102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua

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102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua
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102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania
Wilkes, John, The Population of Roman Dalmatia,
in: Temporini, Hildegard (ed.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Berlin et al., 1977,
vol. 2/6, 732–766.
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Wolff, Robert Lee, The Second Bulgarian Empire.
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Vladimir Iliescu, Aachen
102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua:
Italoromania
Politik, sozioökonomische Entwicklung und Sprachgeschichte:
Italoromania
1.
2.
3.
4.
5.
6.
1.
Le ragioni politiche e sociali di un ritardo
storico
Le Italie del Medioevo
Una lingua senza uno Stato e senza una
società
Riflessi linguistici dell’unità politica
Nuovi fattori di instabilità linguistica
nell’Italia post-industriale
Bibliografia
Le ragioni politiche e sociali di un
ritardo storico
Solo nel corso del Novecento la nostra lingua è diventata patrimonio comune della
maggioranza degli italiani. Per tutti i secoli
precedenti l’italiano è stato invece attribuzione esclusiva di una ristretta fascia di letterati e, più in generale, di persone colte; anche questi pochi privilegiati dovevano del
resto fare continuamente i conti, nell’uso effettivo della lingua, con i vari idiomi locali,
dominatori indiscussi della comunicazione
parlata così nel Settentrione come nel Mezzogiorno d’Italia. La rigogliosa vitalità dei
dialetti e, d’altro canto, la progressiva ascesa
quale lingua nazionale di un italiano scritto
di derivazione toscano-letteraria, che però
ha stentato moltissimo a diffondersi nell’uso
parlato, costituiscono senza dubbio i principali caratteri distintivi di gran parte della
storia linguistica d’Italia. Fenomeni di così
ampia portata e di così lunga durata hanno
inevitabilmente motivazioni complesse, le
quali riflettono con particolare chiarezza il
legame strettissimo e costante delle vicende
linguistiche con le condizioni di fondo della
realtà politica e sociale italiana. Le diverse
componenti di questo intreccio storico erano riepilogate alle soglie dell’Unità, in un
noto passo del «Primato morale e civile degli
italiani», da Vincenzo Gioberti, che non dimenticava di menzionare anche la scissione
tra lo scritto e il parlato:
«V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunti
di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre;
ma divisa di governi, di leggi, d’instituti, di favella
popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini»
(Gioberti 1842–43/1925, vol. 1, 92s.).
La mia ricostruzione si svolgerà lungo un
itinerario espositivo necessariamente sintetico, toccando per gradi successivi alcuni
momenti e aspetti fondamentali del rapporto tra lingua, politica e società dal Medioevo
a oggi. Anticipo in un quadro sintetico gli
snodi problematici ai quali sarà dedicata via
via attenzione nelle pagine seguenti:
(1) l’accentuata frammentazione politica
e lo sviluppo di un vivace policentrismo urbano nell’Italia medievale, che aggiunsero
ulteriore linfa alla costitutiva molteplicità
dei volgari presenti nelle diverse aree geografiche della penisola, una molteplicità
messa in luce con chiarezza già da Dante;
(2) la consacrazione di un dialetto passato trionfalmente al vaglio della grammatica
e della retorica, il toscano letterario, a lingua comune dell’uso scritto, evento verificatosi nella prima metà del Cinquecento con il
contributo essenziale dell’industria tipografica e senza alcun significativo atto di dirigismo linguistico da parte dei governi;
(3) la persistenza nei vari Stati regionali presenti sulla scena politica italiana tra
Cinquecento e Settecento di un municipalismo oligarchico fondato su privilegi di
stampo nobiliare, con la sua intrinseca tendenza alla staticità sociale, culturale e linguistica;
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(4) gli effetti salutari dell’Unità politicoamministrativa, che determinò un risoluto
progresso nel percorso storico di identificazione tra la comunità nazionale e la sua lingua, favorendo il superamento delle antiche
fratture tra lo scritto e il parlato, tra l’uso
colto e l’uso popolare dell’italiano;
(5) le nuove questioni che si pongono per
la nostra lingua nella società di oggi, in cui
tendono ad assumere un ruolo sempre più
dominante i nuovi rivoluzionari sistemi di
comunicazione informatica e telematica.
2.
Le Italie del Medioevo
Il prolungato stato di frantumazione politica costituisce uno dei tratti più caratteristici
e rilevanti della storia italiana, con inevitabili conseguenze su tutti gli aspetti della vita
del Paese. Fondamentali fattori predisponenti sono stati più volte indicati da un lato
nella stessa collocazione dello Stivale, proiettato dall’arco alpino verso il centro del Mediterraneo, in un crocevia strategico tra
Oriente e Occidente, tra Settentrione e Meridione del vecchio mondo, dall’altro nella
particolare conformazione del suolo, con la
forte dorsale appenninica a marcarne ulteriormente lo sviluppo longitudinale e a
separarne le estesissime coste, con la straordinaria varietà morfologica, climatica e ambientale che caratterizza il territorio della
penisola e delle isole. I caratteri della geografia hanno quanto meno assecondato gli
eventi della storia nell’attivazione di meccanismi disgregativi che raggiungono proprio
nel Medioevo i picchi più elevati di ampiezza
e incisività.
Per quanto riguarda in particolare la tumultuosa vicenda politica di questo periodo,
appare legittima una scansione in tre fasi.
