L`OSSERVATORE ROMANO

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L`OSSERVATORE ROMANO
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L’OSSERVATORE ROMANO
GIORNALE QUOTIDIANO
Unicuique suum
Anno CLVI n. 134 (47.269)
POLITICO RELIGIOSO
Non praevalebunt
Città del Vaticano
lunedì-martedì 13-14 giugno 2016
.
Durante la visita al Programma alimentare mondiale il Papa ricorda che la mancanza di cibo deriva dall’iniqua distribuzione delle risorse
Non abituarsi allo spreco e alla fame
E mentre gli aiuti e i piani di sviluppo sono ostacolati, le armi possono circolare liberamente
La mancanza di cibo non è «frutto di un destino cieco»
ma di una «egoista e cattiva distribuzione delle risorse».
Lo ha ricordato il Papa durante la visita alla sede del
Programma alimentare mondiale (Pam), dove si è recato
lunedì mattina, 13 giugno, in occasione dell’apertura della sessione annuale della giunta esecutiva dell’agenzia
dell’Onu impegnata nella lotta contro la fame.
Nel discorso pronunciato di fronte ai rappresentanti
di diversi governi del mondo Francesco ha invitato con
forza a non assuefarsi alle tragedie che colpiscono l’umanità e a non considerare la povertà «come un dato della
realtà tra i tanti», dimenticando, invece, che «la miseria
ha un volto: ha il volto di un bambino, ha il volto di
una famiglia, ha il volto di giovani e anziani», ma anche
«il volto della mancanza di opportunità e di lavoro di
tante persone», il volto «delle migrazioni forzate, delle
case abbandonate o distrutte».
Il Pontefice è tornato a ribadire con chiarezza che la
malnutrizione «non è qualcosa di naturale, non è un dato né ovvio né evidente». È invece la conseguenza di
una «mercantilizzazione degli alimenti» che genera
esclusione e induce «ad abituarci al superfluo e allo
spreco quotidiano di cibo». Tuttavia — è stato il monito
di Francesco — «ci farà bene ricordare che il cibo che si
spreca è come se lo si rubasse dalla mensa del povero, di
colui che ha fame». Un richiamo a «riflettere sul problema della perdita e dello spreco di alimenti, al fine di individuare vie e modalità che, affrontando seriamente tale
problematica, siano veicolo di solidarietà e di condivisione con i più bisognosi».
Dal Papa anche un deciso appello a «de-burocratizzare la fame», rimuovendo gli ostacoli che impediscono ai
piani di sviluppo e alle iniziative umanitarie di realizzare
i loro obiettivi. Il Pontefice ha denunciato in particolare
lo «strano e paradossale fenomeno» per cui gli aiuti alle
vittime della guerra e della fame sono intralciati mentre
le armi «circolano con una spavalda e quasi assoluta libertà in tante parti del mondo». In questo modo, ha affermato, «a nutrirsi sono le guerre e non le persone». In
alcuni casi, oltretutto, «la fame stessa viene usata come
arma di guerra». E così «le vittime si moltiplicano, perché il numero delle persone che muoiono di fame e sfi-
nimento si aggiunge a quello dei combattenti che
muoiono sul campo di battaglia e a quello dei molti civili caduti negli scontri e negli attentati» Da qui la richiesta rivolta agli Stati, sollecitati a incrementare «decisamente l’effettiva volontà di cooperare con il Programma alimentare mondiale» così da permettere di «realizzare progetti solidi e consistenti e programmi di sviluppo a lungo termine» per debellare quella che Francesco
— nel successivo incontro con il personale dell’agenzia —
ha definito «una delle più grandi minacce alla pace e alla serena convivenza umana».
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Dolore e sgomento dopo il massacro perpetrato da un giovane killer in un locale di Orlando, in Florida, mentre l’Is rivendica l’attacco
Strage dell’odio
WASHINGTON, 13. «Un atto di terrore e di odio». È con il volto tirato
delle occasioni più tristi che il presidente statunitense, Barack Obama,
ha pronunciato ieri queste parole per
definire la terribile strage avvenuta
sabato notte a Orlando, in Florida,
in un locale frequentato soprattutto
da omosessuali. Il bilancio parla di
cinquanta persone uccise e 53 ferite,
molti giovanissimi. Il killer, ucciso
dalla polizia, era affiliato al cosiddetto Stato islamico (Is). È la sparatoria più sanguinosa della storia
americana e in assoluto la strage più
grave dopo l’11 settembre 2001. Obama ha ordinato bandiera a mezz’asta
fino a giovedì su tutti gli edifici
pubblici. Immediato il cordoglio internazionale: per il presidente russo,
Vladimir Putin, si è trattato di «un
crimine barbaro», e nello stesso modo si sono espressi il capo di Stato
cinese, Xi Jinping, e i principali leader dell’Unione europea.
«La terribile strage avvenuta a
Orlando, con un numero altissimo
di vittime innocenti, ha suscitato in
y(7HA3J1*QSSKKM( +.!z!.!=!&!
La persecuzione
dei cristiani in Medio oriente
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Papa Francesco e in tutti noi i sentimenti più profondi di esecrazione e
di condanna, di dolore e di turbamento di fronte a questa nuova manifestazione di follia omicida e di
odio insensato» ha dichiarato il direttore della Sala stampa della Santa
Sede, il gesuita Federico Lombardi.
«Papa Francesco — si legge ancora
nella dichiarazione — si unisce nella
preghiera e nella compassione alla
sofferenza indicibile delle famiglie
delle vittime e dei feriti e li raccomanda al Signore perché possano
trovare conforto. Tutti ci auguriamo
che si possano individuare e contrastare efficacemente al più presto le
cause di questa violenza orribile e
assurda, che turba così profondamente il desiderio di pace del popolo americano e di tutta l’umanità».
Condanna della strage di Orlando è
giunta anche dalla Conferenza episcopale statunitense, il cui presidente, Joseph E. Kurtz, arcivescovo di
Louisville, ha parlato di «violenze
inenarrabili».
Una dura presa di posizione è stata espressa anche dal mondo musulmano statunitense. «Nessuno si sarebbe potuto aspettare questo, nessuno poteva essere preparato per
questo, avrebbe potuto succedere
ovunque» ha sottolineato Muhammad Musri, presidente della Islamic
Society della Florida centrale, ringraziando le forze dell’ordine. «Orlando è una città sicura. Preghiamo
per le vittime con i fedeli delle altre
religioni» ha aggiunto. Numerosi altri esponenti della comunità musulmana hanno chiesto ai media di non
speculare su quanto accaduto.
Prosegue il lavoro degli investigatori: sono state identificate finora 48
vittime. Polemiche, intanto, sono
esplose sulla sicurezza, e in particolare sull’Fbi. Il killer, identificato come Omar Mir Saddiq Maten, 29 anni, cittadino americano di famiglia
afghana, era stato interrogato tre
volte dai federali, due nel 2013 e una
nel 2014, per sospetti legami al terrorismo. Ciò nonostante, ha potuto acquistare legalmente un fucile e una
pistola la settimana scorsa. Ieri
un’agenzia legata all’Is ha rivendicato l’azione. Oggi la polizia ha confermato che il killer «aveva giurato
fedeltà» all’organizzazione jihadista
di Al Baghdadi.
Difficile ricostruire con esattezza
la dinamica degli eventi. Si sa soltanto che la strage è scattata alle due
del mattino, tra sabato e domenica
scorsi. A quell’ora il killer si presenta
davanti al Pulse, noto locale nel
downtown di Orlando, frequentato
soprattutto da omosessuali, lesbiche,
bisessuali e transessuali. Quella notte sono presenti almeno trecento
persone. Il servizio di sicurezza è ridotto al minimo: un solo uomo,
all’entrata. È lui la prima vittima del
killer, che, armato di tutto punto,
con un fucile d’assalto modello Ar15, una pistola e diverse granate,
apre il fuoco per entrare. Poco pri-
ma Omar Mir Saddiq Maten avrebbe chiamato il 911, il numero delle
emergenze, annunciando una strage
«nel nome dell’Is».
Una volta entrato, il giovane agisce con calcolata freddezza. Superata la security, arriva correndo al
“lounge”, la parte più ampia del locale, dove inizia a sparare all’impazzata, uccidendo decine di persone
intorno a lui. Subito dopo — ma
questa è la fase più oscura di tutta la
vicenda — il killer prende in ostaggio
una decina di persone con l’obiettivo di usarle come “scudo” contro la
polizia. L’irruzione delle forze
dell’ordine arriva solo alle cinque del
mattino, tre ore dopo l’inizio dell’inferno. Segue un’intensa sparatoria,
nella quale un agente è colpito alla
testa — resterà vivo, protetto dall’elmetto — e il killer ucciso.
Un discorso di Pio
XII
Anche se crollasse
San Pietro
MARC LINDEIJER
A PAGINA
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NOSTRE
INFORMAZIONI
Fiori per le vittime nella strage di Orlando (Ap)
Il Santo Padre ha nominato
Nunzio Apostolico in Swaziland Sua Eccellenza Reverendissima
Monsignor
Peter
Bryan Wells, Arcivescovo titolare di Marcianopoli, Nunzio
Apostolico in Sud Africa, Botswana, Lesotho e Namibia.
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lunedì-martedì 13-14 giugno 2016
Contro l’uscita dall’Unione europea si schiera anche il primate anglicano Justin Welby
Brexit non è solo economia
Testa a testa nei sondaggi tra favorevoli e contrari
LONDRA, 13. «L’uscita della Gran
Bretagna dalla Ue sarebbe una battuta d’arresto non solo economica
ma geopolitica». È quanto sostiene
il presidente del Consiglio europeo,
Donald Tusk.
L’analisi poi si fa grave anche
guardando all’Unione europea. Se-
In migliaia
salvati
nel Canale
di Sicilia
BRUXELLES, 13. In difficoltà 200
persone a bordo di un barcone al
largo dell’isola greca di Creta. Per
la Guardia costiera, che ha intercettato un messaggio di Sos, non
è facile la localizzazione per intervenire. Sono in salvo, invece, fortunatamente gli oltre 1300 migranti scortati sulle coste della Sicilia dopo essere stati tratti in salvo nell’arco di una giornata. Diverse le imbarcazioni e diversi i
porti di attracco ma uguale la dinamica. Al momento sembra ci
sia solo una persona che ha perso
la vita. E sono stati fermati quattro presunti scafisti.
Guardando alla Grecia, si trova
anche un altro scenario. Non
quello di chi sta arrivando ma di
chi, arrivato da tempo, attende di
capire la propria sorte. Al nord, al
confine con la ex Repubblica jugoslava di Macedonia, 3000 migranti rimangono nei tre diversi
campi allestiti ma altri sono diretti in altri alloggi creati per poterli
ospitare a nord di Salonicco.
Si tratta delle persone che lo
scorso mese hanno lasciato il
campo profughi di Idomeni, il
più grande del Paese, dove le
condizioni erano ormai diventate
inaccettabili.
Intanto a Ventimiglia, al nord
dell’Italia, si prepara l’allestimento del centro di accoglienza transitorio al Parco merci delle Ferrovie, per i migranti che erano stati
ospitati nei locali della chiesa, che
però non aveva strutture idonee,
e che in un primo momento si era
pensato di far sostare nel Palazzetto dello sport. La proposta però ha sollevato le proteste dei genitori dei 300 ragazzi che usufruiscono delle strutture ricreative.
condo Tusk, infatti, il voto favorevole all’uscita del Regno Unito «potrebbe essere l’inizio della distruzione non solo dell’Unione europea,
ma di tutta la civiltà politica
dell’O ccidente».
Guardando alla campagna elettorale in Gran Bretagna, in vista del
referendum fissato per il 23 giugno,
bisogna riferire dell’ultimo intervento del premier David Cameron, che,
nel caso in cui prevalga il sì al divorzio dall’Ue, intravede austerity, nuovi tagli alla sanità e alle pensioni.
Il primo ministro del partito conservatore Tory, che ha scelto di portare il Paese al referendum perché,
dopo tanto dibattito interno, ci fosse
un pronunciamento netto della popolazione, ora usa parole chiare ma
allarmate. Votare la Brexit «significherebbe portare il Paese dieci anni
indietro». E fa leva su argomenti cari al pragmatismo inglese. Afferma
che con la Brexit potrebbero venir
meno alle casse del regno «fra 20 e
40 miliardi di sterline».
George Osborne, cancelliere dello
Scacchiere e titolare del Tesoro, ipo-
tizza, fra gli effetti della Brexit, pure
un buco di «1-1,5 miliardi di sterline
all’anno al bilancio della Difesa, e
dunque alla sicurezza nazionale».
Un appello forte a rifiutare la Brexit arriva all’elettorato di sinistra anche dal leader del Labour, Jeremy
Corbyn, finora accusato da alcuni di
essere stato piuttosto tiepido.
Precisamente schierato contro
l’ipotesi del divorzio dall’Europa,
anche l’arcivescovo di Canterbury,
primate anglicano, Justin Welby, che
invita a «costruire ponti, non barriere», e dunque a non scavare un fossato con l’Europa.
Contro la Brexit si moltiplicano
anche i pronunciamenti di economisti internazionali.
Ma nessuno scuote gli euroscettici. Nigel Farage, capofila del partito
Ukip, risponde che «gli elettori sono
stanchi di essere minacciati dai profeti di sventura». C’è poi Iain Duncan Smith, ministro del Lavoro e
della Previdenza sociale fino ad appena due mesi fa, che liquida i toni
di Cameron alla stregua di «propaganda» e «minacce senza fondamen-
Gravi scontri a Marsiglia, Nizza e Lille
Party
lungo il Mall
Agli Europei
poco calcio e molta violenza
LONDRA, 13. In una tipica uggiosa
domenica londinese, si sono conclusi ieri, domenica, i festeggiamenti per i novant’anni della
regina Elisabetta II. Evento principale, lo street party organizzato
lungo il Mall, il viale che conduce
a Buckingham Palace. Migliaia di
tavolini sono stati disposti lungo la
strada e nell’adiacente St. James
Park per accogliere la folla desiderosa di festeggiare la sovrana. I
media hanno parlato di almeno
10.000 persone che hanno preso
parte all’evento. «La vostra presenza ci ricorda quanto conti che le
POD GORICA, 13. Il Parlamento del
Montenegro voterà il 16 giugno
prossimo sull’ingresso del Paese
nella Nato. A convocare la seduta, riferiscono i media locali, è
stato ieri il presidente dell’Assemblea Darko Pajović. Il 19 maggio
scorso il Montenegro aveva firmato con la Nato il protocollo di accesso, un passo fortemente osteggiato dalla Russia, che si oppone
a un allargamento a est della Nato e a un suo avvicinamento ai
propri confini. L’adesione a pieno
titolo del Montenegro alla Nato
avverrà dopo la ratifica di tale
documento da parte di tutti gli
altri 28 Stati membri dell’Alleanza. Un sondaggio pubblicato a fine maggio ha rivelato che l’adesione alla Nato è appoggiata dal
46,6 per cento dei montenegrini,
mentre i contrari sono il 38,8, con
un 14,6 di indecisi.
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Il premier britannico in un comizio a Londra (Afp)
Conclusi a Londra i festeggiamenti per i 90 anni della regina
persone si mettano insieme per aiutare gli altri» ha detto la regina,
ringraziando la folla e dicendosi
«felice e commossa» per i molti
messaggi di auguri ricevuti. In precedenza è stato il principe William,
nipote della sovrana, a ringraziare i
partecipanti e a sottolineare l’importanza dell’evento. William ha
reso omaggio alla regina come a
una «leader rispettata nel mondo»
e «una guida destinata a portare
ancora avanti la Nazione». Ne ha
quindi sottolineato i meriti, ma anche la salute tuttora vigorosa e «il
sense of humor».
