102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua
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1167 102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania Wilkes, John, The Population of Roman Dalmatia, in: Temporini, Hildegard (ed.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Berlin et al., 1977, vol. 2/6, 732–766. Winnifrith, Tom J., The Vlachs: the History of the Balkan People, London, 1987. Wolff, Robert Lee, The Second Bulgarian Empire. Its Origins and History to 1204, Speculum 24 (1949), 167–206. Vladimir Iliescu, Aachen 102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania Politik, sozioökonomische Entwicklung und Sprachgeschichte: Italoromania 1. 2. 3. 4. 5. 6. 1. Le ragioni politiche e sociali di un ritardo storico Le Italie del Medioevo Una lingua senza uno Stato e senza una società Riflessi linguistici dell’unità politica Nuovi fattori di instabilità linguistica nell’Italia post-industriale Bibliografia Le ragioni politiche e sociali di un ritardo storico Solo nel corso del Novecento la nostra lingua è diventata patrimonio comune della maggioranza degli italiani. Per tutti i secoli precedenti l’italiano è stato invece attribuzione esclusiva di una ristretta fascia di letterati e, più in generale, di persone colte; anche questi pochi privilegiati dovevano del resto fare continuamente i conti, nell’uso effettivo della lingua, con i vari idiomi locali, dominatori indiscussi della comunicazione parlata così nel Settentrione come nel Mezzogiorno d’Italia. La rigogliosa vitalità dei dialetti e, d’altro canto, la progressiva ascesa quale lingua nazionale di un italiano scritto di derivazione toscano-letteraria, che però ha stentato moltissimo a diffondersi nell’uso parlato, costituiscono senza dubbio i principali caratteri distintivi di gran parte della storia linguistica d’Italia. Fenomeni di così ampia portata e di così lunga durata hanno inevitabilmente motivazioni complesse, le quali riflettono con particolare chiarezza il legame strettissimo e costante delle vicende linguistiche con le condizioni di fondo della realtà politica e sociale italiana. Le diverse componenti di questo intreccio storico erano riepilogate alle soglie dell’Unità, in un noto passo del «Primato morale e civile degli italiani», da Vincenzo Gioberti, che non dimenticava di menzionare anche la scissione tra lo scritto e il parlato: «V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunti di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, d’instituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini» (Gioberti 1842–43/1925, vol. 1, 92s.). La mia ricostruzione si svolgerà lungo un itinerario espositivo necessariamente sintetico, toccando per gradi successivi alcuni momenti e aspetti fondamentali del rapporto tra lingua, politica e società dal Medioevo a oggi. Anticipo in un quadro sintetico gli snodi problematici ai quali sarà dedicata via via attenzione nelle pagine seguenti: (1) l’accentuata frammentazione politica e lo sviluppo di un vivace policentrismo urbano nell’Italia medievale, che aggiunsero ulteriore linfa alla costitutiva molteplicità dei volgari presenti nelle diverse aree geografiche della penisola, una molteplicità messa in luce con chiarezza già da Dante; (2) la consacrazione di un dialetto passato trionfalmente al vaglio della grammatica e della retorica, il toscano letterario, a lingua comune dell’uso scritto, evento verificatosi nella prima metà del Cinquecento con il contributo essenziale dell’industria tipografica e senza alcun significativo atto di dirigismo linguistico da parte dei governi; (3) la persistenza nei vari Stati regionali presenti sulla scena politica italiana tra Cinquecento e Settecento di un municipalismo oligarchico fondato su privilegi di stampo nobiliare, con la sua intrinseca tendenza alla staticità sociale, culturale e linguistica; Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 1168 X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte (4) gli effetti salutari dell’Unità politicoamministrativa, che determinò un risoluto progresso nel percorso storico di identificazione tra la comunità nazionale e la sua lingua, favorendo il superamento delle antiche fratture tra lo scritto e il parlato, tra l’uso colto e l’uso popolare dell’italiano; (5) le nuove questioni che si pongono per la nostra lingua nella società di oggi, in cui tendono ad assumere un ruolo sempre più dominante i nuovi rivoluzionari sistemi di comunicazione informatica e telematica. 2. Le Italie del Medioevo Il prolungato stato di frantumazione politica costituisce uno dei tratti più caratteristici e rilevanti della storia italiana, con inevitabili conseguenze su tutti gli aspetti della vita del Paese. Fondamentali fattori predisponenti sono stati più volte indicati da un lato nella stessa collocazione dello Stivale, proiettato dall’arco alpino verso il centro del Mediterraneo, in un crocevia strategico tra Oriente e Occidente, tra Settentrione e Meridione del vecchio mondo, dall’altro nella particolare conformazione del suolo, con la forte dorsale appenninica a marcarne ulteriormente lo sviluppo longitudinale e a separarne le estesissime coste, con la straordinaria varietà morfologica, climatica e ambientale che caratterizza il territorio della penisola e delle isole. I caratteri della geografia hanno quanto meno assecondato gli eventi della storia nell’attivazione di meccanismi disgregativi che raggiungono proprio nel Medioevo i picchi più elevati di ampiezza e incisività. Per quanto riguarda in particolare la tumultuosa vicenda politica di questo periodo, appare legittima una scansione in tre fasi. La prima e più dirompente di esse si svolge nei secoli immediatamente posteriori al crollo dell’impero, quando il tessuto organizzativo e comunicativo che Roma aveva stabilito, non senza ostacoli e frizioni, tra i diversi popoli presenti nell’Italia antica subisce un generale processo di logoramento e di lacerazione, sotto l’urto sempre più rovinoso delle successive ondate di invasori. Se con i Goti e poi con i Bizantini