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1 maggio 2013
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Recensioni
Insondabili intuizioni
Marco Fabbri
La vicenda di un giardino-monumento
come impossibilità di spiegare
e comprendere la metafora del progetto.
Se non fosse per il giardino selezionato dalla giuria –
designata per scegliere tra centinaia di progetti quello
destinato a costituire il monumento da realizzare a
Ground Zero, a pochi anni dall’attacco alle torri gemelle
–, non ci sarebbe ragione di parlare di un romanzo su
queste pagine.
Ma il tema è troppo intrigante e, non a caso, Amy Waldman – autrice di Nei confini di un giardino (Einaudi,
2012) – usa lo stratagemma di contrapporre il giardino
selezionato dalla giuria al nome dell’autore che, com’è
giusto che sia in un concorso anonimo, viene rivelato
solo all’apertura della busta riservata contenente i dati
anagrafici, dopo la scelta del progetto vincitore: Mohammad Kahn.
Uno shock per la giuria; un nome che per molti, a cominciare da giornalisti in cerca di scoop, diventa il pretesto per alimentare le recondite paure di un popolo ancora frastornato dalla tragedia e dal significato più profondo che il dramma umano vissuto dalle famiglie ha
assunto per l’intero Paese.
È evidente che il centro dell’attenzione sarà rivolto allo
scontro tra le tensioni di chi difende i principi di libertà
e i diritti dei cittadini intimamente connaturati alla democrazia americana e chi ne vede, nella scelta di un
progetto firmato da un musulmano – ma americano –,
la minaccia alla reputazione della democrazia stessa,
ove si dovesse dimostrare debole di fronte a una forviante interpretazione del gesto progettuale per finalità
diverse e recondite. Così il titolo originale, The Submission, dà ragione di uno dei temi della storia: il tentativo
di fare cambiare idea, prima ai giurati per la scelta del
giardino al posto di un altro progetto ben diverso, poi
alla giuria per annullare la scelta del progettista dal
nome “scomodo”, poi al progettista che si vorrebbe
cambiasse il progetto o, addirittura, si ritirasse.
L’intrigo è per noi interessante per lo spunto che ci viene dal cognome impiegato dalla scrittrice, appartenuto
a famiglie importanti delle quali vanno ricordati Louis
Kahn (1901-1974), architetto, di cui è in corso una importante retrospettiva al Vitra Design Museum di Weil
am Rhein (cfr. Sammicheli M., Mio padre Lou amava
l’Italia, Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2013, p. 35), e Albert
Kahn (1860-1940), banchiere e mecenate amante di fotografia e di giardini, in particolare di quelli orientali. Il
primo, affascinato dalla complessità di Roma, ha studiato l’antico per trasformarlo e trasmetterlo attraverso
architetture sempre attente al paesaggio, il cui livello
più alto − almeno secondo Ieoh Ming Pei − è rappresentato dal complesso della National Assembly di Dhaka; il
secondo ci ha lasciato una Fondazione la cui sede parigina (a Boulogne Billancourt) ospita un museo che raccoglie la memoria iconografica di oltre un ventennio
all’inizio del Novecento e la ricostruzione di un giardino
realizzato da Albert negli anni a partire dal 1895 su
chiara ispirazione multiculturale – diremmo oggi –, un
giardino per molti versi didattico.
Il romanzo, godibilissimo per l’agilità della scrittura (e
della traduzione) che non viene compromessa dall’alternarsi dei piani, delle scene e dei personaggi che si
intersecano nella narrazione fino a confluire in un finale
con qualche colpo di scena, non approfondisce più di
tanto il tema del giardino in sé, se non per qualche citazione – un po’ confusa per esigenze di copione –
sull’origine dell’idea che i protagonisti – giuria, governatore, familiari delle vittime, rappresentanti della comunità musulmana – cercano di accertare nel difficile
dialogo con il progettista il quale naturalmente difende
la propria idea: un giardino di impianto “classico”, declinato con tono minimalista, in un “recinto” chiuso da
un muro che reca al proprio interno l’iscrizione dei no-
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mi delle vittime. Ma nel difendere l’idea, che significa
difendere, al di là del nome, la propria identità di americano, nato, cresciuto ed educato secondo i principi che
i genitori hanno voluto scegliere per lui quando
nell’emigrare dall’India hanno scelto gli Stati Uniti
d’America come nuova patria, egli in realtà non cerca di
motivarla, lasciandoci intendere – al di là del gioco della finzione narrativa – che l’arte è pur sempre frutto di
un’intuizione per lo più inesplorabile dalla razionalità,
alimentando con ciò nel racconto il sospetto che abbia
voluto assegnare al progetto significati reconditi e innominabili, quali la celebrazione non già della memoria
delle vittime ma il martirio degli attentatori.
Amy Waldman, Nei confini di un giardino, Einaudi,
2012, pp. 387.
http://albert-kahn.hauts-de-seine.net/
Marco Fabbri, dottore agronomo, è Presidente dell’Ordine dei
dottori agronomi e dei dottori forestali di Milano.
www.intersezioni.eu
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