Il Montenegro
vota sull’adesione
alla Nato
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to». Ricorda quelli che considera
scenari da incubo in conseguenza
delle migrazioni, vero punto sensibile dei sostenitori della Brexit, definiti sulla stampa britannica brexiters.
Nelle decine di studi, pubblicati
da quando David Cameron ha lanciato l’idea del referendum sulla Ue,
le visioni sono contrapposte. C’è da
dire che su due punti alla fine gli
esperti finiscono per concordare. Il
primo è che, in assenza di precedenti, nessuno può prevedere con esattezza le conseguenze socio-economiche di un’uscita dall’Ue. Il secondo
è che, in caso di Brexit, tutto dipenderà dalla capacità di Londra di rinegoziare gli accordi commerciali. A
cominciare da quelli con i 27 ex partner della Ue, che globalmente sono
il primo referente del Regno Unito,
con oltre il 50 per cento degli scambi. E, poi, con i 38 Paesi con cui
l’Europa ha fatto accordi che valgono anche per Londra. Ma il punto è
che in molti ribadiscono che se il
Regno Unito sceglie di restare fuori
dal mercato unico, così sarà, e non
potrà rientrare a diverso titolo.
PARIGI, 13. La Uefa (l’Unione delle
associazioni calcistiche europee) ha
avvertito Russia e Inghilterra: ai
prossimi incidenti tra tifosi, entrambe le squadre saranno fuori dai campionati europei. «Sono comportamenti inaccettabili — ha fatto sapere
la Uefa — disgustosi da parte di
pseudo-tifosi che non dovrebbero
trovare spazio nel mondo del calcio.
Uno sport che dobbiamo proteggere
e difendere». Questa la principale
conseguenza internazionale di quanto accaduto nei giorni scorsi con terribili scontri tra tifosi in diverse città
francesi, soprattutto Marsiglia. Il bilancio parla da solo: quattro persone
sono gravi negli ospedali di Marsiglia, un inglese di una cinquantina
d’anni è in fin di vita, aggredito da
un russo che gli è saltato sopra a
piedi uniti fino a lasciarlo in arresto
cardiaco. I feriti sono 35, più tre poliziotti contusi. Laurent Nunez, il
prefetto di Marsiglia, ha fatto sapere
che il tifoso inglese più grave è «stabile». In cella sono finiti in dieci, di
diverse nazionalità, ma soprattutto
britannici. Oggi compariranno in tribunale e saranno giudicati per direttissima.
I media hanno sottolineato più
volte l’inadeguatezza delle misure di
sicurezza: a fronteggiare le due tifoserie c’erano solo 1200 agenti. Il Governo britannico si è offerto di inviare rinforzi per prevenire nuove vio-
lenze. Gravi scontri sono stati segnalati ieri anche a Nizza, tra francesi,
nordirlandesi e polacchi alla vigilia
di Polonia-Irlanda del nord: bilancio
di nove feriti e tre fermati. Alta tensione anche a Parigi, dove si giocava
un’altra delle cinque partite a rischio, Turchia-Croazia. Segnalati, in
questo caso, solo disordini: 15 fermi
fra i dintorni dello stadio e quelli
della fan zone di Campo di Marte.
A Lille, alla vigilia di GermaniaUcraina, trenta tedeschi hanno assalito i dirimpettai ucraini nella principale piazza della città. Qualche ferito medicato sul posto, un fermo.
Al Senato francese la legge sul lavoro
e il sindacato rilancia la protesta
PARIGI, 13. La contestata riforma
del codice del lavoro è all’esame
del Senato francese e il principale
sindacato dei lavoratori, Cgt, annuncia una manifestazione nazionale «imponente» per martedì. La
Francia è già alle prese con le conseguenze di giorni di scioperi, proteste e ora anche delle violenze degli hooligan che hanno segnato
l’inizio degli europei di calcio Euro
2016.
I senatori, in maggioranza su
posizioni di destra, avranno il progetto di legge in esame sino al 24
giugno. Un voto decisivo è in
agenda per il 28 giugno. Solo dopo questo voto, il testo passerà
all’esame di una commissione mista
Riunione intergovernativa
tra Cina e Germania
La regina Elisabetta
GIOVANNI MARIA VIAN
direttore responsabile
Giuseppe Fiorentino
vicedirettore
Piero Di Domenicantonio
II
(Reuters)
Servizio vaticano: [email protected]
Servizio internazionale: [email protected]
Servizio culturale: [email protected]
Servizio religioso: [email protected]
caporedattore
Gaetano Vallini
segretario di redazione
Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998
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PECHINO, 13. Angela Merkel è arrivata a Pechino per la quarta edizione del Consiglio dei ministri congiunto tra Cina e Germania. È la
nona visita del cancelliere tedesco a
suggello delle relazioni molto intense tra Berlino e Pechino.
Durante le consultazioni il cancelliere tedesco intende affrontare il
tema dell’eccessiva produzione industriale cinese, soprattutto nel settore metallurgico, secondo quanto
reso noto dalla stessa Angela Merkel in una dichiarazione. Il cancelliere, che è accompagnata da sei mi-
Segreteria di redazione
telefono 06 698 83461, 06 698 84442
fax 06 698 83675
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Tipografia Vaticana
Editrice L’Osservatore Romano
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
nistri e cinque sottosegretari con i
quali parteciperà oggi alla riunione
dei ministri congiunta, ha tenuto ieri un discorso all’Accademia cinese
di Scienze e poi ha avuto un primo
incontro con il premier cinese, Li
Keqiang.
Nel frattempo, sono cinque i feriti nella duplice esplosione registrata
ieri pomeriggio all’aeroporto internazionale di Shanghai, a causa di
un ordigno rudimentale lanciato da
un uomo. Ignote per ora natura e
motivazioni del gesto.
Tariffe di abbonamento
Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198
Europa: € 410; $ 605
Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665
America Nord, Oceania: € 500; $ 740
Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30):
telefono 06 698 99480, 06 698 99483
fax 06 69885164, 06 698 82818,
[email protected] [email protected]
Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675
paritaria dei due rami del Parlamento, cioè Assemblea nazionale e
Senato, incaricata di trovare un accordo.
Bisogna ricordare che il governo
ha fatto approvare all’Assemblea
nazionale tramite l’articolo 49-3,
che ne impone l’adozione escludendo il voto. Si tratta di un’arma
che la Costituzione autorizza, che
ha sollevato comunque grandi polemiche e proteste in Francia, ma
che al Senato non può essere adottata.
Ma, in caso di fallimento del voto della commissione mista, è l’Assemblea nazionale che avrà l’ultima
parola e lo scenario ritenuto più
probabile in questo caso è che il
primo ministro, Manuel Valls, torni
a utilizzare l'articolo 49-3.
Nell’esame del Senato non è prevista la modifica del punto più
contestato, il principio di inversione della gerarchia delle norme, con
il primato dell’accordo d’impresa
sull’accordo di settore. Questa disposizione divide la sinistra ed è il
cavallo di battaglia del sindacato,
che da oltre tre mesi ha organizzato manifestazioni di piazza, e
astensioni dal lavoro in vari settori.
La stampa riferisce di una maggioranza dell’opinione pubblica francese che, malgrado la tradizionale
solidarietà del Paese con le vertenze di settore, è stanca dei molti e
prolungati disservizi. Da parte sua,
il segretario generale del Cgt, Philippe Martinez, assicura che martedì i manifestanti daranno «prova di
una mobilitazione mai vista»
dall’inizio delle manifestazioni.
Concessionaria di pubblicità
Aziende promotrici della diffusione
Il Sole 24 Ore S.p.A.
System Comunicazione Pubblicitaria
Ivan Ranza, direttore generale
Sede legale
Via Monte Rosa 91, 20149 Milano
telefono 02 30221/3003, fax 02 30223214
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Ospedale Pediatrico Bambino Gesù
Società Cattolica di Assicurazione
Credito Valtellinese
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Civili scavano
tra le macerie a Idlib (Reuters)
I cecchini dell’Is frenano le forze libiche
Senza tregua la battaglia
per liberare Sirte
TRIPOLI, 13. È di quattro morti e 17
feriti il bilancio degli scontri tra milizie filogovernative libiche e i combattenti del cosiddetto Stato islamico (Is) avvenuti ieri nella città di
Sirte: le vittime sono miliziani provenienti da Misurata, Tarhuna e Tri-
Ampio
rimpasto
nel Governo
algerino
ALGERI, 13. Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, ha disposto un nuovo rimpasto di Governo, il quinto da quando c’è il
premier Abdelmalik Sellal, confermato alla guida dell’Esecutivo.
Lo ha reso noto sabato sera la
presidenza della Repubblica, attraverso un comunicato.
Il capo dello Stato algerino ha
sostituito il ministro dell’Energia,
Khebri Salah, con il direttore generale della società nazionale di
Sonelgaz, Noureddine Bouterfa.
Altro cambio importante al vertice del dicastero delle Finanze,
dove Abderrahmane Benkhalfa è
stato sostituito da Baba Ammi,
responsabile delle politiche monetarie presso lo stesso Ministero.
Il ministro del Turismo, Ammar
Ghoul, è stato invece sostituito
dal ministro delle Risorse idriche,
Abdelouaheb Nouri.
Inoltre, Ghania Idalia, deputata del Fronte di liberazione nazionale (Fln) eletta nella circoscrizione di Blida (45 chilometri
a sud-est di Algeri), è stata nominata ministro delle Relazioni con
il Parlamento. All’attuale ministro dei Trasporti, Boudjemaa Talai, è stato aggiunto anche il portafoglio dei Lavori Pubblici.
Sotto la pressione del crollo
dei prezzi dei prodotti petroliferi,
la sua principale risorsa, l’Algeria
si è vista poco a poco costretta a
ridurre tutte le uscite statali.
L’ultimo capitolo di spesa in ordine di tempo che il Governo algerino sta affrontando è quello
delle pensioni: al termine della
recente riunione cosiddetta “tripartita” con i sindacati dei lavoratori e le associazioni degli imprenditori, il premier ha annunciato la creazione di una commissione incaricata di riformare il sistema pensionistico del Paese.
I proventi petroliferi dell’Algeria nei primi sei mesi del 2016 sono crollati del 40 per cento rispetto allo stesso periodo del
2015: ciò sta avendo un effetto
negativo sulla bilancia commerciale, il cui deficit quest’anno dovrebbe arrivare a 30 miliardi di
dollari (26,3 miliardi di euro) e
sul deficit dello Stato.
poli. Ad annunciarlo è stata una
fonte militare delle forze fedeli al
Governo di accordo nazionale riferendo dei continui scontri con i miliziani dell’Is trincerati nella città.
Le difficoltà delle forze del premier libico designato, Fayez Al Sarraj, sono legate alla presenza dei
cecchini dell’Is piazzati sui tetti dei
palazzi. Ieri, inoltre, tre attentatori
suicidi alla guida di veicoli bomba
si sono fatti esplodere contro le forze governative. Lo ha reso noto un
comunicato dell’operazione militare
Al Bunian Al Marsus, guidata dalle
milizie alleate del Governo di Tripoli, precisando poco dopo che l’ospedale di Misurata ha ricevuto «un
soldato morto e quattro feriti negli
attentati suicidi di oggi».
Una delle tre autobombe è esplosa vicino a un ospedale da campo
di Sirte. Gli aerei da guerra impegnati nell’operazione contro i jihadisti hanno compiuto 150 raid contro i
siti dell’Is dalla liberazione di Abu
Ghrein, 110 chilometri a sud-est di
Misurata, fino all’ingresso delle
truppe di terra nel centro di Sirte,
roccaforte del gruppo estremista in
Libia.
Nel fine settimana, le forze di Tripoli hanno pubblicato una mappa
secondo cui l’Is controlla ormai solo
20 chilometri quadrati di territorio
nell’area di Sirte: l’11 maggio, invece, i jihadisti controllavano un’area
pari a 9924 chilometri quadrati, da
Ben Giauad ad Abu Ghrein.
L’inviato speciale delle Nazioni
Unite per la Libia, Martin Kobler,
si è detto «colpito» dai rapidi progressi delle forze militari del Governo di accordo nazionale di Tripoli
contro l’Is a Sirte. Il diplomatico tedesco delle Nazioni Unite — citato
dalle agenzie internazionali — ha
lanciato un appello alla comunità
internazionale per inviare forniture
mediche in Libia. L’ospedale di Misurata, infatti, fronteggia un crescente numero di feriti provenienti
dal fronte di Sirte. Kobler, inoltre,
ha voluto «ricordare a tutti i combattenti di rispettare il diritto umanitario internazionale» e che «i civili non devono essere colpiti».
Raid su Idlib
DAMASCO, 13. Nuove violenze in Siria. In una serie di
raid aerei nella provincia nord-occidentale di Idlib sono
morte ieri almeno ventisette persone, tra cui quattro
bambini. In particolare a Idlib è stato colpito — stando
a diverse fonti locali — un mercato. Le vittime: 21 civili.
In un altro raid nella vicina Maaret Al Numan è stato
bombardato un condominio. Sei i morti, tra i quali una
madre e i suoi quattro bambini rimasti intrappolati tra
le macerie. I jihadisti dello Stato islamico (Is) hanno
intanto rivendicato il duplice attentato che due giorni
fa, sabato, ha devastato il santuario sciita di Sayyida
Zeinab, nei pressi di Damasco. La rivendicazione è stata
diramata dall’agenzia Amaq, ritenuta vicina ai terroristi.
I morti — secondo fonti dell’opposizione — sono almeno venti, tra i quali tredici civili. Lo scorso 21 febbraio
l’Is aveva rivendicato una serie di esplosioni nella stessa
zona, con decine di vittime. Situato a una decina di
chilometri a sud di Damasco, il santuario è un luogo
sacro per gli sciiti ed è stato spesso obiettivo del jihadismo sunnita.
Massacro in un villaggio nel nord-est della Nigeria
Da un drone statunitense nella provincia di Chabwa
Donne nel mirino di Boko Haram
Uccisi nello Yemen
due terroristi di Al Qaeda
Gruppo di donne rapite da Boko Haram e poi liberate
ABUJA, 13. Ancora violenza da parte
dei fondamentalisti di Boko Haram
in Nigeria. Quattro donne sono state barbaramente uccise in un villaggio nel nord-est. Secondo quanto riferito dalle milizie che lottano contro i ribelli islamisti, una quindicina
di assalitori in moto sono arrivati venerdì nel villaggio di Mairari, a 80
chilometri da Maiduguri, hanno fat-
to uscire di casa le donne, tutte dai
27 ai 45 anni di età, e le hanno uccise. I testimoni dicono che le donne
erano mogli di uomini che si erano
rifiutati di unirsi ai guerriglieri
islamisti. Intanto, l’esercito nigeriano ha confermato ieri sera l’uccisione di dieci presunti combattenti di
Boko Haram in un’operazione
lanciata a Gamboru Ngala, nello
Braccio di ferro tra Governo e opposizione sulla data del referendum contro Maduro
Venezuela sempre più instabile
CARACAS, 13. Il quadro politico venezuelano è sempre più scosso dalle
dure polemiche tra Governo e opposizione. E questo soprattutto per
quanto riguarda la proposta dell’opposizione di tenere un referendum
per abrogare il mandato del presidente Nicolás Maduro. La proposta
ha raccolto finora 1,8 milioni di firme, mentre si fa sempre più drammatica la crisi economica, sociale e
istituzionale.