si era conservata, almeno sotto il profilo strettamente istituzionale, l’unità della penisola, con l’irruzione longobarda della seconda metà del VI sec. si delinea per la prima volta il tema storico delle «due Italie» (Abulafia 1991): un’Italia longobarda, nell’area centro-set- tentrionale e nei ducati di Spoleto e di Benevento, contrapposta a un’Italia bizantina, comprendente il litorale veneto, la Liguria, il ‘corridoio’ da Ravenna a Roma (con il Patrimonium Petri in posizione di specifico rilievo), Napoli, la Puglia, la Calabria e le isole. La discesa dei Franchi, al seguito del futuro imperatore Carlo Magno, segna sullo scorcio dell’VIII sec. una svolta significativa. In questa seconda fase si contendono il potere in Italia quattro-cinque forze politiche di diverso peso: mentre i Franchi tendono a consolidare la vasta supremazia acquisita nel Centro-Nord, il Centro-Sud rimane diviso in entità territoriali di minore estensione, controllate rispettivamente dalla Chiesa, dai Longobardi e dai Bizantini; nel corso del IX sec., poi, la conquista araba della Sicilia introduce sulla scena meridionale (e più in generale italiana) un altro notevole elemento di frattura. L’affermazione normanno-sveva sull’intero Mezzogiorno e l’esperienza ben diversa dei Comuni nel Settentrione improntano in modo contraddittorio la terza fase, che si realizza pienamente tra l’XI e il XIII sec., ma al tempo stesso produce un sistema di equilibri divergenti destinato a diventare una costante strutturale della storia italiana. La conquista normanna raccoglie tutti i territori a Sud di Roma in un ampio e solido organismo geopolitico, che si imporrà nell’Italia frammentata come il ‘Regno’ per antonomasia, conservando integra la propria fisionomia unitaria fino al 1860, sia pure con vari rivolgimenti dell’assetto interno e con un intervallo durante il dominio aragonese della Sicilia. Nel medesimo tornante cronologico il Settentrione è investito da un processo di senso opposto. Qui, infatti, l’inquadramento feudale dei domini franchi, già di per sé incline alla polverizzazione amministrativa, perde ogni residua coerenza e stabilità ad opera dei vari potentati locali, soprattutto cittadini. Questa pluralità di forze indigene sospinte da interessi di tipo affine promuove, con il contributo determinante dei dinamici ceti emergenti di estrazione borghese, la grande stagione della civiltà comunale. Si precisa così nei suoi contorni definitivi quella fondamentale discrasia storica tra le «due Italie» che per la varietà, l’ampiezza e la rilevanza delle sue implicazioni – tra cui un diverso modo di concepire il rapporto del cittadino con il potere, di tipo più ‘comunale’ e diretto nel Nord, più ‘statuale’ e burocratico nel Sud – avrebbe segnato in modo Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania permanente lo sviluppo nazionale (cf. Abulafia 1991; Petraccone 2000). Alle tre grandi fasi dell’evoluzione storico-politica ora richiamate corrispondono altrettante fasi dell’evoluzione storico-linguistica, con un parallelismo quasi perfetto, purché si tenga conto naturalmente della maggiore vischiosità dei processi linguistici rispetto alle vicende militari, ai rovesci istituzionali e agli stessi mutamenti della società. Nella prima fase il disfacimento dell’Impero e la formazione dei regni barbarici, con le loro gravi conseguenze sul piano sociale, economico e culturale, determinano una frattura della sostanziale continuità e della relativa unità che la tradizione latina poteva ancora vantare in epoca tardo-imperiale. All’indebolimento della norma grammaticale si collega l’emersione incontrollata dei fenomeni di disomogeneità diatopica, diastratica e diafasica: elementi propri delle varietà locali, popolari, informali si presentano con frequenza sempre maggiore (senza particolari intenti espressivi) nei testi scritti in latino, denunciando macroscopicamente l’accentuata instabilità della situazione linguistica. Nella seconda fase le crescenti tensioni diglottiche tra il latino e le varietà inferiori evolvono verso un netto bilinguismo (per la nozione di «diglossia» cf. Ferguson 1959/73). La definitiva costituzione di un nuovo sistema linguistico, certificata dalle prime coerenti testimonianze di scrittura volgare, non si spiega solo con una ‘presa di coscienza’ determinata dalla «rinascita carolingia» della cultura e dalla conseguente restaurazione scolastica del latino, che peraltro favorì certamente la percezione dello iato non più colmabile tra la norma grammaticale e l’uso spontaneo (cf. Petrucci 1994, 34). L’affermazione dell’autonomia del volgare riflette piuttosto la ‘presa d’atto’ di tutto un complesso di fattori politici, sociali, economici e culturali che imponevano l’adozione, in concorrenza con il latino, di un ulteriore adeguato strumento linguistico. «L’antico uso di combinare latino e volgare in talune scritture e il nuovo sforzo di dare al volgare una veste scritta non risultarono, per un buon tratto di tempo, due operazioni radicalmente diverse» (Sabatini 1968/96, 243). Fu appunto l’urgenza di una realtà storica profondamente mutata a sollecitare infine il passaggio dai progressivi esercizi di svezzamento alla totale emancipazione del volgare dal latino. Nella terza fase la forte crescita 1169 demografica ed economica, con la straordinaria rinascita della civiltà cittadina e con il nuovo ruolo assunto dagli esponenti dei ceti mercantili e delle libere professioni, produce effetti salutari anche sullo sviluppo del volgare, che amplia le sue sfere d’uso dalla comunicazione quotidiana a varie tipologie testuali: in successione temporale emergono specifici filoni di scrittura pratica (notarile, amministrativa, commerciale, epistolare), composizioni poetiche di argomento religioso e profano, volgarizzamenti e prose originali di vario genere (cf. Casapullo 1999). Questa produzione in volgare rispecchia con puntualità lo stato di frammentazione politica e linguistica che caratterizzava l’Italia medievale. Anteriormente all’età di Dante le condizioni più favorevoli al