è vista poco a poco costretta a ridurre tutte le uscite statali. L’ultimo capitolo di spesa in ordine di tempo che il Governo algerino sta affrontando è quello delle pensioni: al termine della recente riunione cosiddetta “tripartita” con i sindacati dei lavoratori e le associazioni degli imprenditori, il premier ha annunciato la creazione di una commissione incaricata di riformare il sistema pensionistico del Paese. I proventi petroliferi dell’Algeria nei primi sei mesi del 2016 sono crollati del 40 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015: ciò sta avendo un effetto negativo sulla bilancia commerciale, il cui deficit quest’anno dovrebbe arrivare a 30 miliardi di dollari (26,3 miliardi di euro) e sul deficit dello Stato. poli. Ad annunciarlo è stata una fonte militare delle forze fedeli al Governo di accordo nazionale riferendo dei continui scontri con i miliziani dell’Is trincerati nella città. Le difficoltà delle forze del premier libico designato, Fayez Al Sarraj, sono legate alla presenza dei cecchini dell’Is piazzati sui tetti dei palazzi. Ieri, inoltre, tre attentatori suicidi alla guida di veicoli bomba si sono fatti esplodere contro le forze governative. Lo ha reso noto un comunicato dell’operazione militare Al Bunian Al Marsus, guidata dalle milizie alleate del Governo di Tripoli, precisando poco dopo che l’ospedale di Misurata ha ricevuto «un soldato morto e quattro feriti negli attentati suicidi di oggi». Una delle tre autobombe è esplosa vicino a un ospedale da campo di Sirte. Gli aerei da guerra impegnati nell’operazione contro i jihadisti hanno compiuto 150 raid contro i siti dell’Is dalla liberazione di Abu Ghrein, 110 chilometri a sud-est di Misurata, fino all’ingresso delle truppe di terra nel centro di Sirte, roccaforte del gruppo estremista in Libia. Nel fine settimana, le forze di Tripoli hanno pubblicato una mappa secondo cui l’Is controlla ormai solo 20 chilometri quadrati di territorio nell’area di Sirte: l’11 maggio, invece, i jihadisti controllavano un’area pari a 9924 chilometri quadrati, da Ben Giauad ad Abu Ghrein. L’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Martin Kobler, si è detto «colpito» dai rapidi progressi delle forze militari del Governo di accordo nazionale di Tripoli contro l’Is a Sirte. Il diplomatico tedesco delle Nazioni Unite — citato dalle agenzie internazionali — ha lanciato un appello alla comunità internazionale per inviare forniture mediche in Libia. L’ospedale di Misurata, infatti, fronteggia un crescente numero di feriti provenienti dal fronte di Sirte. Kobler, inoltre, ha voluto «ricordare a tutti i combattenti di rispettare il diritto umanitario internazionale» e che «i civili non devono essere colpiti». Raid su Idlib DAMASCO, 13. Nuove violenze in Siria. In una serie di raid aerei nella provincia nord-occidentale di Idlib sono morte ieri almeno ventisette persone, tra cui quattro bambini. In particolare a Idlib è stato colpito — stando a diverse fonti locali — un mercato. Le vittime: 21 civili. In un altro raid nella vicina Maaret Al Numan è stato bombardato un condominio. Sei i morti, tra i quali una madre e i suoi quattro bambini rimasti intrappolati tra le macerie. I jihadisti dello Stato islamico (Is) hanno intanto rivendicato il duplice attentato che due giorni fa, sabato, ha devastato il santuario sciita di Sayyida Zeinab, nei pressi di Damasco. La rivendicazione è stata diramata dall’agenzia Amaq, ritenuta vicina ai terroristi. I morti — secondo fonti dell’opposizione — sono almeno venti, tra i quali tredici civili. Lo scorso 21 febbraio l’Is aveva rivendicato una serie di esplosioni nella stessa zona, con decine di vittime. Situato a una decina di chilometri a sud di Damasco, il santuario è un luogo sacro per gli sciiti ed è stato spesso obiettivo del jihadismo sunnita. Massacro in un villaggio nel nord-est della Nigeria Da un drone statunitense nella provincia di Chabwa Donne nel mirino di Boko Haram Uccisi nello Yemen due terroristi di Al Qaeda Gruppo di donne rapite da Boko Haram e poi liberate ABUJA, 13. Ancora violenza da parte dei fondamentalisti di Boko Haram in Nigeria. Quattro donne sono state barbaramente uccise in un villaggio nel nord-est. Secondo quanto riferito dalle milizie che lottano contro i ribelli islamisti, una quindicina di assalitori in moto sono arrivati venerdì nel villaggio di Mairari, a 80 chilometri da Maiduguri, hanno fat- to uscire di casa le donne, tutte dai 27 ai 45 anni di età, e le hanno uccise. I testimoni dicono che le donne erano mogli di uomini che si erano rifiutati di unirsi ai guerriglieri islamisti. Intanto, l’esercito nigeriano ha confermato ieri sera l’uccisione di dieci presunti combattenti di Boko Haram in un’operazione lanciata a Gamboru Ngala, nello Braccio di ferro tra Governo e opposizione sulla data del referendum contro Maduro Venezuela sempre più instabile CARACAS, 13. Il quadro politico venezuelano è sempre più scosso dalle dure polemiche tra Governo e opposizione. E questo soprattutto per quanto riguarda la proposta dell’opposizione di tenere un referendum per abrogare il mandato del presidente Nicolás Maduro. La proposta ha raccolto finora 1,8 milioni di firme, mentre si fa sempre più drammatica la crisi economica, sociale e istituzionale. Dopo che la Commissione nazionale elettorale (Cne) ha dichiarato invalide oltre seicentomila firme, provocando le proteste dei leader dell’opposizione, Maduro, durante un comizio a Caracas, ha affermato ieri che «se tutti i requisiti saranno soddisfatti, il referendum sarà indetto il prossimo anno. Se non li avranno rispettati non ci sarà referendum, punto e basta». Il presi- Nella città siriana almeno ventisette persone morte sotto le bombe dente inoltre ha accusato l’opposizione di frode, annunciando che chiederà alla Corte Suprema di annullare il processo di ratificazione. L’opposizione ritiene legittime le firme raccolte e vuole votare entro il prossimo 10 gennaio. E questo perché se vincesse il “sì” non solo Maduro, ma l’intero Governo dovrebbe dimettersi e nuove elezioni presidenziali verrebbero indette 30 giorni dopo la consultazione. Il problema è che, se il referendum si svolgerà dopo il 10 gennaio, anche in caso di vittoria del “sì”, il Governo resterebbe comunque al suo posto: la presidenza verrebbe assunta dal vicepresidente fino alla fine naturale del mandato di Maduro nel gennaio 2019. Nel frattempo, il Cne ha chiesto di verificare le firme irregolari attraverso le impronte digitali, mentre il portavoce della Mud (Tavolo dell’unità democratica, la coalizione delle forze dell’opposizione), Jesus Torrealba, ha dichiarato che «un venezuelano su tre è ora indignato per essere stato escluso, perché ha visto sparire la propria firma». Sul piano sociale, la situazione è allo sbando. Nelle ultime settimane ci sono state numerose proteste di cittadini esasperati dalla crisi economica e alimentare che dura da anni. La popolazione reclama generi alimentari di prima necessità e farmaci, mentre negli ultimi giorni si sono verificati rivolte, saccheggi, assalti ai supermercati e camion di derrate. Numerosi anche gli scontri tra manifestanti e polizia. Ieri un giovane è rimasto ucciso durante una protesta nel nord del Paese e dodici persone sono rimaste ferite. Il ministero degli Interni ha già avviato un’inchiesta. Stato del Borno. Lo riportano i media locali. In questo quadro, il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite in Niger, Fodé Ndiaye, ha lanciato ieri un appello alla comunità internazionale per chiedere l’invio di aiuti alla popolazione dopo i massici attacchi di Boko Haram a Bosso, nel sud-est del Niger. SANA’A, 13. Due membri di Al Qaeda nella penisola arabica (Aqpa) sono stati uccisi ieri nell’attacco di un drone statunitense nel sud dello Yemen. L’aereo senza pilota ha preso di mira una vettura che circolava ad Habbana, una località nella provincia di Chabwa, «uccidendo due combattenti di Al Qaeda e ferendo l’autista», ha reso noto una fonte della sicurezza locale. È stato il secondo attacco in due giorni contro membri di Al Qaeda nello Yemen, dopo la morte sabato di due jihadisti uccisi, sempre da un drone statunitense, nella provincia di Marib, a est della capitale Sana’a. I terroristi di Al Qaeda e del cosiddetto Stato islamico (Is) hanno approfittato del conflitto tra le forze del legittimo presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e i ribelli huthi per allargare la loro influenza nel sud e nel sud-est del Paese. L’Amministrazione Obama ha autorizzato i raid — che avvengono regolarmente — contro i fondamentalisti, come nello scorso marzo quando decine di jihadisti sono stati uccisi in un campo di addestramento a ovest di Mukalla. Gli Stati Uniti considerano questa branca di Al Qaeda nello Yemen come una delle più pericolose. E intanto, il vice principe ereditario e ministro della Difesa dell’Arabia Saudita, Mohammad bin Sal- Migliaia di estremisti islamici arrestati nel Bangladesh DACCA, 13. Il primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha detto ieri che le autorità stanno facendo di tutto per dare una battuta d’arresto alle uccisioni di minoranze religiose e attivisti atei nel Paese. Intanto la polizia del Bangladesh ha finora arrestato 3192 persone delle quali 37 sarebbero militanti di gruppi estremisti clandestini illegali, secondo quanto riferisce il quotidiano «Daily Star» citando il quartier generale della polizia. L’iniziativa delle autorità fa seguito a una serie di omicidi di membri di minoranze religiose, blogger laici, attivisti per i diritti umani e professori universitari che, dal 2013 a oggi, conta circa 40 delitti. Hasina ha detto che le autorità «faranno tutto ciò che è necessario per fermare questi omicidi», affermando che la responsabilità di questi atti di criminalità sarebbe da ascrivere al gruppo di opposizione islamista Jamaat-eislami. Almeno 27 dei 37 militanti arrestati erano membri del Jamaatul Mujahideen Bangladesh, ha riferito il portavoce della polizia, Kamrul Ahsan. Altri sette appartenevano alla Jagrata Muslim Janata Bangladesh, un altro gruppo islamista radicale, mentre gli altri tre facevano parte di organizzazioni che si battono per l’introduzione della sharia, la legge islamica, nel Paese del sud asiatico a maggioranza musulmana. Secondo quanto ha riferito l’ispettore generale della polizia, Shahidul Hoque, il giro di vite a livello nazionale continuerà fino a giovedì prossimo. Nel corso dell’operazione antiterrorismo nel fine settimana sono stati sequestrati armi da fuoco, polvere da sparo e 15 bombe artigianali in possesso dei militanti arrestati. man, giunge oggi negli Stati Uniti per una visita ufficiale incentrata sulle relazioni bilaterali e «le questioni regionali di interesse comune», dominate dalla crisi siriana, dall’Iraq, lo Yemen, la Libia e la lotta contro il gruppo jihadista del cosiddetto Stato islamico (Is). Scontri al confine tra militari afghani e pakistani ISLAMABAD, 13. Militari afghani e pakistani hanno ingaggiato ieri sera uno scontro a fuoco all’altezza del posto di frontiera di Torkham. Il bilancio parla di un soldato pakistano ferito. L’incidente è avvenuto nella località di confine che collega la provincia pakistana di Khyber Pakhtunkhwa a quella afghana di Nangarhar. In questa zona, dopo l’uccisione del leader dei talebani afghani, mullah Akhtar Manosur, si sono moltiplicate le tensioni. In un comunicato l’ufficio stampa dell’esercito pakistano (Ispr) ha confermato sia la sparatoria sia il ferimento di un militare nella zona, dove le autorità di Islamabad stanno costruendo un check-point «per evitare l’ingresso in territorio pakistano di terroristi dall’Afghanistan». Un giornalista afghano residente vicino al luogo dove è avvenuto l’incidente ha indicato all’Ansa che «la sparatoria è stata causata dalla determinazione afghana di impedire alle forze militari pakistane di installare a Torkham un posto di controllo». E, intanto, il leader di Al Qaeda, Ayman Al Zawahri, ha dichiarato fedeltà a Haibatullah Akhundzada, il nuovo capo dei talebani scelto dagli afghani dopo l’uccisione di Mansour. Il sostegno al nuovo leader dei talebani è giunto attraverso un messaggio audio di 14 minuti postato su internet. Come leader di Al Qaeda «vi do la mia fedeltà, rinnovando la tradizione stabilita dal nostro capo Osama bin Laden», ha detto Al Zawahri. La voce afferma che Al Qaeda «ha pianto la morte del mullah Mansour», che era stato scelto per la guida dei talebani dopo la conferma, nell’estate 2015, della morte del fondatore dei talebani afghani, mullah Omar. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 Un discorso dell’ultimo Papa romano Anche se crollasse San Pietro Anticipiamo stralci dall’intervento che il gesuita vicepostulatore della causa di beatificazione di Eugenio Pacelli tiene il 13 giugno a Roma. di MARC LINDEIJER stato il primo Papa moderno, Pio XII, Pontefice delle masse e dei media. Ma è stato anche — almeno per il momento — l’ultimo vescovo romano di Roma. Riconosciuto subito come tale quando fu eletto: già al nome Eugenio la folla in piazza San Pietro scoppiò in liete grida per dare il benvenuto a Papa Pacelli. La stessa partecipazione ci fu quando, quasi vent’anni dopo, morì. Fanno ancora commovente impressione i filmati del suo corteo funebre che scorreva lungo e lento nelle vespertine strade di Roma. «Nostra città natale ed episcopale», così Pio XII chiamò Roma davanti a settemila giovani degli istituti medi superiori della città, ricevuti in udienza il 30 gennaio 1949: «Nostra città natale ed episcopale, a Noi quindi doppiamente unita», disse il Papa ai ragazzi che l’ave- È vano salutato con grande entusiasmo, «in un crescendo di filiale esultanza e affetto». Questo duplice titolo valeva infatti per tutti i romani. Basti vedere il numero di udienze concesse alle loro rappresentanze, basti vedere quanto spesso Pacelli parlasse di Roma per capire come la città gli fosse carissima. Il primo gennaio 1949, accogliendo in udienza il sindaco Rebecchini e gli assessori, il Papa lodò il loro lavoro di ricostruzione della città, ancora segnata dalla guerra, e di progressivo ritorno a una normale vita, lavoro ispirato «alle millenarie e gloriose tradizioni religiose e civili dell’Urbe». Vide un chiaro legame tra l’opera sociale, già propagata dall’imperatore Marco Aurelio, e l’amore vicendevole comandato da Gesù Cristo. «Possa questo amore», augurò al sindaco di Roma il suo vescovo, «questo amore, che semina il bene e lo dispensa nella serena letizia del cuore, unire con indissolubili vincoli tutti i figli di Roma, gli amministratori e gli amministrati, quelli che danno e quelli che ricevono, avvicinandoli tutti a Dio!». È noto come Pacelli ponderasse le sue parole, cercando sempre il giusto equili- scovile. Qui, nel circo di Nerone (...), egli morì come confessore di Cristo; sotto il punto centrale della Cupola gigantesca era ed è il luogo del sepolcro di lui». Se mai un giorno «la Roma materiale dovesse crollare, se mai questa stessa Basilica Vaticana, simbolo dell’una, invincibile e vittoriosa Chiesa cattolica, dovesse seppellire sotto le sue rovine i tesori storici, le sacre tombe che essa racchiude, anche allora la Chiesa non sarebbe né abbattuta né screpolata; rimarrebbe sempre vera la promessa di Cristo a Pietro, perdurerebbe sempre il Papato, l’una indistruttibile Chiesa, fondata sul Papa in quel momento vivente». È lungo appena cinque pagine il discorso ai giovani su Roma aeterna, città che «in senso cristiano soprannaturale è superiore alla Roma storica», e con questo anche uno dei più lunghi sul tema che avrebbe tenuto Pacelli, vescovo romano di Roma. Per conoscere meglio, più profondamente il suo pensiero, bisogna tornare indietro nel tempo, al 23 febbraio 1936, e non all’Aula delle benedizioni della baIn questa città ogni opera silica vaticana ma deve essere egregia ed esemplare all’Oratorio borrominiano della Chiesa Nuova, perché a Roma sono costantemente rivolti dove il cardinale Eugegli occhi dell’Italia come a suo centro nio Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, diede e del mondo come a suo faro una conferenza su «Il sacro destino di Roma», e cioè il fine per cui la cambiano gli ordinamenti e le leggi che divina provvidenza preparò i romani e la reggono il suo ordinario governo, riman- loro città. Roma, «la madre comune dei gono le stesse la sua struttura, nei suoi credenti», e «la Casa vaticana del Padre caratteri essenziali, e la sua vita interna. comune», e «la comune casa di tutti i fi«La Chiesa, stabilita su Pietro e sui suoi gli della Chiesa». Oggi, ottant’anni dosuccessori (...) doveva essere la Chiesa di po, in pieno anno giubilare della miseriCristo, una in sé e duratura sino alla fine cordia, è difficile non vedere come queste dei tempi». Poi continua: «Fu una di- parole siano ancora vere. sposizione della divina Provvidenza che Città eterna, «città di Dio, città della Pietro scegliesse Roma come sua sede ve- Sapienza incarnata», avrebbe detto nel brio tra la saggia prudenza e la fortezza cristiana. Quando quindi parlò delle «tradizioni religiose e civili» di Roma, non per caso mise al primo posto quelle religiose. Ai ragazzi degli istituti medi superiori spiegò come «i resti e le tracce della storia profana» della città «narrano gli eventi di tempi andati, parlano di stirpi e di civiltà tramontate, di potenze e di grandezze estinte», mentre «dinanzi alle testimonianze del passato cristiano (...) sentiamo sempre qualche cosa d’immortale». Vive ancora la fede che esse annunziano, vive ancora la Chiesa a cui esse appartengono, e mentre 1936 il cardinale Pacelli. E i suoi cittadini, cosa compete a loro? «Essere romano — disse nel 1951 il Papa ai membri della nobiltà e del patriziato — significa essere forte nell’operare, ma anche nel sopportare». E sei settimane dopo esortò gli alunni del Liceo Visconti e dell’Istituto Massimo a non dimenticare «l’alto titolo di “romano”». A Roma «ogni opera deve essere egregia ed esemplare, perché a Roma sono costantemente rivolti gli occhi dell’Italia, come a suo centro, e del mondo, come a suo faro. Qui ogni fatica, maturamente in- trapresa e fermamente proseguita, deve giovare al bene universale; qui ogni giustizia più alta, ogni virtù più schietta, ogni pietà più ardente deve essere appannaggio di ciascuno che abbia il privilegio di chiamarsene cittadino, e in lui debbono in qualche modo rifulgere le leggi e le tradizioni, che fanno venerando e glorioso il nome di Roma». Nel diario inedito di Bartolomeo Nogara l’impetuoso afflusso di capolavori in Vaticano iniziato nell’autunno del 1943 Salvate Raffaello e Caravaggio! La grafia era chiara, ma così minuscola da richiedere, per decifrarla, una lente d’ingrandimento: ma le annotazioni erano di eccezionale importanza perché, giorno dopo giorno, registravano l’incessante arrivo di capolavori in Vaticano durante la seconda guerra mondiale. Si tratta del diario inedito di Bartolomeo Nogara, il direttore delle Gallerie Pontificie, che nel 1943 organizzò l’impetuoso afflusso di opere in Vaticano. E non solo: pensò anche di nascondere Pio XII, per proteggerlo, nei musei. E la sua preoccupazione andava pure agli ebrei romani. In un ampio articolo sull’inserto domenicale de «Il Sole 24 Ore» del 12 giugno, Benedetta Gentile ricorda che tra l’autunno del 1943 e la fine della guerra le mura del Vaticano accolsero migliaia di tesori provenienti da musei e da collezioni private per proteggerli da bombardamenti, saccheggi e rapine. Le prime casse arrivarono nel novembre di quell’anno, non appena la Santa Sede diede ufficialmente il via libera all’operazione di salvataggio di quadri, sculture, manoscritti, monete, incunaboli. Storia e memoria degli ebrei polacchi Il 15 giugno al Polin, museo della storia degli ebrei polacchi di Varsavia, si terrà la cerimonia finale del programma educativo «Salviamo la memoria» realizzato ogni anno dal 2005 dalla Fondazione per la tutela del patrimonio ebraico. Al programma hanno partecipato 56 scuole e centri culturali. Con pieno merito al Polin è andato quest’anno il prestigioso European Museum of the Year Award, conferito ai migliori spazi museali europei, consegnato il 9 aprile a San Sebastián in Spagna. Candidati al premio erano altri 48 musei di tutta Europa. Chi ottiene il premio riceve e conserva per un anno un trofeo nominato The Egg, opera dello scultore Henry Moore. Il Museo della storia degli ebrei polacchi, aperto nel 2013, rappresenta il primo tentativo di mostrare in un unico luogo il racconto della presenza ebraica in Polonia dal medioevo a oggi. L’edificio, progettato da architetti finlandesi, sorge in un luogo ricco di significati simbolici, dove prima della seconda guerra mondiale si trovava il centro del quartiere ebraico. La facciata in vetro è divisa a metà da una maestosa entrata che evoca il biblico passaggio del Mar Rosso dei figli d’Israele, mentre i pannelli di vetro che la coprono riportano incisioni in ebraico e in lettere latine che formano la parola “Polin”, “Polonia” in ebraico ma che può anche essere letta come «qui possono riposare». L’edificio copre un’area di oltre dodicimila metri quadrati. Un terzo ospita esposizioni temporanee, auditorium, cinema, sala da concerto, centro didattico e spazio per i bambini. L’esposizione permanente è il risultato del lavoro di 130 studiosi internazionali e si compone di otto percorsi. L’entrata del museo Polin di Varsavia Tale vicenda può già vantare una ricca bibliografia, ma il diario di Nogara, finora inedito, permette di seguire nel dettaglio l’impegno di chi, all’interno delle mura vaticane, dovette provvedere a organizzare questo straordinario flusso di opere che — sottolinea Gentile — avrebbero trasformato il Vaticano «in una specie di museo universale». E a prendere nota, con minuzia certosina, di quegli accadimenti, dai tratti anche avventurosi, fu l’archeologo che Benedetto XV aveva chiamato a dirigere i Musei vaticani, cui, nel 1920, era stata affidata la direzione dei Musei e Gallerie pontificie: incarico che mantenne fino alla sua morte, nel 1954. Dal prezioso documento, conservato nell’archivio della famiglia Nogara, si evincono le multiformi attività dello studioso, assediato da pressanti richieste: da quelle di ufficiali nazisti che vogliono visitare la Cappella Sistina e le gallerie vaticane (all’epoca chiuse al pubblico) a quelle di amici e conoscenti che cercano di ottenere tessere del Museo pensando che sia un documento che possa proteggerli. Altri chiedono che i loro figli, per sfuggire al servizio di leva, possano entrare a far parte della Guardia Palatina, il cui organico, durante l’occupazione nazista, lievita di oltre 1500 unità. Sulla rivista «Ecclesia», nel marzo del 1945, Nogara rileva che non è un’esagerazione asserire che, «grazie all’intervento della Santa Sede e alla sua protezione, nei depositi della Pinacoteca vaticana, della Biblioteca e dell’Archivio pontificio per più di un anno rimase concentrata e sicura da offese belliche una buona metà del patrimonio artistico dell’Italia, quello si intende che senza grave rischio, era possibile rimuovere e trasportare». Le