Dopo che la Commissione nazionale elettorale (Cne) ha dichiarato
invalide oltre seicentomila firme,
provocando le proteste dei leader
dell’opposizione, Maduro, durante
un comizio a Caracas, ha affermato
ieri che «se tutti i requisiti saranno
soddisfatti, il referendum sarà indetto il prossimo anno. Se non li
avranno rispettati non ci sarà referendum, punto e basta». Il presi-
Nella città siriana almeno ventisette persone morte sotto le bombe
dente inoltre ha accusato l’opposizione di frode, annunciando che
chiederà alla Corte Suprema di annullare il processo di ratificazione.
L’opposizione ritiene legittime le
firme raccolte e vuole votare entro il
prossimo 10 gennaio. E questo perché se vincesse il “sì” non solo Maduro, ma l’intero Governo dovrebbe
dimettersi e nuove elezioni presidenziali verrebbero indette 30 giorni
dopo la consultazione. Il problema
è che, se il referendum si svolgerà
dopo il 10 gennaio, anche in caso di
vittoria del “sì”, il Governo resterebbe comunque al suo posto: la presidenza verrebbe assunta dal vicepresidente fino alla fine naturale del
mandato di Maduro nel gennaio
2019. Nel frattempo, il Cne ha chiesto di verificare le firme irregolari
attraverso le impronte digitali, mentre il portavoce della Mud (Tavolo
dell’unità democratica, la coalizione
delle forze dell’opposizione), Jesus
Torrealba, ha dichiarato che «un venezuelano su tre è ora indignato per
essere stato escluso, perché ha visto
sparire la propria firma».
Sul piano sociale, la situazione è
allo sbando. Nelle ultime settimane
ci sono state numerose proteste di
cittadini esasperati dalla crisi economica e alimentare che dura da anni.
La popolazione reclama generi alimentari di prima necessità e farmaci, mentre negli ultimi giorni si sono
verificati rivolte, saccheggi, assalti ai
supermercati e camion di derrate.
Numerosi anche gli scontri tra manifestanti e polizia. Ieri un giovane
è rimasto ucciso durante una protesta nel nord del Paese e dodici persone sono rimaste ferite. Il ministero
degli Interni ha già avviato un’inchiesta.
Stato del Borno. Lo riportano i media locali.
In questo quadro, il coordinatore
umanitario delle Nazioni Unite in
Niger, Fodé Ndiaye, ha lanciato ieri
un appello alla comunità internazionale per chiedere l’invio di aiuti alla
popolazione dopo i massici attacchi
di Boko Haram a Bosso, nel sud-est
del Niger.
SANA’A, 13. Due membri di Al Qaeda nella penisola arabica (Aqpa) sono stati uccisi ieri nell’attacco di un
drone statunitense nel sud dello Yemen. L’aereo senza pilota ha preso
di mira una vettura che circolava ad
Habbana, una località nella provincia di Chabwa, «uccidendo due
combattenti di Al Qaeda e ferendo
l’autista», ha reso noto una fonte
della sicurezza locale. È stato il secondo attacco in due giorni contro
membri di Al Qaeda nello Yemen,
dopo la morte sabato di due jihadisti uccisi, sempre da un drone statunitense, nella provincia di Marib,
a est della capitale Sana’a.
I terroristi di Al Qaeda e del cosiddetto Stato islamico (Is) hanno
approfittato del conflitto tra le forze del legittimo presidente Abd
Rabbo Mansour Hadi e i ribelli
huthi per allargare la loro influenza
nel sud e nel sud-est del Paese.
L’Amministrazione Obama ha autorizzato i raid — che avvengono regolarmente — contro i fondamentalisti, come nello scorso marzo quando decine di jihadisti sono stati uccisi in un campo di addestramento
a ovest di Mukalla. Gli Stati Uniti
considerano questa branca di Al
Qaeda nello Yemen come una delle
più pericolose.
E intanto, il vice principe ereditario e ministro della Difesa dell’Arabia Saudita, Mohammad bin Sal-
Migliaia di estremisti islamici
arrestati nel Bangladesh
DACCA, 13. Il primo ministro del
Bangladesh, Sheikh Hasina, ha detto ieri che le autorità stanno facendo
di tutto per dare una battuta d’arresto alle uccisioni di minoranze religiose e attivisti atei nel Paese. Intanto la polizia del Bangladesh ha finora arrestato 3192 persone delle quali
37 sarebbero militanti di gruppi
estremisti clandestini illegali, secondo quanto riferisce il quotidiano
«Daily Star» citando il quartier generale della polizia.
L’iniziativa delle autorità fa seguito a una serie di omicidi di membri
di minoranze religiose, blogger laici,
attivisti per i diritti umani e professori universitari che, dal 2013 a oggi,
conta circa 40 delitti. Hasina ha detto che le autorità «faranno tutto ciò
che è necessario per fermare questi
omicidi»,
affermando
che
la
responsabilità di questi atti di criminalità sarebbe da ascrivere al gruppo
di opposizione islamista Jamaat-eislami.
Almeno 27 dei 37 militanti arrestati erano membri del Jamaatul Mujahideen Bangladesh, ha riferito il
portavoce della polizia, Kamrul
Ahsan. Altri sette appartenevano alla Jagrata Muslim Janata Bangladesh, un altro gruppo islamista radicale, mentre gli altri tre facevano parte
di organizzazioni che si battono per
l’introduzione della sharia, la legge
islamica, nel Paese del sud asiatico a
maggioranza musulmana.
Secondo quanto ha riferito l’ispettore generale della polizia, Shahidul
Hoque, il giro di vite a livello
nazionale continuerà fino a giovedì
prossimo. Nel corso dell’operazione
antiterrorismo nel fine settimana
sono stati sequestrati armi da fuoco,
polvere da sparo e 15 bombe artigianali in possesso dei militanti
arrestati.
man, giunge oggi negli Stati Uniti
per una visita ufficiale incentrata
sulle relazioni bilaterali e «le questioni regionali di interesse comune», dominate dalla crisi siriana,
dall’Iraq, lo Yemen, la Libia e la
lotta contro il gruppo jihadista del
cosiddetto Stato islamico (Is).
Scontri al confine
tra militari
afghani e pakistani
ISLAMABAD, 13. Militari afghani e
pakistani hanno ingaggiato ieri
sera uno scontro a fuoco all’altezza del posto di frontiera di
Torkham. Il bilancio parla di un
soldato pakistano ferito. L’incidente è avvenuto nella località di
confine che collega la provincia
pakistana di Khyber Pakhtunkhwa a quella afghana di Nangarhar. In questa zona, dopo
l’uccisione del leader dei talebani
afghani, mullah Akhtar Manosur, si sono moltiplicate le tensioni. In un comunicato l’ufficio
stampa dell’esercito pakistano
(Ispr) ha confermato sia la sparatoria sia il ferimento di un militare nella zona, dove le autorità
di Islamabad stanno costruendo
un check-point «per evitare l’ingresso in territorio pakistano di
terroristi dall’Afghanistan». Un
giornalista afghano residente vicino al luogo dove è avvenuto
l’incidente ha indicato all’Ansa
che «la sparatoria è stata causata
dalla determinazione afghana di
impedire alle forze militari pakistane di installare a Torkham un
posto di controllo».
E, intanto, il leader di Al Qaeda, Ayman Al Zawahri, ha dichiarato fedeltà a Haibatullah
Akhundzada, il nuovo capo dei
talebani scelto dagli afghani dopo l’uccisione di Mansour.
Il sostegno al nuovo leader
dei talebani è giunto attraverso
un messaggio audio di 14 minuti
postato su internet. Come leader
di Al Qaeda «vi do la mia fedeltà, rinnovando la tradizione stabilita dal nostro capo Osama bin
Laden», ha detto Al Zawahri.
La voce afferma che Al Qaeda
«ha pianto la morte del mullah
Mansour», che era stato scelto
per la guida dei talebani dopo la
conferma, nell’estate 2015, della
morte del fondatore dei talebani
afghani, mullah Omar.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 4
lunedì-martedì 13-14 giugno 2016
Un discorso dell’ultimo Papa romano
Anche se crollasse
San Pietro
Anticipiamo stralci dall’intervento che il gesuita vicepostulatore della causa di beatificazione di Eugenio Pacelli tiene il 13 giugno
a Roma.
di MARC LINDEIJER
stato il primo Papa moderno,
Pio XII, Pontefice delle masse
e dei media. Ma è stato anche
— almeno per il momento —
l’ultimo vescovo romano di
Roma. Riconosciuto subito come tale
quando fu eletto: già al nome Eugenio la
folla in piazza San Pietro scoppiò in liete
grida per dare il benvenuto a Papa Pacelli. La stessa partecipazione ci fu quando,
quasi vent’anni dopo, morì. Fanno ancora commovente impressione i filmati del
suo corteo funebre che scorreva lungo e
lento nelle vespertine strade di Roma.
«Nostra città natale ed episcopale»,
così Pio XII chiamò Roma davanti a settemila giovani degli istituti medi superiori della città, ricevuti in udienza il 30
gennaio 1949: «Nostra città natale ed
episcopale, a Noi quindi doppiamente
unita», disse il Papa ai ragazzi che l’ave-
È
vano salutato con grande entusiasmo, «in
un crescendo di filiale esultanza e affetto».
Questo duplice titolo valeva infatti per
tutti i romani. Basti vedere il numero di
udienze concesse alle loro rappresentanze, basti vedere quanto spesso Pacelli
parlasse di Roma per capire come la città
gli fosse carissima. Il primo gennaio
1949, accogliendo in udienza il sindaco
Rebecchini e gli assessori, il Papa lodò il
loro lavoro di ricostruzione della città,
ancora segnata dalla guerra, e di progressivo ritorno a una normale vita, lavoro
ispirato «alle millenarie e gloriose tradizioni religiose e civili dell’Urbe». Vide
un chiaro legame tra l’opera sociale, già
propagata dall’imperatore Marco Aurelio,
e l’amore vicendevole comandato da Gesù Cristo. «Possa questo amore», augurò
al sindaco di Roma il suo vescovo, «questo amore, che semina il bene e lo dispensa nella serena letizia del cuore, unire con indissolubili vincoli tutti i figli di
Roma, gli amministratori e gli amministrati, quelli che danno e quelli che ricevono, avvicinandoli tutti a Dio!».
È noto come Pacelli ponderasse le sue
parole, cercando sempre il giusto equili-
scovile. Qui, nel circo di Nerone (...),
egli morì come confessore di Cristo; sotto il punto centrale della Cupola gigantesca era ed è il luogo del sepolcro di
lui». Se mai un giorno «la Roma materiale dovesse crollare, se mai questa stessa
Basilica Vaticana, simbolo dell’una, invincibile e vittoriosa Chiesa cattolica, dovesse seppellire sotto le sue rovine i tesori storici, le sacre tombe che essa racchiude, anche allora la Chiesa non sarebbe
né abbattuta né screpolata; rimarrebbe
sempre vera la promessa di Cristo a Pietro, perdurerebbe sempre il Papato, l’una
indistruttibile Chiesa, fondata sul Papa
in quel momento vivente».
È lungo appena cinque pagine il discorso ai giovani su Roma aeterna, città
che «in senso cristiano soprannaturale è
superiore alla Roma storica», e con questo anche uno dei più lunghi sul tema
che avrebbe tenuto Pacelli, vescovo romano di Roma. Per conoscere meglio,
più profondamente il suo pensiero, bisogna tornare indietro nel
tempo, al 23 febbraio
1936, e non all’Aula delle benedizioni della baIn questa città ogni opera
silica
vaticana
ma
deve essere egregia ed esemplare
all’Oratorio borrominiano della Chiesa Nuova,
perché a Roma sono costantemente rivolti
dove il cardinale Eugegli occhi dell’Italia come a suo centro
nio Pacelli, segretario di
Stato di Pio XI, diede
e del mondo come a suo faro
una conferenza su «Il
sacro destino di Roma»,
e cioè il fine per cui la
cambiano gli ordinamenti e le leggi che divina provvidenza preparò i romani e la
reggono il suo ordinario governo, riman- loro città. Roma, «la madre comune dei
gono le stesse la sua struttura, nei suoi credenti», e «la Casa vaticana del Padre
caratteri essenziali, e la sua vita interna. comune», e «la comune casa di tutti i fi«La Chiesa, stabilita su Pietro e sui suoi gli della Chiesa». Oggi, ottant’anni dosuccessori (...) doveva essere la Chiesa di po, in pieno anno giubilare della miseriCristo, una in sé e duratura sino alla fine cordia, è difficile non vedere come queste
dei tempi». Poi continua: «Fu una di- parole siano ancora vere.
sposizione della divina Provvidenza che
Città eterna, «città di Dio, città della
Pietro scegliesse Roma come sua sede ve- Sapienza incarnata», avrebbe detto nel
brio tra la saggia
prudenza e la fortezza cristiana. Quando
quindi parlò delle
«tradizioni religiose e
civili» di Roma, non
per caso mise al primo posto quelle religiose. Ai ragazzi degli istituti medi superiori spiegò come «i
resti e le tracce della
storia profana» della
città «narrano gli
eventi di tempi andati, parlano di stirpi e
di civiltà tramontate,
di potenze e di grandezze estinte», mentre «dinanzi alle testimonianze del passato cristiano (...) sentiamo sempre qualche
cosa d’immortale». Vive ancora la fede
che esse annunziano, vive ancora la
Chiesa a cui esse appartengono, e mentre
1936 il cardinale Pacelli. E i suoi cittadini, cosa compete a loro? «Essere romano — disse nel 1951 il Papa ai membri
della nobiltà e del patriziato — significa
essere forte nell’operare, ma anche nel
sopportare». E sei settimane dopo esortò gli alunni del Liceo Visconti e
dell’Istituto Massimo a non dimenticare
«l’alto titolo di “romano”». A Roma
«ogni opera deve essere egregia ed
esemplare, perché a Roma sono costantemente rivolti gli occhi dell’Italia, come
a suo centro, e del mondo, come a suo
faro. Qui ogni fatica, maturamente in-
trapresa e fermamente proseguita, deve
giovare al bene universale; qui ogni giustizia più alta, ogni virtù più schietta,
ogni pietà più ardente deve essere appannaggio di ciascuno che abbia il privilegio di chiamarsene cittadino, e in lui
debbono in qualche modo rifulgere le
leggi e le tradizioni, che fanno venerando e glorioso il nome di Roma».
Nel diario inedito di Bartolomeo Nogara l’impetuoso afflusso di capolavori in Vaticano iniziato nell’autunno del 1943
Salvate Raffaello e Caravaggio!
La grafia era chiara, ma così minuscola da richiedere, per decifrarla, una lente d’ingrandimento:
ma le annotazioni erano di eccezionale importanza perché, giorno dopo giorno, registravano l’incessante arrivo di capolavori in
Vaticano durante la seconda guerra mondiale. Si tratta del diario
inedito di Bartolomeo Nogara, il
direttore delle Gallerie Pontificie,
che nel 1943 organizzò l’impetuoso afflusso di opere in Vaticano.
E non solo: pensò anche di nascondere Pio XII, per proteggerlo,
nei musei. E la sua preoccupazione andava pure agli ebrei romani.
In un ampio articolo sull’inserto domenicale de «Il Sole 24
Ore» del 12 giugno, Benedetta
Gentile ricorda che tra l’autunno
del 1943 e la fine della guerra le
mura del Vaticano accolsero migliaia di tesori provenienti da musei e da collezioni private per
proteggerli da bombardamenti,
saccheggi e rapine. Le prime casse arrivarono nel novembre di
quell’anno, non appena la Santa
Sede diede ufficialmente il via libera all’operazione di salvataggio
di quadri, sculture, manoscritti,
monete, incunaboli.