sorgere di una scrittura sovraregionale si producono – a riprova del nesso tra politica e lingua – nel regno fortemente accentrato di Federico II : qui, grazie all’eccellenza culturale della corte sveva, e all’interno di un più vasto disegno perseguito dall’imperatore (si pensi alla creazione dell’Università di Napoli), fiorisce nella prima metà del Duecento la scuola poetica siciliana, i cui testi, trasmessi in una veste linguistica ‘normalizzata’ dai copisti toscani, danno avvio alla tradizione letteraria italiana. Si tratta di una preminenza storica riconosciuta dallo stesso Dante, che nel De vulgari eloquentia è il primo autorevole esploratore delle effettive possibilità di elaborazione teorica e pratica di un volgare illustre italiano, ma proprio in quanto tale è anche il primo attentissimo testimone della frazionata realtà linguistica della penisola. L’analisi dantesca – mirante, è opportuno sottolinearlo, alla fondazione di un ben preciso paradigma letterario – stabilisce una prima fondamentale partizione tra i due versanti appenninici, assumendo il criterio geografico, più comodamente gestibile per la sua neutralità, anche dove i dati politici e culturali (oltre che linguistici) avrebbero suggerito piuttosto una prospettiva NordCentro-Sud. Dante distingue quindi almeno quattordici regioni con i relativi volgari, essi stessi soggetti a variabilità interna, persino nell’ambito dello stesso municipio: sul versante occidentale, «Apulia» tirrenica (dal Garigliano alla punta della Calabria), Roma, Ducato di Spoleto, Toscana, «Ianuensis Marchia» (l’attuale Liguria); sul versante orientale, «Apulia» adriatica, «Marchia Anconitana», Romagna, Lombardia (in accezione più ampia dell’attuale), Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 1170 X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte «Marchia Trivisiana cum Venetiis», Friuli e Istria. La Sardegna e la Sicilia vengono annesse ai territori dell’area continentale tirrenica; ne discende un’interessante convergenza siculo-toscana (si ricordi ancora che Dante leggeva i poeti siciliani in manoscritti fortemente toscanizzati). In un quadro di partenza attraversato da discontinuità idiomatiche tanto marcate, il successo del volgare della Toscana, avviato dalla fine del Duecento all’insegna del duplice primato di questa regione nella letteratura e negli affari, era destinato a scontrarsi nell’Italia mediana e settentrionale contro l’orgoglioso autonomismo dei vari centri cittadini, nell’Italia meridionale contro l’immobilismo di una società organizzata su basi feudali: «citando casi estremi, ben diversamente motivata è la refrattarietà della Liguria, dove vige una robusta tradizione locale, da quella della Lucania e della Calabria, per le quali si ignorano manifestazioni scritte di un qualsiasi volgare fino al Quattrocento inoltrato» (Sgrilli 1988, 430). 3. Una lingua senza uno Stato e senza una società Nella prima metà del Quattrocento si completa il processo di riassestamento della società italiana post-comunale, con l’aggregazione delle città-Stato in più vasti nessi politico-territoriali organizzati intorno ai centri più importanti o ai prìncipi più autorevoli. La pace di Lodi (1454) sancisce la formazione o il consolidamento di una pluralità di «Stati regionali», a Milano, a Venezia, a Firenze, nel Piemonte, nei territori della Chiesa, nel Regno di Napoli, che caratterizzeranno l’accidentata geografia politica italiana fino all’età napoleonica. La mancanza di uno Stato in grado di affermare la propria supremazia su tutti gli altri ostacolerà fortemente l’unificazione del Paese, suscitando nel contempo gli appetiti espansionistici delle grandi potenze europee. Lo stesso dominio straniero sulla penisola, a partire dal Cinquecento, non varrà comunque a sanare il cronico problema del frazionamento: a questo proposito è stato possibile dire, con un significativo paradosso, che «l’Italia non ha mai avuto la fortuna di essere occupata per intero da un medesimo invasore» (Galli della Loggia 1998, 18). Per quanto riguarda specificamente la diffusione di un modello linguistico unitario, si impone una distinzione tra la fase quattrocentesca (pregutemberghiana) e quella postcinquecentesca (gutemberghiana): la prima fase è caratterizzata dalla formazione, nel parlato civile delle corti o nei documenti prodotti dalle cancellerie, di koinài linguistiche sovralocali, in cui le punte idiomatiche sono mitigate attraverso il riferimento al latino e al toscano (cf. Tavoni 1992); nella seconda e più matura fase il toscano letterario diviene, grazie al contributo fondamentale della stampa, la lingua comune dell’uso scritto, dotata di un’eccellente codificazione e capace di conquistarsi rapidamente un posto di rilievo tra le grandi lingue di cultura europee (cf. Trovato 1994; Marazzini 1993). «Con l’avvento del nuovo potente mezzo di comunicazione, la sede dell’elaborazione di un modello unitario si trasferisce da un luogo reale com’è la corte, centro di pratiche linguistiche di alto livello sia sul piano dello scritto sia su quello del parlato, a un luogo culturale com’è invece il libro, nel quale lo scritto (e solo lo scritto) celebra la sua apoteosi. È evidente la convergenza tra questo processo e l’altro analogo che ha determinato la sconfitta dei teorici della lingua cortigiana e la vittoria del Bembo, assertore appunto di una varietà libresca. Nella particolare situazione italiana, caratterizzata dalla mancanza di un centro capace di egemonia linguistica, l’interesse per la definizione e la diffusione di un modello standardizzato spinge l’editoria ad accogliere e a promuovere il più collaudato canone disponibile, quello trasmesso dalla grande letteratura fiorentina del Trecento» (Trifone 1993, 428; sulla cosiddetta ‘teoria cortigiana’, e sulle esperienze linguistiche cui essa intendeva richiamarsi, cf. Giovanardi 1998). Visto che dal Cinquecento all’Ottocento un modello di lingua comune generalmente apprezzato in ogni parte d’Italia c’è stato, visto inoltre che non sono mai emerse alternative linguistiche realmente praticabili sul piano nazionale, non si può fare a meno di domandarsi perché tale modello non sia riuscito, in un lasso di tempo così lungo, ad affermarsi anche come strumento dell’uso popolare e parlato. La frammentazione politica della penisola spiega solo in parte questa sorta di disturbo della crescita di cui è stata vittima la lingua italiana, un disturbo che affonda le sue radici in più ampie e profonde patologie dello sviluppo del Paese. Si consideri innanzitutto che nei vari Stati regionali si impongono sistemi di potere oligarchico ferreamente codificati, atti a confermare la situazione di privilegio dei patriziati cittadini, con grave detrimento per la mobilità sociale. Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania «Dalla seconda metà del Quattrocento al tardo Seicento in tutti i centri urbani della penisola le oligarchie locali, largamente informali, si trasformano in nobiltà più rigidamente formalizzate: ovunque si precisano regole di appartenenza al ceto dominante, si fissano criteri di ammissione, se ne specificano i caratteri distintivi. Il processo conosce la sua più alta espansione tra la metà del XVI secolo e i primi del XVII : sono questi infatti i decenni durante i quali si sviluppa in Italia anche una letteratura volta a dare fondamento ideologico e giuridico all’assetto nobiliare della società italiana, dando luogo a una concezione che non sarà più messa in discussione per oltre un secolo» (Angiolini 1997, 305). Un altro aspetto rilevante è il complessivo declino o ristagno demografico, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, delle città italiane, che si accompagna a un sensibile incremento della popolazione rurale (cf. Sonnino 1996), inserita in circuiti di relazione più limitati e più semplici, tali da non stimolare in modo incisivo il passaggio dal dialetto alla lingua. Va anche sottolineata l’assoluta inconsistenza, almeno fino alle riforme di epoca illuministica, della politica scolastica pubblica, cronicamente incapace di promuovere l’accesso di ampi strati popolari all’alfabetizzazione, e quindi anche di consentire l’apprendimento di massa dell’italiano (→ Art. 106). Le gravi disuguaglianze della società e la scarsa circolazione della cultura cospirano quindi con le barriere imposte dall’assetto politico-amministrativo nel deprimere le possibilità, le occasioni e le stesse esigenze di accesso popolare alla lingua comune. I problemi di diffusione dell’italiano sono stati aggravati in misura notevole dalla confluenza delle spinte conservatrici sopra accennate con gli interessi localistici dominanti all’interno della compagine sociale e delle istituzioni politiche. Per citare soltanto un caso esemplare, ancora nel Settecento l’ingresso di elementi nuovi nel patriziato milanese, i cui membri si spartivano le più alte cariche dell’amministrazione cittadina, era subordinato non solo alla disponibilità di ingenti patrimoni, ma anche a requisiti quali «la residenza da almeno un secolo della famiglia in Milano, l’appartenenza ad un’antica nobiltà e la rigorosa esclusione della famiglia dal commercio e da altre professioni considerate vili» (Carpanetto / Ricuperati 1998, 77). Il formalismo retorico e il particolarismo dialettale sono stati in ultima analisi i corri- 1171 spettivi linguistici del conservatorismo e del localismo che hanno caratterizzato, per l’appunto, la vita degli Stati regionali preunitari. L’orientamento preferenziale dei detentori del potere (un potere da intendere qui nell’accezione più ampia possibile, e tuttavia controllato pur sempre da pochi e circoscritti gruppi di riferimento) è andato naturalmente a rivolgersi, con contraddizione solo apparente, verso i poli alternativi dell’italiano aulico e del dialetto. Dalla combinazione di questi due sistemi linguistici antitetici e concorrenti scaturiva infatti una sorta di supersistema di difesa dei privilegi acquisiti, in grado di assicurare una duplice efficace copertura, ‘verticale’ e ‘orizzontale’, rispetto ai tentativi di ascesa interna e di ingerenza esterna. Sul piano verticale, il supersistema in questione si avvaleva di un raro e sofisticato organismo retorico-grammaticale, una lingua di eccellenza specificamente destinata agli impieghi della sfera formale e pubblica, che veniva quindi preclusa, anche per tale via, alla partecipazione attiva delle classi inferiori; mentre sul piano orizzontale era la fresca e spontanea parlata locale a rispondere alle normali esigenze della comunicazione quotidiana e insieme a marcare l’appartenenza dell’individuo al territorio, con le prerogative e i diritti che ne conseguivano rispetto ai forestieri. Non che siano mancate, da parte di individui e ambienti colti di mentalità più aperta e di indole meno conformista, esperienze comunicative di segno diverso, forme di espressione linguistica più duttili, al tempo stesso regolate e libere, interpretazioni della norma meno impettite, più sensibili all’influsso dell’uso colloquiale e popolare. Vi sono inoltre cospicui filoni di scrittura, come la lettera familiare, il diario privato o il testo teatrale, costituzionalmente inclini a tradurre nelle proprie specifiche forme una serie di materiali desunti dalla dimensione dell’oralità, non esclusi certi tratti spiccatamente «irregolari» tipici del parlato spontaneo (cf. Folena 1985; Le forme del diario 1985; Trifone 2000). Né si possono trascurare le testimonianze di tanti uomini e donne di umile condizione che sono riusciti a forzare la dura barriera imposta dall’ordinamento della società e a conquistare il difficile traguardo della lingua scritta, sia pure fermandosi spesso al livello di un italiano imperfetto e instabile, nel quale tendevano a riaffiorare in modo inavvertito elementi caratteristici del fondo dialettale (cf. Bartoli Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 1172 X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte Langeli 2000; D’Achille 1994). Ma tutta questa ingente e multiforme casistica, che ha suscitato e continua a suscitare un comprensibile interesse da parte degli studiosi (cf. i saggi raccolti in Bruni 1992–94), va ricondotta alle innegabili risorse di democraticità immanente della nostra tradizione di vivere civile, piuttosto che a progetti organici e a interventi istituzionali di avanzamento e di modernizzazione della società, della cultura e quindi anche della lingua. Si tratta, se è consentito esprimersi così, di una manifestazione di relativa autonomia del corpo rispetto alla testa del Paese. L’apertura di spazi inattesi di mobilità era favorita in alcuni casi da una certa ambivalenza del potere: si pensi soprattutto all’ambivalenza che caratterizza il potere italiano più radicato nella compagine sociale, quello della Chiesa cattolica, con il suo doppio volto aristocratico e popolare, autoritario e misericordioso, dogmatico e conciliante. 