La prima e più dirompente di esse si svolge
nei secoli immediatamente posteriori al crollo dell’impero, quando il tessuto organizzativo e comunicativo che Roma aveva stabilito, non senza ostacoli e frizioni, tra i diversi
popoli presenti nell’Italia antica subisce un
generale processo di logoramento e di lacerazione, sotto l’urto sempre più rovinoso
delle successive ondate di invasori. Se con i
Goti e poi con i Bizantini si era conservata,
almeno sotto il profilo strettamente istituzionale, l’unità della penisola, con l’irruzione longobarda della seconda metà del VI
sec. si delinea per la prima volta il tema storico delle «due Italie» (Abulafia 1991):
un’Italia longobarda, nell’area centro-set-
tentrionale e nei ducati di Spoleto e di Benevento, contrapposta a un’Italia bizantina,
comprendente il litorale veneto, la Liguria,
il ‘corridoio’ da Ravenna a Roma (con il Patrimonium Petri in posizione di specifico rilievo), Napoli, la Puglia, la Calabria e le isole. La discesa dei Franchi, al seguito del
futuro imperatore Carlo Magno, segna sullo
scorcio dell’VIII sec. una svolta significativa. In questa seconda fase si contendono il
potere in Italia quattro-cinque forze politiche di diverso peso: mentre i Franchi tendono a consolidare la vasta supremazia acquisita nel Centro-Nord, il Centro-Sud rimane
diviso in entità territoriali di minore estensione, controllate rispettivamente dalla Chiesa, dai Longobardi e dai Bizantini; nel corso
del IX sec., poi, la conquista araba della Sicilia introduce sulla scena meridionale (e più
in generale italiana) un altro notevole elemento di frattura. L’affermazione normanno-sveva sull’intero Mezzogiorno e l’esperienza ben diversa dei Comuni nel Settentrione improntano in modo contraddittorio
la terza fase, che si realizza pienamente tra
l’XI e il XIII sec., ma al tempo stesso produce un sistema di equilibri divergenti destinato a diventare una costante strutturale della
storia italiana. La conquista normanna raccoglie tutti i territori a Sud di Roma in un
ampio e solido organismo geopolitico, che
si imporrà nell’Italia frammentata come il
‘Regno’ per antonomasia, conservando integra la propria fisionomia unitaria fino al
1860, sia pure con vari rivolgimenti dell’assetto interno e con un intervallo durante il
dominio aragonese della Sicilia. Nel medesimo tornante cronologico il Settentrione è investito da un processo di senso opposto.
Qui, infatti, l’inquadramento feudale dei
domini franchi, già di per sé incline alla polverizzazione amministrativa, perde ogni residua coerenza e stabilità ad opera dei vari
potentati locali, soprattutto cittadini. Questa pluralità di forze indigene sospinte da
interessi di tipo affine promuove, con il
contributo determinante dei dinamici ceti
emergenti di estrazione borghese, la grande
stagione della civiltà comunale. Si precisa
così nei suoi contorni definitivi quella fondamentale discrasia storica tra le «due Italie» che per la varietà, l’ampiezza e la rilevanza delle sue implicazioni – tra cui un
diverso modo di concepire il rapporto del
cittadino con il potere, di tipo più ‘comunale’ e diretto nel Nord, più ‘statuale’ e burocratico nel Sud – avrebbe segnato in modo
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permanente lo sviluppo nazionale (cf. Abulafia 1991; Petraccone 2000).
Alle tre grandi fasi dell’evoluzione storico-politica ora richiamate corrispondono
altrettante fasi dell’evoluzione storico-linguistica, con un parallelismo quasi perfetto,
purché si tenga conto naturalmente della
maggiore vischiosità dei processi linguistici
rispetto alle vicende militari, ai rovesci istituzionali e agli stessi mutamenti della società. Nella prima fase il disfacimento dell’Impero e la formazione dei regni barbarici, con
le loro gravi conseguenze sul piano sociale,
economico e culturale, determinano una
frattura della sostanziale continuità e della
relativa unità che la tradizione latina poteva
ancora vantare in epoca tardo-imperiale.
All’indebolimento della norma grammaticale si collega l’emersione incontrollata dei fenomeni di disomogeneità diatopica, diastratica e diafasica: elementi propri delle varietà
locali, popolari, informali si presentano
con frequenza sempre maggiore (senza particolari intenti espressivi) nei testi scritti
in latino, denunciando macroscopicamente
l’accentuata instabilità della situazione linguistica. Nella seconda fase le crescenti tensioni diglottiche tra il latino e le varietà inferiori evolvono verso un netto bilinguismo
(per la nozione di «diglossia» cf. Ferguson
1959/73). La definitiva costituzione di un
nuovo sistema linguistico, certificata dalle
prime coerenti testimonianze di scrittura
volgare, non si spiega solo con una ‘presa di
coscienza’ determinata dalla «rinascita carolingia» della cultura e dalla conseguente
restaurazione scolastica del latino, che peraltro favorì certamente la percezione dello
iato non più colmabile tra la norma grammaticale e l’uso spontaneo (cf. Petrucci
1994, 34). L’affermazione dell’autonomia
del volgare riflette piuttosto la ‘presa d’atto’
di tutto un complesso di fattori politici, sociali, economici e culturali che imponevano
l’adozione, in concorrenza con il latino, di
un ulteriore adeguato strumento linguistico.
«L’antico uso di combinare latino e volgare in talune scritture e il nuovo sforzo di dare al volgare
una veste scritta non risultarono, per un buon
tratto di tempo, due operazioni radicalmente diverse» (Sabatini 1968/96, 243).
Fu appunto l’urgenza di una realtà storica
profondamente mutata a sollecitare infine il
passaggio dai progressivi esercizi di svezzamento alla totale emancipazione del volgare
dal latino. Nella terza fase la forte crescita
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demografica ed economica, con la straordinaria rinascita della civiltà cittadina e con il
nuovo ruolo assunto dagli esponenti dei ceti
mercantili e delle libere professioni, produce
effetti salutari anche sullo sviluppo del volgare, che amplia le sue sfere d’uso dalla comunicazione quotidiana a varie tipologie
testuali: in successione temporale emergono
specifici filoni di scrittura pratica (notarile,
amministrativa, commerciale, epistolare),
composizioni poetiche di argomento religioso e profano, volgarizzamenti e prose originali di vario genere (cf. Casapullo 1999).