Storia e memoria degli ebrei polacchi
Il 15 giugno al Polin, museo
della storia degli ebrei
polacchi di Varsavia, si terrà
la cerimonia finale del
programma educativo
«Salviamo la memoria»
realizzato ogni anno dal 2005
dalla Fondazione per la
tutela del patrimonio ebraico.
Al programma hanno
partecipato 56 scuole e centri
culturali. Con pieno merito
al Polin è andato quest’anno
il prestigioso European
Museum of the Year Award,
conferito ai migliori spazi
museali europei, consegnato
il 9 aprile a San Sebastián in
Spagna. Candidati al premio
erano altri 48 musei di tutta
Europa. Chi ottiene il premio
riceve e conserva per un
anno un trofeo nominato The
Egg, opera dello scultore
Henry Moore. Il Museo della
storia degli ebrei polacchi,
aperto nel 2013, rappresenta
il primo tentativo di mostrare
in un unico luogo il racconto
della presenza ebraica in
Polonia dal medioevo a oggi.
L’edificio, progettato da
architetti finlandesi, sorge in
un luogo ricco di significati
simbolici, dove prima della
seconda guerra mondiale si
trovava il centro del quartiere
ebraico. La facciata in vetro è
divisa a metà da una
maestosa entrata che evoca il
biblico passaggio del Mar
Rosso dei figli d’Israele,
mentre i pannelli di vetro che
la coprono riportano incisioni
in ebraico e in lettere latine
che formano la parola
“Polin”, “Polonia” in ebraico
ma che può anche essere letta
come «qui possono
riposare». L’edificio copre
un’area di oltre dodicimila
metri quadrati. Un terzo
ospita esposizioni
temporanee, auditorium,
cinema, sala da concerto,
centro didattico e spazio per
i bambini. L’esposizione
permanente è il risultato del
lavoro di 130 studiosi
internazionali e si compone
di otto percorsi.
L’entrata del museo Polin di Varsavia
Tale vicenda può già vantare
una ricca bibliografia, ma il diario
di Nogara, finora inedito, permette di seguire nel dettaglio l’impegno di chi, all’interno delle mura
vaticane, dovette provvedere a organizzare questo straordinario
flusso di opere che — sottolinea
Gentile — avrebbero trasformato
il Vaticano «in una specie di museo universale». E a prendere nota, con minuzia certosina, di quegli accadimenti, dai tratti anche
avventurosi, fu l’archeologo che
Benedetto XV aveva chiamato a
dirigere i Musei vaticani, cui, nel
1920, era stata affidata la direzione dei Musei e Gallerie pontificie:
incarico che mantenne fino alla
sua morte, nel 1954.
Dal prezioso documento, conservato nell’archivio della famiglia
Nogara, si evincono le multiformi
attività dello studioso, assediato
da pressanti richieste: da quelle di
ufficiali nazisti che vogliono visitare la Cappella Sistina e le gallerie vaticane (all’epoca chiuse al
pubblico) a quelle di amici e conoscenti che cercano di ottenere
tessere del Museo pensando che
sia un documento che possa proteggerli. Altri chiedono che i loro
figli, per sfuggire al servizio di leva, possano entrare a far parte
della Guardia Palatina, il cui organico, durante l’occupazione nazista, lievita di oltre 1500 unità.
Sulla rivista «Ecclesia», nel
marzo del 1945, Nogara rileva che
non è un’esagerazione asserire
che, «grazie all’intervento della
Santa Sede e alla sua protezione,
nei depositi della Pinacoteca vaticana, della Biblioteca e dell’Archivio pontificio per più di un
anno rimase concentrata e sicura
da offese belliche una buona metà
del
patrimonio
artistico
dell’Italia, quello si intende che
senza grave rischio, era possibile
rimuovere e trasportare».
Le trattative tra l’Italia e la
Santa Sede per questo tipo di
Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei vaticani dal 1920 al 1954
operazioni, iniziate nel giugno
del 1943, durarono per qualche
mese a causa di una situazione
quanto mai complessa e delicata.
Si incontravano spesso, al terzo
piano del Palazzo pontificio, il
cardinale Mercati, prefetto della
Biblioteca vaticana, il sostituto
della Segreteria di Stato, monsignor Montini, e Nogara: e il 9
novembre 1943 viene formalizzata
l’autorizzazione e subito dopo i
funzionari italiani impegnati a
mettere in salvo i tesori del Paese
contattano Nogara, già avvisato
dal futuro Paolo VI dello scopo
della visita.
Di lì a breve seguirà il flusso,
senza sosta, di tanti capolavori. E
Nogara registrerà, successivamente, che «nella Pinacoteca, accanto
a 664 colli depositati dai musei e
gallerie dello Stato, si accumularono 27 casse con dentro racchiusi
tra l’altro il tesoro della Basilica
di San Marco di Venezia», tesori
del Quirinale, delle ambasciate e
di collezioni private, come quelle
dei Chigi, degli Aldobrandini, dei
Franchetti.
E tra le mura vaticane — sottolinea Gentile — trovarono rifugio
anche quadri di Raffaello, Tiziano, Caravaggio, El Greco, nonché
la spinetta di Mozart, che poi appartenne a Spontini e infine a
Mascagni, sulla quale musicò la
«Cavalleria Rusticana».
L’OSSERVATORE ROMANO
lunedì-martedì 13-14 giugno 2016
pagina 5
La persecuzione dei cristiani in Medio oriente
Una xilografia rappresenta Roma al centro di tre continenti
(Heinrich Bunting, 1581)
di ANDREA POSSIERI
a alcuni anni, per le comunità
cristiane che vivono in Medio
Oriente, viene evocato, sempre
più spesso, uno scenario futuro assolutamente drammatico:
quello dell’estinzione.
Nel 2011, quando le bandiere dell’Is apparvero in Libano, il leader druso Walid
Jumblatt avvertì che sia i cristiani che il suo
popolo si trovavano «sull’orlo dell’estinzione». Poco tempo dopo, nel 2013, il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphaël Sako,
constatò amaramente che se l’emigrazione
dei cristiani fosse continuata con questo ritmo, nel volgere di breve tempo non ci sarebbero più stati «cristiani in Medio Oriente» e la loro storia si sarebbe ridotta ad essere soltanto «un lontano ricordo». Nel
marzo del 2015, infine, l’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni
Unite, monsignor Bernardito Auza, lanciò
un accorato appello al Palazzo di Vetro di
New York, invitando la comunità internazionale ad intervenire prima possibile: i cristiani in Medio Oriente, disse Auza, sono
«a rischio di estinzione».
Il seguito è la triste cronaca di questi
giorni: in un vasto contesto geopolitico —
che va da Tripoli e Sirte in Libia, a Manbij,
Aleppo e Raqqa in Siria, fino a Mosul e
Falluja in Iraq — sempre più sconvolto da
attentati terroristici, dalle brutali esecuzioni
dell’Is e da una preoccupante instabilità
politica, decine di migliaia di uomini e
donne, tra cui molti cristiani, stanno vivendo un esodo forzato dalle loro terre.
Terre che non sono state soltanto la culla
del cristianesimo, come spesso si afferma
con un po’ di superficiale approssimazione,
ma che hanno testimoniato anche una presenza cristiana molto più duratura e complessa di quello che solitamente viene ricordato, la cui eredità storica è ben visibile
nelle comunità di credenti di oggi e che, soprattutto, ci permette di guardare a questa
fase difficile della presenza dei cristiani in
Medio oriente con uno sguardo più consapevole e persino con qualche flebile speranza per il futuro. È questa la prospettiva che
emerge dal libro dello storico statunitense
Philip Jenkins, La storia del cristianesimo
perduto (Bologna, Emi, 2016, pagine 352,
euro 22) — che viene proposto ora in lingua
italiana con una nuova e importante introduzione — e che ha il merito di fornire
un’interpretazione storica euroasiatica e non
più soltanto eurocentrica.
Quella delineata da Jenkins è infatti una
storia del cristianesimo che non segue la
traiettoria tracciata negli Atti degli apostoli —
dal Medio oriente verso l’Europa — ma che
si dirige, invece, nella direzione opposta e
si muove verso l’Africa e l’Asia, arrivando
addirittura fino in Cina e all’India.
Senza dubbio, il centro nevralgico di
questo cristianesimo orientale — non solo
perduto ma anche sostanzialmente sconosciuto al di fuori dei circuiti accademici — si
trovava in Mesopotamia e aveva lo sguardo
rivolto verso Est. Il primo regno che già nel
200 riconobbe e accettò il cristianesimo al
di là dei confini dell’impero romano, fu
l’Osroene, il cui territorio, con capitale
Edessa, si sviluppava nell’alto corso dell’Eufrate. Questo regno ebbe vita breve ma la
vicina Armenia accolse il cristianesimo attorno al 300. Grosso modo nello stesso periodo, nel II secolo, apparvero le prime comunità cristiane in India che vantavano,
addirittura, una successione che risaliva
all’apostolo Tommaso. E nel 425, per la prima volta, un sacerdote indiano tradusse la
Lettera di san Paolo ai Romani dal greco in
siriaco.
Ma, come dicevamo, è soprattutto
nell’antica Mesopotamia, tra i due grandi
fiumi Tigri ed Eufrate, nei territori dell’attuale Iraq e della Siria, che si colloca la
presenza cristiana più numerosa. In quei
territori, infatti, si svilupparono due grandi
chiese transnazionali, quella nestoriana e
quella giacobita, che vennero poi dichiarate
eretiche dal Concilio di Efeso nel 431 e dal
concilio ecumenico di Calcedonia nel 451.
Tuttavia, anche se condannate, quelle chiese
continuarono a svilupparsi autonomamente
sia dal Papa che dal Patriarca di Costantinopoli e a prosperare per circa otto secoli
in un territorio vastissimo, tra il Medio
Oriente, l’Africa e l’Asia.
Alla fine dell’VIII secolo, per fare un solo
esempio, il patriarca nestoriano Timoteo,
che risiedeva nell’antica città mesopotamica
di Seleucia, presiedeva ben 19 metropoliti e
85 vescovi, le cui sedi erano in Siria e in
Turkestan, in Armenia e nel Turkmenistan,
in Afghanistan e persino nello Sri Lanka. E
già dal 635 alcuni missionari nestoriani avevano raggiunto Chang’an, la capitale imperiale cinese.
Di fatto, durante il medioevo, mentre la
Chiesa cattolica si consolidava in tutta Europa, tra i capisaldi cristiani del Medio
oriente c’erano città come Bassora e Mosul,
Kirkuk e Tikrit, luoghi oggi conosciuti
D
Con gli occhi distratti
dell’occidente
Incontro con l’autore di «Forsaken»
di GIUSEPPE FIORENTINO
Tra minacce
e segnali di speranza
un libro crudo, quasi spietato nella sua lucidità, quello che Daniel Williams ha
dedicato alla persecuzione
dei cristiani in Medio
Oriente. Un libro (New York - London, O/R Books, 2016, pagine 211, euro 12) che già dal titolo Forsaken («Abbandonati») The persecution of Christians in today’s Middle East contiene
una precisa denuncia: la comunità internazionale, e in particolare l’occidente, ha lasciato i cristiani mediorientali
al loro destino fatto di violenze, di deportazioni, di espulsioni. Un fenome-
È
Nel libro di Philip Jenkins una storia perduta
dall’opinione pubblica mondiale solo per
essere dei tragici teatri di guerra.
Quella del cristianesimo orientale è dunque una storia estremamente complessa,
non riconducibile soltanto con l’identificazione di alcune dottrine eretiche, ma che si
caratterizza per le complesse stratificazioni
culturali e i sincretismi religiosi, ed è estremamente interessante sia perché abbiamo di
fronte la storia di un cristianesimo di minoranza — che non ha stretto legami con il
potere politico ed è dunque estremamente
diverso, si potrebbe dire, da quello «costantiniano» — e sia perché alcuni settori di
questo cristianesimo perduto, successivamente accolti dalla Chiesa di Roma, sono
arrivati fino ad oggi, in quella che siamo
soliti chiamare come la Chiesa assira
d’oriente.
La storia del cristianesimo d’O riente
narrata da Jenkins è dunque simbolicamente rappresentata da una xilografia del
1581 — che è anche la copertina del volume
— incisa dal pastore e teologo protestante
Heinrich Bunting, che raffigura tre continenti, Europa, Asia e Africa, come se fossero tre lobi, o meglio, tre petali di un unico fiore uniti al centro da Gerusalemme.
Accanto alla Chiesa dell’Europa occidentale e al mondo orientale, che aveva per centro Costantinopoli, si collocava, dunque,
un terzo mondo cristiano, vasto e complesso, che si estendeva all’interno dell’Asia.
Per la maggior parte della sua storia, scrive
Jenkins, il cristianesimo è stato, pertanto,
una «religione tricontinentale, con potenti
rappresentanze in Europa, Africa e Asia»,
e tale è rimasto fino al XVI secolo quando
sopraggiunse una persecuzione durissima
per opera dei mongoli islamizzati che videro nelle minoranze cristiane i capri
espiatori di una profonda crisi socioeconomica. In quella «grande tribolazione», come l’ha definita Jenkins, le gerarchie ecclesiastiche orientali furono distrutte, i sacerdoti e i monaci vennero uccisi, ridotti in
schiavitù o espulsi, e «sui monasteri e le
cattedrali scese il silenzio». Di fatto, in
quel particolare frangente storico, l’Europa
rimase l’unico continente dove il cristianesimo era riuscito a sopravvivere.
Nonostante questa ecatombe, per molti secoli,
in Medio oriente o Asia,
i cristiani sopravvissero
sotto il dominio musulmano. Ancora nel 1914,
scrive Jenkins, «i cristiani
costituivano il 10 per
cento della popolazione
dell’intera
regione,
dall’Egitto alla Persia», e
la maggior parte delle
grandi città erano suddivise tra più fedi e confessioni. La situazione cambiò notevolmente durante la Prima guerra mondiale. Tra il 1915 e il 1922,
più di due milioni di cristiani — armeni, assiri e
greci — furono massacrati
o costretti a morire di fame. Non casualmente,
nel 1933, dopo il massacro degli assiri in Iraq, il
giurista Raphael Lemkin
coniò il termine «genocidio».
Questo clima di orrore «che richiama alla
memoria la barbarie nazista», scrive Jenkins, sembra paventarsi nuovamente nel
2014 quando chiese e monasteri sono stati
occupati e oltraggiati, le case dei cristiani
sono state contrassegnate con la lettera araba N (per Nazareni) e gli abitanti sono caduti vittime di abusi e omicidi.
Eppure, accanto a questo orrore che potrebbe rappresentare realisticamente l’epilogo della presenza cristiana in Medio
Oriente, c’è un altro fenomeno, sostiene lo
storico statunitense, su cui si riflette poco
e male, ma che è invece molto importante:
l’emigrazione in Medio oriente, specialmente nel Golfo Persico, di milioni di stranieri poveri che svolgono i lavori più umili. Molti di questi immigrati sono cristiani
africani e asiatici, tra cui parecchi filippini,
che in parte sfuggono alle statistiche uffi-
Fino al XVI secolo i seguaci di Gesù
erano presenti in tre continenti
Poi i mongoli islamizzati
videro in loro i capri espiatori
di una crisi sociale ed economica
ciali e che vivono pacificamente in quei
territori, ovviamente senza fare proselitismo. Per collocare queste cifre nel loro
contesto, scrive sempre Jenkins, «si consideri che la percentuale dei cristiani nella
penisola arabica oggi è del tutto simile alla
presenza musulmana in Europa occidentale». Un segno di questa presenza, discreta
e rispettosa delle locali realtà politiche e
religiose, è rappresentato, per esempio, dal
Vicariato apostolico dell’Arabia Settentrionale in Bahrein — dove sorge la cattedrale
di Nostra Signora d’Arabia — che serve i
circa 2 milioni e mezzo di fedeli che vivono in Kuwait, Qatar, Bahrein e Arabia
Saudita. Forse, conclude Jenkins, «dobbiamo anche riconoscere che, accanto alla disperazione, esistono segni di speranza».
