Introduzione Due anni che hanno cambiato l`America

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Introduzione Due anni che hanno cambiato l`America
Introduzione
Due anni che hanno cambiato l’America
Non capita spesso ad un autore di avere la fortuna di vedere confermate le
sue previsioni. Scrivevo nell’aprile del 2006 (nella prefazione al volume Ascesa e caduta del bushismo): «La fine del bushismo, quando ci sarà, sarà
anche la fine di una generazione, quella che aveva iniziato la sua arrogante
cavalcata verso il potere venti anni fa sul finire della guerra fredda. Se
l’ascesa è stata lenta, ha guadagnato terreno nel corso degli anni ed è arrivata al suo culmine con le elezioni del novembre del 2004, la discesa è stata
brusca, si è consumata nell’arco di poco più di un anno, l’‘annus horribilis’
del bushismo, e la caduta si preannuncia ora rovinosa per l’uomo, per il partito e per il progetto politico». Aggiungevo allo stesso tempo un elemento di
cautela: «Finché l’economia continuerà a crescere, finché non scoppierà la
bolla speculativa immobiliare, finché l’immenso debito pubblico e lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti non crollerà sui mercati finanziari, e finché
i democratici non riconquisteranno almeno un ramo del Congresso, probabilmente le cose non cambieranno e George W. Bush rimarrà saldamente al
suo posto».
È esattamente quello che è successo: nelle elezioni del novembre 2006 i
democratici hanno conquistato la maggioranza della Camera dei rappresentanti e anche un’esile maggioranza al Senato; un anno dopo la bolla immobiliare ha incominciato a mostrare incrinature ed è scoppiata all’inizio del
2008 trascinando, in un gioco di castelli di carte, i mercati finanziari prima
e l’economia reale poi. Gli oltre diecimila miliardi di dollari del debito
pubblico (72 per cento del PIL) e un deficit del bilancio dello Stato intorno
al 4 per cento hanno pesato come un macigno sulla fiducia degli investitori.
E i cittadini, che già l’avevano persa nei confronti della politica estera e
della guerra, di fronte ora all’ondata di insolvenze, alla perdita di posti di
lavoro, con salari sempre più bassi in termini reali, hanno abbandonato in
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massa il presidente che solo pochi anni prima avevano eletto con un’ampia
maggioranza. La domanda di cambiamento, di una svolta nella politica economica, sociale e di difesa è venuta montando in tutti gli strati della popolazione, finché nel corso del 2008 ha rotto gli argini facendo precipitare
la popolarità del presidente al 25 per cento dei consensi. Naturalmente,
Bush e la sua amministrazione sono rimasti al potere, ma solo grazie alla
rigidezza del sistema presidenziale che non consente voti di sfiducia o elezioni anticipate, e hanno di fatto cessato di governare il paese.
Con le elezioni del 4 novembre 2008 Barack Obama conquista la Casa
bianca e il Partito democratico ottiene una solida maggioranza nel Congresso. Finisce così, a tutti gli effetti, il «bushismo», che non è stato un
movimento sociale, né un’ideologia, né tanto meno un partito, ma
un’alleanza di diversi per la conquista del potere che incominciò a prendere forma molti anni prima come reazione e risposta ai sommovimenti operati nella società e nella politica americana dalla rivoluzione libertaria, pacifista e dei diritti civili degli anni ’60. Il progetto politico aveva al suo interno tre componenti, che sono cresciute e si sono rafforzate di pari passo
nel corso di un trentennio fino a raggiungere la massa critica elettorale che
le ha portate insieme alla vittoria con la presidenza di George W. Bush.
In primo luogo la componente neoconservatrice in politica interna e in
politica estera. Sono i neocons, questo gruppo di intellettuali con ascendenze liberal e di sinistra, che conducono fin dagli anni ’70 la battaglia
contro l’assistenzialismo e i programmi di integrazione sociale della Great
Society di Lyndon Johnson; sono loro, soprattutto, che spingono per una
politica estera più aggressiva nei confronti dell’Unione Sovietica rispetto a
quella del containment della vecchia scuola diplomatica, e, caduto il muro
di Berlino, si fanno teorici dell’impero americano, dell’unilateralismo e
della «guerra democratica» per garantire la sicurezza e l’egemonia degli
Stati Uniti in un mondo ora minacciato dal terrorismo. Sono sempre loro
che, dopo l’11 settembre, daranno un’ossatura ideologica alla «guerra globale contro il terrorismo» spingendo per l’intervento in Afghanistan prima
e in Iraq poi, e per una politica di confronto duro nei confronti di tutti gli
«Stati canaglia» dell’«asse del male» (Iraq, Iran, Siria, Corea del Nord, Libia).