4. Riflessi linguistici dell’unità politica L’unità d’Italia, proclamata nel 1861 e realizzata nel 1870 con la conquista di Roma, ebbe profonde conseguenze non solo sul piano politico, ma anche su quello economico, sociale e culturale. Si avviò allora una fase di trasformazione e di sviluppo in tutti i settori della vita nazionale, con inevitabili riflessi sulla lingua italiana, che cominciò a diffondersi presso strati più ampi della popolazione e in ambiti d’uso rimasti per secoli dominio esclusivo dei dialetti. I moti migratòri, strettamente legati ai processi di industrializzazione e di urbanizzazione, provvedono a scompaginare i vecchi equilibri linguistici, favorendo il contatto e l’interazione fra ingenti masse di dialettofoni e di queste con gli italofoni alfabetizzati. La burocrazia, l’esercito, gli stessi apparati politici e sindacali diventano centri di diffusione della lingua nazionale; opera nello stesso senso lo sviluppo dell’istruzione, segnato peraltro da ritardi e squilibri. Il modello del fiorentino contemporaneo può giovarsi del patrocinio manzoniano, di una politica scolastica favorevole e della diffusione capillare di opere come Pinocchio (Castellani 1986); ma la dinamica sociolinguistica segue altre strade, e l’uso parlato dell’italiano tende a diffondersi sulla base delle diverse varietà regionali. In questo contesto cresce l’importanza del Settentrione, con i suoi grandi centri urbani indus- trializzati nei quali la cultura è più diffusa, e di Roma, nuova capitale, fonte di un’italianità nativa non troppo distante da quella toscana. Il progresso della stampa periodica porta alla nascita del linguaggio giornalistico moderno, mentre esclusivamente novecentesca sarà l’affermazione degli altri media contemporanei: il cinema, arricchito negli anni ’40 dal sonoro; la radio, in grado di diffondere capillarmente conoscenze senza richiedere come prerequisito l’alfabetizzazione; la televisione, che unisce la forza d’impatto spettacolare del cinema e la capacità di penetrazione sociale della radio (su tutti gli aspetti qui accennati resta fondamentale la ricostruzione di De Mauro 11963/21995; importanti anche Serianni 1990 e Mengaldo 1994). Dal punto di vista demografico e sociale, l’Italia degli anni dell’Unità, pur disponendo di una cultura urbana più intensa di quella francese o spagnola, rimaneva tuttavia un paese essenzialmente agricolo, con oltre la metà della popolazione dedita al lavoro della terra. «Lungo tutto l’arco del XVIII secolo e ancora, in buona misura, fino alla metà di quello successivo, la popolazione aumenta soprattutto nelle campagne, mentre lo sviluppo demografico delle città appare, nel complesso, assai poco dinamico» (Del Panta 1996, 135). Secondo il censimento del 1861, solo il 20 % degli italiani risiedeva in centri urbani con oltre 20.000 abitanti (ib., 207), cioè nei centri che agiscono come fonti di innovazione e irradiamento linguistico rispetto al territorio circostante. In una situazione del genere le possibilità di contatti e scambi sociali, e quindi anche linguistici, erano assai circoscritte: per la maggior parte degli italiani il dialetto costituiva lo strumento necessario e sufficiente ad assolvere i compiti comunicativi di base cui occorreva far fronte. Non a caso le punte di massimo conservativismo dialettale competevano alle zone in cui la scarsa urbanizzazione, insieme alla carenza o all’inefficienza del sistema viario, rendevano inattuabile il processo di osmosi tra gruppi umani. Questo stato di cose si modifica progressivamente a partire dagli anni ’70, quando la caduta delle barriere regionali, la riorganizzazione su base provinciale delle strutture amministrative, il notevole miglioramento dei sistemi di trasporto agevolano le migrazioni interne, stimolate dalla ricerca di elevazione socio-economica (cf. Gambi Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania 1982). Le direttrici del fenomeno migratorio sono essenzialmente due: dal Mezzogiorno verso il Settentrione in via di industrializzazione e dalle campagne verso i più avanzati centri cittadini. Per avere un’idea del rimescolamento demografico messo in moto da questa imponente massa di persone basti pensare che nel 1871 nessuno dei maggiori comuni urbani arrivava a mezzo milione di abitanti, mentre nel 1921 tale quota era raggiunta o superata da cinque città: Torino passa da 211.000 abitanti del 1871 a 500.000 del 1921, Milano da 291.000 a 818.000, Genova da 256.000 a 542.000, Roma da 212.000 a 660.000, Napoli da 489.000 a 860.000 (cf. Del Panta 1996, 207). Le conseguenze linguistiche che il processo migratorio indirettamente innesca si riveleranno vaste, profonde e durature. Il contatto fra persone di varia origine e provenienza all’interno di un’unica compagine urbana, infatti, sollecita l’elaborazione di uno strumento di mediazione comunicativa. Ciascuno deve faticosamente rinunciare alle peculiarità più marcate del proprio dialetto e ‘tesaurizzare’ ai fini relazionali gli elementi comuni con i dialetti degli altri. La varietà urbana preesistente, poi, funge insieme da punto di riferimento obbligato e da collante naturale, grazie all’indubbio prestigio esercitato nei confronti dei nuovi arrivati, tanto maggiore quanto più alta è la funzione