In Europa si percepisce
un sentimento ostile
Come se ci si vergognasse
di voler difendere queste persone
da parte occidentale, di una corretta
percezione delle dinamiche mediorientali. Quando nella primavera del 2003
la coalizione internazionale guidata
dagli Stati Uniti entrò in Iraq per rovesciare Saddam Hussein, le operazioni militari non vennero accompagnate
da una giusta valutazione delle conseguenze della guerra. «Era totalmente
assente una prospettiva storico-politica. L’unico scopo era rovesciare il regime, senza pensare al dopo. Esattamente come, qualche anno più tardi, è avvenuto in Libia con le tragiche e ben
note conseguenze». Uno sguardo tutto
rivolto al contingente che certo non
poteva, o forse non voleva, tenere in
considerazione il futuro delle popolazioni cristiane. Un silenzio colpevole è
calato sul loro destino e i jihadisti,
conquistando territori in cui lo Stato
non era più presente, hanno potuto facilmente cacciarli. Come è avvenuto a
Mosul, dove nel luglio del 2014 — con
un triste rituale che ricorda l’inizio
delle persecuzioni degli ebrei europei
— le loro case furono marchiate. Tre le
alternative per i cristiani: convertirsi
all’islam, pagare una tassa proibitiva
che comunque non mette al riparo da
violenze e angherie, o andarsene. Come è logico che fosse, nel giro di pochissimi giorni oltre centoventimila cristiani fuggirono da Mosul e dai villaggi circostanti.
«Ma se i cristiani sono stati privati
della loro terra — sottolinea Williams
— il Medio Oriente rischia di perdere
una parte importante della sua storia e
della sua cultura. Le comunità cristiane con la loro presenza bimillenaria
hanno offerto un enorme contributo
alla formazione della stessa coscienza
nazionale dei singoli Paesi. Ora questo
processo di impoverimento culturale
appare irreversibile. Dopo anni e anni
di esclusione, se non di aperta persecuzione, i giovani cristiani mediorientali non hanno alcuna prospettiva e,
chiaramente, preferiscono emigrare.
Gli unici soddisfatti sono i jihadisti
che mirano ad azzerare la pluralità».
In alcuni Paesi, come in Siria e in
Egitto, i cristiani sono accusati dai loro
persecutori di mettersi dalla parte sbagliata della barricata, di sostenere cioè
dei regimi dittatoriali. «Ognuno di noi
— spiega l’autore di Forsaken — sta vicino a chi promette protezione. Ma nel
caso dei cristiani questa accusa non è
sempre vera. In Egitto, ad esempio, i
copti sono stati protagonisti dei moti
di piazza che hanno condotto alla ca-
no che magari, in altre circostanze,
verrebbe definito genocidio, ma che in
questo caso viene abbondantemente
sottostimato, se non apertamente ignorato. «In America — racconta Williams
durante un incontro avvenuto all’«O sservatore Romano» — nessuno dei due
partiti maggiori parla della questione,
soprattutto in questa campagna elettorale per le presidenziali. In Europa poi
la situazione è anche peggiore. I cristiani non sono riconosciuti come popolo da salvare. In Europa si percepisce una sorta di sentimento anticristiano, come se ci si dovesse vergognare
di volere tutelare e difendere queste
persone. Nessuno, davvero nessuno, fa
attenzione alla tragedia dei cristiani in
Medio Oriente e paradossalmente è
stato dedicato più spazio alla persecuzione degli yazidi che ha suscitato una
giusta onda di indignazione». Il libro
di Williams non è la riflessione di un
intellettuale elaborata a tavolino. È invece uno studio capillare maturato sul
campo. L’autore è stato infatti corrispondente in Medio oriente per numerose testate statunitensi come il «Washington Post», il «Los Angeles Times» e «Bloomberg News». Più recentemente ha operato nella sezione di
Human Rights Watch centrata sulle
emergenze, dedicandosi in particolare
alle violazioni dei diritti umani durante la cosiddetta Primavera araba. E senza
mezzi termini, WilNon c’è una connessione diretta
liams parla di «epidemia di persecuzioni»
tra le persecuzioni e la Primavera araba
dopo l’affermarsi dei
Tuttavia l’ideologia del jihad
movimenti che hanno
disegnato un nuovo
si è innestata con facilità in quei luoghi
scenario politico in aldove si è registrato un vuoto di potere
cuni paesi del Nord
Africa, trascinandone
altri in una sanguinosa
guerra civile. «Non c’è una connessio- duta di Mubarak. Tuttavia, questo non
ne diretta tra le persecuzioni e la Pri- li ha messi al riparo dalle inaudite viomavera araba — sottolinea — ma è in- lenze che li hanno colpiti in seguito,
dubbio che l’ideologia del jihad si è secondo una logica che, evidentemeninnestata con facilità soprattutto in te, aveva poco a che fare con lo schiequei luoghi dove si è registrato un ramento politico».
vuoto di potere. E la novità del jihad
Uno scenario davvero triste, reso
sta proprio nel proclamare l’esclusione ancora più desolante dalla persistente
del cristianesimo che deve essere elimi- latitanza della comunità internazionanato in quanto pericoloso. È un feno- le, ostinata a difendere interessi parmeno visibile non solo in Siria o in ziali. «Nessuno, tranne il Papa e
Iraq, ma nella stessa Palestina e in pochi altri, cerca di difendere i cristiaEgitto, perché i jihadisti non hanno ni del Medio Oriente e del Nord
bisogno di una grande consistenza nu- Africa. Ma quello che più lascia stupimerica per ottenere con la violenza i ti è la mancanza di iniziative. Negli
loro scopi».
Stati Uniti la questione è caduta nel
In effetti la realtà è sotto gli occhi dimenticatoio. L’Europa pensa a se
(distratti) di tutti. In Siria, almeno un stessa. Ma a dire il vero, oltre alle
terzo della popolazione cristiana è sta- dichiarazioni di circostanza, dota costretta ad abbandonare le sue ca- vrebbero essere prima di tutto i muse, in Egitto i copti sono protagonisti sulmani ad agire». Per i cristiani perdi vere ondate migratorie. In Iraq, i seguitati, infatti, le parole non bastacristiani sono attualmente circa trecen- no davvero. Mai come in questo caso,
tomila, mentre non molto tempo fa per parafrasare un celebre detto anerano oltre un milione. Proprio in glo-sassone, inaction speaks louder than
Iraq, secondo Williams, si è avuta la words («l’inerzia parla più forte delle
prima dimostrazione della mancanza, parole»).
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
lunedì-martedì 13-14 giugno 2016
Il Papa denuncia la mentalità sociale che emargina ammalati e persone con disabilità
Con la medicina del sorriso
Per la prima volta in piazza San Pietro la lettura
del Vangelo è stata anche drammatizzata da un
gruppo di persone con disabilità intellettive per
permettere che il testo fosse compreso soprattutto da
quanti hanno un deficit cognitivo. È accaduto
domenica mattina, 12 giugno, durante la messa
celebrata da Papa Francesco in occasione del giubileo
degli ammalati e delle persone disabili. Il servizio
liturgico e le letture hanno avuto come protagoniste
«Sono stato crocifisso con Cristo, e
non vivo più io, ma Cristo vive in
me» (Gal 2, 19). L’apostolo Paolo
usa parole molto forti per esprimere
il mistero della vita cristiana: tutto si
riassume nel dinamismo pasquale di
morte e risurrezione, ricevuto nel
Battesimo. Infatti, con l’immersione
nell’acqua ognuno è come se fosse
morto e sepolto con Cristo (cfr. Rm
6, 3-4), mentre, quando riemerge da
essa, manifesta la vita nuova nello
Spirito Santo. Questa condizione di
rinascita coinvolge l’intera esistenza,
in ogni suo aspetto: anche la malattia, la sofferenza e la morte sono inserite in Cristo, e trovano in Lui il
loro senso ultimo. Oggi, nella giornata giubilare dedicata a quanti portano i segni della malattia e della disabilità, questa Parola di vita trova
nella nostra Assemblea una particolare risonanza.
In realtà, tutti prima o poi siamo
chiamati a confrontarci, talvolta a
scontrarci, con le fragilità e le malattie nostre e altrui. E quanti volti diversi assumono queste esperienze così tipicamente e drammaticamente
umane! In ogni caso, esse pongono
in maniera più acuta e pressante l’interrogativo sul senso dell’esistenza.
Nel nostro animo può subentrare
anche un atteggiamento cinico, come se tutto si potesse risolvere subendo o contando solo sulle proprie
forze. Altre volte, all’opposto, si ripone tutta la fiducia nelle scoperte
della scienza, pensando che certamente in qualche parte del mondo
esiste una medicina in grado di guarire la malattia. Purtroppo non è così, e anche se quella medicina ci fosse, sarebbe accessibile a pochissime
persone.
La natura umana, ferita dal peccato, porta inscritta in sé la realtà del
limite. Conosciamo l’obiezione che,
soprattutto in questi tempi, viene
mossa davanti a un’esistenza segnata
da forti limitazioni fisiche. Si ritiene
che una persona malata o disabile
non possa essere felice, perché incapace di realizzare lo stile di vita imposto dalla cultura del piacere e del
divertimento. Nell’epoca in cui una
certa cura del corpo è divenuta mito
di massa e dunque affare economico,
proprio le persone con disabilità: tra i ministranti
c’erano alcuni ragazzi con la sindrome di Down e tra
i diaconi c’era un giovane sordo tedesco. Inoltre la
prima lettura è stata proclamata, in spagnolo, da
una persona disabile, mentre la seconda, in inglese, è
stata letta in braille da una ragazza cieca. In piazza
San Pietro è stato anche esposto il quadro
cinquecentesco della Madonna “salus infirmorum”,
custodito nella chiesa di Santa Maria Maddalena in
ciò che è imperfetto deve essere
oscurato, perché attenta alla felicità
e alla serenità dei privilegiati e mette
in crisi il modello dominante. Meglio tenere queste persone separate,
in qualche “recinto” — magari dorato
— o nelle “riserve” del pietismo e
dell’assistenzialismo, perché non intralcino il ritmo del falso benessere.
In alcuni casi, addirittura, si sostiene
che è meglio sbarazzarsene quanto
prima, perché diventano un peso
economico insostenibile in un tempo
di crisi. Ma, in realtà, quale illusione
vive l’uomo di oggi quando chiude
gli occhi davanti alla malattia e alla
disabilità! Egli non comprende il vero senso della vita, che comporta anche l’accettazione della sofferenza e
del limite. Il mondo non diventa migliore perché composto soltanto da
persone apparentemente “perfette”,
per non dire “truccate”, ma quando
crescono la solidarietà tra gli esseri
umani, l’accettazione reciproca e il
rispetto. Come sono vere le parole
dell’apostolo: «Quello che è debole
per il mondo, Dio lo ha scelto per
confondere i forti» (1 Cor 1, 27)!
Anche il Vangelo di questa domenica (Lc 7, 36–8,3) presenta una particolare situazione di debolezza. La
donna peccatrice viene giudicata ed
emarginata, mentre Gesù la accoglie
e la difende: «Ha molto amato» (v.
47). È questa la conclusione di Gesù, attento alla sofferenza e al pianto
Campo Marzio a Roma, invocata come aiuto di tutte
le persone afflitte da malattia. Prima della
celebrazione, sono state presentate alcune
testimonianze in uno spazio di incontro e confronto
denominato «Quando sono debole sono forte». Infine,
dopo averla evocata nell’omelia, Papa Francesco al
termine della messa ha lungamente praticato «la
terapia del sorriso», salutando in piazza San Pietro i
malati e disabili e i loro accompagnatori.
di quella persona. La sua tenerezza è
segno dell’amore che Dio riserva per
coloro che soffrono e sono esclusi.
Non esiste solo la sofferenza fisica;
oggi, una delle patologie più frequenti è anche quella che tocca lo
spirito. È una sofferenza che coinvolge l’animo e lo rende triste perché privo di amore. La patologia
della tristezza. Quando si fa esperienza della delusione o del tradimento nelle relazioni importanti, allora ci si scopre vulnerabili, deboli e
senza difese. La tentazione di rinchiudersi in sé stessi si fa molto forte, e si rischia di perdere l’occasione
della vita: amare nonostante tutto.
Amare nonostante tutto!
La felicità che ognuno desidera,
d’altronde, può esprimersi in tanti
modi e può essere raggiunta solo se
siamo capaci di amare. Questa è la
strada. È sempre una questione di
amore, non c’è un’altra strada. La
vera sfida è quella di chi ama di più.
Quante persone disabili e sofferenti
si riaprono alla vita appena scoprono di essere amate! E quanto amore
può sgorgare da un cuore anche solo
per un sorriso! La terapia del sorriso. Allora la fragilità stessa può diventare conforto e sostegno alla nostra solitudine. Gesù, nella sua passione, ci ha amato sino alla fine (cfr.
Gv 13, 1); sulla croce ha rivelato
l’Amore che si dona senza limiti.
Che cosa potremmo rimproverare a
Dio per le nostre infermità e sofferenze che non sia già impresso sul
volto del suo Figlio crocifisso? Al
suo dolore fisico si aggiungono la
derisione, l’emarginazione e il compatimento, mentre Egli risponde con
la misericordia che tutti accoglie e
tutti perdona: «per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53, 5; 1 Pt 2, 24).
Gesù è il medico che guarisce con la
medicina dell’amore, perché prende
su di sé la nostra sofferenza e la redime. Noi sappiamo che Dio sa
comprendere le nostre infermità,
perché Lui stesso le ha provate in
prima persona (cfr. Eb 4, 15).
Il modo in cui viviamo la malattia
e la disabilità è indice dell’amore che
siamo disposti a offrire. Il modo in
cui affrontiamo la sofferenza e il limite è criterio della nostra libertà di
dare senso alle esperienze della vita,
anche quando ci appaiono assurde e
non meritate. Non lasciamoci turbare, pertanto, da queste tribolazioni
(cfr. 1 Ts 3, 3). Sappiamo che nella
debolezza possiamo diventare forti
(cfr. 2 Cor 12, 10), e ricevere la grazia di completare ciò che manca in
noi delle sofferenze di Cristo, a favore della Chiesa suo corpo (cfr. Col
1, 24); un corpo che, ad immagine di
quello del Signore risorto, conserva
le piaghe, segno della dura lotta, ma
sono piaghe trasfigurate per sempre
dall’amore.
Le risposte del Papa alle domande durante l’incontro di sabato mattina nell’aula Paolo
Appello all’Angelus
Contro la schiavitù
del lavoro minorile
Al termine della messa in piazza
San Pietro, alla quale hanno
preso parte oltre cinquantamila
persone, Papa Francesco ha
guidato la recita della preghiera
dell’Angelus e ha pronunciato
queste parole.
Cari fratelli e sorelle!