Questa produzione in volgare rispecchia
con puntualità lo stato di frammentazione
politica e linguistica che caratterizzava l’Italia medievale. Anteriormente all’età di Dante le condizioni più favorevoli al sorgere di
una scrittura sovraregionale si producono –
a riprova del nesso tra politica e lingua – nel
regno fortemente accentrato di Federico II :
qui, grazie all’eccellenza culturale della corte sveva, e all’interno di un più vasto disegno
perseguito dall’imperatore (si pensi alla
creazione dell’Università di Napoli), fiorisce
nella prima metà del Duecento la scuola
poetica siciliana, i cui testi, trasmessi in una
veste linguistica ‘normalizzata’ dai copisti
toscani, danno avvio alla tradizione letteraria italiana. Si tratta di una preminenza storica riconosciuta dallo stesso Dante, che nel
De vulgari eloquentia è il primo autorevole
esploratore delle effettive possibilità di elaborazione teorica e pratica di un volgare illustre italiano, ma proprio in quanto tale è
anche il primo attentissimo testimone della
frazionata realtà linguistica della penisola.
L’analisi dantesca – mirante, è opportuno
sottolinearlo, alla fondazione di un ben preciso paradigma letterario – stabilisce una
prima fondamentale partizione tra i due versanti appenninici, assumendo il criterio geografico, più comodamente gestibile per la
sua neutralità, anche dove i dati politici e
culturali (oltre che linguistici) avrebbero
suggerito piuttosto una prospettiva NordCentro-Sud. Dante distingue quindi almeno
quattordici regioni con i relativi volgari, essi
stessi soggetti a variabilità interna, persino
nell’ambito dello stesso municipio: sul versante occidentale, «Apulia» tirrenica (dal
Garigliano alla punta della Calabria),
Roma, Ducato di Spoleto, Toscana, «Ianuensis Marchia» (l’attuale Liguria); sul
versante orientale, «Apulia» adriatica,
«Marchia Anconitana», Romagna, Lombardia (in accezione più ampia dell’attuale),
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«Marchia Trivisiana cum Venetiis», Friuli e
Istria. La Sardegna e la Sicilia vengono annesse ai territori dell’area continentale tirrenica; ne discende un’interessante convergenza siculo-toscana (si ricordi ancora che
Dante leggeva i poeti siciliani in manoscritti
fortemente toscanizzati). In un quadro di
partenza attraversato da discontinuità idiomatiche tanto marcate, il successo del volgare della Toscana, avviato dalla fine del
Duecento all’insegna del duplice primato di
questa regione nella letteratura e negli affari, era destinato a scontrarsi nell’Italia mediana e settentrionale contro l’orgoglioso autonomismo dei vari centri cittadini,
nell’Italia meridionale contro l’immobilismo di una società organizzata su basi feudali:
«citando casi estremi, ben diversamente motivata
è la refrattarietà della Liguria, dove vige una robusta tradizione locale, da quella della Lucania e
della Calabria, per le quali si ignorano manifestazioni scritte di un qualsiasi volgare fino al Quattrocento inoltrato» (Sgrilli 1988, 430).
3.
Una lingua senza uno Stato e senza
una società
Nella prima metà del Quattrocento si completa il processo di riassestamento della società italiana post-comunale, con l’aggregazione delle città-Stato in più vasti nessi
politico-territoriali organizzati intorno ai
centri più importanti o ai prìncipi più autorevoli. La pace di Lodi (1454) sancisce la
formazione o il consolidamento di una pluralità di «Stati regionali», a Milano, a Venezia, a Firenze, nel Piemonte, nei territori
della Chiesa, nel Regno di Napoli, che caratterizzeranno l’accidentata geografia politica
italiana fino all’età napoleonica. La mancanza di uno Stato in grado di affermare la
propria supremazia su tutti gli altri ostacolerà fortemente l’unificazione del Paese, suscitando nel contempo gli appetiti espansionistici delle grandi potenze europee. Lo
stesso dominio straniero sulla penisola, a
partire dal Cinquecento, non varrà comunque a sanare il cronico problema del frazionamento: a questo proposito è stato possibile dire, con un significativo paradosso, che
«l’Italia non ha mai avuto la fortuna di essere occupata per intero da un medesimo invasore» (Galli della Loggia 1998, 18).
Per quanto riguarda specificamente la diffusione di un modello linguistico unitario, si
impone una distinzione tra la fase quattrocentesca (pregutemberghiana) e quella postcinquecentesca (gutemberghiana): la prima
fase è caratterizzata dalla formazione, nel
parlato civile delle corti o nei documenti
prodotti dalle cancellerie, di koinài linguistiche sovralocali, in cui le punte idiomatiche
sono mitigate attraverso il riferimento al latino e al toscano (cf. Tavoni 1992); nella seconda e più matura fase il toscano letterario
diviene, grazie al contributo fondamentale
della stampa, la lingua comune dell’uso
scritto, dotata di un’eccellente codificazione
e capace di conquistarsi rapidamente un
posto di rilievo tra le grandi lingue di cultura europee (cf. Trovato 1994; Marazzini
1993).
«Con l’avvento del nuovo potente mezzo di comunicazione, la sede dell’elaborazione di un modello
unitario si trasferisce da un luogo reale com’è la
corte, centro di pratiche linguistiche di alto livello
sia sul piano dello scritto sia su quello del parlato,
a un luogo culturale com’è invece il libro, nel quale lo scritto (e solo lo scritto) celebra la sua apoteosi. È evidente la convergenza tra questo processo e l’altro analogo che ha determinato la sconfitta
dei teorici della lingua cortigiana e la vittoria del
Bembo, assertore appunto di una varietà libresca.
Nella particolare situazione italiana, caratterizzata dalla mancanza di un centro capace di egemonia linguistica, l’interesse per la definizione e la
diffusione di un modello standardizzato spinge
l’editoria ad accogliere e a promuovere il più collaudato canone disponibile, quello trasmesso dalla grande letteratura fiorentina del Trecento»
(Trifone 1993, 428; sulla cosiddetta ‘teoria cortigiana’, e sulle esperienze linguistiche cui essa intendeva richiamarsi, cf. Giovanardi 1998).
