Gerusalemme rimarrà sempre nel cuore e nella mente

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Gerusalemme rimarrà sempre nel cuore e nella mente
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Gerusalemme rimarrà sempre nel cuore e nella mente del popolo ebraico. Nonostante
l’Unesco
Contributed by GIACOMO KAHN
Thursday, 17 November 2016
Im eshkachech Yerushalayim, tishkach yemini. “…Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra;
mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia
gioia...”. Con queste parole (Salmo 137) tremila anni fa, il re David affidò di generazione in generazione il
sentimento di attaccamento, di profondo amore che gli ebrei hanno verso la città di Gerusalemme, quel luogo che per la
tradizione biblica segna l'inizio della storia del patto tra Dio e il popolo ebraico. E' infatti sul monte Moriah, oggi il monte
della spianata, che Dio sottopose Abramo all'ultima delle dieci prove, chiedendogli di sacrificare il figlio Isacco e dove Dio
promise che da quel mancato sacrificio ne sarebbe nato un popolo. Da quel momento la centralità di Gerusalemme è
entrata non solo nella liturgia ebraica, ma anche nell'immaginario collettivo di un popolo che - bisogna ricordarlo - per
duemila anni è stato allontanato proprio da quei luoghi. Ogni giorno, tre volte al giorno, gli ebrei osservanti pregano
rivolgendosi, da qualsiasi parte del mondo, verso Israele; quelli che risiedono in Israele pregano rivolgendosi verso
Gerusalemme; quelli che abitano in città pregano in direzione del Kotel Hamaaravi, il Muro Occidentale (l’unica
vestigia, si tratta di un muro di cinta dell’antico Santuario), e quelli che si trovano davanti al Muro pregano verso il
luogo (il Kodesh Hakodashim, il sancta sanctorum) che era il centro del Santuario e nel quale risiedeva
permanentemente la shekinàh, la presenza immanente di Dio. E' un flusso spirituale, una corrente mistica che non ha
eguali in altre fedi e che testimonia che la distruzione materiale del Santuario ha per certi versi rafforzato quel santuario
interiore che ogni ebreo porta dentro di se, ha rafforzato il senso di appartenenza e l'identità del popolo ebraico. Due volte
infatti fu costruito e due volte distrutto quello che era il centro spirituale di Israele. La costruzione del primo Bet
Hamikdash - che richiese sette anni di lavoro e la partecipazione di tutto il popolo - avvenne su iniziativa del re Shelomò
(Salomone) e si concluse nell’anno 2935 del calendario ebraico (826 a.e.v.). Quel tempio rimase in piedi per 410
anni, fino a quando nel nono giorno del mese di Av dell’anno 3345 del calendario ebraico (416 a.e.v.), venne
distrutto dall’imperatore babilonese Nevuchadnetzar (Nabuccosonodor) che deportò la popolazione ebraica in
Babilonia. Settant’anni dopo, grazie all’editto emanato dall’imperatore Ciro a favore della
ricostruzione del Santuario, il popolo ebraico ritornò in patria guidato da Ezra lo Scriba e da Nechemyà. Iniziarono quindi i
lavori di riedificazione del Tempio (3390 del calendario ebraico - 371 a.e.v.), più tardi ingrandito dal re Erode. Il secondo
Tempio fu distrutto, anche esso nel giorno 9 del mese di Av, dalle truppe dell'imperatore romano Tito nell'anno 70 e.v. La
distruzione del centro spirituale e religioso, e il conseguente esilio e dispersione del popolo ebraico da Gerusalemme,
furono una terribile prova di sopravvivenza che viene ogni anno ricordata con un giorno di lutto e di digiuno nel giorno del
9 del mese di Av. Tuttavia quei tragici eventi, con la conseguente perdita dell'autonomia politica e religiosa, sono stati
vissuti e ancora vengono oggi visti come una tappa della storia ebraica e come una dimostrazione della presenza e delle
decisioni divine, annunciate dai profeti e quindi motivo da cui trarre conforto perché alla distruzione e alla dispersione,
seguiranno la riunificazione del popolo ebraico e la ricostruzione. Il Talmud propone una famosa storia e ci racconta il
viaggio di Rabbi ‘Aqiba e dei suoi discepoli a Gerusalemme dopo la distruzione del secondo Tempio e precisa che
i discepoli cominciarono a piangere arrivando al monte del Tempio e vedendo una volpe uscire dal Santo dei santi. R.
‘Aqiba invece si mise a sorridere e, rispondendo allo stupore dei suoi compagni, spiegò che, siccome costatava
che la profezia di Michea sulla distruzione di Sion si era ormai compiuta, poteva sorridere sperando nella realizzazione
prossima della profezia di Zaccaria (8,4) che ne era tributaria: «Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di
Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità». Finché la prima profezia rimaneva solo una
minaccia, disse R. ‘Aqiba, «temevo che non si compisse la profezia di Zaccaria; ora che si è compiuta la profezia
di Uria, so che la profezia di Zaccaria si compirà». I suoi discepoli allora esclamarono: «‘Aqiba, ci hai consolati!