di polo attrattivo della città. Parallelamente, il contatto linguistico ha come ulteriore conseguenza l’indebolimento della parlata cittadina, che quasi dappertutto va man mano rinunciando ai tratti più tipicamente locali, in nome di quella ‘solidarietà’ linguistica cui i nativi devono necessariamente disporsi, se non altro per arginare l’impatto delle ingenti masse di inurbati. Anche il reclutamento obbligatorio dell’esercito su base nazionale ha avuto una notevole importanza nel diffondere il tipo linguistico unitario. A volte proprio il servizio militare era l’unica occasione per entrare in rapporto diretto con realtà linguistiche diverse dalla propria parlata nativa e con lo stesso l’italiano scritto, grazie alle scuole che l’esercito approntava per gli analfabeti. La diffusa abitudine degli ufficiali piemontesi di usare il proprio dialetto fu combattuta attraverso la consegna generalizzata di parlare italiano. Naturalmente la lingua che risuonava nelle camerate e che in parte si rifletteva nelle lettere dei soldati ai familiari era ben lungi dal potersi definire immune dal re- 1173 gionalismo; per quanto riguarda in particolare la sua espressione scritta, si configurava piuttosto come italiano popolare (non a caso l’antesignano degli studi sull’italiano popolare è Leo Spitzer, il quale nel 1921 pubblicò e commentò appunto un corpus di lettere di soldati italiani: cf. Spitzer 1976). Al grande fenomeno delle migrazioni interne si somma il flusso emigratorio che nell’arco di un secolo o poco più conduce fuori dai confini nazionali un numero enorme di italiani: oltre 25 milioni, secondo stime basate sui dati ufficiali relativi agli espatri (cf. Del Panta 1996, 196). L’esodo di massa in terra straniera, che raggiunge i picchi estremi di intensità tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, assesta un’altra seria spallata all’analfabetismo e alla dialettofonia attraverso molteplici vie: in primo luogo, assottigliando la schiera degli analfabeti e dei dialettofoni soprattutto nelle regioni contadine (Veneto, Friuli, Mezzogiorno d’Italia), più arretrate dal punto di vista socio-culturale e insieme più interessate dal fenomeno delle partenze verso l’estero; in secondo luogo, grazie alla diminuita densità abitativa, migliorando indirettamente le condizioni economiche di coloro che restano in patria, i quali possono così disporre di maggiori risorse anche per l’istruzione; infine, consentendo agli emigrati analfabeti di prendere finalmente coscienza dell’importanza dell’istruzione e quindi di farsene essi stessi promotori da lontano. Sono infatti gli stessi analfabeti che «insistono in ogni occasione, quando mandano lettere a casa, perché i bimbi siano mandati a scuola, e nella loro corrispondenza ritorna frequente, doloroso, il lamento di non saper scrivere e leggere» (Lussana 1913, 134). Ancora il censimento del 1861 ci informa che gli italiani in grado di leggere e scrivere all’indomani della costituzione del Regno erano meno di un quarto dell’intera popolazione del territorio allora annesso, inserendo nel computo anche i molti che sapevano a malapena tracciare la propria firma. In alcune zone del Mezzogiorno la percentuale di analfabeti saliva a più del 90 %, e sfiorava il 100 % nel caso della popolazione femminile (cf. Vigo 1971). In mancanza di statistiche sicure e partendo dal presupposto che la mera frequentazione della scuola elementare non bastasse a garantire una duratura padronanza dell’italiano, Tullio De Mauro ha fissato presuntivamente al 2,5 % la per- Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 1174 X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte centuale della popolazione in grado di affrancarsi dall’uso del dialetto, una quota comprensiva di tutti coloro che avessero frequentato la scuola postelementare (meno dello 0,9 %), oltre che dei 400.000 toscani e dei 70.000 romani semplicemente alfabetizzati, ammessi in considerazione della contiguità dei loro dialetti con la lingua comune (cf. De Mauro 11963/21995, 42 s.). A questa stima si è opposto Arrigo Castellani, il quale ha esteso ad altre zone del Lazio, dell’Umbria e delle Marche il criterio applicato da De Mauro per la Toscana e per Roma, ha incluso nel computo quasi tutti i toscani, italofoni ‘per diritto di nascita’, e ha aggiunto tra gli italofoni per cultura anche i religiosi e chi avesse fruito di un’istruzione domiciliare. Rifacendo i calcoli su queste nuove basi, negli anni dell’unificazione gli italofoni sarebbero stati circa il 9,5 % della popolazione (cf. Castellani 1982). Si impone a questo punto una considerazione circa il pericolo insito nel valutare statistiche del genere come dati assoluti: occorre tenere presente, infatti, che la lingua comune e la parlata locale sono i poli contrapposti di un sistema complesso, nel quale si possono distinguere chiaramente varie realizzazioni intermedie, riferibili piuttosto a un italiano regionale o a un dialetto incivilito (su questi aspetti è fondamentale l’insieme dei contributi presenti in Bruni 1992–94). Ciò premesso, risulta comunque innegabile che la grande maggioranza dei cittadini del nuovo Regno poteva dirsi, dal punto di vista linguistico, straniera in patria. Lo sviluppo dell’alfabetismo e, congiuntamente, la diffusione dell’italiano diventano problemi politici con cui la nuova classe dirigente non può evitare di misurarsi (cf. Catricalà 1995). Iniziative meritorie come la legge Casati del 1859 e la legge Coppino del 1877, che sanciscono la gratuità e l’obbligatorietà del primo biennio di scuola elementare, devono peraltro fare i conti con «le difficoltà dovute a un’organizzazione scolastica deficitaria e comunque diseguale nelle varie zone, alla scarsità e alla frequente impreparazione degli insegnanti, al perdurare – nonostante i provvedimenti ministeriali – di un tasso di evasione altissimo, alle stesse resistenze all’alfabetizzazione di massa opposte dalle classi agiate di ispirazione conservatrice» (→ Art. 106). Questi fattori negativi, bilanciati in parte da una serie di fattori positivi