La seconda componente è quella del fondamentalismo religioso, che negli Stati Uniti ha una lunga tradizione che risale ai padri pellegrini, ma che,
nella sua forma attuale, ha le radici negli sconvolgimenti «valoriali», di costume, provocati negli anni ’60 dai baby-boomers, la generazione nata nel
dopoguerra: l’aborto, i diritti degli omosessuali, il femminismo, la libertà
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sessuale, il nuovo pacifismo nato dall’opposizione alla guerra del Vietnam.
Il vessillo della «moralità» contro la degenerazione dei costumi viene alzato in quegli anni da una nuova generazione di pastori protestanti giovani e
aggressivi, che sanno usare i moderni strumenti di comunicazione e soprattutto, a differenza del passato, non rifuggono dall’entrare in politica in
prima persona a fianco del partito che più si mostra disposto a sostenere i
loro programmi, il repubblicano. Fin dagli anni ’70 predicatori come Bill
Graham, Jerry Falwell, Pat Robertson tuonano dai teleschermi e dalle stazioni radiofoniche, attirano decine di milioni di fedeli, soprattutto bianchi e
rurali, e li portano a votare per i candidati repubblicani. Delusi da Ronald
Reagan, che avevano appoggiato entusiasticamente, ma che aveva finito col
tradire le loro aspettative, e dalla presidenza del suo successore George
W.H. Bush, passano gli anni ’90 nel «deserto» della presidenza di Bill Clinton, per raggiungere finalmente la terra promessa sotto le insegne di George
W. Bush figlio, lui stesso un fervente evangelico, che farà del proprio meglio (ma non abbastanza, secondo loro) per difendere e fare avanzare il loro
programma di «ricristianizzazione» della società.
La terza componente è quella del liberismo economico e della deregolamentazione, che vede in Milton Friedman e Friedric von Hayek della
scuola di Chicago degli anni ’60 i propri padri fondatori e in Ronald Reagan colui che un ventennio dopo trasformerà le teorie in atti concreti. Nessun aspetto della vita economica e sociale verrà risparmiato per assicurare
il primato della supply-side economics, il primato dell’offerta sulla domanda: meno tasse (soprattutto per i ricchi), compressione dei salari, riduzione
del peso dei sindacati, riduzione dei vincoli e delle normative di tutela
dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro, riduzione degli interventi pubblici di protezione sociale e in genere del ruolo del governo, privatizzazione dei trasporti e delle telecomunicazioni, liberalizzazione delle esportazioni e dei mercati finanziari (di concerto con le politiche della Banca
mondiale e del Fondo monetario internazionale), ma protezionismo verso il
mercato agricolo interno. Una politica economica che viene messa in atto
con determinazione e coerenza nel corso di un trentennio e che ha prodotto, da un lato, una grande crescita economica e, dall’altro, uno spaventoso
divario tra ricchi e poveri, finendo con l’indebolire lo stesso ceto medio
che si era formato nel dopoguerra grazie alle politiche sociali del New Deal
e che dagli anni ’50 costituisce l’ossatura dell’economia americana.
Queste tre componenti, diversissime tra loro per composizione sociale e
riferimenti culturali, vengono fuse nel bushismo da una complessa operazione politica condotta anch’essa a partire dalla fine degli anni ’70, su tre
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fronti: 1) la creazione o il rafforzamento dei think tank conservatori, i centri
studi lautamente finanziati dove gli studiosi e i politici d’area elaborano le
loro strategie in attesa di tornare al governo, centri come la Heritage Foundation, il Cato Institute, la Hoover Institution e l’influentissimo Project for
the New American Century promuovono convegni, sponsorizzano ricerche
e diventano i laboratori dove si forma una nuova generazione di intellettuali
repubblicani; 2) la fondazione o il rinnovamento di riviste conservatrici e
neoconservatrici come il vecchio Commentary (dal 1959 diretto dal neoconservatore Norman Podhoretz), la National Review di William Buckley,
The National Interest di Irving Kristol, fino al Weekly Standard fondato nel
1995 dal figlio di Kristol, William; 3) l’emergere di un gruppo di giovani
«operativi» del Partito repubblicano che portano nella lotta politica una ventata di aggressivo dinamismo. Giovani come Lee Atwater (morto prematuramente nel 1991), Ralph Reed, Grover Norquist, Michael Scanlon e il più
famoso di tutti, Karl Rove, sono attivi nel movimento universitario repubblicano e si fanno le ossa negli anni di Reagan, quando mettono a punto le
loro tecniche di persuasori occulti e di spregiudicati gestori di campagne elettorali, che conducono con sapienza tecnologica e organizzativa non disdegnando i colpi bassi e le accuse calunniose nei confronti dell’avver-sario.
