Venezia sempre di moda, il lato fashion della
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Venezia sempre di moda, il lato fashion della
Venezia sempre di moda, il lato fashion della Laguna in una mostra Venezia è da sempre riconosciuta per la sua unicità nelle bellezze artistiche e architettoniche. Il capoluogo lagunare però ha avuto in passato un ruolo importante anche nel campo della moda e una mostra si propone di rendere omaggio a questo aspetto meno noto, ma che fece per anni sognare le generazioni del tempo. “Venezia è sempre di moda – Fashion in Laguna dal 1920 al 1970” in corso fino al 30 aprile presso il Centro Culturale Candiani di Mestre è molto più di una semplice esposizione di documenti fotografici. La mostra nasce, tra le altre, da una preziosa collaborazione con l’Istituto Luce che offre i filmati del suo sconfinato Archivio, regalandoci scene d’altri tempi e dal sapore magico tratte dalle settimane Incom dei primi anni ’50, ma degno di nota è anche il materiale video e fotografico messo a disposizione dall’Archivio Carlo Montanaro di Venezia. Lo studioso e professore di cinema ci fa catapultare nella belle Époque del Lido Venezia, quando facoltosi personaggi più o meno famosi soggiornavano presso il moresco Hotel antistante . Excelsior e ne affollavano la spiaggia Per chi conosce questo luogo, oggi meta di pellegrinaggio durante i giorni della Mostra del Cinema per chi va a caccia di vip o presunti tali, ha la possibilità di assaporare qualcosa di unico e ormai patrimonio di un passato lontano, non solo cronologicamente. La vita da spiaggia, fatta oggi di bagni, sole e aperitivi con o senza dj fu tra gli anni ’20 e nelle decadi successive, luogo di incontri, di spensieratezza, di eleganza e quindi di moda. Molte le sfilate che preannunciavano le nuove mode della stagione in arrivo, abiti di raffinata eleganza di famosi stilisti, passavano al vaglio di un pubblico esperto, composto spesso da artisti, attori e registi. L’esposizione ci mostra alcuni frammenti di quelle occasioni che non si svolgevano solo al Lido di Venezia durante il periodo della Mostra del Cinema, ma si replicavano in città in luoghi di pregio come Palazzo Grassi. Non si può non dedicare uno spazio a Roberta di Camerino, stilista veneziana dalla fama internazionale che, ispirata dai tessuti Bevilacqua, realizza la borsa “bagonghi”, vincitrice nel 1956 del prestigioso Neiman Marcus Fashion Award. E’ possibile ammirare non solo gli scatti fotografici, ma anche alcuni pezzi della Camerino come i foulard e le borse. In una sala che ospita foto di dive come Sophia Loren, Maria Callas o Brigitte Bardot giunte a Venezia per occasioni di glamour e quindi vestite con abiti alla moda, troviamo al centro della stanza un’esposizione di vestiti di grandi firme tra cui Valentino. Un colpo d’occhio davvero interessante. Una mostra che è un vero e proprio tuffo nel passato della moda, ma che è anche occasione per scoprire come eravamo, se non tutti, alcuni di noi. di Caterina Ferruzzi Roma, un secolo di clic in cronaca Di Mariano Colla Un po’ sottotono, e a margine di altri importanti eventi culturali dell’autunno romano, il Museo di Roma in Trastevere ospita dal 18 novembre al 10 gennaio la mostra “un secolo di clic in cronaca di Roma”. E’ una mostra organizzata dal Sindacato cronisti romani, con il patrocinio del Sindaco Alemanno e di Cinecittà Luce. L’esposizione fornisce una carrellata multimediale in foto, filmati e documentari audiovisivi di eventi degli ultimi 100 anni della vita della capitale, episodi importanti e comuni immortalati, in particolare, da 130 fotografie scattate da fotoreporter d’assalto e da fotografi ufficiali, presenti alle manifestazioni più significative