Ieri, a Vercelli, è stato proclamato Beato il sacerdote Giacomo Abbondo, vissuto nel Settecento, innamorato di Dio,
colto, sempre disponibile per i
suoi parrocchiani. Ci uniamo
alla gioia e al rendimento di
grazie della Diocesi di Vercelli.
E anche di quella di Monreale,
dove oggi viene beatificata
suor Carolina Santocanale,
fondatrice delle Suore Cappuccine dell’Immacolata di Lourdes. Nata in una famiglia nobile di Palermo, abbandonò le
comodità e si fece povera tra i
poveri. Da Cristo, specialmente nell’Eucaristia, attinse la forza per la sua maternità spirituale e la sua tenerezza con i
più deboli.
Nel contesto del Giubileo
dei malati si è svolto nei giorni
scorsi a Roma un Convegno internazionale dedicato alla cura
delle persone affette dal morbo di
Hansen. Saluto con riconoscenza gli organizzatori e i
partecipanti ed auspico un
fruttuoso impegno nella lotta
contro questa malattia.
Oggi ricorre la Giornata
mondiale contro il lavoro minorile. Rinnoviamo tutti uniti lo
sforzo per rimuovere le cause
di questa schiavitù moderna,
che priva milioni di bambini di
alcuni diritti fondamentali e li
espone a gravi pericoli. Oggi
ci sono nel mondo tanti bambini schiavi!
Saluto con affetto tutti i pellegrini venuti dall’Italia e da
vari Paesi per questa giornata
giubilare. Ringrazio in modo
speciale voi, che avete voluto
essere presenti nella vostra
condizione di malattia o disabilità. Un grazie sentito va anche ai medici e agli operatori
sanitari che, nei “Punti della
salute” allestiti presso le quattro Basiliche Papali, stanno offrendo visite specialistiche a
centinaia di persone che vivono ai margini della città di Roma. Grazie tante a voi!
La Vergine Maria, alla quale
ci rivolgiamo ora in preghiera,
ci accompagni sempre nel nostro cammino.
VI
Ricchezza della diversità
Sabato mattina, 11 giugno, il Papa ha incontrato nell’aula Paolo VI i
partecipanti al convegno promosso dal settore per la catechesi dei disabili
dell’Ufficio catechistico della Conferenza episcopale italiana. Mettendo da parte il
discorso scritto, Francesco ha risposto a braccio a tre domande. Le prime due sono
state poste da Lavinia, una catechista con disabilità intellettiva che fa parte della
parrocchia romana dei Santi martiri dell’Uganda, e dal suo parroco don Luigi
D’Errico, che hanno parlato della «diversità come ricchezza». La terza domanda,
formulata da Serena, disabile venticinquenne di Pistoia, ha posto invece la
questione della mancanza di accoglienza dei disabili nelle comunità cristiane.
La prima domanda era molto ricca,
molto ricca. E parlava delle diversità. Tutti siamo diversi: non c’è uno
che sia uguale all’altro. Ci sono alcune diversità più grandi o più piccole, ma tutti siamo diversi. E lei, la
ragazza che ha fatto la domanda, diceva: “Tante volte abbiamo paura
delle diversità”. Ci fanno paura. Perché? Perché andare incontro a una
persona che ha una diversità non diciamo forte, ma grande, è una sfida,
e ogni sfida ci fa paura. È più comodo non muoversi, è più comodo
ignorare le diversità e dire: “Tutti
siamo uguali, e se c’è qualcuno che
non è tanto ‘uguale’, lasciamolo da
parte, non andiamo incontro”. È la
paura che ci fa ogni sfida; ogni sfida
ci impaurisce, ci fa paura, ci rende
un po’ timorosi. Ma no! Le diversità
sono proprio la ricchezza, perché io
ho una cosa, tu ne hai un’altra, e
con queste due facciamo una cosa
più bella, più grande. E così possiamo andare avanti. Pensiamo a un
mondo dove tutti siano uguali: sarebbe un mondo noioso! È vero che
alcune diversità sono dolorose, tutti
lo sappiamo, quelle che hanno radici
in alcune malattie... ma anche quelle
diversità ci aiutano, ci sfidano e ci
arricchiscono. Per questo, non bisogna avere mai paura delle diversità:
quella è proprio la strada per migliorare, per essere più belli e più ricchi.
E come si fa questo? Mettendo in
comune quello che abbiamo. Mettere in comune. C’è un gesto bellissimo che noi persone umane abbiamo,
un gesto che facciamo quasi senza
pensarci, ma è un gesto molto profondo: stringere la mano. Quando io
stringo la mano, metto in comune
quello che ho con te — se è uno
stringere la mano sincero —: ti do la
mano, ti do ciò che è mio e tu mi
dai ciò che è tuo. E questa è una cosa che fa bene a tutti. Andiamo
avanti con le diversità, perché le diversità sono una sfida ma ci fanno
crescere. E pensiamo che ogni volta
che io stringo la mano a un altro, do
qualcosa del mio e ricevo qualcosa
di lui. Anche questo ci fa crescere.
Questo è ciò che mi viene come risposta alla prima domanda.
Ho dimenticato qualcosa della
prima domanda, ma la dirò adesso
con questa che ha fatto Serena. Serena mi mette in difficoltà, perché se
io dico quello che penso... Ha parlato poco, tre/quattro righe, ma le ha
dette con forza! Serena ha parlato di
una delle cose più brutte che ci sono
fra noi: la discriminazione. È una
cosa bruttissima! “Tu non sei come
me, tu vai di là e io di qua”. “Ma, io
vorrei fare la catechesi...” — “In questa parrocchia no. Questa parrocchia
è per quelli che si assomigliano, non
ci sono differenze...”. Questa parrocchia è buona o no? [Aula: Nooo!]
Che cosa deve fare, il parroco?...
Convertirsi? È vero che se tu vuoi
fare la comunione, devi avere una
preparazione; e se tu non capisci
questa lingua, per esempio se sei
sordo, devi avere la possibilità in
quella parrocchia di prepararti con il
linguaggio dei sordi. Ecco, questo è
importante! Se sei diverso, anche tu
hai la possibilità di essere il migliore, questo è vero. La diversità non
dice che chi ha i cinque sensi che
funzionano bene sia migliore di chi
— per esempio — è sordomuto. No!
Questo non è vero! Tutti abbiamo la
stessa possibilità di crescere, di andare avanti, di amare il Signore, di
fare cose buone, di capire la dottrina
cristiana, e tutti abbiamo la stessa
possibilità di ricevere i sacramenti.
Capito? Quando, tanti anni fa —
cento anni fa, o di più — il Papa Pio
X disse che si doveva dare la comunione ai bambini, tanti si sono scandalizzati. “Ma quel bambino non capisce, è diverso, non capisce bene...”. “Date la comunione ai bambini”, ha detto il Papa, e ha fatto di
una diversità una uguaglianza, perché lui sapeva che il bambino capisce in un altro modo. Quando ci sono diversità fra noi, si capisce in un
altro modo. Anche a scuola, nel
quartiere, ognuno ha la sua ricchezza, è diverso, è come se parlasse
un’altra lingua. È diverso, perché si
esprime in un modo diverso. E questo fatto è una ricchezza. Quello che
ha detto Serena succede, tante volte;
succede tante volte ed è una delle
cose più brutte, più brutte delle nostre città, della nostra vita: la discriminazione. Con parole offensive, anche. Non si può essere discriminati.
Ognuno di noi ha un modo di conoscere le cose che è diverso: uno
conosce in una maniera, uno conosce in un’altra, ma tutti possono conoscere Dio. [Una bambina si avvicina al Papa] Vieni, vieni... Questa è
coraggiosa! Vieni... Questa non ha
paura, questa rischia, sa che le diversità sono una ricchezza; rischia, e ci
ha dato una lezione. Questa mai sarà discriminata, sa difendersi da sola! Ecco. Serena, non so se ho risposto alla tua domanda. Nella parrocchia, nella Messa, nei Sacramenti,
tutti sono uguali, perché tutti hanno
lo stesso Signore: Gesù, e la stessa
mamma: la Madonna. Capito?
[Si avvicina un’altra bimba] Vieni,
vieni... Un’altra coraggiosa.
Il padre che ha parlato prima ha
fatto alcune domande che sono collegate a quello che ha detto Serena:
come accogliere tutti. Ma se tu... —
non dico a te, perché so che tu accogli tutti —; ma pensa a un sacerdote
che non accoglie tutti: che consiglio
darebbe il Papa? “Chiudi la porta
della chiesa, per favore!”. O tutti, o
nessuno. “Ma no — pensiamo a quel
prete che si difende — ma no, Padre,
no, non è così; io capisco tutti, ma
non posso accogliere tutti perché
non tutti sono capaci di capire...” —
“Sei tu che non sei capace di capire!”. Quello che deve fare il prete,
aiutato dai laici, dai catechisti, da
tanta, tanta gente, è aiutare tutti a
capire: a capire la fede, a capire
l’amore, a capire come essere amici,
a capire le differenze, a capire come
le cose sono complementari, uno
può dare una cosa e l’altro può darne un’altra. Questo è aiutare a capire. E tu hai usato due parole belle:
accogliere e ascoltare. Accogliere,
cioè ricevere tutti, tutti. E ascoltare
tutti. Vi dico una cosa. Credo che
oggi nella pastorale della Chiesa si
fanno tante cose belle, tante cose
buone: nella catechesi, nella liturgia,
nella carità, con gli ammalati... tante
cose buone. Ma c’è una cosa che si
deve fare di più, anche i sacerdoti,
anche i laici, ma soprattutto i sacer-
doti devono fare di più: l’apostolato
dell’orecchio: ascoltare! “Ma, Padre,
è noioso ascoltare, perché sono sempre le stesse storie, le stesse cose...”
— “Ma non sono le stesse persone, e
il Signore è nel cuore di ognuna delle persone, e tu devi avere la pazienza di ascoltare”. Accogliere e ascoltare. Tutti. E credo che con questo ho
risposto alle domande.
Io avevo preparato per voi un discorso, e il Prefetto [della Casa Pontificia] lo consegnerà perché sia conosciuto da tutti. Perché leggere un
discorso è anche un po’ noioso... E
c’è un momento, quando uno legge
un discorso, in cui, con una certa
furbizia, incominciano a guardare
l’orologio, come per dire: “Ma quando finirà di parlare, questo?”. Perciò
il discorso lo leggerete voi.
Vi ringrazio tanto per questo dialogo, per questa visita, per questa
bellezza delle diversità che fanno comunità: l’una dà all’altra e viceversa,
e tutte fanno l’unità della Chiesa.
Grazie tante. E pregate per me.
[Si avvicina un bambino] Vieni,
vieni anche tu...
Adesso, rimanete seduti tranquilli,
e come buoni figli preghiamo la
Mamma, la Madonna. Tutti insieme
preghiamo la Madonna. Ave, Maria...
[Benedizione]
E per favore pregate per me.
Grazie.
L’OSSERVATORE ROMANO
lunedì-martedì 13-14 giugno 2016
pagina 7
Telefonata del Papa ai giovani partecipanti al pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto
Notte di cammino
«Vi auguro una notte di cammino, di preghiera, di
gioia, di fratellanza». Lo ha detto il Papa telefonando
sabato sera, 11 giugno, ai partecipanti al trentottesimo
pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto, dopo la
celebrazione eucaristica di apertura presieduta dal
cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo di AnconaOsimo, nello stadio Helvia Recina di Macerata.
Buona sera, cari amici.
Mi dice il Vescovo che lì piove. Ma anche la pioggia è una grazia. Perché è brutta, ma è anche bella!
Ha due cose. È brutta perché ci dà fastidio, ma è
bella perché è come la figura della grazia di Dio che
viene su di noi. Voi incominciate adesso a fare il
cammino; cammino che durerà tutta la notte. Ma
anche la vita è un cammino. Nessuno di noi sa
quanto durerà la propria vita, ma è un cammino.
E quando uno crede di vivere la propria vita senza camminare... Non si può vivere la propria vita
stando fermi. La vita è per camminare, per fare
qualcosa, per andare avanti, per costruire un’amicizia sociale, una società giusta, per proclamare il
Vangelo di Gesù.
Io sono vicino a voi questa sera, vi sono vicino
nella mia preghiera, vi accompagno e vi auguro una
notte di preghiera e di gioia. Anche un po’ di sofferenza sicuro ci sarà, ma questo si supera, con la speranza dell’incontro, domani, con Gesù Eucaristia.
Io vi benedico! Camminate sempre nella vita;
mai, mai fermarsi, sempre in cammino. La vita è
questo!
E pregate anche per me, perché io non mi fermi e
continui ad andare in cammino. Il cammino che il
Signore mi dirà come fare.
Vi do la mia benedizione, cari amici, e vi auguro
una notte di cammino, di preghiera, di gioia, di fratellanza e con lo sguardo verso la Madonna e verso
l’Eucaristia che riceverete domani.
Adesso tutti insieme preghiamo la Madonna: Ave
Maria...
Vi dò la mia benedizione. Vi benedica Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. E per favore
non dimenticatevi di pregare per me. Un abbraccio
a tutti.
Un abbraccio e pregate per me. Buona notte.
Il cardinale Sandri in Turchia
Nel segno dell’unità e del dialogo
È stata una visita nel segno dell’unità e del dialogo quella compiuta a
Istanbul, in Turchia, dal cardinale
Leonardo Sandri, prefetto della
Congregazione per le Chiese orientali, conclusasi domenica 12 giugno.
Al suo arrivo in Turchia, il cardinale si è recato sull’isola di Buyukada, dove ha sede un edificio appartenente alla nunziatura apostolica,
per visitare la casa di accoglienza e
spiritualità affidata alle suore francescane missionarie del Sacro Cuore,
vero polmone per ritiri e settimane
di formazione per l’intera Chiesa in
Turchia. Il porporato ha celebrato la
messa nella cappella. Insieme alle religiose della casa ne erano presenti
anche altre venute dall’Italia. Al termine il porporato ha benedetto due
statue della beata Vergine Maria e di
san Giuseppe che erano state collocate nello spazio per la preghiera
proprio lo stesso giorno. Quindi ha
visitato la chiesa di Sant’Antonio e
ha incontrato la comunità dei frati
minori conventuali a cui è affidata.
Nella mattina di sabato 11, accompagnato dall’incaricato d’affari della
nunziatura apostolica, monsignor
Angelo Accattino, il cardinale ha assistito alla divina liturgia al Phanar
presieduta dal patriarca Bartolomeo,
in occasione della sua festa onomastica. Erano presenti anche rappresentanti di altre Chiese ortodosse, in
particolare quella di Mosca, con il
metropolita di Novgorod che ha letto il messaggio del patriarca Cirillo.
Era presente anche una rappresentanza della chiesa ortodossa bulgara.
Il cardinale Sandri ha anzitutto
trasmesso l’abbraccio di pace di Papa Francesco a Bartolomeo, con l’assicurazione della preghiera per lui,
la Chiesa di Costantinopoli e il
prossimo sinodo panortodosso. Al
patriarca ecumenico è stata donata
anche la medaglia d’argento del giubileo della misericordia.
Nel pomeriggio, presso la cattedrale del vicariato di Istanbul, dedicata allo Spirito Santo, ha avuto
luogo l’ordinazione episcopale di
monsignor
Rubén
Tierrablanca
González, religioso dell’ordine dei
frati minori, vescovo titolare di Tubernuca, vicario apostolico di Istanbul e amministratore apostolico
dell’esarcato per i fedeli bizantini.
La celebrazione è stata presieduta
dal cardinale Sandri. Conconsacranti
monsignor Lorenzo Piretto, domenicano, arcivescovo metropolita di Izmir, e monsignor Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico di Anatolia.