trattative tra l’Italia e la Santa Sede per questo tipo di Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei vaticani dal 1920 al 1954 operazioni, iniziate nel giugno del 1943, durarono per qualche mese a causa di una situazione quanto mai complessa e delicata. Si incontravano spesso, al terzo piano del Palazzo pontificio, il cardinale Mercati, prefetto della Biblioteca vaticana, il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Montini, e Nogara: e il 9 novembre 1943 viene formalizzata l’autorizzazione e subito dopo i funzionari italiani impegnati a mettere in salvo i tesori del Paese contattano Nogara, già avvisato dal futuro Paolo VI dello scopo della visita. Di lì a breve seguirà il flusso, senza sosta, di tanti capolavori. E Nogara registrerà, successivamente, che «nella Pinacoteca, accanto a 664 colli depositati dai musei e gallerie dello Stato, si accumularono 27 casse con dentro racchiusi tra l’altro il tesoro della Basilica di San Marco di Venezia», tesori del Quirinale, delle ambasciate e di collezioni private, come quelle dei Chigi, degli Aldobrandini, dei Franchetti. E tra le mura vaticane — sottolinea Gentile — trovarono rifugio anche quadri di Raffaello, Tiziano, Caravaggio, El Greco, nonché la spinetta di Mozart, che poi appartenne a Spontini e infine a Mascagni, sulla quale musicò la «Cavalleria Rusticana». L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 pagina 5 La persecuzione dei cristiani in Medio oriente Una xilografia rappresenta Roma al centro di tre continenti (Heinrich Bunting, 1581) di ANDREA POSSIERI a alcuni anni, per le comunità cristiane che vivono in Medio Oriente, viene evocato, sempre più spesso, uno scenario futuro assolutamente drammatico: quello dell’estinzione. Nel 2011, quando le bandiere dell’Is apparvero in Libano, il leader druso Walid Jumblatt avvertì che sia i cristiani che il suo popolo si trovavano «sull’orlo dell’estinzione». Poco tempo dopo, nel 2013, il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphaël Sako, constatò amaramente che se l’emigrazione dei cristiani fosse continuata con questo ritmo, nel volgere di breve tempo non ci sarebbero più stati «cristiani in Medio Oriente» e la loro storia si sarebbe ridotta ad essere soltanto «un lontano ricordo». Nel marzo del 2015, infine, l’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, monsignor Bernardito Auza, lanciò un accorato appello al Palazzo di Vetro di New York, invitando la comunità internazionale ad intervenire prima possibile: i cristiani in Medio Oriente, disse Auza, sono «a rischio di estinzione». Il seguito è la triste cronaca di questi giorni: in un vasto contesto geopolitico — che va da Tripoli e Sirte in Libia, a Manbij, Aleppo e Raqqa in Siria, fino a Mosul e Falluja in Iraq — sempre più sconvolto da attentati terroristici, dalle brutali esecuzioni dell’Is e da una preoccupante instabilità politica, decine di migliaia di uomini e donne, tra cui molti cristiani, stanno vivendo un esodo forzato dalle loro terre. Terre che non sono state soltanto la culla del cristianesimo, come spesso si afferma con un po’ di superficiale approssimazione, ma che hanno testimoniato anche una presenza cristiana molto più duratura e complessa di quello che solitamente viene ricordato, la cui eredità storica è ben visibile nelle comunità di credenti di oggi e che, soprattutto, ci permette di guardare a questa fase difficile della presenza dei cristiani in Medio oriente con uno sguardo più consapevole e persino con qualche flebile speranza per il futuro. È questa la prospettiva che emerge dal libro dello storico statunitense Philip Jenkins, La storia del cristianesimo perduto (Bologna, Emi, 2016, pagine 352, euro 22) — che viene proposto ora in lingua italiana con una nuova e importante introduzione — e che ha il merito di fornire un’interpretazione storica euroasiatica e non più soltanto eurocentrica. Quella delineata da Jenkins è infatti una storia del cristianesimo che non segue la traiettoria tracciata negli Atti degli apostoli — dal Medio oriente verso l’Europa — ma che si dirige, invece, nella direzione opposta e si muove verso l’Africa e l’Asia, arrivando addirittura fino in Cina e all’India. Senza dubbio, il centro nevralgico di questo cristianesimo orientale — non solo perduto ma anche sostanzialmente sconosciuto al di fuori dei circuiti accademici — si trovava in Mesopotamia e aveva lo sguardo rivolto verso Est. Il primo regno che già nel 200 riconobbe e accettò il cristianesimo al di là dei confini dell’impero romano, fu l’Osroene, il cui territorio, con capitale Edessa, si sviluppava nell’alto corso dell’Eufrate. Questo regno ebbe vita breve ma la vicina Armenia accolse il cristianesimo attorno al 300. Grosso modo nello stesso periodo, nel II secolo, apparvero le prime comunità cristiane in India che vantavano, addirittura, una successione che risaliva all’apostolo Tommaso. E nel 425, per la prima volta, un sacerdote indiano tradusse la Lettera di san Paolo ai Romani dal greco in siriaco. Ma, come dicevamo, è soprattutto nell’antica Mesopotamia, tra i due grandi fiumi Tigri ed Eufrate, nei territori dell’attuale Iraq e della Siria, che si colloca la presenza cristiana più numerosa. In quei territori, infatti, si svilupparono due grandi chiese transnazionali, quella nestoriana e quella giacobita, che vennero poi dichiarate eretiche dal Concilio di Efeso nel 431 e dal concilio ecumenico di Calcedonia nel 451. Tuttavia, anche se condannate, quelle chiese continuarono a svilupparsi autonomamente sia dal Papa che dal Patriarca di Costantinopoli e a prosperare per circa otto secoli in un territorio vastissimo, tra il Medio Oriente, l’Africa e l’Asia. Alla fine dell’VIII secolo, per fare un solo esempio, il patriarca nestoriano Timoteo, che risiedeva nell’antica città mesopotamica di Seleucia, presiedeva ben 19 metropoliti e 85 vescovi, le cui sedi erano in Siria e in Turkestan, in Armenia e nel Turkmenistan, in Afghanistan e persino nello Sri Lanka. E già dal 635 alcuni missionari nestoriani avevano raggiunto Chang’an, la capitale imperiale cinese. Di fatto, durante il medioevo, mentre la Chiesa cattolica si consolidava in tutta Europa, tra i capisaldi cristiani del Medio oriente c’erano città come Bassora e Mosul, Kirkuk e Tikrit, luoghi oggi conosciuti D Con gli occhi distratti dell’occidente Incontro con l’autore di «Forsaken» di GIUSEPPE FIORENTINO Tra minacce e segnali di speranza un libro crudo, quasi spietato nella sua lucidità, quello che Daniel Williams ha dedicato alla persecuzione dei cristiani in Medio Oriente. Un libro (New York - London, O/R Books, 2016, pagine 211, euro 12) che già dal titolo Forsaken («Abbandonati») The persecution of Christians in today’s Middle East contiene una precisa denuncia: la comunità internazionale, e in particolare l’occidente, ha lasciato i cristiani mediorientali al loro destino fatto di violenze, di deportazioni, di espulsioni. Un fenome- È Nel libro di Philip Jenkins una storia perduta dall’opinione pubblica mondiale solo per essere dei tragici teatri di guerra. Quella del cristianesimo orientale è dunque una storia estremamente complessa, non riconducibile soltanto con l’identificazione di alcune dottrine eretiche, ma che si caratterizza per le complesse stratificazioni culturali e i sincretismi religiosi, ed è estremamente interessante sia perché abbiamo di fronte la storia di un cristianesimo di minoranza — che non ha stretto legami con il potere politico ed è dunque estremamente diverso, si potrebbe dire, da quello «costantiniano» — e sia perché alcuni settori di questo cristianesimo perduto, successivamente accolti dalla Chiesa di Roma, sono arrivati fino ad oggi, in quella che siamo soliti chiamare come la Chiesa assira d’oriente. La storia del cristianesimo d’O riente narrata da Jenkins è dunque simbolicamente rappresentata da una xilografia del 1581 — che è anche la copertina del volume — incisa dal pastore e teologo protestante Heinrich Bunting, che raffigura tre continenti, Europa, Asia e Africa, come se fossero tre lobi, o meglio, tre petali di un unico fiore uniti al centro da Gerusalemme. Accanto alla Chiesa dell’Europa occidentale e al mondo orientale, che aveva per centro Costantinopoli, si collocava, dunque, un terzo mondo cristiano, vasto e complesso, che si estendeva all’interno dell’Asia. Per la maggior parte della sua storia, scrive Jenkins, il cristianesimo è stato, pertanto, una «religione tricontinentale, con potenti rappresentanze in Europa, Africa e Asia», e tale è rimasto fino al XVI secolo quando sopraggiunse una persecuzione durissima per opera dei mongoli islamizzati che videro nelle minoranze cristiane i capri espiatori di una profonda crisi socioeconomica. In quella «grande tribolazione», come l’ha definita Jenkins, le gerarchie ecclesiastiche orientali furono distrutte, i sacerdoti e i monaci vennero uccisi, ridotti in schiavitù o espulsi, e «sui monasteri e le cattedrali scese il silenzio». Di fatto, in quel particolare frangente storico, l’Europa rimase l’unico continente dove il cristianesimo era riuscito a sopravvivere. Nonostante questa ecatombe, per molti secoli, in Medio oriente o Asia, i cristiani sopravvissero sotto il dominio musulmano. Ancora nel 1914, scrive Jenkins, «i cristiani costituivano il 10 per cento della popolazione dell’intera regione, dall’Egitto alla Persia», e la maggior parte delle grandi città erano suddivise tra più fedi e confessioni. La situazione cambiò notevolmente durante la Prima guerra mondiale. Tra il 1915 e il 1922, più di due milioni di cristiani — armeni, assiri e greci — furono massacrati o costretti a morire di fame. Non casualmente, nel 1933, dopo il massacro degli assiri in Iraq, il giurista Raphael Lemkin coniò il termine «genocidio». Questo clima di orrore «che richiama alla memoria la barbarie nazista», scrive Jenkins, sembra paventarsi nuovamente nel 2014 quando chiese e monasteri sono stati occupati e oltraggiati, le case dei cristiani sono state contrassegnate con la lettera araba N (per Nazareni) e gli abitanti sono caduti vittime di abusi e omicidi. Eppure, accanto a questo orrore che potrebbe rappresentare realisticamente l’epilogo della presenza cristiana in Medio Oriente, c’è un altro fenomeno, sostiene lo storico statunitense, su cui si riflette poco e male, ma che è invece molto importante: l’emigrazione in Medio oriente, specialmente nel Golfo Persico, di milioni di stranieri poveri che svolgono i lavori più umili. Molti di questi immigrati sono cristiani africani e asiatici, tra cui parecchi filippini, che in parte sfuggono alle statistiche uffi- Fino al XVI secolo i seguaci di Gesù erano presenti in tre continenti Poi i mongoli islamizzati videro in loro i capri espiatori di una crisi sociale ed economica ciali e che vivono pacificamente in quei territori, ovviamente senza fare proselitismo. Per collocare queste cifre nel loro contesto, scrive sempre Jenkins, «si consideri che la percentuale dei cristiani nella penisola arabica oggi è del tutto simile alla presenza musulmana in Europa occidentale». Un segno di questa presenza, discreta e rispettosa delle locali realtà politiche e religiose, è rappresentato, per esempio, dal Vicariato apostolico dell’Arabia Settentrionale in Bahrein — dove sorge la cattedrale di Nostra Signora d’Arabia — che serve i circa 2 milioni e mezzo di fedeli che vivono in Kuwait, Qatar, Bahrein e Arabia Saudita. Forse, conclude Jenkins, «dobbiamo anche riconoscere che, accanto alla disperazione, esistono segni di speranza». In Europa si percepisce un sentimento ostile