della città. L’Istituto Luce fornisce filmati d’epoca che ripropongono gli aspetti salienti di una società che non c’è più. I documenti fotografici dal 1910 al 1940 ritraggono i segni, evidenti, della trasformazione culturale e urbanistica subiti da Roma, dall’unità di Italia sino all’apogeo fascista. Testimone irripetibile di questo periodo, e inventore del fotogiornalismo moderno è stato Adolfo Porry-Pastorel. Si vedono ancora i tratti di una Roma sparita, quasi ad evocare gli acquerelli di Ettore Roesler Franz, nell’opera “Roma pittoresca – Memorie di un’era che passa”. Il tessuto urbano e le attività quotidiane sono ancora permeate da una cultura contadina più che metropolitana, laddove eventuali stravaganze meritano l’attenzione del fotografo. Le foto di un motociclista che scende la scalinata di trinità dei Monti, di ragazze in cappellino e bermuda sulla spiaggia di Anzio, delle carrozze degli ambasciatori in feluca in Piazza del Quirinale, del gran ballo a Termini in onore dei superstiti della Tenda Rossa, della benedizione del cavallo nel giorno della festa degli animali, della festa dell’uva alle pendici del Pincio, dell’estrazione dei buoni novennali del tesoro in Piazza del Popolo, tracciano in modo estremamente realistico il volto di una città tra le due guerre, alla ricerca di una nuova identità popolare, oltre che nazionale a cui contribuisce la retorica fotografica del regime fascista. E’ curioso notare che proprio in quegli anni Mussolini ordina la smobilitazione della cronaca nera, niente più notizie sui fattacci, suicidi, tragedie passionali e familiari, violenze e stupri contro i minori e costringe giornali e fotografi ad esaltare le opere del regime. La fotografia si scatena nella propaganda, nell’immortalare il Duce e il popolo di Roma a lui devoto, in ogni manifestazione, dalle prime picconate per aprire la Via dei Fori Imperiali all’inaugurazione delle mostra del futurismo con Marinetti. Qualche burlone potrebbe evocare la politica del regime nei confronti dei “media” come soluzione all’imbarbarimento moderno dell’informazione e al suo ruolo invasivo e petulante, soprattutto sui temi che “LUI” aveva abolito, e mi riferisco, tanto per citare alcuni esempi recenti, all’esposizione mediatica a cui siamo stati sottoposti sul delitto di Cogne piuttosto che su Avetrana o sui rapimenti della piccola Denise e, oggi, di Yara. Le foto di una Roma in guerra, con la raccolta della lana dai materassi per le truppe al fronte e la trebbiatura del grano in Piazza del Popolo, immagini che esaltano il coraggio e la laboriosità di un popolo ancora orgoglioso, nonostante le vicissitudini del conflitto in corso, lasciano posto, dopo l’8 settembre del 1943, alle tragiche visioni dei bombardamenti, delle sofferenze, della solidarietà. Sono fotografie che documentano, con realismo e un senso di commiserazione, le disavventure di un paese alle prese con una disgrazia più grande di sé. La cronaca si riscatta con la liberazione e, nei primi anni del dopoguerra, fino all’inizio degli anni 60, gli strilloni ingigantiscono con il gergo della fantasia i titoli di scatola dei quotidiani. Risalta l’immagine del vigile urbano circondato dai panettoni, torroni e dolci vari donati dai cittadini il giorno dell’Epifania. Oggi celebriamo mamma, papà, nonni, suoceri, generi. In quei tempi la festa del vigile urbano rientrava, forse, nella tradizione del “volemose bene”. Chissà, i vigili di allora erano più simpatici. Sono anche gli anni in cui appaiono i nuovi attori della politica. Le fotografie di De Gasperi e poi via via di Colombo, Andreotti e Fanfani, circondati da sodali su cui Lombroso avrebbe avuto qualche cosa da dire, testimoniano la rapida crescita della