‘Aqiba, ci hai consolati». A ricordare che Gerusalemme era ebraica basta leggere la Guerra Giudaica scritta da
Giuseppe Flavio tra il 75 e il 79 e.v.: “Gerusalemme (scrive nel 5° libro, 4° capitolo) era protetta da una triplice cinta
di mura, eccetto nella parte che affaccia su strapiombi impraticabili, dove il muro era uno solo. La città era costruita su due
colline che si fronteggiano separate da una valle frapposta verso cui le case degradavano l’una dopo
l’altra. Delle due colline quella che formava la città alta era notevolmente più elevata e aveva sulla sommità una
spianata più ampia; per la sua forte posizione essa ebbe appunto il nome di fortezza dal re David, il padre di Salomone
che fu il primo a costruire il tempio, mentre noi la designiamo col nome di piazza superiore. La seconda collina è quella
che si chiama Akra e che formava la città bassa con la sua forma ricurva alle estremità”. E al 12° capitolo del
secondo libro, scrive: “Essendosi la folla raccolta a Gerusalemme per la festa degli Azzimi, ed essendosi
schierata la coorte romana sopra al portico del tempio - giacché usavano vigilare in armi in occasione delle feste, per
evitare che la folla, raccolta insieme, desse inizio a qualche sommossa - uno dei soldati, sollevatasi la veste e inchinatosi
con mossa indecente, mostrò ai giudei il suo deretano accompagnando il gesto con un acconcio rumore. La cosa fece
imbestialire la folla, che con grandi schiamazzi esigeva da Cumano (generale romano, ndr.) la punizione del soldato,
mentre i giovani con la testa più calda e gli elementi per loro natura più ribelli del popolo si gettavano allo sbaraglio e,
afferrate delle pietre, le scagliavano contro i soldati”. Per duemila anni agli ebrei fu quindi impedito di avvicinarsi a
quel Muro occidentale verso il quale sono state versate lacrime di nostalgia e di rimpianto, ragione per la quale i non
ebrei ne trassero la definizione di ‘Muro del pianto’. Quanto sia centrale Gerusalemme nel sentimento
ebraico basta assistere ad un matrimonio ebraico: sotto la Kuppah (baldacchino nunziale) non mancano mai musica
canti e allegria, ma anche una ‘curiosa’ usanza: lo sposo rompe un bicchiere, schiacciandolo sotto la
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scarpa, accompagnandolo con le parole "…im eshkachekh Yerushalaim.., se ti dimenticherò Gerusalemme....". E' un gesto
con il quale si tramanda la conservazione della memoria storica, ma anche la dimostrazione della consapevolezza che
anche nei momenti di massima gioia e di allegria, ogni ebreo non deve dimenticare mai la perdita di Gerusalemme, e
questo soprattutto nelle fasi più importanti della propria esistenza. E il matrimonio è uno di questi momenti, nel quale si
compenetrano le identità e i destini personali degli sposi con l'identità del popolo che devono ricordare con la 'rottura' del
bicchiere, che non è sanata l'antica 'rottura' storica. Ma la suggestione di Gerusalemme non è relegata alla sola memoria
e ai riti religiosi, pervade - si potrebbe dire - persino la società israeliana, per molta parte laica e per nulla mistica.
Yerushalayim shel zahav (Gerusalemme d’oro), è una canzone popolare israeliana, scritta e musicata da Naomi
Shemer prima dello scoppio della Guerra dei Sei giorni del 1967 che è diventata l'inno extra-ufficiale di Israele. La
canzone descrive la situazione di Gerusalemme negli anni anteriori alla Guerra dei Sei Giorni, quando la città era tagliata
in due da un muro, che separava il Regno di Giordania dallo Stato di Israele e che era conosciuto come “confine
urbano”. I luoghi santi del Giudaismo, nella parte est della città, - il Muro Occidentale e l’antico cimitero
ebraico sul Monte degli Ulivi - non erano accessibili agli Ebrei. Per questa ragione Gerusalemme viene descritta come
«la città che siede solitaria, nel cuore della quale sta un muro...»: con questa frase il testo rinvia anche al Libro delle
Lamentazioni («Come siede solitaria la città una volta tanto popolosa! » 1,1). Anche la frase «Come si sono seccate le
cisterne d’acqua» richiama i testi profetici (per esempio Geremia 2,13). La struggente melodia e l'incredibile
coincidenza storica - fu presentata in un festival canoro tre settimane prima dello scoppio della Guerra dei Sei giorni fecero della canzone uno dei canti di battaglia dei soldati israeliani. Così dopo che Gerusalemme fu conquistata e
riunificata e gli ebrei poterono dopo duemila anni tornare a pregare davanti alle grandi pietre del Muro, la Shemer
aggiunse una nuova strofa: "…Siamo ritornati alle cisterne d’acqua, al mercato e alla piazza, uno shofar risuona sul
Monte del Tempio, nella Città Vecchia, e nelle grotte che ci sono nella roccia splendono mille soli: torneremo a scendere
verso il Mar Morto, sulla strada di Gerico…". Quello shofar (il corno di montone) che effettivamente il rabbino Rav Shlomo
Goren suonò davanti al Muro, circondato dai paracadutisti del generale Motta Gur che il 7 giugno 1967 riconquistarono
Gerusalemme. Ma tutto questo l'Unesco non lo sa. GIACOMO KAHN
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