Come se ci si vergognasse di voler difendere queste persone da parte occidentale, di una corretta percezione delle dinamiche mediorientali. Quando nella primavera del 2003 la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti entrò in Iraq per rovesciare Saddam Hussein, le operazioni militari non vennero accompagnate da una giusta valutazione delle conseguenze della guerra. «Era totalmente assente una prospettiva storico-politica. L’unico scopo era rovesciare il regime, senza pensare al dopo. Esattamente come, qualche anno più tardi, è avvenuto in Libia con le tragiche e ben note conseguenze». Uno sguardo tutto rivolto al contingente che certo non poteva, o forse non voleva, tenere in considerazione il futuro delle popolazioni cristiane. Un silenzio colpevole è calato sul loro destino e i jihadisti, conquistando territori in cui lo Stato non era più presente, hanno potuto facilmente cacciarli. Come è avvenuto a Mosul, dove nel luglio del 2014 — con un triste rituale che ricorda l’inizio delle persecuzioni degli ebrei europei — le loro case furono marchiate. Tre le alternative per i cristiani: convertirsi all’islam, pagare una tassa proibitiva che comunque non mette al riparo da violenze e angherie, o andarsene. Come è logico che fosse, nel giro di pochissimi giorni oltre centoventimila cristiani fuggirono da Mosul e dai villaggi circostanti. «Ma se i cristiani sono stati privati della loro terra — sottolinea Williams — il Medio Oriente rischia di perdere una parte importante della sua storia e della sua cultura. Le comunità cristiane con la loro presenza bimillenaria hanno offerto un enorme contributo alla formazione della stessa coscienza nazionale dei singoli Paesi. Ora questo processo di impoverimento culturale appare irreversibile. Dopo anni e anni di esclusione, se non di aperta persecuzione, i giovani cristiani mediorientali non hanno alcuna prospettiva e, chiaramente, preferiscono emigrare. Gli unici soddisfatti sono i jihadisti che mirano ad azzerare la pluralità». In alcuni Paesi, come in Siria e in Egitto, i cristiani sono accusati dai loro persecutori di mettersi dalla parte sbagliata della barricata, di sostenere cioè dei regimi dittatoriali. «Ognuno di noi — spiega l’autore di Forsaken — sta vicino a chi promette protezione. Ma nel caso dei cristiani questa accusa non è sempre vera. In Egitto, ad esempio, i copti sono stati protagonisti dei moti di piazza che hanno condotto alla ca- no che magari, in altre circostanze, verrebbe definito genocidio, ma che in questo caso viene abbondantemente sottostimato, se non apertamente ignorato. «In America — racconta Williams durante un incontro avvenuto all’«O sservatore Romano» — nessuno dei due partiti maggiori parla della questione, soprattutto in questa campagna elettorale per le presidenziali. In Europa poi la situazione è anche peggiore. I cristiani non sono riconosciuti come popolo da salvare. In Europa si percepisce una sorta di sentimento anticristiano, come se ci si dovesse vergognare di volere tutelare e difendere queste persone. Nessuno, davvero nessuno, fa attenzione alla tragedia dei cristiani in Medio Oriente e paradossalmente è stato dedicato più spazio alla persecuzione degli yazidi che ha suscitato una giusta onda di indignazione». Il libro di Williams non è la riflessione di un intellettuale elaborata a tavolino. È invece uno studio capillare maturato sul campo. L’autore è stato infatti corrispondente in Medio oriente per numerose testate statunitensi come il «Washington Post», il «Los Angeles Times» e «Bloomberg News». Più recentemente ha operato nella sezione di Human Rights Watch centrata sulle emergenze, dedicandosi in particolare alle violazioni dei diritti umani durante la cosiddetta Primavera araba. E senza mezzi termini, WilNon c’è una connessione diretta liams parla di «epidemia di persecuzioni» tra le persecuzioni e la Primavera araba dopo l’affermarsi dei Tuttavia l’ideologia del jihad movimenti che hanno disegnato un nuovo si è innestata con facilità in quei luoghi scenario politico in aldove si è registrato un vuoto di potere cuni paesi del Nord Africa, trascinandone altri in una sanguinosa guerra civile. «Non c’è una connessio- duta di Mubarak. Tuttavia, questo non ne diretta tra le persecuzioni e la Pri- li ha messi al riparo dalle inaudite viomavera araba — sottolinea — ma è in- lenze che li hanno colpiti in seguito, dubbio che l’ideologia del jihad si è secondo una logica che, evidentemeninnestata con facilità soprattutto in te, aveva poco a che fare con lo schiequei luoghi dove si è registrato un ramento politico». vuoto di potere. E la novità del jihad Uno scenario davvero triste, reso sta proprio nel proclamare l’esclusione ancora più desolante dalla persistente del cristianesimo che deve essere elimi- latitanza della comunità internazionanato in quanto pericoloso. È un feno- le, ostinata a difendere interessi parmeno visibile non solo in Siria o in ziali. «Nessuno, tranne il Papa e Iraq, ma nella stessa Palestina e in pochi altri, cerca di difendere i cristiaEgitto, perché i jihadisti non hanno ni del Medio Oriente e del Nord bisogno di una grande consistenza nu- Africa. Ma quello che più lascia stupimerica per ottenere con la violenza i ti è la mancanza di iniziative. Negli loro scopi». Stati Uniti la questione è caduta nel In effetti la realtà è sotto gli occhi dimenticatoio. L’Europa pensa a se (distratti) di tutti. In Siria, almeno un stessa. Ma a dire il vero, oltre alle terzo della popolazione cristiana è sta- dichiarazioni di circostanza, dota costretta ad abbandonare le sue ca- vrebbero essere prima di tutto i muse, in Egitto i copti sono protagonisti sulmani ad agire». Per i cristiani perdi vere ondate migratorie. In Iraq, i seguitati, infatti, le parole non bastacristiani sono attualmente circa trecen- no davvero. Mai come in questo caso, tomila, mentre non molto tempo fa per parafrasare un celebre detto anerano oltre un milione. Proprio in glo-sassone, inaction speaks louder than Iraq, secondo Williams, si è avuta la words («l’inerzia parla più forte delle prima dimostrazione della mancanza, parole»). L’OSSERVATORE ROMANO pagina 6 lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 Il Papa denuncia la mentalità sociale che emargina ammalati e persone con disabilità Con la medicina del sorriso Per la prima volta in piazza San Pietro la lettura del Vangelo è stata anche drammatizzata da un gruppo di persone con disabilità intellettive per permettere che il testo fosse compreso soprattutto da quanti hanno un deficit cognitivo. È accaduto domenica mattina, 12 giugno, durante la messa celebrata da Papa Francesco in occasione del giubileo degli ammalati e delle persone disabili. Il servizio liturgico e le letture hanno avuto come protagoniste «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 19). L’apostolo Paolo usa parole molto forti per esprimere il mistero della vita cristiana: tutto si riassume nel dinamismo pasquale di morte e risurrezione, ricevuto nel Battesimo. Infatti, con l’immersione nell’acqua ognuno è come se fosse morto e sepolto con Cristo (cfr. Rm 6, 3-4), mentre, quando riemerge da essa, manifesta la vita nuova nello Spirito Santo. Questa condizione di rinascita coinvolge l’intera esistenza, in ogni suo aspetto: anche la malattia, la sofferenza e la morte sono inserite in Cristo, e trovano in Lui il loro senso ultimo. Oggi, nella giornata giubilare dedicata a quanti portano i segni della malattia e della disabilità, questa Parola di vita trova nella nostra Assemblea una particolare risonanza. In realtà, tutti prima o poi siamo chiamati a confrontarci, talvolta a scontrarci, con le fragilità e le malattie nostre e altrui. E quanti volti diversi assumono queste esperienze così tipicamente e drammaticamente umane! In ogni caso, esse pongono in maniera più acuta e pressante l’interrogativo sul senso dell’esistenza. Nel nostro animo può subentrare anche un atteggiamento cinico, come se tutto si potesse risolvere subendo o contando solo sulle proprie forze. Altre volte, all’opposto, si ripone tutta la fiducia nelle scoperte della scienza, pensando che certamente in qualche parte del mondo esiste una medicina in grado di guarire la malattia. Purtroppo non è così, e anche se quella medicina ci fosse, sarebbe accessibile a pochissime persone. La natura umana, ferita dal peccato, porta inscritta in sé la realtà del limite. Conosciamo l’obiezione che, soprattutto in questi tempi, viene mossa davanti a un’esistenza segnata da forti limitazioni fisiche. Si ritiene che una persona malata o disabile non possa essere felice, perché incapace di realizzare lo stile di vita imposto dalla cultura del piacere e del divertimento. Nell’epoca in cui una certa cura del corpo è divenuta mito di massa e dunque affare economico, proprio le persone con disabilità: tra i ministranti c’erano alcuni ragazzi con la sindrome di Down e tra i diaconi c’era un giovane sordo tedesco. Inoltre la prima lettura è stata proclamata, in spagnolo, da una persona disabile, mentre la seconda, in inglese, è stata letta in braille da una ragazza cieca. In piazza San Pietro è stato anche esposto il quadro cinquecentesco della Madonna “salus infirmorum”, custodito nella chiesa di Santa Maria Maddalena in ciò che è imperfetto deve essere oscurato, perché attenta alla felicità e alla serenità dei privilegiati e mette in crisi il modello dominante. Meglio tenere queste persone separate, in qualche “recinto” — magari dorato — o nelle “riserve” del pietismo e dell’assistenzialismo, perché non intralcino il ritmo del falso benessere. In alcuni casi, addirittura, si sostiene che è meglio sbarazzarsene quanto prima, perché diventano un peso economico insostenibile in un tempo di crisi. Ma, in realtà, quale illusione vive l’uomo di oggi quando chiude gli occhi davanti alla malattia e alla disabilità! Egli non comprende il vero senso della vita, che comporta anche l’accettazione della sofferenza e del limite. Il mondo non diventa migliore perché composto soltanto da persone apparentemente “perfette”, per non dire “truccate”, ma quando crescono la solidarietà tra gli esseri umani, l’accettazione reciproca e il rispetto. Come sono vere le parole dell’apostolo: «Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1 Cor 1, 27)! Anche il Vangelo di questa domenica (Lc 7, 36–8,3) presenta una particolare situazione di debolezza. La donna peccatrice viene giudicata ed emarginata, mentre Gesù la accoglie e la difende: «Ha molto amato» (v. 47). È questa la conclusione di Gesù, attento alla sofferenza e al pianto Campo Marzio a Roma, invocata come aiuto di tutte le persone afflitte da malattia. Prima della celebrazione, sono state presentate alcune testimonianze in uno spazio di incontro e confronto denominato «Quando sono debole sono forte». Infine, dopo averla evocata nell’omelia, Papa Francesco al termine della messa ha lungamente praticato «la terapia del sorriso», salutando in piazza San Pietro i malati e disabili e i loro accompagnatori. di quella persona. La sua tenerezza è segno dell’amore che Dio riserva per coloro che soffrono e sono esclusi. Non esiste solo la sofferenza fisica; oggi, una delle patologie più frequenti è anche quella che tocca lo spirito. È una sofferenza che coinvolge l’animo e lo rende triste perché privo di amore. La patologia della tristezza. Quando si fa esperienza della delusione o del tradimento nelle relazioni importanti, allora ci si scopre vulnerabili, deboli e senza difese. La tentazione di rinchiudersi in sé stessi si fa molto forte, e si rischia di perdere