Hanno concelebrato anche i monsignori Levon Boghos Zekyan, arcivescovo di Istanbul degli armeni e
presidente della conferenza episcopale turca, José Rodríguez Carballo,
arcivescovo segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, e
Luis Pelâtre, vicario apostolico emerito, insieme ai vicari patriarcali della
Chiesa siro-cattolica e caldea, a
monsignor Accattino e a numerosi
sacerdoti e religiosi. Alla celebrazione hanno assistito anche il locum tenens del patriarcato armeno apostolico di Costantinopoli, un metropolita rappresentante del patriarca Bartolomeo e un metropolita rappresentante del patriarca siro-ortodosso.
Oltre ai rappresentanti della Chiesa
luterana e anglicana, erano presenti
esponenti della comunità ebraica e
islamica, l’ambasciatore del Messico
ad Ankara e diversi membri del corpo consolare a Istanbul. Significativa la partecipazione di delegazioni
di sacerdoti e fedeli giunte dal Messico, dalla Francia e dall’Italia.
La liturgia, suggestiva e solenne,
celebrata in italiano, francese e turco, ha visto l’animazione musicale
cui hanno contribuito tutte le comunità cattoliche presenti in Turchia,
con canti in italiano, inglese, spagnolo, armeno, siriaco e caldeo. Il
servizio liturgico e quello d’ordine è
stato garantito dai giovani seguiti
dalla locale comunità salesiana, provenienti dalla Turchia, da paesi
dell’Africa e da Siria e Iraq. Dopo il
rito di ordinazione, il cardinale Sandri ha invitato il nuovo vescovo a
proseguire la liturgia eucaristica,
dando così avvio al suo ministero
episcopale a Istanbul.
Nella mattina di domenica 12,
mentre il nuovo vescovo presiedeva
il primo pontificale in cattedrale, il
cardinale si è recato presso l’istituto
per anziani Ma Maison, gestito dalle
piccole sorelle dei poveri, e ha celebrato alla presenza della comunità
delle religiose, di diversi fedeli, e di
un folto gruppo di bambini e ragazzi iracheni accolti come profughi a
Istanbul e seguiti dai salesiani.
Al termine della celebrazione, in
francese, inglese e turco, il cardinale
si è intrattenuto con i giovani presenti, e in particolare ha ricevuto come dono da portare a Papa Francesco una fotografia e un pallone con
gli autografi di tutti i giovani iracheni, in fuga dalla loro patria e in cerca di una speranza grande per il loro
cammino futuro.
Prima di prendere il volo per Roma, il cardinale Sandri si è intrattenuto a pranzo con i vescovi della
Conferenza episcopale turca, con i
quali ha avuto modo di scambiare
alcune riflessioni sulla presenza cristiana in quella Nazione, i rapporti
ecumenici e interreligiosi, la situazione delle comunità religiose.
Il porporato ha salutato i presuli,
dando appuntamento a monsignor
Piretto per la consegna del pallio da
parte del Santo Padre il 29 giugno,
per la solennità dei santi Pietro e
Paolo. E a tutti a settembre per la
settimana di formazione dei nuovi
vescovi.
Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice
Concistoro ordinario pubblico
per il voto
su alcune cause di canonizzazione
NOTIFICAZIONE
Lunedì 20 giugno 2016, alle ore 10, nella Sala del Concistoro del Palazzo
Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco presiederà la celebrazione
dell’Ora Terza e il Concistoro Ordinario Pubblico per la Canonizzazione
dei Beati:
— Salomone Leclercq (al secolo: Guglielmo Nicola Ludovico), dei Fratelli delle Scuole Cristiane, martire;
— Manuel González García, vescovo di Palencia, fondatore dell’Unione
Eucaristica Riparatrice e della Congregazione delle Suore Missionarie Eucaristiche di Nazareth;
— Lodovico Pavoni, sacerdote, fondatore della Congregazione dei Figli
di Maria Immacolata;
— Alfonso Maria Fusco, sacerdote, fondatore della Congregazione delle
Suore di San Giovanni Battista;
— Elisabetta della Santissima Trinità (al secolo: Elisabetta Catez), monaca professa dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi.
***
I Signori Cardinali residenti o presenti a Roma nel giorno del Concistoro sono pregati di trovarsi per le ore 9.30 nella Sala del Concistoro del
Palazzo Apostolico, indossando l’abito corale.
Città del Vaticano, 13 giugno 2016
Per mandato del Santo Padre
Mons. GUID O MARINI
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie
La visita al Programma alimentare mondiale
C’è bisogno di sognatori
C’è bisogno di sognatori per realizzare l’obiettivo di sradicare la fame
dal pianeta, perché dietro la parola
“fame” si celano la sofferenza e la
morte di milioni di persone. Papa
Francesco si è fatto voce di tanti
volti anonimi di uomini e donne di
ogni lingua, cultura, nazionalità,
che hanno in comune il dramma di
vivere sulla propria pelle le conseguenze della fame. Non poteva esserci occasione migliore della visita
al Programma alimentare mondiale
(Pam) delle Nazioni Unite, compiuta lunedì mattina, 13 giugno, nel
quartier generale dell’agenzia a
Roma.
È la prima volta che un Pontefice
visita il Pam. E questo incontro avviene nell’anno in cui l’agenzia internazionale comincia il lavoro per
raggiungere i diciassette obiettivi di
sviluppo sostenibile che hanno trovato l’accordo di tutti gli Stati
membri delle Nazioni Unite. In
particolare, al centro degli sforzi c’è
il raggiungimento dell’obiettivo
«fame zero» entro il 2030. Un impegno che richiede non solo risorse
materiali ma anche umane. Proprio
per ricordare le tante persone che
hanno pagato anche con la vita lo
svolgimento della loro missione, è
stato collocato all’ingresso della sede dell’agenzia il “muro della memoria”. Una sorta di lapide con incisi i nomi di chi ha dato la vita
durante il servizio al Pam. Il Papa
si è soffermato davanti al muro,
mentre due bambini — Amal Johan,
di sei anni, e Lorenzo Benedetti, di
sette — gli hanno presentato delle
composizioni floreali che poi hanno
deposto ai piedi della lapide.
Accolto da monsignor Chica
Arellano, osservatore permanente
presso organizzazioni e organismi
delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, da Ertharin
Cousin, direttore esecutivo, e da
Stephanie Hochstetter SkinnerKlée, presidente del consiglio di
amministrazione del Pam, il Papa
ha salutato i ministri di quattordici
Stati e organismi internazionali:
Andorra, Argentina, Burkina Faso,
Ciad, Repubblica democratica del
Congo, El Salvador, Etiopia, Unione europea, Francia, Gambia, Repubblica del Kyrgyzstan, Lesotho,
Somalia e Sud Sudan. Poi si è intrattenuto a colloquio con il direttore esecutivo e il presidente del
consiglio d’amministrazione. Al termine, il Pontefice ha apposto la sua
firma sul libro d’onore del Pam.
Prima di entrare nell’auditorium
per il saluto all’assemblea, l’incontro con alcuni membri della comunità «Zero Hunger».
Nell’auditorium, la presidente
Hochstetter Skinner-Klée ha aperto
ufficialmente la seduta speciale della sessione annuale della giunta esecutiva dell’organismo. Nel saluto di
benvenuto ha detto che la presenza
del Pontefice è un segno inestimabile del suo sostegno per la causa
Nel saluto conclusivo
Il coraggio
dei martiri
A conclusione della visita,
incontrando il personale
del Programma alimentare mondiale,
Papa Francesco ha messo
da parte il discorso preparato
e ha rivolto a braccio ai presenti il
seguente saluto.
Io dovrei fare un discorso in spagnolo, ma la maggioranza di voi
non capisce lo spagnolo, capisce
l’italiano, perché vivete in Italia. E
i discorsi sono anche noiosi! Così
io consegno il discorso, perché vi
sia dato dopo, alla Signora, e dirò
alcune parole che mi vengono
spontaneamente dal cuore.
La prima cosa che voglio dirvi,
nel mio brutto italiano, è grazie.
Grazie perché voi fate il lavoro
nascosto, il lavoro “dietro”, quello
che non si vede, ma che rende
possibile che tutto vada avanti.
Voi siete come le fondamenta di
un palazzo: senza fondamenta il
palazzo non sta in piedi. Tanti
progetti, tante cose si possono fare, e si fanno nel mondo, nella
lotta contro la fame, e li fanno
tanta gente coraggiosa. Ma questo
grazie al vostro sostegno, al vostro
aiuto nascosto. I vostri nomi appaiono soltanto nella lista del personale — e alla fine del mese in
quella dello stipendio —, ma al di
fuori nessuno sa come vi chiamate. Eppure i vostri nomi rendono
possibile questo grande lavoro,
questo grande lavoro della lotta
contro la fame. Grazie ad un piccolo lavoro, ad un piccolo sacrificio, un vostro sacrificio nascosto,
piccolo o grande, tanti bambini
possono mangiare, tanta fame viene vinta. Vi ringrazio tanto.
Quando ho sentito parlare la
Direttrice del Programma, ho pensato tra me e me: questa è una
donna coraggiosa! E credo che
questo coraggio tutti voi lo abbiate: il coraggio di portare avanti
un’opera da “dietro le quinte” e
aiutare. C’è il coraggio di quelle
persone che si vedono, perché in
un corpo ci sono i piedi, ci sono
le mani, c’è anche la faccia: si vede la faccia, ma i piedi non si vedono, perché sono nascosti dentro
le scarpe; ma voi siete i piedi, le
mani, che sostengono il coraggio
di tutti quelli che vanno avanti,
che hanno sostenuto anche il coraggio dei vostri “martiri”, diciamo così, dei vostri testimoni. Mai,
mai dimenticare i nomi di quelli
che sono scritti lì, all’entrata. Loro
hanno potuto fare quelle cose per
il coraggio che avevano, per la fede che avevano nel loro lavoro,
ma anche perché erano sostenuti
dal vostro lavoro. Grazie tante. E
vi chiedo di pregare per me, perché anch’io possa fare qualcosa
contro la fame. Grazie!
del Pam. Allo stesso modo, la presidente ha rinnovato l’impegno di
tutto il personale verso quanti soffrono per la fame, con la promessa
di continuare a fare il massimo per
giungere a sradicare questo dramma
nel mondo. Successivamente, anche
il direttore esecutivo Cousin ha rivolto un breve saluto al Papa, nel
quale ha sottolineato come il pianeta possegga il cibo, la conoscenza,
la capacità e le competenze non solo per affrontare le sfide dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione, ma per porre fine alla fame.
Quello che serve, ha aggiunto, è la
necessaria volontà pubblica globale
di affrontare con urgenza questo
grande fallimento nella comune
umanità. Al termine del discorso,
Cousin ha regalato al Papa un disegno, opera di un giovane dello Sri
Lanka. A sua volta il Pontefice ha
donato un medaglione in bronzo
raffigurante san Martino mentre
dona parte del suo mantello a un
povero.
Prima di dirigersi verso il “giardino della pace” per salutare i bambini dell’asilo nido con i loro genitori
e i dipendenti del Pam, il Papa ha
incontrato alcuni funzionari che testimoniano le difficoltà e lo spirito
di sacrificio richiesti durante le missioni. Jok Kuol, sud-sudanese, di
religione cattolica, lavora da undici
anni al Pam. È un assistente logistico ed è impegnato nel progetto
«Less». Da piccolo ha beneficiato
dei pasti forniti alle scuole dal Pam
e, allo stesso modo, ha potuto sfamarsi quando si trovava rifugiato
nel campo Dadaab in Kenya. Alessandra Piccolo, invece, è una giovane italiana che ha iniziato a lavorare con il Pam come tirocinante. Ha
svolto servizio nella Repubblica
Centrafricana durante la recente crisi e in Nepal dopo l’emergenza del
terremoto. Sara Adam, somala, è a
capo dello sviluppo commerciale
dei trasferimenti in contanti e del
supporto sul campo. Lavora nel
quartier generale, mentre suo marito, Jakob Kern, è anche lui membro
del Pam ed è impegnato in Siria.
Durante la visita il Papa è stato
accompagnato dal cardinale Pietro
Parolin, segretario di Stato, dagli
arcivescovi Angelo Becciu, sostituto
della Segreteria di Stato, Paul Richard Gallagher, segretario per i
Rapporti con gli Stati, e Georg
Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, e da monsignor Leonardo
Sapienza, reggente della Prefettura
della casa Pontificia.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
lunedì-martedì 13-14 giugno 2016
L’appello del Papa durante la visita al Programma alimentare mondiale
La mancanza di cibo non è «frutto di
un destino cieco» ma di una «egoista e
cattiva distribuzione delle risorse». Lo
ha ricordato il Papa nel discorso
pronunciato in apertura della sessione
annuale della giunta esecutiva del
Programma alimentare mondiale, dove
si è recato lunedì mattina, 13 giugno.
Ringrazio la Direttrice Esecutiva, Signora Ertharin Cousin, per avermi
invitato ad inaugurare la Sessione
Annuale 2016 della Giunta Esecutiva
del Programma Alimentare Mondiale, come pure per le parole di benvenuto che mi ha rivolto. Porgo inoltre
il mio saluto all’Ambasciatore, Signora Stephanie Hochstetter Skinner-Klée, Presidente di questa importante assemblea, che riunisce i
Rappresentanti di diversi governi
chiamati a intraprendere iniziative
concrete per la lotta contro la fame.
E, nel salutare tutti voi qui riuniti,
ringrazio per i tanti sforzi e per l’impegno in una causa che non può
non interpellarci: la lotta contro la
fame che patiscono tanti nostri fratelli.
Poco fa ho pregato davanti al
“Muro della memoria”, testimone
del sacrificio che hanno compiuto i
membri di questo Organismo, offrendo la propria vita perché, anche
in mezzo a complesse vicende, agli
affamati non mancasse il pane. Memoria che dobbiamo conservare per
continuare a lottare, con lo stesso vigore per il tanto desiderato obiettivo
della “fame zero”. Quei nomi incisi
all’ingresso di questa Casa sono un
segno eloquente del fatto che il PAM,
lungi dall’essere una struttura anonima e formale, costituisce un valido
strumento della comunità internazionale per intraprendere attività sempre più vigorose ed efficaci. La credibilità di una istituzione non si basa sulle sue dichiarazioni, ma sulle
azioni compiute dai suoi membri. Si
fonda sulle sue testimonianze.
Nel mondo interconnesso e ipercomunicativo in cui viviamo, le distanze geografiche sembrano abbreviarsi. Abbiamo la possibilità di
prendere contatto quasi simultaneo
con quanto sta accadendo dall’altra
parte del pianeta. Per mezzo delle
tecnologie della comunicazione, ci
avviciniamo a molte situazioni dolorose e tali mezzi possono aiutare (e
hanno aiutato) a mobilitare gesti di
compassione e di solidarietà. Anche
se, paradossalmente, questa apparente vicinanza creata dall’informazione
sembra incrinarsi ogni giorno di più.