Visto che dal Cinquecento all’Ottocento un
modello di lingua comune generalmente apprezzato in ogni parte d’Italia c’è stato, visto
inoltre che non sono mai emerse alternative
linguistiche realmente praticabili sul piano
nazionale, non si può fare a meno di domandarsi perché tale modello non sia riuscito, in
un lasso di tempo così lungo, ad affermarsi
anche come strumento dell’uso popolare e
parlato. La frammentazione politica della
penisola spiega solo in parte questa sorta di
disturbo della crescita di cui è stata vittima
la lingua italiana, un disturbo che affonda
le sue radici in più ampie e profonde patologie dello sviluppo del Paese. Si consideri
innanzitutto che nei vari Stati regionali si
impongono sistemi di potere oligarchico ferreamente codificati, atti a confermare la situazione di privilegio dei patriziati cittadini,
con grave detrimento per la mobilità sociale.
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«Dalla seconda metà del Quattrocento al tardo
Seicento in tutti i centri urbani della penisola le
oligarchie locali, largamente informali, si trasformano in nobiltà più rigidamente formalizzate:
ovunque si precisano regole di appartenenza al
ceto dominante, si fissano criteri di ammissione,
se ne specificano i caratteri distintivi. Il processo
conosce la sua più alta espansione tra la metà del
XVI secolo e i primi del XVII : sono questi infatti i
decenni durante i quali si sviluppa in Italia anche
una letteratura volta a dare fondamento ideologico e giuridico all’assetto nobiliare della società
italiana, dando luogo a una concezione che non
sarà più messa in discussione per oltre un secolo»
(Angiolini 1997, 305).
Un altro aspetto rilevante è il complessivo
declino o ristagno demografico, a partire
dalla seconda metà del Cinquecento, delle
città italiane, che si accompagna a un sensibile incremento della popolazione rurale (cf.
Sonnino 1996), inserita in circuiti di relazione più limitati e più semplici, tali da non
stimolare in modo incisivo il passaggio dal
dialetto alla lingua. Va anche sottolineata
l’assoluta inconsistenza, almeno fino alle riforme di epoca illuministica, della politica
scolastica pubblica, cronicamente incapace
di promuovere l’accesso di ampi strati popolari all’alfabetizzazione, e quindi anche di
consentire l’apprendimento di massa dell’italiano (→ Art. 106). Le gravi disuguaglianze
della società e la scarsa circolazione della
cultura cospirano quindi con le barriere imposte dall’assetto politico-amministrativo
nel deprimere le possibilità, le occasioni e le
stesse esigenze di accesso popolare alla lingua comune.
I problemi di diffusione dell’italiano sono
stati aggravati in misura notevole dalla
confluenza delle spinte conservatrici sopra
accennate con gli interessi localistici dominanti all’interno della compagine sociale e
delle istituzioni politiche. Per citare soltanto
un caso esemplare, ancora nel Settecento
l’ingresso di elementi nuovi nel patriziato
milanese, i cui membri si spartivano le più
alte cariche dell’amministrazione cittadina,
era subordinato non solo alla disponibilità
di ingenti patrimoni, ma anche a requisiti
quali
«la residenza da almeno un secolo della famiglia
in Milano, l’appartenenza ad un’antica nobiltà e
la rigorosa esclusione della famiglia dal commercio e da altre professioni considerate vili» (Carpanetto / Ricuperati 1998, 77).
Il formalismo retorico e il particolarismo
dialettale sono stati in ultima analisi i corri-
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spettivi linguistici del conservatorismo e del
localismo che hanno caratterizzato, per l’appunto, la vita degli Stati regionali preunitari. L’orientamento preferenziale dei detentori del potere (un potere da intendere qui
nell’accezione più ampia possibile, e tuttavia
controllato pur sempre da pochi e circoscritti gruppi di riferimento) è andato naturalmente a rivolgersi, con contraddizione solo
apparente, verso i poli alternativi dell’italiano aulico e del dialetto. Dalla combinazione
di questi due sistemi linguistici antitetici e
concorrenti scaturiva infatti una sorta di supersistema di difesa dei privilegi acquisiti,
in grado di assicurare una duplice efficace
copertura, ‘verticale’ e ‘orizzontale’, rispetto
ai tentativi di ascesa interna e di ingerenza
esterna. Sul piano verticale, il supersistema in
questione si avvaleva di un raro e sofisticato
organismo retorico-grammaticale, una lingua di eccellenza specificamente destinata
agli impieghi della sfera formale e pubblica,
che veniva quindi preclusa, anche per tale
via, alla partecipazione attiva delle classi inferiori; mentre sul piano orizzontale era la
fresca e spontanea parlata locale a rispondere alle normali esigenze della comunicazione
quotidiana e insieme a marcare l’appartenenza dell’individuo al territorio, con le prerogative e i diritti che ne conseguivano rispetto ai forestieri.
Non che siano mancate, da parte di individui e ambienti colti di mentalità più aperta
e di indole meno conformista, esperienze comunicative di segno diverso, forme di espressione linguistica più duttili, al tempo
stesso regolate e libere, interpretazioni della
norma meno impettite, più sensibili all’influsso dell’uso colloquiale e popolare. Vi
sono inoltre cospicui filoni di scrittura,
come la lettera familiare, il diario privato o
il testo teatrale, costituzionalmente inclini a
tradurre nelle proprie specifiche forme una
serie di materiali desunti dalla dimensione
dell’oralità, non esclusi certi tratti spiccatamente «irregolari» tipici del parlato spontaneo (cf. Folena 1985; Le forme del diario
1985; Trifone 2000). Né si possono trascurare le testimonianze di tanti uomini e donne
di umile condizione che sono riusciti a forzare la dura barriera imposta dall’ordinamento della società e a conquistare il difficile traguardo della lingua scritta, sia pure
fermandosi spesso al livello di un italiano
imperfetto e instabile, nel quale tendevano
a riaffiorare in modo inavvertito elementi
caratteristici del fondo dialettale (cf. Bartoli
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X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte
Langeli 2000; D’Achille 1994). Ma tutta
questa ingente e multiforme casistica, che ha
suscitato e continua a suscitare un comprensibile interesse da parte degli studiosi (cf. i
saggi raccolti in Bruni 1992–94), va ricondotta alle innegabili risorse di democraticità
immanente della nostra tradizione di vivere
civile, piuttosto che a progetti organici e a
interventi istituzionali di avanzamento e di
modernizzazione della società, della cultura
e quindi anche della lingua. Si tratta, se è
consentito esprimersi così, di una manifestazione di relativa autonomia del corpo rispetto alla testa del Paese. L’apertura di spazi inattesi di mobilità era favorita in alcuni
casi da una certa ambivalenza del potere: si
pensi soprattutto all’ambivalenza che caratterizza il potere italiano più radicato nella
compagine sociale, quello della Chiesa cattolica, con il suo doppio volto aristocratico
e popolare, autoritario e misericordioso,
dogmatico e conciliante.