connessi alla stessa formazione dello Stato unitario, non impedirono un calo progressivo dell’analfabetismo, la cui incidenza generale si ridusse in un solo cinquantennio di oltre la metà (dal 69 % del 1871 al 27 % del 1921), pur restando sensibilmente più alta nelle regioni meridionali (per una puntuale analisi delle statistiche sull’alfabetismo nei cento anni successivi all’Unità, cf. Petrucci 1987, 93–127). Le città si confermano i veri centri di irradiazione della lingua comune da vari punti di vista. Qui si incontrano gruppi di parlanti di diversa provenienza; qui risiede la maggior parte degli italofoni ‘per cultura’; qui si trovano gli uffici, periferici o centrali, dello Stato unitario, dove la burocrazia, con tutto il suo apparato di impiegati, mette radici (ciò vale soprattutto per i capiluoghi regionali e per la nuova capitale d’Italia). Gli impiegati ‘forestieri’ sono costretti a sprovincializzare le loro parlate per comunicare con colleghi e utenti, veicolando in tal modo un tipo sostanzialmente unitario di lingua. Un’altra centrale di italianizzazione operante nelle principali città è rappresentata dalla stampa quotidiana, che conosce un considerevole sviluppo fin dai primi decenni postunitari. Tra i giornali che hanno iniziato la pubblicazione nella seconda metà dell’Ottocento troviamo molte delle maggiori testate italiane del nostro tempo: La Stampa di Torino (1867), il Corriere della Sera di Milano (1876), L’Arena di Verona (1866), Il Gazzettino di Venezia (1887), Il Piccolo di Trieste (1881), Il Secolo XIX di Genova (1886), Il Resto del Carlino di Bologna (1885), La Nazione di Firenze (1859), Il Messaggero di Roma (1878), il Roma e Il Mattino di Napoli (rispettivamente 1861 e 1892), il Giornale di Sicilia e L’Ora di Palermo (1860 e 1900), L’Unione Sarda di Cagliari (1889), La nuova Sardegna di Sassari (1891); si aggiunga un giornale specializzato, La Gazzetta dello Sport di Milano (1896). La graduale diffusione dell’alfabetismo e, insieme, l’esistenza di un unico grande Stato favoriscono l’allargamento del pubblico dei quotidiani. Con l’estensione del diritto al voto (1882) cresce l’interesse per gli articoli di argomento politico; ed è sempre viva la curiosità dei lettori per la cronaca locale. La produzione comincia a strutturarsi in forma industriale, tanto che alcune testate raggiungono alla fine del secolo la formidabile tiratura di centomila copie giornaliere, facendo impennare la richiesta di inserzioni pubblicitarie. Le nuove scoperte – in particolare il telegrafo e poi il Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania telefono – permettono di diffondere le notizie molto più velocemente, e contribuiscono alla nascita di un vero e proprio stile giornalistico, franto, conciso, ‘telegrafico’ appunto, in un primo tempo reso necessario dagli elevati costi di trasmissione. 5. Nuovi fattori di instabilità linguistica nell’Italia post-industriale La società e l’economia d’Italia sono investite da un generale processo di modernizzazione: nel giro di pochi decenni quella che era una realtà prevalentemente agricola si è evoluta in senso post-industriale. Le novità si susseguono ormai a un ritmo talmente accelerato da configurarsi come continue emergenze, portando in primo piano i temi della flessibilità professionale e della formazione permanente. Si affermano stili di vita più aperti e dinamici, che implicano il superamento di antichi vincoli nei rapporti tra le persone e, quindi, negli scambi tra i parlanti. In particolare, l’accesso all’occupazione risulta meno condizionato che in passato da fattori predeterminati quali l’attività paterna, il sesso e l’età. Gli aspetti principali della trasformazione del mercato del lavoro sono «l’accentuarsi del processo di terziarizzazione, l’emergere di una nuova disponibilità remminile, lo sviluppo della scolarità, la diffusione di modelli flessibili e l’orientamento della domanda verso le componenti più qualificate. È venuto meno il modello tradizionale, basato sul lavoro del capofamiglia e quindi sulla netta distinzione, in termini occupazionali, professionali, salariali, sindacali, tra un segmento ‘primario’ dell’offerta di lavoro, composto dagli uomini nelle età centrali, e un segmento ‘secondario’, composto dalle donne e dagli uomini giovani e anziani» (Zuliani 2000, 11). Contribuisce ad arricchire l’articolazione del quadro la cospicua e crescente presenza di lavoratori stranieri: «L’Italia è ormai un paese di immigrazione. La stima del numero di stranieri residenti regolari al 1° gennaio 1999 nel nostro paese è pari a 1.126.000, con un’incidenza del 2 % sul totale della popolazione. L’incremento registrato nel corso del 1998 risulta superiore a quello dell’anno precedente e pari al 13,6 %» (ISTAT 1999, 131; ma nel 2005 gli immigrati sono quasi 3 milioni). La classe di provenienza incide ancora fortemente sui destini professionali degli individui; le donne continuano a incontrare maggiori difficoltà degli uomini nella scelta 1175 dell’occupazione e nello sviluppo della carriera; la formazione scolastica non è collegata in modo adeguato con il mondo del lavoro; sussistono sacche di disagio soprattutto tra gli anziani, tra le famiglie numerose del Mezzogiorno e tra gli immigrati. Nonostante questi problemi, è innegabile un generale avanzamento della società e una migliore distribuzione delle risorse economiche e culturali. I progressi civili (nuove tecnologie incluse: si pensi all’influenza della televisione) si riflettono positivamente sull’uso dell’italiano, che si diffonde in misura sempre maggiore sul piano della comunicazione parlata oltre che di quella scritta, e mostra una nuova capacità di attrazione anche fuori dei confini nazionali, in particolare nei Paesi dell’area mediterranea (cf. Simone 1992). La ‘democratizzazione’ linguistica in atto porta a considerare in modo meno accigliato di un tempo una serie di forme e strutture tipiche dell’italiano parlato, tradizionalmente escluse dall’italiano scritto perché censurate dalla grammatica normativa: il pronome lui in funzione