L’eccesso di informazione di cui disponiamo genera gradualmente —
perdonatemi il neologismo —, la “naturalizzazione” della miseria. Vale a
dire, a poco a poco, diventiamo immuni alle tragedie degli altri e le
consideriamo come qualcosa di “na-
Non abituarsi alla fame
turale”. Sono così tante le immagini
che ci raggiungono che noi vediamo
il dolore, ma non lo tocchiamo, sentiamo il pianto, ma non lo consoliamo, vediamo la sete ma non la saziamo. In questo modo, molte vite diventano parte di una notizia che in
poco tempo sarà sostituita da un’altra. E, mentre cambiano le notizie, il
dolore, la fame e la sete non cambiano, rimangono. Tale tendenza — o
tentazione — ci chiede di fare un
passo ulteriore e rivela a sua volta il
ruolo fondamentale che le istituzioni
come la vostra hanno per lo scenario
globale. Oggi non possiamo considerarci soddisfatti solo per il fatto di
conoscere la situazione di molti nostri fratelli. Le statistiche non ci saziano. Non basta elaborare lunghe
riflessioni o sprofondarci in intermi-
ancora bussa alle nostre porte.
Quando mancano i volti e le storie,
le vite cominciano a diventare cifre e
così un po’ alla volta corriamo il rischio di burocratizzare il dolore degli altri. Le burocrazie si occupano
di pratiche; la compassione — non la
pena, la compassione, il patire-con —
invece, si mette in gioco per le persone. E credo che in questo abbiamo
molto lavoro da compiere. Insieme
con tutte le attività che già si realizzano, è necessario lavorare per “denaturalizzare” e de-burocratizzare la
miseria e la fame dei nostri fratelli.
Questo ci impone un intervento su
scale e livelli differenti in cui venga
posto come obiettivo dei nostri sforzi la persona concreta che soffre e
ha fame, ma che racchiude anche
un’immensa ricchezza di energie e
nalità universale, lo abbiamo reso un
privilegio di pochi. Abbiamo fatto
dei frutti della terra — dono per
l’umanità — commodities di alcuni,
generando in questo modo esclusione. Il consumismo — che pervade le
nostre società — ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo, al quale a volte ormai non siamo più capaci di dare il
giusto valore, che va oltre i meri parametri economici. Tuttavia ci farà
bene ricordare che il cibo che si
spreca è come se lo si rubasse dalla
mensa del povero, di colui che ha
fame. Questa realtà ci chiede di riflettere sul problema della perdita e
dello spreco di alimenti, al fine di
individuare vie e modalità che, affrontando seriamente tale problematica, siano veicolo di solidarietà e di
colati da intricate e incomprensibili
decisioni politiche, da fuorvianti visioni ideologiche o da insormontabili barriere doganali, le armi no; non
importa la loro provenienza, esse circolano con una spavalda e quasi assoluta libertà in tante parti del mondo. E in questo modo, a nutrirsi sono le guerre e non le persone. In alcuni casi, la fame stessa viene usata
come arma di guerra. E le vittime si
moltiplicano, perché il numero delle
persone che muoiono di fame e sfinimento si aggiunge a quello dei
combattenti che muoiono sul campo
di battaglia e a quello dei molti civili
caduti negli scontri e negli attentati.
Siamo pienamente coscienti di questo, però lasciamo che la nostra coscienza si anestetizzi, e così la rendiamo insensibile, forse con parole
nabili discussioni su di esse, ripetendo continuamente argomenti già conosciuti da tutti. È necessario “denaturalizzare” la miseria e smettere
di considerarla come un dato della
realtà tra i tanti. Perché? Perché la
miseria ha un volto. Ha il volto di
un bambino, ha il volto di una famiglia, ha il volto di giovani e anziani.
Ha il volto della mancanza di opportunità e di lavoro di tante persone, ha il volto delle migrazioni forzate, delle case abbandonate o distrutte. Non possiamo “naturalizzare” la fame di tante persone; non ci
è lecito dire che la loro situazione è
frutto di un destino cieco di fronte
al quale non possiamo fare nulla. E
quando la miseria cessa di avere un
volto, possiamo cadere nella tentazione di iniziare a parlare e a discutere su “la fame”, “l’alimentazione”,
“la violenza”, lasciando da parte il
soggetto concreto, reale, che oggi
potenzialità che dobbiamo aiutare
ad esprimersi concretamente.
condivisione con i più bisognosi (cfr.
Catechesi del 5 giugno 2013: Insegnamenti I, 1 [2013], 280).
che la giustificano, ma non si può di
fronte a tante tragedie, è l’anestesia
più grave. In tal modo la forza diventa il nostro unico modo di agire,
e il potere l’obiettivo perentorio da
raggiungere. Le popolazioni più deboli non solo soffrono per i conflitti
bellici ma, nello stesso tempo, vedono ostacolato ogni tipo di aiuto.
Perciò urge de-burocratizzare tutto
quanto impedisce che i piani di aiuti
umanitari realizzino i loro obiettivi.
In questo voi avete un ruolo fondamentale, perché abbiamo bisogno di
veri eroi capaci di aprire strade, gettare ponti, snellire procedure che
pongano l’accento sul volto di chi
soffre. A tale meta devono essere
ugualmente orientate le iniziative
della comunità internazionale.
Non si tratta di armonizzare interessi che rimangono ancorati a visioni nazionali centripete o a egoismi
inconfessabili. Si tratta piuttosto che
gli Stati membri incrementino in
modo decisivo la loro reale volontà
di cooperare per questi fini. Per questa ragione, come sarebbe importante che la volontà politica di tutti i
Paesi membri consenta e incrementi
decisamente l’effettiva volontà di
“De-naturalizzare” la miseria
Quando sono stato alla FAO, in occasione della seconda Conferenza Internazionale sulla nutrizione, ho detto che una delle forti incoerenze che
eravamo invitati a considerare era il
fatto che esiste cibo sufficiente per
tutti, «ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti
per altri fini sono davanti ai nostri
occhi» (Discorso alla Plenaria della
Conferenza [20 novembre 2014], 3).
Sia chiaro: la mancanza di alimenti non è qualcosa di naturale, non è
un dato né ovvio né evidente. Che
oggi, in pieno secolo ventunesimo,
molte persone patiscano questo flagello, è dovuto ad una egoista e cattiva distribuzione delle risorse, a una
“mercantilizzazione” degli alimenti.
La terra, maltrattata e sfruttata, in
molte parti del mondo continua a
darci i suoi frutti, continua ad offrirci il meglio di sé stessa; i volti affamati ci ricordano che abbiamo stravolto i suoi fini. Un dono, che ha fi-
De-burocratizzare la fame
Dobbiamo dirlo con sincerità: ci
sono questioni che sono burocratizzate. Ci sono azioni che sono come
“imbottigliate”. L’instabilità mondiale che viviamo è ben conosciuta da
tutti. Negli ultimi tempi sono le
guerre e le minacce di conflitti ciò
che predomina nei nostri interessi e
dibattiti. E così, di fronte alla diversa gamma di conflitti esistenti, sembra che le armi abbiano acquistato
una preponderanza inusitata, in modo tale da accantonare totalmente
altre maniere di risolvere le questioni
oggetto di contrasto. Questa preferenza è ormai così radicata e accettata che impedisce la distribuzione degli alimenti nelle zone di guerra, arrivando anche alla violazione dei
principi e delle direttive più basilari
del diritto internazionale, la cui vigenza risale a molti secoli fa. Ci troviamo così davanti a uno strano e
paradossale fenomeno: mentre gli
aiuti e i piani di sviluppo sono osta-
cooperare con il Programma Alimentare Mondiale, affinché esso non solo
possa rispondere alle urgenze, ma
possa realizzare progetti solidi e
consistenti e promuovere programmi
di sviluppo a lungo termine, secondo le richieste di ciascun governo e
in accordo con le necessità dei popoli.
Il Programma Alimentare Mondiale
con il suo percorso e la sua attività
dimostra che è possibile coordinare
conoscenze scientifiche, decisioni
tecniche e azioni pratiche con gli
sforzi destinati a raccogliere risorse e
a distribuirle equamente, vale a dire
rispettando le esigenze di coloro che
le ricevono e la volontà di chi dona.
Questo metodo, nelle zone più depresse e povere, può e deve garantire
l’adeguato sviluppo delle capacità
locali ed eliminare gradualmente la
dipendenza esterna, mentre consente
di ridurre la perdita di alimenti, in
modo che nulla vada sprecato. In
una parola, il PAM è un valido esempio di come si possa lavorare in tutto il mondo per sradicare la fame attraverso una migliore assegnazione
delle risorse umane e materiali, rafforzando la comunità locale. A questo proposito, vi incoraggio ad andare avanti. Non lasciatevi vincere dalla fatica, che è molta, né permettete
che le difficoltà vi facciano desistere.
Credete in quello che fate e continuate a mettervi entusiasmo, che è il
modo in cui il seme della generosità
può germinare con forza. Concedetevi il lusso di sognare. Abbiamo bisogno di sognatori che portino avanti questi progetti.
La Chiesa Cattolica, fedele alla
sua missione, desidera lavorare di
concerto con tutte le iniziative che
lottano per la salvaguardia della dignità delle persone, specialmente di
quelle che sono ferite nei loro diritti.
Perché diventi realtà questa urgente
priorità della “fame zero”, vi assicuro
tutto il nostro sostegno e appoggio
al fine di favorire tutti gli sforzi intrapresi.
“Ho avuto fame e mi avete dato
da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere”. In queste parole si
trova una delle massime del cristianesimo. Una espressione che, aldilà
delle confessioni religiose e delle
convinzioni, potrebbe essere offerta
come regola d’oro per i nostri popoli. E come per un popolo, così pure
per l’intera umanità. L’umanità gioca il proprio futuro nella capacità di
farsi carico della fame e della sete
dei suoi fratelli. In questa capacità
di soccorrere l’affamato e l’assetato
possiamo misurare il polso della nostra umanità. Per questo, auspico
che la lotta per sradicare la fame e la
sete dei nostri fratelli, insieme con i
nostri fratelli, continui ad interpellarci; che non ci lasci dormire e ci
faccia sognare: le due cose insieme;
che ci interpelli al fine di cercare
creativamente soluzioni di cambiamento e di trasformazione.
E Dio Onnipotente sostenga con
la sua benedizione il lavoro delle vostre mani. Grazie.
Al personale del Pam il Pontefice raccomanda di non lasciarsi soffocare dai dossier e dalle pratiche
Minaccia alla pace
«La fame è una delle più grandi minacce
alla pace e alla serena convivenza umana».
È quanto ribadisce il Papa nel discorso
preparato e consegnato al personale del
Programma alimentare mondiale durante
l’incontro di lunedì 13.
Signore e Signori, amici tutti, buongiorno!
Sono lieto di incontrarvi in un clima semplice e famigliare, riflesso dello stile che
anima la vostra dedizione nel servizio a
molti nostri fratelli che oggi trovano in voi
uno dei volti solidali dell’umanità. Vorrei
anche ricordare i vostri colleghi, che sparsi
in tutto il mondo, collaborano con il Programma Alimentare Mondiale. A tutti voi,
grazie per la vostra calorosa vicinanza e accoglienza.
La Signora Direttrice Esecutiva mi ha
spiegato l’importanza del lavoro che voi
sviluppate con grande competenza e non
pochi sacrifici, in maniera generosa, anche
in situazioni difficili e spesso poco sicure
per cause naturali o umane. L’ampiezza e
la gravità dei problemi che il PAM affronta
vi chiedono di andare avanti, mettendo entusiasmo in tutto ciò che fate, senza risparmiarvi, sempre pronti a servire. Per questo
conta molto la formazione permanente,
una fine intuizione e soprattutto un grande
senso di compassione, senza il quale tutto
ciò che si è detto prima perderebbe di forza e di senso.
Il PAM ha posto un’alta missione nelle
vostre mani. Il risultato di essa dipende in
gran parte dal non lasciarsi vincere
dall’inerzia e mettere in tutto capacità
d’iniziativa, immaginazione e professionalità, al fine di cercare ogni giorno vie nuove
ed efficaci per sconfiggere la malnutrizione
e la fame che soffrono molti esseri umani
in diverse parti del mondo. Sono loro che
stanno chiedendo che diamo loro la nostra
attenzione. Per questo è importante che voi
non vi lasciate soffocare dai dossier e riusciate a scoprire che in ogni carta c’è una
storia particolare, spesso dolorosa e delicata. Il segreto è quello di vedere dietro ogni
pratica un volto umano che chiede aiuto.
Ascoltare il grido del povero vi permetterà
di non lasciarvi incasellare in freddi formulari. Tutto è poco al fine di sconfiggere un
fenomeno così terribile come la fame.
La fame è una delle più grandi minacce
alla pace e alla serena convivenza umana.
Una minaccia che non possiamo limitarci
solamente a denunciare o studiare. Bisogna
affrontarla con determinazione e risolverla
con urgenza. Ognuno di noi, con la propria responsabilità, deve agire nella misura
delle sue possibilità per raggiungere una
soluzione definitiva a questa miseria umana, che degrada e consuma l’esistenza di
un gran numero di nostri fratelli e sorelle.
E, al momento di aiutare coloro che la patiscono crudelmente, nessuno è di troppo e
può limitarsi a presentare una scusa, pen-
sando che è un problema che lo oltrepassa
o non lo riguarda.
Lo sviluppo umano, sociale, tecnico ed
economico è la via obbligata per garantire
che ogni persona, famiglia, comunità o popolo possa affrontare le proprie necessità.
E questo ci dice che dobbiamo lavorare
non per un’idea astratta, non per una difesa teorica della dignità, ma per tutelare la
vita concreta di ogni essere umano. Nelle
zone più povere e depresse, ciò significa
disporre di cibo in caso di emergenze, ma
anche fornire l’accesso a mezzi e strumenti
tecnici, a posti di lavoro, al microcredito, e
così fare in modo che la popolazione locale rafforzi la propria capacità di risposta alle crisi che si presentano all’improvviso.
Parlando di questo non mi riferisco solamente alle questioni materiali. Si tratta prima di tutto di un impegno morale che permetta di guardare con responsabilità la
persona che ho accanto, come pure l’obiettivo generale di tutto il Programma. Voi
siete chiamati a sostenere e difendere questo impegno attraverso un servizio che solo
a prima vista può sembrare puramente tecnico. Invece, ciò che voi portate avanti sono azioni che hanno bisogno di una grande forza morale, perché contribuiscono
all’edificazione del bene comune in ogni
paese e in tutta la comunità internazionale.
Di fronte a tante sfide, davanti ai pericoli e ai problemi che sorgono continuamen-
te, si ha l’impressione che il futuro
dell’umanità consisterà soltanto nel rispondere a prove e rischi sempre più concatenati e difficili da prevedere, sia nella loro ampiezza che nella loro complessità. Lo sapete bene per esperienza. Ma questo non deve scoraggiarci. Incoraggiatevi e aiutatevi a
vicenda a non lasciare entrare nel vostro
cuore la tentazione della sfiducia o dell’indifferenza. Piuttosto, credete fermamente
che l’azione quotidiana di tutti voi sta aiutando a trasformare il nostro mondo in un
mondo dal volto umano, in uno spazio che
abbia come punti cardinali la compassione,
la solidarietà, l’aiuto reciproco e la gratuità. Quanto più grande sarà la vostra generosità, la vostra tenacia, la vostra fede, tanto più la cooperazione multilaterale potrà
trovare soluzioni adeguate ai problemi che
tanto ci preoccupano, potrà allargare le visuali parziali e interessate e aprire nuove
strade alla speranza, all’equo sviluppo
umano, alla sostenibilità e alla lotta per arginare le ingiuste disuguaglianze economiche, che tanto feriscono i più vulnerabili.
Su ciascuno di voi, sulle vostre famiglie
e sul lavoro che svolgete nel PAM, invoco
abbondanti benedizioni divine.
Vi chiedo di pregare per me, ognuno
dentro di sé, o almeno che quando pensate
a me lo facciate in positivo. Ne ho molto
bisogno. Grazie.