4.
Riflessi linguistici dell’unità
politica
L’unità d’Italia, proclamata nel 1861 e realizzata nel 1870 con la conquista di Roma,
ebbe profonde conseguenze non solo sul piano politico, ma anche su quello economico,
sociale e culturale. Si avviò allora una fase di
trasformazione e di sviluppo in tutti i settori
della vita nazionale, con inevitabili riflessi
sulla lingua italiana, che cominciò a diffondersi presso strati più ampi della popolazione e in ambiti d’uso rimasti per secoli dominio esclusivo dei dialetti. I moti migratòri,
strettamente legati ai processi di industrializzazione e di urbanizzazione, provvedono
a scompaginare i vecchi equilibri linguistici,
favorendo il contatto e l’interazione fra ingenti masse di dialettofoni e di queste con gli
italofoni alfabetizzati. La burocrazia, l’esercito, gli stessi apparati politici e sindacali diventano centri di diffusione della lingua nazionale; opera nello stesso senso lo sviluppo
dell’istruzione, segnato peraltro da ritardi e
squilibri. Il modello del fiorentino contemporaneo può giovarsi del patrocinio manzoniano, di una politica scolastica favorevole
e della diffusione capillare di opere come
Pinocchio (Castellani 1986); ma la dinamica
sociolinguistica segue altre strade, e l’uso
parlato dell’italiano tende a diffondersi sulla
base delle diverse varietà regionali. In questo contesto cresce l’importanza del Settentrione, con i suoi grandi centri urbani indus-
trializzati nei quali la cultura è più diffusa, e
di Roma, nuova capitale, fonte di un’italianità nativa non troppo distante da quella
toscana. Il progresso della stampa periodica
porta alla nascita del linguaggio giornalistico moderno, mentre esclusivamente novecentesca sarà l’affermazione degli altri media
contemporanei: il cinema, arricchito negli
anni ’40 dal sonoro; la radio, in grado di
diffondere capillarmente conoscenze senza
richiedere come prerequisito l’alfabetizzazione; la televisione, che unisce la forza
d’impatto spettacolare del cinema e la capacità di penetrazione sociale della radio (su
tutti gli aspetti qui accennati resta fondamentale la ricostruzione di De Mauro
11963/21995; importanti anche Serianni 1990
e Mengaldo 1994).
Dal punto di vista demografico e sociale,
l’Italia degli anni dell’Unità, pur disponendo di una cultura urbana più intensa di quella francese o spagnola, rimaneva tuttavia un
paese essenzialmente agricolo, con oltre la
metà della popolazione dedita al lavoro della terra.
«Lungo tutto l’arco del XVIII secolo e ancora, in
buona misura, fino alla metà di quello successivo,
la popolazione aumenta soprattutto nelle campagne, mentre lo sviluppo demografico delle città
appare, nel complesso, assai poco dinamico» (Del
Panta 1996, 135).
Secondo il censimento del 1861, solo il 20 %
degli italiani risiedeva in centri urbani con
oltre 20.000 abitanti (ib., 207), cioè nei centri che agiscono come fonti di innovazione e
irradiamento linguistico rispetto al territorio circostante. In una situazione del genere
le possibilità di contatti e scambi sociali, e
quindi anche linguistici, erano assai circoscritte: per la maggior parte degli italiani il
dialetto costituiva lo strumento necessario e
sufficiente ad assolvere i compiti comunicativi di base cui occorreva far fronte. Non a
caso le punte di massimo conservativismo
dialettale competevano alle zone in cui la
scarsa urbanizzazione, insieme alla carenza
o all’inefficienza del sistema viario, rendevano inattuabile il processo di osmosi tra gruppi umani. Questo stato di cose si modifica
progressivamente a partire dagli anni ’70,
quando la caduta delle barriere regionali, la
riorganizzazione su base provinciale delle
strutture amministrative, il notevole miglioramento dei sistemi di trasporto agevolano
le migrazioni interne, stimolate dalla ricerca
di elevazione socio-economica (cf. Gambi
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1982). Le direttrici del fenomeno migratorio
sono essenzialmente due: dal Mezzogiorno
verso il Settentrione in via di industrializzazione e dalle campagne verso i più avanzati
centri cittadini. Per avere un’idea del rimescolamento demografico messo in moto da
questa imponente massa di persone basti
pensare che nel 1871 nessuno dei maggiori
comuni urbani arrivava a mezzo milione di
abitanti, mentre nel 1921 tale quota era raggiunta o superata da cinque città: Torino
passa da 211.000 abitanti del 1871 a 500.000
del 1921, Milano da 291.000 a 818.000, Genova da 256.000 a 542.000, Roma da
212.000 a 660.000, Napoli da 489.000 a
860.000 (cf. Del Panta 1996, 207). Le conseguenze linguistiche che il processo migratorio indirettamente innesca si riveleranno
vaste, profonde e durature. Il contatto fra
persone di varia origine e provenienza all’interno di un’unica compagine urbana, infatti,
sollecita l’elaborazione di uno strumento di
mediazione comunicativa. Ciascuno deve faticosamente rinunciare alle peculiarità più
marcate del proprio dialetto e ‘tesaurizzare’
ai fini relazionali gli elementi comuni con i
dialetti degli altri. La varietà urbana preesistente, poi, funge insieme da punto di riferimento obbligato e da collante naturale,
grazie all’indubbio prestigio esercitato nei
confronti dei nuovi arrivati, tanto maggiore
quanto più alta è la funzione di polo attrattivo della città. Parallelamente, il contatto
linguistico ha come ulteriore conseguenza
l’indebolimento della parlata cittadina, che
quasi dappertutto va man mano rinunciando ai tratti più tipicamente locali, in nome di
quella ‘solidarietà’ linguistica cui i nativi devono necessariamente disporsi, se non altro
per arginare l’impatto delle ingenti masse di
inurbati.