di soggetto è definitivamente riabilitato, l’uso di cosa al posto di che cosa nelle interrogative (cosa vuoi?) o di che al posto di in cui nelle temporali (il giorno che ci incontrammo) non scandalizza nessuno, mentre il tipo a me mi piace, di tono più trasandato, diviene il titolo ammiccante di una rubrica del dotto supplemento domenicale del Sole-24 ore (per una compiuta rassegna critica di questa fenomenologia emergente cf. Sabatini 1985, 154–184). L’impiego ora citato di a me mi in una sede di prestigio è riconducibile alla notevole diffusione, soprattutto nella stampa quotidiana e periodica, di «testi misti», caratterizzati dalla contaminazione di diversi piani culturali e dei corrispondenti modelli linguistici (Dardano 1994, 361–365). Per una sorta di nemesi storica, il parlato si prende una rivincita sullo scritto, rischiando però di depauperare la lingua dei suoi usi più raffinati e complessi, anche per l’inarrestabile tendenza a sostituire, in un numero sempre maggiore di circostanze, la scrittura a mano con il chiacchiericcio del telefono cellulare o della chat (sul rilancio planetario del parlato promosso dalla diffusione dei nuovi media cf. Simone 2000, 47–49). Con la chat, in particolare, nasce un genere discorsivo del tutto nuovo, una sorta di sintesi tra scritto e parlato fortemente influenzata dalle peculiarità del mezzo elettronico: questo moderno sistema Bereitgestellt von | Heinrich Heine Universität Düsseldorf Angemeldet Heruntergeladen am | 29.04.15 10:30 1176 X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte di comunicazione consente infatti di scambiarsi via Internet messaggi digitati al computer del tutto paragonabili alle battute di un dialogo a viva voce, data la produzione e la fruizione sincrona, ‘in tempo reale’, degli interventi. L’inevitabile ridimensionamento dei processi di elaborazione testuale contribuisce a promuovere il largo ricorso da parte degli utenti delle chat al registro colloquialeinformale, con una frequente coloritura ludica di chiara impronta giovanile, e culmina nell’adozione dei cosiddetti emoticons, piccole icone di facce umane delineate con i segni della punteggiatura, che esprimono in modo ideografico anziché alfabetico una serie di emozioni (cf. Pistolesi 2004). L’effervescenza delle varietà costitutive del repertorio linguistico e l’esposizione a una congerie di stili comunicativi producono talvolta «un comprensibile senso di disorientamento nell’utente medio dell’italiano, che da un lato non può più contare sul tradizionale modello della lingua letteraria, dall’altro non può neppure surrogare quel modello con la lingua dei mass-media, troppo eterogenea e quindi incapace di garantire un punto di riferimento unitario» (Trifone 1999, 77). In una situazione del genere dovrebbe crescere l’importanza della scuola come luogo deputato alla promozione di usi linguistici ‘virtuosi’, non certo nel senso dell’orchestrazione di campagne neopuristiche o dell’addestramento a un’esteriore abilità retorica, ma nel senso dell’educazione a una piena padronanza dei registri elevati, formali e tecnici della lingua, in aggiunta a quelli colloquiali sperimentati quotidianamente. Se le cose stanno così, appare discutibile una certa politica scolastica oggi di moda, orientata in sostanza a privilegiare saperi empirici immediatamente funzionali, come la navigazione in Internet (che oltre tutto gode già per suo conto di un enorme successo presso i giovani), rispetto a saperi astratti, scientifici e umanistici, più profondamente formativi. La situazione linguistica è ulteriormente movimentata dal declino dell’italiano scientifico, incapace di contrastare l’egemonia dell’inglese, e dalla sorprendente resistenza dei dialetti, o almeno di specificità diatopiche nettamente riconoscibili. Quest’ultimo fenomeno, in sé tutt’altro che negativo, fornisce d’altra parte un argomento di notevole potere suggestivo alle spinte centrifughe di matrice localistica. Va rilevato, a tale riguardo, che i traguardi raggiunti dal Paese non hanno cancellato completamente il profondo stigma impresso da secoli di divisioni geopolitiche e socioculturali. Non si può non ammettere che il celebre aforisma «fatta l’Italia bisogna fare gli Italiani», ripetuto con insistenza negli anni successivi all’unificazione, conserva gran parte della sua attualità, se è vero che si continua ancora a discutere molto sulla stessa esistenza di un’identità comune del popolo italiano, a lamentare le sue carenze di senso civico, di coesione morale e di orgoglio nazionale. Si veda ad esempio la seguente affermazione di Alberto Asor Rosa, emblematica nel suo sconsolato pessimismo: «Io trovo che lo spirito pubblico in Italia – cioè il senso profondo della comunità nazionale sotto leggi e regole uniformi e valide per tutti – sia semplicemente a pezzi» (2000, 17). Simili giudizi e stati d’animo risentono certamente del successo di dimensioni inattese ottenuto nel Settentrione dai movimenti leghisti di opposizione allo Stato centrale (oltre l’8 % del totale dei voti nazionali alla Lega Nord nelle elezioni del 1992 e del 1994). È significativo che questi movimenti organizzino politicamente la difesa di posizioni ideologiche ed economiche ispirate a un ruvido autonomismo issando esplicitamente la bandiera della più remota tradizione comunale, e trovando proprio nella perdurante diversità degli accenti linguistici un appiglio per l’audace operazione di recupero. Si tratta di un’impostazione che ignora disinvoltamente una lunga e complessa vicenda di rapporti e di scambi tra le varie zone del Paese, con il ricco patrimonio comune di memorie, convinzioni, usanze e pratiche quotidiane per tale via accumulato (cf. Romano 11994/21997), ma che al tempo stesso conferma nel modo più clamoroso quanto siano profonde e tenaci le radici dell’antico particolarismo italiano. 6. Bibliografia Abulafia, David, Le due Italie. Relazioni economiche fra il Regno normanno di Sicilia e i comuni settentrionali, Napoli, 1991 (ed. orig. ingl. 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