l’occasione della vita: amare nonostante tutto. Amare nonostante tutto! La felicità che ognuno desidera, d’altronde, può esprimersi in tanti modi e può essere raggiunta solo se siamo capaci di amare. Questa è la strada. È sempre una questione di amore, non c’è un’altra strada. La vera sfida è quella di chi ama di più. Quante persone disabili e sofferenti si riaprono alla vita appena scoprono di essere amate! E quanto amore può sgorgare da un cuore anche solo per un sorriso! La terapia del sorriso. Allora la fragilità stessa può diventare conforto e sostegno alla nostra solitudine. Gesù, nella sua passione, ci ha amato sino alla fine (cfr. Gv 13, 1); sulla croce ha rivelato l’Amore che si dona senza limiti. Che cosa potremmo rimproverare a Dio per le nostre infermità e sofferenze che non sia già impresso sul volto del suo Figlio crocifisso? Al suo dolore fisico si aggiungono la derisione, l’emarginazione e il compatimento, mentre Egli risponde con la misericordia che tutti accoglie e tutti perdona: «per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53, 5; 1 Pt 2, 24). Gesù è il medico che guarisce con la medicina dell’amore, perché prende su di sé la nostra sofferenza e la redime. Noi sappiamo che Dio sa comprendere le nostre infermità, perché Lui stesso le ha provate in prima persona (cfr. Eb 4, 15). Il modo in cui viviamo la malattia e la disabilità è indice dell’amore che siamo disposti a offrire. Il modo in cui affrontiamo la sofferenza e il limite è criterio della nostra libertà di dare senso alle esperienze della vita, anche quando ci appaiono assurde e non meritate. Non lasciamoci turbare, pertanto, da queste tribolazioni (cfr. 1 Ts 3, 3). Sappiamo che nella debolezza possiamo diventare forti (cfr. 2 Cor 12, 10), e ricevere la grazia di completare ciò che manca in noi delle sofferenze di Cristo, a favore della Chiesa suo corpo (cfr. Col 1, 24); un corpo che, ad immagine di quello del Signore risorto, conserva le piaghe, segno della dura lotta, ma sono piaghe trasfigurate per sempre dall’amore. Le risposte del Papa alle domande durante l’incontro di sabato mattina nell’aula Paolo Appello all’Angelus Contro la schiavitù del lavoro minorile Al termine della messa in piazza San Pietro, alla quale hanno preso parte oltre cinquantamila persone, Papa Francesco ha guidato la recita della preghiera dell’Angelus e ha pronunciato queste parole. Cari fratelli e sorelle! Ieri, a Vercelli, è stato proclamato Beato il sacerdote Giacomo Abbondo, vissuto nel Settecento, innamorato di Dio, colto, sempre disponibile per i suoi parrocchiani. Ci uniamo alla gioia e al rendimento di grazie della Diocesi di Vercelli. E anche di quella di Monreale, dove oggi viene beatificata suor Carolina Santocanale, fondatrice delle Suore Cappuccine dell’Immacolata di Lourdes. Nata in una famiglia nobile di Palermo, abbandonò le comodità e si fece povera tra i poveri. Da Cristo, specialmente nell’Eucaristia, attinse la forza per la sua maternità spirituale e la sua tenerezza con i più deboli. Nel contesto del Giubileo dei malati si è svolto nei giorni scorsi a Roma un Convegno internazionale dedicato alla cura delle persone affette dal morbo di Hansen. Saluto con riconoscenza gli organizzatori e i partecipanti ed auspico un fruttuoso impegno nella lotta contro questa malattia. Oggi ricorre la Giornata mondiale contro il lavoro minorile. Rinnoviamo tutti uniti lo sforzo per rimuovere le cause di questa schiavitù moderna, che priva milioni di bambini di alcuni diritti fondamentali e li espone a gravi pericoli. Oggi ci sono nel mondo tanti bambini schiavi! Saluto con affetto tutti i pellegrini venuti dall’Italia e da vari Paesi per questa giornata giubilare. Ringrazio in modo speciale voi, che avete voluto essere presenti nella vostra condizione di malattia o disabilità. Un grazie sentito va anche ai medici e agli operatori sanitari che, nei “Punti della salute” allestiti presso le quattro Basiliche Papali, stanno offrendo visite specialistiche a centinaia di persone che vivono ai margini della città di Roma. Grazie tante a voi! La Vergine Maria, alla quale ci rivolgiamo ora in preghiera, ci accompagni sempre nel nostro cammino. VI Ricchezza della diversità Sabato mattina, 11 giugno, il Papa ha incontrato nell’aula Paolo VI i partecipanti al convegno promosso dal settore per la catechesi dei disabili dell’Ufficio catechistico della Conferenza episcopale italiana. Mettendo da parte il discorso scritto, Francesco ha risposto a braccio a tre domande. Le prime due sono state poste da Lavinia, una catechista con disabilità intellettiva che fa parte della parrocchia romana dei Santi martiri dell’Uganda, e dal suo parroco don Luigi D’Errico, che hanno parlato della «diversità come ricchezza». La terza domanda, formulata da Serena, disabile venticinquenne di Pistoia, ha posto invece la questione della mancanza di accoglienza dei disabili nelle comunità cristiane. La prima domanda era molto ricca, molto ricca. E parlava delle diversità. Tutti siamo diversi: non c’è uno che sia uguale all’altro. Ci sono alcune diversità più grandi o più piccole, ma tutti siamo diversi. E lei, la ragazza che ha fatto la domanda, diceva: “Tante volte abbiamo paura delle diversità”. Ci fanno paura. Perché? Perché andare incontro a una persona che ha una diversità non diciamo forte, ma grande, è una sfida, e ogni sfida ci fa paura. È più comodo non muoversi, è più comodo ignorare le diversità e dire: “Tutti siamo uguali, e se c’è qualcuno che non è tanto ‘uguale’, lasciamolo da parte, non andiamo incontro”. È la paura che ci fa ogni sfida; ogni sfida ci impaurisce, ci fa paura, ci rende un po’ timorosi. Ma no! Le diversità sono proprio la ricchezza, perché io ho una cosa, tu ne hai un’altra, e con queste due facciamo una cosa più bella, più grande. E così possiamo andare avanti. Pensiamo a un mondo dove tutti siano uguali: sarebbe un mondo noioso! È vero che alcune diversità sono dolorose, tutti lo sappiamo, quelle che hanno radici in alcune malattie... ma anche quelle diversità ci aiutano, ci sfidano e ci arricchiscono. Per questo, non bisogna avere mai paura delle diversità: quella è proprio la strada per migliorare, per essere più belli e più ricchi. E come si fa questo? Mettendo in comune quello che abbiamo. Mettere in comune. C’è un gesto bellissimo che noi persone umane abbiamo, un gesto che facciamo quasi senza pensarci, ma è un gesto molto profondo: stringere la mano. Quando io stringo la mano, metto in comune quello che ho con te — se è uno stringere la mano sincero —: ti do la mano, ti do ciò che è mio e tu mi dai ciò che è tuo. E questa è una cosa che fa bene a tutti. Andiamo avanti con le diversità, perché le diversità sono una sfida ma ci fanno crescere. E pensiamo che ogni volta che io stringo la mano a un altro, do qualcosa del mio e ricevo qualcosa di lui. Anche questo ci fa crescere. Questo è ciò che mi viene come risposta alla prima domanda. Ho dimenticato qualcosa della prima domanda, ma la dirò adesso con questa che ha fatto Serena. Serena mi mette in difficoltà, perché se io dico quello che penso... Ha parlato poco, tre/quattro righe, ma le ha dette con forza! Serena ha parlato di una delle cose più brutte che ci sono fra noi: la discriminazione. È una cosa bruttissima! “Tu non sei come me, tu vai di là e io di qua”. “Ma, io vorrei fare la catechesi...” — “In questa parrocchia no. Questa parrocchia è per quelli che si assomigliano, non ci sono differenze...”. Questa parrocchia è buona o no? [Aula: Nooo!] Che cosa deve fare, il parroco?... Convertirsi? È vero che se tu vuoi fare la comunione, devi avere una preparazione; e se tu non capisci questa lingua, per esempio se sei sordo, devi avere la possibilità in quella parrocchia di prepararti con il linguaggio dei sordi. Ecco, questo è importante! Se sei diverso, anche tu hai la possibilità di essere il migliore, questo è vero. La diversità non dice che chi ha i cinque sensi che funzionano bene sia migliore di chi — per esempio — è sordomuto. No! Questo non è vero! Tutti abbiamo la stessa possibilità di crescere, di andare avanti, di amare il Signore, di fare cose buone, di capire la dottrina cristiana, e tutti abbiamo la stessa possibilità di ricevere i sacramenti. Capito? Quando, tanti anni fa — cento anni fa, o di più — il Papa Pio X disse che si doveva dare la comunione ai bambini, tanti si sono scandalizzati. “Ma quel bambino non capisce, è diverso, non capisce bene...”. “Date la comunione ai bambini”, ha detto il Papa, e ha fatto di una diversità una uguaglianza, perché lui sapeva che il bambino capisce in un altro modo. Quando ci sono diversità fra noi, si capisce in un altro modo. Anche a scuola, nel quartiere, ognuno ha la sua ricchezza, è diverso, è come se parlasse un’altra lingua. È diverso, perché si esprime in un modo diverso. E questo fatto è una ricchezza. Quello che ha detto Serena succede, tante volte; succede tante volte ed è una delle cose più brutte, più brutte delle nostre città, della nostra vita: la discriminazione. Con parole offensive, anche. Non si può essere discriminati. Ognuno di noi ha un modo di conoscere le cose che è diverso: uno conosce in una maniera, uno conosce in un’altra, ma tutti possono conoscere Dio. [Una bambina si avvicina al Papa] Vieni, vieni... Questa è coraggiosa! Vieni... Questa non ha paura, questa rischia, sa che le diversità sono una ricchezza; rischia, e ci ha dato una lezione. Questa mai sarà discriminata, sa difendersi da sola! Ecco. Serena, non so se ho risposto alla tua domanda. Nella parrocchia, nella Messa, nei Sacramenti, tutti sono uguali, perché tutti hanno lo stesso Signore: Gesù, e la stessa mamma: la Madonna. Capito? [Si avvicina un’altra bimba] Vieni, vieni... Un’altra coraggiosa. Il padre che ha parlato prima ha fatto alcune domande che sono collegate a quello che ha detto Serena: come accogliere tutti. Ma se tu... — non dico a te, perché so che tu accogli tutti —; ma pensa a un sacerdote che non accoglie tutti: che consiglio darebbe il Papa? “Chiudi la porta della chiesa, per favore!”. O tutti, o nessuno. “Ma no — pensiamo a quel prete che si difende — ma no, Padre, no, non è così; io capisco tutti, ma non posso accogliere tutti perché non tutti sono capaci di capire...” — “Sei tu che non sei capace di capire!”. Quello che deve fare il prete, aiutato dai laici, dai catechisti, da tanta, tanta gente, è aiutare tutti a capire: a capire la fede, a capire l’amore, a capire come essere amici, a capire le differenze, a capire come le cose sono complementari, uno può dare una cosa e l’altro può darne un’altra. Questo è aiutare a capire. E tu hai usato due parole belle: accogliere e ascoltare. Accogliere, cioè ricevere tutti, tutti. E ascoltare tutti. Vi dico una cosa. Credo che oggi nella pastorale della Chiesa si fanno tante cose belle, tante cose buone: nella catechesi, nella liturgia, nella carità, con gli ammalati... tante cose buone. Ma c’è una cosa che si deve fare di più, anche i sacerdoti, anche i laici, ma soprattutto i sacer- doti devono fare di più: l’apostolato dell’orecchio: ascoltare! “Ma, Padre, è noioso ascoltare, perché sono sempre le stesse storie, le stesse cose...” — “Ma non sono le stesse persone, e il Signore è nel cuore di ognuna delle persone, e tu devi avere la pazienza di ascoltare”. Accogliere e ascoltare. Tutti. E credo che con questo ho risposto alle domande. Io avevo preparato per voi un discorso, e il Prefetto [della Casa Pontificia] lo consegnerà perché sia conosciuto da tutti. Perché leggere un discorso è anche un po’ noioso... E c’è un momento, quando uno legge un discorso, in cui, con una certa furbizia, incominciano a guardare l’orologio, come per dire: “Ma quando finirà di parlare, questo?”