DC. Divertente una fotografia di Pietro Nenni che schiaccia un pisolino sul prato di Villa Borghese, in contrasto con gli azzimati ed eleganti esponenti della DC. E’ l’Italia degli anni 50, della ripresa, dei sogni a basso costo e delle illusioni, di un mondo, tutto sommato, genuino, ma Roma stenta ancora ad uscire dagli stereotipi della povertà, peraltro ampiamente documentati anche nei film del neorealismo. Le foto di Via Veneto, che si sta affermando come un luogo “cult” in Europa, di Via Margutta, frequentata da artisti, delle locandine del film di Risi “Poveri ma belli”, di masse di ragazze che si assiepano a Cinecittà per i provini della Titanus, contrastano con i profili delle baracche lungo l’acquedotto Felice o con le istantanee scattate a campo Parioli. L’immagine di un gruppo di giovani preti festosi che, a Piazza S. Pietro, si tirano palle di neve, ricorda che Roma è sempre “caput mundi”, ma ci trasmette anche la sensazione di un clero più allegro dell’attuale. Con gli anni 60 la vita e il volto della città cambia definitivamente e si avvicina ai giorni nostri. Importante il contributo delle Olimpiadi, immortalate dalla fiaccola sul Campidoglio. Le tradizioni popolari sono ancora vive agli inizi degli anni 60. Le foto della festa trasteverina de Noantri, celebrata tra bancarelle di quartiere e tavole imbandite di anguria, porchetta di Ariccia e vino dei Castelli, inducono un pizzico di nostalgia. Suggestiva anche la celebrazione della cucina degli antichi romani, laddove consumando 23 portate preparate secondo le ricette del gastronomo imperiale Marco Gavio Apicio, i novelli trimalcione confermano il detto : se si tratta di pappare i romani non sono mai stati secondi a nessuno. Le fotografie dei nostri concittadini alle prese con tanto ben di dio denotano il piacere del commensale che assume espressioni quasi ascetiche nell’ingurgitare quantità di cibo impensabili ai giorni nostri. Di quei primi anni 60 colpiscono le immagini di folla davanti al Piper , le sartine di piazza di Spagna, gli esodi domenicali in Vespa o in 600, gli zampognari, quelli veri, in piazza Navona, Fabrizi che mangia i supplì, l’ultimo lavatoio pubblico di Piazza Mastai. In tutte queste istantanee ritroviamo le opere di Rino Barillari, detto “the king”, vero interprete del fotogiornalismo di linea, Mario De Renzis , Piero Ravagli , fotografo principe della politica, Enrico Olivero, Maurizio Riccardi. Gli ampi servizi sui movimenti del 68, sulle manifestazioni degli anni di piombo, sugli attentati terroristici a Fiumicino e al Velabro, sui funerali di Berlinguer, sul rapimento Moro, sulla visita a Roma di Nixon, ci riportano lentamente al presente e la patina del passato si dissolve nella intrigante atmosfera dei nostri giorni. In mostra la ricostruzione della scrivania del vecchio reporter, con la macchina da scrivere Olivetti, la radio ROD, il telefono Autelco, il notes per appunti Kores Palladium. Negli strumenti d’allora sembra ancora di poter ritrovare un rapporto umano tra il cronista e il mondo, una deontologia professionale che ancora si basava sul rispetto e non sul dominio e il ricatto. Informazioni: www.museodiromaintrastevere.it L’ombra del Campionissimo rievocata in una mostra al Vittoriano Giro d'Italia. Milano. Fausto Coppi con la maglietta "Bianchi". Di Mariano Colla “Un uomo solo al comando”. Chi non ricorda, tra i più adulti di noi, il coinvolgente commento radiofonico che negli anni 50 evocava, in molti, il mito dell’invincibilità? Gli italiani lottavano per lasciarsi alle spalle le tragedie della guerra. La radio lanciava nell’etere messaggi gratificanti e la gente si identificava nella immagine vincente di un campione del ciclismo, metafora di successo