È grazie a questi tre elementi – centri studi, riviste e nuovi quadri politici –
che il Partito repubblicano conquista nel 1994 la Camera dei rappresentanti,
e la controllerà per i successivi dodici anni. L’obiettivo più ambito, la presidenza, verrà raggiunto di stretta misura nel 2000 con George W. Bush e
consolidato quattro anni dopo con la netta vittoria del 2004, così da consentire a Karl Rove di proclamare l’instaurarsi di «una permanente maggioranza repubblicana». La traversata nel deserto era finita. Il bushismo era e sarebbe rimasto il nuovo paradigma della politica americana.
Sappiamo come invece è andata finire. I sogni di grandezza dei neoconservatori sono stati spazzati via dagli insuccessi nelle due guerre in Iraq e
in Afghanistan e dalla rinascente assertività di molti paesi, avversari o alleati, non più disposti ad accettare i diktat degli Stati Uniti. Il movimento evangelico di stampo fondamentalista ha esaurito la sua spinta propulsiva,
per un verso a causa dell’invec-chiamento e uscita di scena di alcuni dei
suoi fondatori, per un altro per l’insorgere di una certa stanchezza tra i fedeli verso i temi valoriali, «sotto la cintura», e per le maggiori preoccupazioni nei confronti di tematiche sociali come l’immigrazione, la povertà,
l’emar-ginazione, la dipendenza dalle droghe e dall’alcool. Con il crescere
della disoccupazione e, infine, l’esplodere della crisi economica il mantra
neoliberista e della deregolamentazione ha finito di esercitare la sua presa
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su un elettorato sempre più alle prese con i propri personali problemi economici, per la soluzione dei quali chiede più regole, più protezione e più
interventi del governo a sostegno del-l’economia e dei redditi. Anche i
giovani leoni repubblicani sono invecchiati. Molti di loro sono stati travolti
dagli scandali; molti altri hanno lasciato la politica attiva e sono tornati a
svolgere lucrative attività nelle società di lobby o nei mezzi di comunicazione (è il caso di Karl Rove, oggi opinionista di grido della rete televisiva
Fox).
Con il bushismo non finiscono quindi soltanto un presidente, una amministrazione e una maggioranza parlamentare, ma un intero progetto di vasto
respiro politico e culturale, sostenuto da forti interessi economici, spinto e
organizzato da intellettuali laici e da guide religiose, che ha saputo interpretare gli spiriti animali della società americana: la sua dinamicità e intraprendenza, ma anche le incertezze, i timori, i pregiudizi e il razzismo latente (quando non esplicito), di un paese e di una economia in tumultuosa trasformazione nella seconda metà del Novecento. È la fine, per esaurimento
delle sue componenti, di un lungo ciclo reazionario che, almeno nelle sue
forme attuali, dura da quarant’anni. Se sarà anche l’inizio di un nuovo diverso ciclo nella politica e nella società americane, verso traguardi di maggiore giustizia sociale, di laicità e rispetto delle differenze, di definitivo superamento della discriminazione razziale; di una politica estera che sappia
fare fronte alla minaccia del terrorismo con la necessaria forza, ma nel rispetto degli interessi e del punto di vista di alleati e avversari – questo è il
difficile compito che attende Barack Obama e la nuova maggioranza democratica. Le promesse e i primi segnali vanno in questa direzione, ma solo i mesi e gli anni a venire diranno se il compito sarà assolto e le promesse
realizzate; se davvero si tratta dell’inizio di un nuovo ciclo – che definire
storico non sarebbe eccessivo – o solo di un’increspatura momentanea nel
corso generalmente conservatore, di destra o di centro-destra, delle società
democratiche dell’Occidente.