. Perciò il discorso lo leggerete voi. Vi ringrazio tanto per questo dialogo, per questa visita, per questa bellezza delle diversità che fanno comunità: l’una dà all’altra e viceversa, e tutte fanno l’unità della Chiesa. Grazie tante. E pregate per me. [Si avvicina un bambino] Vieni, vieni anche tu... Adesso, rimanete seduti tranquilli, e come buoni figli preghiamo la Mamma, la Madonna. Tutti insieme preghiamo la Madonna. Ave, Maria... [Benedizione] E per favore pregate per me. Grazie. L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 pagina 7 Telefonata del Papa ai giovani partecipanti al pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto Notte di cammino «Vi auguro una notte di cammino, di preghiera, di gioia, di fratellanza». Lo ha detto il Papa telefonando sabato sera, 11 giugno, ai partecipanti al trentottesimo pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto, dopo la celebrazione eucaristica di apertura presieduta dal cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo di AnconaOsimo, nello stadio Helvia Recina di Macerata. Buona sera, cari amici. Mi dice il Vescovo che lì piove. Ma anche la pioggia è una grazia. Perché è brutta, ma è anche bella! Ha due cose. È brutta perché ci dà fastidio, ma è bella perché è come la figura della grazia di Dio che viene su di noi. Voi incominciate adesso a fare il cammino; cammino che durerà tutta la notte. Ma anche la vita è un cammino. Nessuno di noi sa quanto durerà la propria vita, ma è un cammino. E quando uno crede di vivere la propria vita senza camminare... Non si può vivere la propria vita stando fermi. La vita è per camminare, per fare qualcosa, per andare avanti, per costruire un’amicizia sociale, una società giusta, per proclamare il Vangelo di Gesù. Io sono vicino a voi questa sera, vi sono vicino nella mia preghiera, vi accompagno e vi auguro una notte di preghiera e di gioia. Anche un po’ di sofferenza sicuro ci sarà, ma questo si supera, con la speranza dell’incontro, domani, con Gesù Eucaristia. Io vi benedico! Camminate sempre nella vita; mai, mai fermarsi, sempre in cammino. La vita è questo! E pregate anche per me, perché io non mi fermi e continui ad andare in cammino. Il cammino che il Signore mi dirà come fare. Vi do la mia benedizione, cari amici, e vi auguro una notte di cammino, di preghiera, di gioia, di fratellanza e con lo sguardo verso la Madonna e verso l’Eucaristia che riceverete domani. Adesso tutti insieme preghiamo la Madonna: Ave Maria... Vi dò la mia benedizione. Vi benedica Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Un abbraccio a tutti. Un abbraccio e pregate per me. Buona notte. Il cardinale Sandri in Turchia Nel segno dell’unità e del dialogo È stata una visita nel segno dell’unità e del dialogo quella compiuta a Istanbul, in Turchia, dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, conclusasi domenica 12 giugno. Al suo arrivo in Turchia, il cardinale si è recato sull’isola di Buyukada, dove ha sede un edificio appartenente alla nunziatura apostolica, per visitare la casa di accoglienza e spiritualità affidata alle suore francescane missionarie del Sacro Cuore, vero polmone per ritiri e settimane di formazione per l’intera Chiesa in Turchia. Il porporato ha celebrato la messa nella cappella. Insieme alle religiose della casa ne erano presenti anche altre venute dall’Italia. Al termine il porporato ha benedetto due statue della beata Vergine Maria e di san Giuseppe che erano state collocate nello spazio per la preghiera proprio lo stesso giorno. Quindi ha visitato la chiesa di Sant’Antonio e ha incontrato la comunità dei frati minori conventuali a cui è affidata. Nella mattina di sabato 11, accompagnato dall’incaricato d’affari della nunziatura apostolica, monsignor Angelo Accattino, il cardinale ha assistito alla divina liturgia al Phanar presieduta dal patriarca Bartolomeo, in occasione della sua festa onomastica. Erano presenti anche rappresentanti di altre Chiese ortodosse, in particolare quella di Mosca, con il metropolita di Novgorod che ha letto il messaggio del patriarca Cirillo. Era presente anche una rappresentanza della chiesa ortodossa bulgara. Il cardinale Sandri ha anzitutto trasmesso l’abbraccio di pace di Papa Francesco a Bartolomeo, con l’assicurazione della preghiera per lui, la Chiesa di Costantinopoli e il prossimo sinodo panortodosso. Al patriarca ecumenico è stata donata anche la medaglia d’argento del giubileo della misericordia. Nel pomeriggio, presso la cattedrale del vicariato di Istanbul, dedicata allo Spirito Santo, ha avuto luogo l’ordinazione episcopale di monsignor Rubén Tierrablanca González, religioso dell’ordine dei frati minori, vescovo titolare di Tubernuca, vicario apostolico di Istanbul e amministratore apostolico dell’esarcato per i fedeli bizantini. La celebrazione è stata presieduta dal cardinale Sandri. Conconsacranti monsignor Lorenzo Piretto, domenicano, arcivescovo metropolita di Izmir, e monsignor Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico di Anatolia. Hanno concelebrato anche i monsignori Levon Boghos Zekyan, arcivescovo di Istanbul degli armeni e presidente della conferenza episcopale turca, José Rodríguez Carballo, arcivescovo segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, e Luis Pelâtre, vicario apostolico emerito, insieme ai vicari patriarcali della Chiesa siro-cattolica e caldea, a monsignor Accattino e a numerosi sacerdoti e religiosi. Alla celebrazione hanno assistito anche il locum tenens del patriarcato armeno apostolico di Costantinopoli, un metropolita rappresentante del patriarca Bartolomeo e un metropolita rappresentante del patriarca siro-ortodosso. Oltre ai rappresentanti della Chiesa luterana e anglicana, erano presenti esponenti della comunità ebraica e islamica, l’ambasciatore del Messico ad Ankara e diversi membri del corpo consolare a Istanbul. Significativa la partecipazione di delegazioni di sacerdoti e fedeli giunte dal Messico, dalla Francia e dall’Italia. La liturgia, suggestiva e solenne, celebrata in italiano, francese e turco, ha visto l’animazione musicale cui hanno contribuito tutte le comunità cattoliche presenti in Turchia, con canti in italiano, inglese, spagnolo, armeno, siriaco e caldeo. Il servizio liturgico e quello d’ordine è stato garantito dai giovani seguiti dalla locale comunità salesiana, provenienti dalla Turchia, da paesi dell’Africa e da Siria e Iraq. Dopo il rito di ordinazione, il cardinale Sandri ha invitato il nuovo vescovo a proseguire la liturgia eucaristica, dando così avvio al suo ministero episcopale a Istanbul. Nella mattina di domenica 12, mentre il nuovo vescovo presiedeva il primo pontificale in cattedrale, il cardinale si è recato presso l’istituto per anziani Ma Maison, gestito dalle piccole sorelle dei poveri, e ha celebrato alla presenza della comunità delle religiose, di diversi fedeli, e di un folto gruppo di bambini e ragazzi iracheni accolti come profughi a Istanbul e seguiti dai salesiani. Al termine della celebrazione, in francese, inglese e turco, il cardinale si è intrattenuto con i giovani presenti, e in particolare ha ricevuto come dono da portare a Papa Francesco una fotografia e un pallone con gli autografi di tutti i giovani iracheni, in fuga dalla loro patria e in cerca di una speranza grande per il loro cammino futuro. Prima di prendere il volo per Roma, il cardinale Sandri si è intrattenuto a pranzo con i vescovi della Conferenza episcopale turca, con i quali ha avuto modo di scambiare alcune riflessioni sulla presenza cristiana in quella Nazione, i rapporti ecumenici e interreligiosi, la situazione delle comunità religiose. Il porporato ha salutato i presuli, dando appuntamento a monsignor Piretto per la consegna del pallio da parte del Santo Padre il 29 giugno, per la solennità dei santi Pietro e Paolo. E a tutti a settembre per la settimana di formazione dei nuovi vescovi. Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice Concistoro ordinario pubblico per il voto su alcune cause di canonizzazione NOTIFICAZIONE Lunedì 20 giugno 2016, alle ore 10, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco presiederà la celebrazione dell’Ora Terza e il Concistoro Ordinario Pubblico per la Canonizzazione dei Beati: — Salomone Leclercq (al secolo: Guglielmo Nicola Ludovico), dei Fratelli delle Scuole Cristiane, martire; — Manuel González García, vescovo di Palencia, fondatore dell’Unione Eucaristica Riparatrice e della Congregazione delle Suore Missionarie Eucaristiche di Nazareth; — Lodovico Pavoni, sacerdote, fondatore della Congregazione dei Figli di Maria Immacolata; — Alfonso Maria Fusco, sacerdote, fondatore della Congregazione delle Suore di San Giovanni Battista; — Elisabetta della Santissima Trinità (al secolo: Elisabetta Catez), monaca professa dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. *** I Signori Cardinali residenti o presenti a Roma nel giorno del Concistoro sono pregati di trovarsi per le ore 9.30 nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico, indossando l’abito corale. Città del Vaticano, 13 giugno 2016 Per mandato del Santo Padre Mons. GUID O MARINI Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie La visita al Programma alimentare mondiale C’è bisogno di sognatori C’è bisogno di sognatori per realizzare l’obiettivo di sradicare la fame dal pianeta, perché dietro la parola “fame” si celano la sofferenza e la morte di milioni di persone. Papa Francesco si è fatto voce di tanti volti anonimi di uomini e donne di ogni lingua, cultura, nazionalità, che hanno in comune il dramma di vivere sulla propria pelle le conseguenze della fame. Non poteva esserci occasione migliore della visita al Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite, compiuta lunedì mattina, 13 giugno, nel quartier generale dell’agenzia a Roma. È la prima volta che un Pontefice visita il Pam. E questo incontro avviene nell’anno in cui l’agenzia internazionale comincia il lavoro per raggiungere i diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile che hanno trovato l’accordo di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite. In particolare, al centro degli sforzi c’è il raggiungimento dell’obiettivo «fame zero» entro il 2030. Un impegno che richiede non solo risorse materiali ma anche umane. Proprio per ricordare le tante persone che hanno pagato anche con la vita lo svolgimento della loro missione, è stato collocato all’ingresso della sede dell’agenzia il “muro della memoria”. Una sorta di lapide con incisi i nomi di chi ha dato la vita durante il servizio al Pam. Il Papa si è soffermato davanti al muro, mentre due bambini — Amal Johan, di sei anni, e Lorenzo Benedetti, di sette — gli hanno presentato delle composizioni floreali che poi hanno deposto ai piedi della lapide. Accolto da monsignor Chica Arellano, osservatore permanente presso organizzazioni e organismi delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, da Ertharin Cousin, direttore esecutivo, e da Stephanie Hochstetter SkinnerKlée, presidente del consiglio di amministrazione del Pam, il Papa ha salutato i ministri di quattordici Stati e organismi internazionali: Andorra, Argentina, Burkina Faso, Ciad, Repubblica democratica del Congo, El Salvador, Etiopia, Unione europea, Francia, Gambia, Repubblica del Kyrgyzstan, Lesotho, Somalia e Sud Sudan. Poi si è intrattenuto a colloquio con il direttore esecutivo e il presidente del consiglio