atta a lenire frustrazioni e sogni infranti. Il Campionissimo, il corridore più veloce dell’epoca d’oro del ciclismo, atleta tra i più popolari di tutti i tempi e mito di moltitudini di italiani, Fausto Coppi (Castellania 1919 – Tortona 1960) rivive oggi nelle sale del Vittoriano con la mostra che ne celebra gioie e dolori nel cinquantenario della sua morte. La mostra, che rimarrà aperta fino al 31 ottobre, è stata inaugurata alla presenza del ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, del sottosegretario Francesco Maria Giro e del direttore generale per la Valorizzazione dei Beni Culturali Mario Resca. “La cultura italiana è fatta anche di questi personaggi, che hanno segnato la nostra storia e contribuito allo sviluppo civile di tutto il Paese più di tanti politici – ha commentato il ministro Bondi – Coppi rappresenta l’umanità italiana semplice e genuina anche se certi valori oggi possono sembrare obsoleti”. Per anni Fausto Coppi ha rappresentato, nell’immaginario collettivo, la leggenda, il mito vincente, l’eroe che supera ogni difficoltà, sovrastando la notorietà di un altro grande campione di quel periodo, Gino Bartali. Negli spazi espositivi risaltano la maglia bianco-azzurra della Bianchi, quella rosa del Giro del ’40, il casco indossato al Vigorelli nel ’42, nella prova per conquistare il record mondiale, e la sua bici da pista. Le molte immagini di Fausto presenti in mostra, ingiallite dal tempo, ma con vivo il fascino del bianco e nero, ci mostrano un atleta, esile, pur nella sua potenza, di cui si intuisce la leggerezza del camoscio quando, agile, lascia alle spalle i ripidi tornanti dello Stelvio, del Pordoi, del Tourmalet, del Galibier, immersi nella nebbia e nella neve. Altre immagini mostrano, dietro di lui, i volti sfatti degli inseguitori, semplici esseri umani, che, vanamente, cercano di ridurre il vuoto incolmabile che li separa dal campionissimo. Le foto dei fiumi di tifosi festanti assiepati ai bordi delle strade, ne osannano le imprese. Dicevano di lui: Fausto non pedala, compone; scatta come una fionda e il resto è silenzio. Il confronto con Bartali, altro idolo del ciclismo di quei tempi, accostava il tifo per il campione toscano, ruvido e popolare, a quello per il campionissimo, elegante e quasi etereo, nel suo modo di essere, correre e presentarsi. Da un lato una presenza sanguigna e, dall’altra, riservatezza e timidezza, un viso dolce ma dal sorriso amaro e melanconico. Altre testimonianze cinematografiche, estratte dai documentari dell’Istituto Luce, descrivono i trionfi di Fausto sugli impervi colli del Tour de France, sulle Dolomiti nei Giri d’Italia e sui circuiti dei mondiali. Le immagini di Walter Molino sulla prima pagina della Domenica del Corriere lo ritraggono trionfante, un’aquila pronta a volare. Veniva avanti con leggerezza e violenza che non gli costava nulla, scriveva la Ortese. Molte le lettere di ammiratori e ammiratici, spesso vergate da mani insicure in una calligrafia stentata, testimonianze di semplici ma sentiti pensieri. Le sue imprese suscitano l’interesse del mondo della cultura di allora: da Anna Maria Ortese, a Dino Buzzati, a Curzio Malaparte. E pur nei momenti di massima gloria il viso di Fausto emana un sorriso triste, una gioia contenuta, una innata ritrosia, tipica della cultura contadina delle sue terre d’origine, la bassa Padana. Ma nel momento di massima gloria, agli inizi degli anni 50, il destino lo mette duramente alla prova. Gli anni 50 appunto : perché bisogna tenere conto di quegli anni per valutare gli effetti di uno scandalo che ha profondamente turbato l’animo del campione, dei tifosi italiani e della società in generale, particolarmente sensibile ai dettami della morale