Anche il reclutamento obbligatorio
dell’esercito su base nazionale ha avuto una
notevole importanza nel diffondere il tipo
linguistico unitario. A volte proprio il servizio militare era l’unica occasione per entrare
in rapporto diretto con realtà linguistiche
diverse dalla propria parlata nativa e con lo
stesso l’italiano scritto, grazie alle scuole che
l’esercito approntava per gli analfabeti. La
diffusa abitudine degli ufficiali piemontesi
di usare il proprio dialetto fu combattuta attraverso la consegna generalizzata di parlare
italiano. Naturalmente la lingua che risuonava nelle camerate e che in parte si rifletteva nelle lettere dei soldati ai familiari era
ben lungi dal potersi definire immune dal re-
1173
gionalismo; per quanto riguarda in particolare la sua espressione scritta, si configurava
piuttosto come italiano popolare (non a
caso l’antesignano degli studi sull’italiano
popolare è Leo Spitzer, il quale nel 1921
pubblicò e commentò appunto un corpus di
lettere di soldati italiani: cf. Spitzer 1976).
Al grande fenomeno delle migrazioni interne si somma il flusso emigratorio che
nell’arco di un secolo o poco più conduce
fuori dai confini nazionali un numero enorme di italiani: oltre 25 milioni, secondo
stime basate sui dati ufficiali relativi agli espatri (cf. Del Panta 1996, 196). L’esodo di
massa in terra straniera, che raggiunge i picchi estremi di intensità tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, assesta un’altra seria spallata all’analfabetismo e alla
dialettofonia attraverso molteplici vie: in
primo luogo, assottigliando la schiera degli
analfabeti e dei dialettofoni soprattutto nelle regioni contadine (Veneto, Friuli, Mezzogiorno d’Italia), più arretrate dal punto di
vista socio-culturale e insieme più interessate dal fenomeno delle partenze verso l’estero; in secondo luogo, grazie alla diminuita
densità abitativa, migliorando indirettamente le condizioni economiche di coloro
che restano in patria, i quali possono così
disporre di maggiori risorse anche per l’istruzione; infine, consentendo agli emigrati
analfabeti di prendere finalmente coscienza
dell’importanza dell’istruzione e quindi di
farsene essi stessi promotori da lontano.
Sono infatti gli stessi analfabeti che
«insistono in ogni occasione, quando mandano
lettere a casa, perché i bimbi siano mandati a
scuola, e nella loro corrispondenza ritorna frequente, doloroso, il lamento di non saper scrivere
e leggere» (Lussana 1913, 134).
Ancora il censimento del 1861 ci informa
che gli italiani in grado di leggere e scrivere
all’indomani della costituzione del Regno
erano meno di un quarto dell’intera popolazione del territorio allora annesso, inserendo nel computo anche i molti che sapevano a
malapena tracciare la propria firma. In alcune zone del Mezzogiorno la percentuale di
analfabeti saliva a più del 90 %, e sfiorava il
100 % nel caso della popolazione femminile
(cf. Vigo 1971). In mancanza di statistiche
sicure e partendo dal presupposto che la
mera frequentazione della scuola elementare non bastasse a garantire una duratura
padronanza dell’italiano, Tullio De Mauro
ha fissato presuntivamente al 2,5 % la per-
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X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte
centuale della popolazione in grado di affrancarsi dall’uso del dialetto, una quota
comprensiva di tutti coloro che avessero frequentato la scuola postelementare (meno
dello 0,9 %), oltre che dei 400.000 toscani e
dei 70.000 romani semplicemente alfabetizzati, ammessi in considerazione della contiguità dei loro dialetti con la lingua comune
(cf. De Mauro 11963/21995, 42 s.). A questa
stima si è opposto Arrigo Castellani, il quale
ha esteso ad altre zone del Lazio, dell’Umbria e delle Marche il criterio applicato da
De Mauro per la Toscana e per Roma, ha incluso nel computo quasi tutti i toscani, italofoni ‘per diritto di nascita’, e ha aggiunto
tra gli italofoni per cultura anche i religiosi e
chi avesse fruito di un’istruzione domiciliare. Rifacendo i calcoli su queste nuove basi,
negli anni dell’unificazione gli italofoni sarebbero stati circa il 9,5 % della popolazione
(cf. Castellani 1982). Si impone a questo
punto una considerazione circa il pericolo
insito nel valutare statistiche del genere
come dati assoluti: occorre tenere presente,
infatti, che la lingua comune e la parlata locale sono i poli contrapposti di un sistema
complesso, nel quale si possono distinguere
chiaramente varie realizzazioni intermedie,
riferibili piuttosto a un italiano regionale o a
un dialetto incivilito (su questi aspetti è fondamentale l’insieme dei contributi presenti
in Bruni 1992–94). Ciò premesso, risulta comunque innegabile che la grande maggioranza dei cittadini del nuovo Regno poteva
dirsi, dal punto di vista linguistico, straniera
in patria.
Lo sviluppo dell’alfabetismo e, congiuntamente, la diffusione dell’italiano diventano problemi politici con cui la nuova classe
dirigente non può evitare di misurarsi (cf.
Catricalà 1995). Iniziative meritorie come la
legge Casati del 1859 e la legge Coppino del
1877, che sanciscono la gratuità e l’obbligatorietà del primo biennio di scuola elementare, devono peraltro fare i conti con
«le difficoltà dovute a un’organizzazione scolastica
deficitaria e comunque diseguale nelle varie zone,
alla scarsità e alla frequente impreparazione degli
insegnanti, al perdurare – nonostante i provvedimenti ministeriali – di un tasso di evasione altissimo, alle stesse resistenze all’alfabetizzazione di
massa opposte dalle classi agiate di ispirazione
conservatrice» (→ Art. 106).