d’amministrazione. Al termine, il Pontefice ha apposto la sua firma sul libro d’onore del Pam. Prima di entrare nell’auditorium per il saluto all’assemblea, l’incontro con alcuni membri della comunità «Zero Hunger». Nell’auditorium, la presidente Hochstetter Skinner-Klée ha aperto ufficialmente la seduta speciale della sessione annuale della giunta esecutiva dell’organismo. Nel saluto di benvenuto ha detto che la presenza del Pontefice è un segno inestimabile del suo sostegno per la causa Nel saluto conclusivo Il coraggio dei martiri A conclusione della visita, incontrando il personale del Programma alimentare mondiale, Papa Francesco ha messo da parte il discorso preparato e ha rivolto a braccio ai presenti il seguente saluto. Io dovrei fare un discorso in spagnolo, ma la maggioranza di voi non capisce lo spagnolo, capisce l’italiano, perché vivete in Italia. E i discorsi sono anche noiosi! Così io consegno il discorso, perché vi sia dato dopo, alla Signora, e dirò alcune parole che mi vengono spontaneamente dal cuore. La prima cosa che voglio dirvi, nel mio brutto italiano, è grazie. Grazie perché voi fate il lavoro nascosto, il lavoro “dietro”, quello che non si vede, ma che rende possibile che tutto vada avanti. Voi siete come le fondamenta di un palazzo: senza fondamenta il palazzo non sta in piedi. Tanti progetti, tante cose si possono fare, e si fanno nel mondo, nella lotta contro la fame, e li fanno tanta gente coraggiosa. Ma questo grazie al vostro sostegno, al vostro aiuto nascosto. I vostri nomi appaiono soltanto nella lista del personale — e alla fine del mese in quella dello stipendio —, ma al di fuori nessuno sa come vi chiamate. Eppure i vostri nomi rendono possibile questo grande lavoro, questo grande lavoro della lotta contro la fame. Grazie ad un piccolo lavoro, ad un piccolo sacrificio, un vostro sacrificio nascosto, piccolo o grande, tanti bambini possono mangiare, tanta fame viene vinta. Vi ringrazio tanto. Quando ho sentito parlare la Direttrice del Programma, ho pensato tra me e me: questa è una donna coraggiosa! E credo che questo coraggio tutti voi lo abbiate: il coraggio di portare avanti un’opera da “dietro le quinte” e aiutare. C’è il coraggio di quelle persone che si vedono, perché in un corpo ci sono i piedi, ci sono le mani, c’è anche la faccia: si vede la faccia, ma i piedi non si vedono, perché sono nascosti dentro le scarpe; ma voi siete i piedi, le mani, che sostengono il coraggio di tutti quelli che vanno avanti, che hanno sostenuto anche il coraggio dei vostri “martiri”, diciamo così, dei vostri testimoni. Mai, mai dimenticare i nomi di quelli che sono scritti lì, all’entrata. Loro hanno potuto fare quelle cose per il coraggio che avevano, per la fede che avevano nel loro lavoro, ma anche perché erano sostenuti dal vostro lavoro. Grazie tante. E vi chiedo di pregare per me, perché anch’io possa fare qualcosa contro la fame. Grazie! del Pam. Allo stesso modo, la presidente ha rinnovato l’impegno di tutto il personale verso quanti soffrono per la fame, con la promessa di continuare a fare il massimo per giungere a sradicare questo dramma nel mondo. Successivamente, anche il direttore esecutivo Cousin ha rivolto un breve saluto al Papa, nel quale ha sottolineato come il pianeta possegga il cibo, la conoscenza, la capacità e le competenze non solo per affrontare le sfide dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione, ma per porre fine alla fame. Quello che serve, ha aggiunto, è la necessaria volontà pubblica globale di affrontare con urgenza questo grande fallimento nella comune umanità. Al termine del discorso, Cousin ha regalato al Papa un disegno, opera di un giovane dello Sri Lanka. A sua volta il Pontefice ha donato un medaglione in bronzo raffigurante san Martino mentre dona parte del suo mantello a un povero. Prima di dirigersi verso il “giardino della pace” per salutare i bambini dell’asilo nido con i loro genitori e i dipendenti del Pam, il Papa ha incontrato alcuni funzionari che testimoniano le difficoltà e lo spirito di sacrificio richiesti durante le missioni. Jok Kuol, sud-sudanese, di religione cattolica, lavora da undici anni al Pam. È un assistente logistico ed è impegnato nel progetto «Less». Da piccolo ha beneficiato dei pasti forniti alle scuole dal Pam e, allo stesso modo, ha potuto sfamarsi quando si trovava rifugiato nel campo Dadaab in Kenya. Alessandra Piccolo, invece, è una giovane italiana che ha iniziato a lavorare con il Pam come tirocinante. Ha svolto servizio nella Repubblica Centrafricana durante la recente crisi e in Nepal dopo l’emergenza del terremoto. Sara Adam, somala, è a capo dello sviluppo commerciale dei trasferimenti in contanti e del supporto sul campo. Lavora nel quartier generale, mentre suo marito, Jakob Kern, è anche lui membro del Pam ed è impegnato in Siria. Durante la visita il Papa è stato accompagnato dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, dagli arcivescovi Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, e Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, e da monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della casa Pontificia. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 8 lunedì-martedì 13-14 giugno 2016 L’appello del Papa durante la visita al Programma alimentare mondiale La mancanza di cibo non è «frutto di un destino cieco» ma di una «egoista e cattiva distribuzione delle risorse». Lo ha ricordato il Papa nel discorso pronunciato in apertura della sessione annuale della giunta esecutiva del Programma alimentare mondiale, dove si è recato lunedì mattina, 13 giugno. Ringrazio la Direttrice Esecutiva, Signora Ertharin Cousin, per avermi invitato ad inaugurare la Sessione Annuale 2016 della Giunta Esecutiva del Programma Alimentare Mondiale, come pure per le parole di benvenuto che mi ha rivolto. Porgo inoltre il mio saluto all’Ambasciatore, Signora Stephanie Hochstetter Skinner-Klée, Presidente di questa importante assemblea, che riunisce i Rappresentanti di diversi governi chiamati a intraprendere iniziative concrete per la lotta contro la fame. E, nel salutare tutti voi qui riuniti, ringrazio per i tanti sforzi e per l’impegno in una causa che non può non interpellarci: la lotta contro la fame che patiscono tanti nostri fratelli. Poco fa ho pregato davanti al “Muro della memoria”, testimone del sacrificio che hanno compiuto i membri di questo Organismo, offrendo la propria vita perché, anche in mezzo a complesse vicende, agli affamati non mancasse il pane. Memoria che dobbiamo conservare per continuare a lottare, con lo stesso vigore per il tanto desiderato obiettivo della “fame zero”. Quei nomi incisi all’ingresso di questa Casa sono un segno eloquente del fatto che il PAM, lungi dall’essere una struttura anonima e formale, costituisce un valido strumento della comunità internazionale per intraprendere attività sempre più vigorose ed efficaci. La credibilità di una istituzione non si basa sulle sue dichiarazioni, ma sulle azioni compiute dai suoi membri. Si fonda sulle sue testimonianze. Nel mondo interconnesso e ipercomunicativo in cui viviamo, le distanze geografiche sembrano abbreviarsi. Abbiamo la possibilità di prendere contatto quasi simultaneo con quanto sta accadendo dall’altra parte del pianeta. Per mezzo delle tecnologie della comunicazione, ci avviciniamo a molte situazioni dolorose e tali mezzi possono aiutare (e hanno aiutato) a mobilitare gesti di compassione e di solidarietà. Anche se, paradossalmente, questa apparente vicinanza creata dall’informazione sembra incrinarsi ogni giorno di più. L’eccesso di informazione di cui disponiamo genera gradualmente — perdonatemi il neologismo —, la “naturalizzazione” della miseria. Vale a dire, a poco a poco, diventiamo immuni alle tragedie degli altri e le consideriamo come qualcosa di “na- Non abituarsi alla fame turale”. Sono così tante le immagini che ci raggiungono che noi vediamo il dolore, ma non lo tocchiamo, sentiamo il pianto, ma non lo consoliamo, vediamo la sete ma non la saziamo. In questo modo, molte vite diventano parte di una notizia che in poco tempo sarà sostituita da un’altra. E, mentre cambiano le notizie, il dolore, la fame e la sete non cambiano, rimangono. Tale tendenza — o tentazione — ci chiede di fare un passo ulteriore e rivela a sua volta il ruolo fondamentale che le istituzioni come la vostra hanno per lo scenario globale. Oggi non possiamo considerarci soddisfatti solo per il fatto di conoscere la situazione di molti nostri fratelli. Le statistiche non ci saziano. Non basta elaborare lunghe riflessioni o sprofondarci in intermi- ancora bussa alle nostre porte. Quando mancano i volti e le storie, le vite cominciano a diventare cifre e così un po’ alla volta corriamo il rischio di burocratizzare il dolore degli altri. Le burocrazie si occupano di pratiche; la compassione — non la pena, la compassione, il patire-con — invece, si mette in gioco per le persone. E credo che in questo abbiamo molto lavoro da compiere. Insieme con tutte le attività che già si realizzano, è necessario lavorare per “denaturalizzare” e de-burocratizzare la miseria e la fame dei nostri fratelli. Questo ci impone un intervento su scale e livelli differenti in cui venga posto come obiettivo dei nostri sforzi la persona concreta che soffre e ha fame, ma che racchiude anche un’immensa ricchezza di energie e nalità universale, lo abbiamo reso un privilegio di pochi. Abbiamo fatto dei frutti della terra — dono per l’umanità — commodities di alcuni, generando in questo modo esclusione. Il consumismo — che pervade le nostre società — ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo, al quale a volte ormai non siamo più capaci di dare il giusto valore, che va oltre i meri parametri economici. Tuttavia ci farà bene ricordare che il cibo che si spreca è come se lo si rubasse dalla mensa del povero, di colui che ha fame. Questa realtà ci chiede di riflettere sul problema della perdita e dello spreco di alimenti, al fine di individuare vie e modalità che, affrontando seriamente tale problematica, siano veicolo di solidarietà e di colati da intricate e incomprensibili decisioni politiche, da fuorvianti visioni ideologiche o da insormontabili barriere doganali, le armi no; non importa la loro provenienza, esse circolano con una spavalda e quasi assoluta libertà in tante parti del mondo. E in questo modo, a nutrirsi sono le guerre e non le persone. In alcuni casi, la fame stessa viene usata come arma di guerra. E le vittime si moltiplicano, perché il numero delle persone che muoiono di fame e sfinimento si aggiunge a quello dei combattenti che muoiono sul campo di battaglia e a quello dei molti civili caduti negli scontri e negli attentati. Siamo pienamente coscienti di questo, però lasciamo che la nostra coscienza si anestetizzi, e così la rendiamo insensibile, forse con parole nabili discussioni su di esse, ripetendo continuamente argomenti già conosciuti da tutti. È necessario “denaturalizzare” la miseria e smettere di considerarla come un dato della realtà tra i tanti. Perché? Perché la miseria ha un volto. Ha il volto di un bambino, ha il volto di una famiglia, ha il volto di giovani e anziani. Ha il volto della mancanza di opportunità e di lavoro di tante persone, ha il volto delle migrazioni forzate, delle case abbandonate o distrutte. Non possiamo “naturalizzare” la fame di tante persone; non ci è lecito dire che la loro situazione è frutto di un destino cieco di fronte al quale non possiamo fare nulla. E quando la miseria cessa di avere un volto, possiamo cadere