cattolica. Fausto Coppi si innamora di Giulia Occhini, avvenente signora della buona società, già coniugata e, per lei, abbandona la moglie Bruna e la piccola figlia Marina. In un’Italia bacchettona, che mette sullo stesso piano adulterio e assassinio, in cui è violenta la lotta politica tra DC e PCI, mentre la Chiesa vuole affermare a viva forza i suoi principi, lo scandalo Coppi divide la società e scatena reazioni opposte tra comprensione e condanna, apertura e delusione. Il divorzio è un attentato contro Dio, la società, il paese e un popolo si rigenerano intorno alla moralità, tuonavano i sacerdoti. Uno spirito assai bigotto induceva ogni famiglia a giudicare sulla base di un rigido dogmatismo. Un campione così amato non poteva discostarsi dai sacri principi della religione, di cui era imbevuta la società del tempo. Coppi fulgido esempio di forza, idolo delle folle, doveva essere immune dai peccati terreni. E invece no, la figura dell’amato campione veniva imbrattata dalla icona diabolica dell’amante, la vituperata “dama bianca”, come la definì il giornalista Pierre Chany, per il colore del montgomery che indossava. Critiche e insulti accomunavano la stampa e gran parte della gente in uno spietato “j’accuse” che travolgeva il campione, ingoiato da un vortice di polemiche e di accuse, con effetti devastanti sulla sua debole psiche. Anche il Pontefice si unisce alla pubblica condanna. Un nugolo di avvocati lo salva a mala pena dal carcere. Dai successi agli insuccessi. Non bastano più le sapienti mani del suo ruvido coach Biagio Capanna a rimetterlo in sesto da incidenti e fratture. La figura di Bartali riguadagna prestigio. Pochi gli amici che gli sono rimasti vicini. Il viso si fa sempre più triste, come se trasparisse un senso di colpa, ma Fausto tiene il punto, vive con la Occhini in una villa sontuosa. La dama bianca gli ha dato anche un figlio, Faustino, partorito in Argentina, lontano dalle ossessionanti pressioni italiane. E’ una “coppia maledetta” che conduce una vita lussuosa, ma che vuole anche essere generosa , forse per rivalsa nei confronti delle malelingue. Ma Fausto ne risente, gli anni passano e la forza fisica declina. Arrivano gli insuccessi sportivi e le discussioni con la Occhini, avida di denaro e di una vita sugli scudi. Nel suo declino Coppi rappresenta la metafora dell’effimero, della temporaneità del mito e del successo. Come un giovane Dio, Coppi si è consumato sull’altare della gloria. Ha difeso i suoi amori sino alla distruzione di se stesso, oltre che del simbolo che rappresentava . Le ultime corse del campionissimo rivelano la sua stanchezza, il suo lento arrendersi alle vicissitudini della vita. In questa sua palese debolezza una parte degli sportivi gli si riavvicina, e, finalmente , ne capisce il dramma. La sua tragica morte, avvenuta il 2 Gennaio del 1960, per incapacità medica nel riconoscere la malaria, contratta nell’attuale Burkina Faso, dove si era recato per un’ultima corsa, suggella ciò che all’inizio sembrava una fiaba e che poi si è trasformata in tragedia. I giornali dell’epoca esposti in mostra riportano le fotografie della moglie al capezzale del marito morente con il commento: “la moglie, al capezzale di Fausto, lo perdona in punto di morte e la Occhini viene colpita da collasso” , con buona pace di tutti. Scrive di lui Anna Maria Ortese : inseguito da quelle braccia e quegli occhi delusi, l’idolo degli Italiani passò, sembrava un bambino che pedalava la prima volta, aveva una grazia incerta , un po’ triste. E vagamente melanconica è l’atmosfera che si respira negli austeri vani del Vittoriano dove il mito, pur nel suo tragico epilogo, sospende il giudizio, come in attesa di una parola fine che non verrà mai.