Questi fattori negativi, bilanciati in parte da
una serie di fattori positivi connessi alla
stessa formazione dello Stato unitario, non
impedirono un calo progressivo dell’analfabetismo, la cui incidenza generale si ridusse
in un solo cinquantennio di oltre la metà
(dal 69 % del 1871 al 27 % del 1921), pur
restando sensibilmente più alta nelle regioni meridionali (per una puntuale analisi
delle statistiche sull’alfabetismo nei cento
anni successivi all’Unità, cf. Petrucci 1987,
93–127).
Le città si confermano i veri centri di irradiazione della lingua comune da vari punti
di vista. Qui si incontrano gruppi di parlanti
di diversa provenienza; qui risiede la maggior parte degli italofoni ‘per cultura’; qui si
trovano gli uffici, periferici o centrali, dello
Stato unitario, dove la burocrazia, con tutto
il suo apparato di impiegati, mette radici
(ciò vale soprattutto per i capiluoghi regionali e per la nuova capitale d’Italia). Gli impiegati ‘forestieri’ sono costretti a sprovincializzare le loro parlate per comunicare con
colleghi e utenti, veicolando in tal modo
un tipo sostanzialmente unitario di lingua.
Un’altra centrale di italianizzazione operante nelle principali città è rappresentata dalla
stampa quotidiana, che conosce un considerevole sviluppo fin dai primi decenni postunitari. Tra i giornali che hanno iniziato la
pubblicazione nella seconda metà dell’Ottocento troviamo molte delle maggiori testate
italiane del nostro tempo: La Stampa di Torino (1867), il Corriere della Sera di Milano
(1876), L’Arena di Verona (1866), Il Gazzettino di Venezia (1887), Il Piccolo di Trieste
(1881), Il Secolo XIX di Genova (1886), Il
Resto del Carlino di Bologna (1885), La Nazione di Firenze (1859), Il Messaggero di
Roma (1878), il Roma e Il Mattino di Napoli
(rispettivamente 1861 e 1892), il Giornale di
Sicilia e L’Ora di Palermo (1860 e 1900),
L’Unione Sarda di Cagliari (1889), La nuova
Sardegna di Sassari (1891); si aggiunga un
giornale specializzato, La Gazzetta dello
Sport di Milano (1896). La graduale diffusione dell’alfabetismo e, insieme, l’esistenza
di un unico grande Stato favoriscono l’allargamento del pubblico dei quotidiani. Con
l’estensione del diritto al voto (1882) cresce
l’interesse per gli articoli di argomento politico; ed è sempre viva la curiosità dei lettori
per la cronaca locale. La produzione comincia a strutturarsi in forma industriale, tanto
che alcune testate raggiungono alla fine del
secolo la formidabile tiratura di centomila
copie giornaliere, facendo impennare la richiesta di inserzioni pubblicitarie. Le nuove
scoperte – in particolare il telegrafo e poi il
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102. Politica, sviluppo socio-economico e storia della lingua: Italoromania
telefono – permettono di diffondere le notizie molto più velocemente, e contribuiscono
alla nascita di un vero e proprio stile giornalistico, franto, conciso, ‘telegrafico’ appunto, in un primo tempo reso necessario dagli
elevati costi di trasmissione.
5.
Nuovi fattori di instabilità
linguistica nell’Italia
post-industriale
La società e l’economia d’Italia sono investite da un generale processo di modernizzazione: nel giro di pochi decenni quella che
era una realtà prevalentemente agricola si è
evoluta in senso post-industriale. Le novità
si susseguono ormai a un ritmo talmente
accelerato da configurarsi come continue
emergenze, portando in primo piano i temi
della flessibilità professionale e della formazione permanente. Si affermano stili di
vita più aperti e dinamici, che implicano il
superamento di antichi vincoli nei rapporti
tra le persone e, quindi, negli scambi tra i
parlanti. In particolare, l’accesso all’occupazione risulta meno condizionato che in
passato da fattori predeterminati quali l’attività paterna, il sesso e l’età. Gli aspetti
principali della trasformazione del mercato
del lavoro sono
«l’accentuarsi del processo di terziarizzazione,
l’emergere di una nuova disponibilità remminile,
lo sviluppo della scolarità, la diffusione di modelli
flessibili e l’orientamento della domanda verso le
componenti più qualificate. È venuto meno il modello tradizionale, basato sul lavoro del capofamiglia e quindi sulla netta distinzione, in termini occupazionali, professionali, salariali, sindacali, tra
un segmento ‘primario’ dell’offerta di lavoro,
composto dagli uomini nelle età centrali, e un segmento ‘secondario’, composto dalle donne e dagli
uomini giovani e anziani» (Zuliani 2000, 11).
Contribuisce ad arricchire l’articolazione del
quadro la cospicua e crescente presenza di
lavoratori stranieri:
«L’Italia è ormai un paese di immigrazione. La
stima del numero di stranieri residenti regolari
al 1° gennaio 1999 nel nostro paese è pari a
1.126.000, con un’incidenza del 2 % sul totale della popolazione. L’incremento registrato nel corso
del 1998 risulta superiore a quello dell’anno precedente e pari al 13,6 %» (ISTAT 1999, 131; ma nel
2005 gli immigrati sono quasi 3 milioni).
La classe di provenienza incide ancora fortemente sui destini professionali degli individui; le donne continuano a incontrare
maggiori difficoltà degli uomini nella scelta
1175
dell’occupazione e nello sviluppo della carriera; la formazione scolastica non è collegata in modo adeguato con il mondo del lavoro; sussistono sacche di disagio soprattutto
tra gli anziani, tra le famiglie numerose del
Mezzogiorno e tra gli immigrati. Nonostante questi problemi, è innegabile un generale
avanzamento della società e una migliore
distribuzione delle risorse economiche e culturali.