nella tentazione di iniziare a parlare e a discutere su “la fame”, “l’alimentazione”, “la violenza”, lasciando da parte il soggetto concreto, reale, che oggi potenzialità che dobbiamo aiutare ad esprimersi concretamente. condivisione con i più bisognosi (cfr. Catechesi del 5 giugno 2013: Insegnamenti I, 1 [2013], 280). che la giustificano, ma non si può di fronte a tante tragedie, è l’anestesia più grave. In tal modo la forza diventa il nostro unico modo di agire, e il potere l’obiettivo perentorio da raggiungere. Le popolazioni più deboli non solo soffrono per i conflitti bellici ma, nello stesso tempo, vedono ostacolato ogni tipo di aiuto. Perciò urge de-burocratizzare tutto quanto impedisce che i piani di aiuti umanitari realizzino i loro obiettivi. In questo voi avete un ruolo fondamentale, perché abbiamo bisogno di veri eroi capaci di aprire strade, gettare ponti, snellire procedure che pongano l’accento sul volto di chi soffre. A tale meta devono essere ugualmente orientate le iniziative della comunità internazionale. Non si tratta di armonizzare interessi che rimangono ancorati a visioni nazionali centripete o a egoismi inconfessabili. Si tratta piuttosto che gli Stati membri incrementino in modo decisivo la loro reale volontà di cooperare per questi fini. Per questa ragione, come sarebbe importante che la volontà politica di tutti i Paesi membri consenta e incrementi decisamente l’effettiva volontà di “De-naturalizzare” la miseria Quando sono stato alla FAO, in occasione della seconda Conferenza Internazionale sulla nutrizione, ho detto che una delle forti incoerenze che eravamo invitati a considerare era il fatto che esiste cibo sufficiente per tutti, «ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti per altri fini sono davanti ai nostri occhi» (Discorso alla Plenaria della Conferenza [20 novembre 2014], 3). Sia chiaro: la mancanza di alimenti non è qualcosa di naturale, non è un dato né ovvio né evidente. Che oggi, in pieno secolo ventunesimo, molte persone patiscano questo flagello, è dovuto ad una egoista e cattiva distribuzione delle risorse, a una “mercantilizzazione” degli alimenti. La terra, maltrattata e sfruttata, in molte parti del mondo continua a darci i suoi frutti, continua ad offrirci il meglio di sé stessa; i volti affamati ci ricordano che abbiamo stravolto i suoi fini. Un dono, che ha fi- De-burocratizzare la fame Dobbiamo dirlo con sincerità: ci sono questioni che sono burocratizzate. Ci sono azioni che sono come “imbottigliate”. L’instabilità mondiale che viviamo è ben conosciuta da tutti. Negli ultimi tempi sono le guerre e le minacce di conflitti ciò che predomina nei nostri interessi e dibattiti. E così, di fronte alla diversa gamma di conflitti esistenti, sembra che le armi abbiano acquistato una preponderanza inusitata, in modo tale da accantonare totalmente altre maniere di risolvere le questioni oggetto di contrasto. Questa preferenza è ormai così radicata e accettata che impedisce la distribuzione degli alimenti nelle zone di guerra, arrivando anche alla violazione dei principi e delle direttive più basilari del diritto internazionale, la cui vigenza risale a molti secoli fa. Ci troviamo così davanti a uno strano e paradossale fenomeno: mentre gli aiuti e i piani di sviluppo sono osta- cooperare con il Programma Alimentare Mondiale, affinché esso non solo possa rispondere alle urgenze, ma possa realizzare progetti solidi e consistenti e promuovere programmi di sviluppo a lungo termine, secondo le richieste di ciascun governo e in accordo con le necessità dei popoli. Il Programma Alimentare Mondiale con il suo percorso e la sua attività dimostra che è possibile coordinare conoscenze scientifiche, decisioni tecniche e azioni pratiche con gli sforzi destinati a raccogliere risorse e a distribuirle equamente, vale a dire rispettando le esigenze di coloro che le ricevono e la volontà di chi dona. Questo metodo, nelle zone più depresse e povere, può e deve garantire l’adeguato sviluppo delle capacità locali ed eliminare gradualmente la dipendenza esterna, mentre consente di ridurre la perdita di alimenti, in modo che nulla vada sprecato. In una parola, il PAM è un valido esempio di come si possa lavorare in tutto il mondo per sradicare la fame attraverso una migliore assegnazione delle risorse umane e materiali, rafforzando la comunità locale. A questo proposito, vi incoraggio ad andare avanti. Non lasciatevi vincere dalla fatica, che è molta, né permettete che le difficoltà vi facciano desistere. Credete in quello che fate e continuate a mettervi entusiasmo, che è il modo in cui il seme della generosità può germinare con forza. Concedetevi il lusso di sognare. Abbiamo bisogno di sognatori che portino avanti questi progetti. La Chiesa Cattolica, fedele alla sua missione, desidera lavorare di concerto con tutte le iniziative che lottano per la salvaguardia della dignità delle persone, specialmente di quelle che sono ferite nei loro diritti. Perché diventi realtà questa urgente priorità della “fame zero”, vi assicuro tutto il nostro sostegno e appoggio al fine di favorire tutti gli sforzi intrapresi. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere”. In queste parole si trova una delle massime del cristianesimo. Una espressione che, aldilà delle confessioni religiose e delle convinzioni, potrebbe essere offerta come regola d’oro per i nostri popoli. E come per un popolo, così pure per l’intera umanità. L’umanità gioca il proprio futuro nella capacità di farsi carico della fame e della sete dei suoi fratelli. In questa capacità di soccorrere l’affamato e l’assetato possiamo misurare il polso della nostra umanità. Per questo, auspico che la lotta per sradicare la fame e la sete dei nostri fratelli, insieme con i nostri fratelli, continui ad interpellarci; che non ci lasci dormire e ci faccia sognare: le due cose insieme; che ci interpelli al fine di cercare creativamente soluzioni di cambiamento e di trasformazione. E Dio Onnipotente sostenga con la sua benedizione il lavoro delle vostre mani. Grazie. Al personale del Pam il Pontefice raccomanda di non lasciarsi soffocare dai dossier e dalle pratiche Minaccia alla pace «La fame è una delle più grandi minacce alla pace e alla serena convivenza umana». È quanto ribadisce il Papa nel discorso preparato e consegnato al personale del Programma alimentare mondiale durante l’incontro di lunedì 13. Signore e Signori, amici tutti, buongiorno! Sono lieto di incontrarvi in un clima semplice e famigliare, riflesso dello stile che anima la vostra dedizione nel servizio a molti nostri fratelli che oggi trovano in voi uno dei volti solidali dell’umanità. Vorrei anche ricordare i vostri colleghi, che sparsi in tutto il mondo, collaborano con il Programma Alimentare Mondiale. A tutti voi, grazie per la vostra calorosa vicinanza e accoglienza. La Signora Direttrice Esecutiva mi ha spiegato l’importanza del lavoro che voi sviluppate con grande competenza e non pochi sacrifici, in maniera generosa, anche in situazioni difficili e spesso poco sicure per cause naturali o umane. L’ampiezza e la gravità dei problemi che il PAM affronta vi chiedono di andare avanti, mettendo entusiasmo in tutto ciò che fate, senza risparmiarvi, sempre pronti a servire. Per questo conta molto la formazione permanente, una fine intuizione e soprattutto un grande senso di compassione, senza il quale tutto ciò che si è detto prima perderebbe di forza e di senso. Il PAM ha posto un’alta missione nelle vostre mani. Il risultato di essa dipende in gran parte dal non lasciarsi vincere dall’inerzia e mettere in tutto capacità d’iniziativa, immaginazione e professionalità, al fine di cercare ogni giorno vie nuove ed efficaci per sconfiggere la malnutrizione e la fame che soffrono molti esseri umani in diverse parti del mondo. Sono loro che stanno chiedendo che diamo loro la nostra attenzione. Per questo è importante che voi non vi lasciate soffocare dai dossier e riusciate a scoprire che in ogni carta c’è una storia particolare, spesso dolorosa e delicata. Il segreto è quello di vedere dietro ogni pratica un volto umano che chiede aiuto. Ascoltare il grido del povero vi permetterà di non lasciarvi incasellare in freddi formulari. Tutto è poco al fine di sconfiggere un fenomeno così terribile come la fame. La fame è una delle più grandi minacce alla pace e alla serena convivenza umana. Una minaccia che non possiamo limitarci solamente a denunciare o studiare. Bisogna affrontarla con determinazione e risolverla con urgenza. Ognuno di noi, con la propria responsabilità, deve agire nella misura delle sue possibilità per raggiungere una soluzione definitiva a questa miseria umana, che degrada e consuma l’esistenza di un gran numero di nostri fratelli e sorelle. E, al momento di aiutare coloro che la patiscono crudelmente, nessuno è di troppo e può limitarsi a presentare una scusa, pen- sando che è un problema che lo oltrepassa o non lo riguarda. Lo sviluppo umano, sociale, tecnico ed economico è la via obbligata per garantire che ogni persona, famiglia, comunità o popolo possa affrontare le proprie necessità. E questo ci dice che dobbiamo lavorare non per un’idea astratta, non per una difesa teorica della dignità, ma per tutelare la vita concreta di ogni essere umano. Nelle zone più povere e depresse, ciò significa disporre di cibo in caso di emergenze, ma anche fornire l’accesso a mezzi e strumenti tecnici, a posti di lavoro, al microcredito, e così fare in modo che la popolazione locale rafforzi la propria capacità di risposta alle crisi che si presentano all’improvviso. Parlando di questo non mi riferisco solamente alle questioni materiali. Si tratta prima di tutto di un impegno morale che permetta di guardare con responsabilità la persona che ho accanto, come pure l’obiettivo generale di tutto il Programma. Voi siete chiamati a sostenere e difendere questo impegno attraverso un servizio che solo a prima vista può sembrare puramente tecnico. Invece, ciò che voi portate avanti sono azioni che hanno bisogno di una grande forza morale, perché contribuiscono all’edificazione del bene comune in ogni paese e in tutta la comunità internazionale. Di fronte a tante sfide, davanti ai pericoli e ai problemi che sorgono continuamen- te, si ha l’impressione che il futuro dell’umanità consisterà soltanto nel rispondere a prove e rischi sempre più concatenati e difficili da prevedere, sia nella loro ampiezza che nella loro complessità. Lo sapete bene per esperienza. Ma questo non deve scoraggiarci. Incoraggiatevi e aiutatevi a vicenda a non lasciare entrare nel vostro cuore la tentazione della sfiducia o dell’indifferenza. Piuttosto, credete fermamente che l’azione quotidiana di tutti voi sta aiutando a trasformare il nostro mondo in un mondo dal volto umano, in uno spazio che abbia come punti cardinali la compassione, la solidarietà, l’aiuto reciproco e la gratuità. Quanto più grande sarà la vostra generosità, la vostra tenacia, la vostra fede, tanto più la cooperazione multilaterale potrà trovare soluzioni adeguate ai problemi che tanto ci preoccupano, potrà allargare le visuali parziali e interessate e aprire nuove strade alla speranza, all’equo sviluppo umano, alla sostenibilità e alla lotta per arginare le ingiuste disuguaglianze economiche, che tanto feriscono i più vulnerabili. Su ciascuno di voi, sulle vostre famiglie e sul lavoro che svolgete nel PAM, invoco abbondanti benedizioni divine. Vi chiedo di pregare per me, ognuno dentro di sé, o almeno che quando pensate a me lo facciate in positivo. Ne ho molto bisogno. Grazie.