Il libro prova a raccontare questa storia così come si è dispiegata nel biennio 2006-2008; anni cruciali in cui sono arrivati a maturazione tutti gli elementi sopra tratteggiati e in cui si è evidenziata tutta l’incapacità di Bush
personalmente e della sua amministrazione a fronteggiare la crisi incombente: una crisi economica e sociale, ma anche di apparati e del gruppo dirigente repubblicano e, in ultima analisi – poiché questo è l’aspetto decisivo in una democrazia – di fiducia dell’opinione pubblica. Partendo dalle
elezioni di mid-term del 2006 – che sono importanti non tanto per la man15
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ciata di deputati e senatori in più che hanno consegnato ai democratici, ma
per le tendenze profonde nel corpo elettorale che hanno messo in luce – i
diversi capitoli tratteggiano i fallimenti e le inadeguatezze dell’amministrazione: nella lotta contro il terrorismo, nella guerra, in politica estera, nel succedersi degli scandali, legati in definitiva alla segretezza e al
clientelismo partitocratico che ha caratterizzato l’am-ministrazione, fino
all’inevitabile «crollo della casa di Bush».
Un capitolo è dedicato a quello che è forse – dopo la guerra – il principale problema non risolto della presidenza Bush: l’immigra-zione clandestina, con tutti gli interessi contraddittori che le ruotano intorno (anche in
America), e che sono presenti in primo luogo all’interno dell’elettorato repubblicano; nello stesso capitolo, seppure in poche pagine, è anche illustrata la permanenza della discriminazione razziale nei confronti dei neri e delle minoranze etniche, e ciò nonostante i molti progressi testimoniati anche
solo dal semplice (ma straordinario!) fatto che un presidente afroamericano
abbia potuto oggi (a differenza anche solo di un decennio fa) essere eletto
alla presidenza. Il capitolo successivo tocca uno degli aspetti più sconcertanti per un osservatore europeo della società americana: il rapporto che gli
americani hanno con la violenza e con la morte inflitta; un rapporto ambiguo e complesso che è evidenziato, da un lato, dall’altissimo numero di
omicidi e di stragi e, dall’altro, dal ricorso assai frequente alla pena capitale, che la grande maggioranza della popolazione approva. Così come approva, a tutti i livelli – dalla Corte suprema al cittadino comune – il libero
possesso di armi da fuoco. In definitiva, si tratta di una logica e di un atteggiamento culturale che hanno radici profonde nella morale «retributiva»
del-l’Antico testamento e nella self-reliance (il fare e il difendersi da sé)
sviluppatasi nelle condizioni di vita estreme dei pionieri del West; ma che
poca attinenza hanno ormai con la società complessa, moderna e prevalentemente urbana di oggi.
Non poteva mancare l’esposizione delle due avvincenti, sorprendenti, e
anche entusiasmanti campagne elettorali – quella per le primarie tra gli aspiranti candidati, democratici e repubblicani, e quella vera e propria per la
presidenza. Alle elezioni sono dedicati due capitoli in cui ho cercato di raccontare i colpi di scena, i colpi bassi, gli scontri di personalità, il ruolo delle gigantesche macchine organizzative, gli enormi finanziamenti, il ruolo
determinante degli strateghi e dei sondaggisti, come pure le alchimie procedurali – tutto ciò che ha reso queste elezioni straordinarie nella storia recente e meno recente degli Stati Uniti.
Una campagna elettorale che ha anche portato in primo piano i molti cu16
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riosi (a dir poco) aspetti del sistema elettorale e istituzionale americano, cui
è dedicata l’Appendice. Qui si richiamano le molte «stranezze» e lacune di
un sistema di scelta dei candidati e di elezione del vincitore, che questa
volta non hanno provocato i guasti che si sono verificati in passato solo
perché Obama ha conseguito una netta vittoria, ma che costituiscono una
perdurante ipoteca sulla democraticità del sistema, proprio in uno dei suoi
aspetti fondamentali: l’universalità e la libertà del voto. Infine, alcune considerazioni, appena abbozzate, sono dedicate al sistema istituzionale in
senso più ampio, alla particolare forma di presidenzialismo americano che,
contrariamente a quanto si pensa solitamente, non garantisce maggiore stabilità ed efficienza rispetto ai sistemi parlamentari, se non da un punto di
vista puramente formale.
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