I progressi civili (nuove tecnologie incluse: si pensi all’influenza della televisione) si
riflettono positivamente sull’uso dell’italiano, che si diffonde in misura sempre maggiore sul piano della comunicazione parlata oltre che di quella scritta, e mostra una nuova
capacità di attrazione anche fuori dei confini nazionali, in particolare nei Paesi dell’area mediterranea (cf. Simone 1992). La ‘democratizzazione’ linguistica in atto porta a
considerare in modo meno accigliato di un
tempo una serie di forme e strutture tipiche
dell’italiano parlato, tradizionalmente escluse dall’italiano scritto perché censurate
dalla grammatica normativa: il pronome lui
in funzione di soggetto è definitivamente
riabilitato, l’uso di cosa al posto di che cosa
nelle interrogative (cosa vuoi?) o di che al
posto di in cui nelle temporali (il giorno che
ci incontrammo) non scandalizza nessuno,
mentre il tipo a me mi piace, di tono più trasandato, diviene il titolo ammiccante di una
rubrica del dotto supplemento domenicale
del Sole-24 ore (per una compiuta rassegna
critica di questa fenomenologia emergente
cf. Sabatini 1985, 154–184). L’impiego ora
citato di a me mi in una sede di prestigio è riconducibile alla notevole diffusione, soprattutto nella stampa quotidiana e periodica, di
«testi misti», caratterizzati dalla contaminazione di diversi piani culturali e dei corrispondenti modelli linguistici (Dardano
1994, 361–365). Per una sorta di nemesi storica, il parlato si prende una rivincita sullo
scritto, rischiando però di depauperare la
lingua dei suoi usi più raffinati e complessi,
anche per l’inarrestabile tendenza a sostituire, in un numero sempre maggiore di circostanze, la scrittura a mano con il chiacchiericcio del telefono cellulare o della chat (sul
rilancio planetario del parlato promosso
dalla diffusione dei nuovi media cf. Simone
2000, 47–49). Con la chat, in particolare,
nasce un genere discorsivo del tutto nuovo,
una sorta di sintesi tra scritto e parlato fortemente influenzata dalle peculiarità del
mezzo elettronico: questo moderno sistema
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X. Soziokulturelle Faktoren in der romanischen Sprachgeschichte
di comunicazione consente infatti di scambiarsi via Internet messaggi digitati al computer del tutto paragonabili alle battute di
un dialogo a viva voce, data la produzione e
la fruizione sincrona, ‘in tempo reale’, degli
interventi. L’inevitabile ridimensionamento
dei processi di elaborazione testuale contribuisce a promuovere il largo ricorso da parte
degli utenti delle chat al registro colloquialeinformale, con una frequente coloritura ludica di chiara impronta giovanile, e culmina
nell’adozione dei cosiddetti emoticons, piccole icone di facce umane delineate con i segni della punteggiatura, che esprimono in
modo ideografico anziché alfabetico una serie di emozioni (cf. Pistolesi 2004).
L’effervescenza delle varietà costitutive
del repertorio linguistico e l’esposizione a
una congerie di stili comunicativi producono talvolta
«un comprensibile senso di disorientamento
nell’utente medio dell’italiano, che da un lato
non può più contare sul tradizionale modello della lingua letteraria, dall’altro non può neppure
surrogare quel modello con la lingua dei mass-media, troppo eterogenea e quindi incapace di garantire un punto di riferimento unitario» (Trifone
1999, 77).
In una situazione del genere dovrebbe crescere l’importanza della scuola come luogo
deputato alla promozione di usi linguistici
‘virtuosi’, non certo nel senso dell’orchestrazione di campagne neopuristiche o dell’addestramento a un’esteriore abilità retorica,
ma nel senso dell’educazione a una piena
padronanza dei registri elevati, formali e tecnici della lingua, in aggiunta a quelli colloquiali sperimentati quotidianamente. Se le
cose stanno così, appare discutibile una certa politica scolastica oggi di moda, orientata in sostanza a privilegiare saperi empirici
immediatamente funzionali, come la navigazione in Internet (che oltre tutto gode
già per suo conto di un enorme successo
presso i giovani), rispetto a saperi astratti,
scientifici e umanistici, più profondamente
formativi.
La situazione linguistica è ulteriormente
movimentata dal declino dell’italiano scientifico, incapace di contrastare l’egemonia
dell’inglese, e dalla sorprendente resistenza
dei dialetti, o almeno di specificità diatopiche nettamente riconoscibili. Quest’ultimo
fenomeno, in sé tutt’altro che negativo, fornisce d’altra parte un argomento di notevole
potere suggestivo alle spinte centrifughe di
matrice localistica. Va rilevato, a tale riguardo, che i traguardi raggiunti dal Paese non
hanno cancellato completamente il profondo stigma impresso da secoli di divisioni
geopolitiche e socioculturali. Non si può
non ammettere che il celebre aforisma «fatta
l’Italia bisogna fare gli Italiani», ripetuto
con insistenza negli anni successivi all’unificazione, conserva gran parte della sua attualità, se è vero che si continua ancora a
discutere molto sulla stessa esistenza di
un’identità comune del popolo italiano, a lamentare le sue carenze di senso civico, di
coesione morale e di orgoglio nazionale. Si
veda ad esempio la seguente affermazione di
Alberto Asor Rosa, emblematica nel suo
sconsolato pessimismo: «Io trovo che lo spirito pubblico in Italia – cioè il senso profondo della comunità nazionale sotto leggi e
regole uniformi e valide per tutti – sia semplicemente a pezzi» (2000, 17). Simili giudizi
e stati d’animo risentono certamente del
successo di dimensioni inattese ottenuto nel
Settentrione dai movimenti leghisti di opposizione allo Stato centrale (oltre l’8 % del totale dei voti nazionali alla Lega Nord nelle
elezioni del 1992 e del 1994). È significativo
che questi movimenti organizzino politicamente la difesa di posizioni ideologiche ed
economiche ispirate a un ruvido autonomismo issando esplicitamente la bandiera della
più remota tradizione comunale, e trovando
proprio nella perdurante diversità degli accenti linguistici un appiglio per l’audace
operazione di recupero. Si tratta di un’impostazione che ignora disinvoltamente una
lunga e complessa vicenda di rapporti e di
scambi tra le varie zone del Paese, con il ricco patrimonio comune di memorie, convinzioni, usanze e pratiche quotidiane per tale
via accumulato (cf. Romano 11994/21997),
ma che al tempo stesso conferma nel modo
più clamoroso quanto siano profonde e tenaci le radici dell’antico particolarismo italiano.
6.
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