Il mio Ernesto Che Guevara

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Il mio Ernesto Che Guevara
Indice
Prefazione (di Guido Lagomarsino)
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Introduzione
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Capitolo primo
Una costellazione
Dove sei, Ernesto caro?
Tutto è immagine
Verso una chirurgia estetica dell’anima
Dalla caverna al mirador
Mi guardano, dunque esisto
Che Guevara e la translatio ad prototipum
«La mia vita non sono io»
Il mito: nucleo dell’eterno
A uguale ad A
L’ultimo tango
Una nana gigantesca
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Capitolo secondo
Il contesto storico
La ragion di Stato
Innato e acquisito
Geni comunisti
¡ Cuba sí ! ¡ Cuba no !
Il monopolio dell’emancipazione
La ragione e le sue ombre
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Capitolo terzo
Il guevarismo – sotto la stella del Che
Il potere
Il rifiuto del potere
Desiderare l’impossibile
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L’uomo nuovo
Dal romanticismo al volontarismo
Né avventuriero né suicida
La costituzione dell’ERP
«Due, tre, molti Vietnam»
La teoría del «foco» (teoria dei focolai di resistenza)
Il presente
«Un rivoluzionario fa la rivoluzione»
Rivoluzionariamente scorretto
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Capitolo quarto
Il divenire della costellazione
I limiti del volontarismo
Qui e subito
Il protagonismo sociale
Ipotesi e pratiche
La gratuità del rischio
Possibile e «compossibile»
Subire o agire
Quelli «senza»
La vita non è proprio un fatto personale
Il trentesimo anniversario
Verso la dispersione
Solitudini
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Bibliografia
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Prefazione
di Guido Lagomarsino
Credo che sia capitato a molti di trovarsi fra le mani un libro,
cominciare a leggerlo e, mentre si avanza da una pagina all’altra,
mettersi a pensare: «Sì, sì, è proprio questo, è vero, non avrei potuto
dirlo meglio!» In questi casi, l’autore del libro diventa un interlocutore
e un amico: si dialoga con lui, lo si raccomanda ad altri amici, gli si
perdona qualche caduta di stile. Così è stato per me, fin dall’inizio, il
rapporto con Miguel Benasayag. Con il vantaggio, grazie al mestiere
che faccio, che non si è trattato di una relazione semplicemente
letteraria, ma dopo la pubblicazione dei suoi primi libri in Italia, ci
siamo conosciuti di persona.
Per questo, in questa breve prefazione del libro Il mio Ernesto
Che Guevara. Attualità del guevarismo, non parlerò di Ernesto Che
Guevara: su di lui dice tutto il necessario l’autore, ma del mio amico
Miguel Benasayag.
Miguel è un giovane, poco più che adolescente, quando comincia
la sua militanza: era un fatto normale alla fine degli anni Sessanta.
Così spiega la sua scelta: «Non sono entrato nella resistenza per “fare
politica”, ma perché ero un hippy, suonavo la batteria, facevo teatro,
amavo la vita e, quando si ama la vita, bisogna resistere al fascismo…
Dunque non sono diventato un combattente per amore della politica,
ma per un disgusto totale, pasoliniano, della politica». (Non si smette
mai di parlare degli anni Sessanta. Nel 1967 assistevo a un incontro
tra Pier Paolo Pasolini e alcuni ex allievi della scuola di Barbiana di
don Milani. Pasolini, con l’intuizione del poeta, e creando un notevole
sconcerto tra il pubblico, paragonava l’esperienza di Barbiana a quella
dei giovani della New Left americana e a quella delle Guardie Rosse in
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Cina. Avrebbe potuto citare — ma se ne sapeva poco allora — anche
i giovani che in Sudamerica, sull’esempio del Che, prendevano le
armi per «resistere»). Miguel entra così in un cosiddetto «gruppo di
superficie», un gruppo d’appoggio alla guerriglia guevarista. Non dobbiamo pensare che allora in Argentina la lotta armata corrispondesse
all’idea che se ne ha genericamente oggi. La guerriglia guevarista era
una componente della controcultura, del contropotore, di un tessuto
sociale che si sviluppava per resistere al giogo delle dittature militari
che si succedevano a ripetizione, a ogni tentativo di dare al Paese un
governo «democratico». La resistenza armata era dettata banalmente
dal fatto che dietro a quei governi oppressivi di destra c’era sempre
l’esercito, e contro quello bisognava combattere.
A diciassette anni Miguel è già nell’ERP, l’esercito rivoluzionario
popolare, dove, in breve tempo, gli vengono affidate responsabilità
militari (ma non politiche). Non entra però nella clandestinità e, anzi,
s’iscrive all’università, dove studia medicina (come il suo connazionale
al quale ha dedicato questo libro). Intanto, però, la repressione si fa
più pesante ed è arrestato tre volte. Le prime due riesce a sfuggire
dalle maglie della rete e a cavarsela, ma la terza viene preso, torturato e resta in carcere per quattro anni. Molti dei suoi compagni e
sua moglie «scompaiono». La madre di Miguel, ebrea francese, s’era
rifugiata in Argentina con i suoi genitori, alla fine degli anni Trenta,
conservando la nazionalità d’origine. Miguel ha la doppia nazionalità
e questo lo salva: per coprire la morte di due religiose francesi assassinate, il governo argentino accetta di liberare tutti i francesi arrestati
in Argentina. Così, nell’inverno del 1978 Miguel ripara in Europa,
esule ma come cittadino francese.
L’impatto non è facile: sono gli anni in cui in Francia dominano le posizioni dei nouveaux philosophes, della postmodernità. Le
posizioni di sinistra sono molto malviste. «Ci assimilavano tutti a dei
Pol Pot o a degli Stalin, dittatori in potenza», racconta Benasayag,
che rivendica il suo ascendente «hippy-guevarista» ben lontano dalle
posizioni ortodosse marxiste-leniniste. Comunque, all’inizio, Miguel
continua anche in Francia la propria militanza e opera in appoggio
della lotta contro il dittatore Somoza in Nicaragua.
In quei primi anni da questa parte dell’Atlantico, però, si
rende conto della necessità di un approfondimento teorico, di una
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maggiore riflessione sulle pratiche di resistenza. «Per cambiare il
mondo, bisogna capire che cosa succede, cercare di essere seri», si
dice. «Cambiare il mondo restando ingabbiati nell’ideologia non
porta da nessuna parte.» Comincia così un’attività di ricerca, in
campo psichiatrico, medico, antropologico e filosofico, senza però
abbandonare il proprio impegno di militante. Ed è infatti così che
si definisce ancora oggi: «ricercatore militante». Nasce per sua iniziativa un collettivo che si chiama Malgré Tout, con l’ambizione di
cambiare il mondo «nonostante tutto», nonostante la repressione, la
tristezza di questo mondo, nonostante i totalitarismi e le ideologie
messianiche.
La novità rappresentata da questo collettivo è straordinaria.
Per la prima volta un gruppo «politico» non pretende di egemonizzare, di «dettare la linea», di offrire soluzioni valide per tutte le
stagioni. Il suo impegno è di costruire una rete paziente di resistenza
alternativa, dove ognuno, collettivi o singoli, operi «in situazione»,
senza gerarchie o centri di comando. In questo senso, un gruppo di
guerriglia sudamericano e un collettivo di teatro gay belga hanno la
stessa dignità e importanza, in quanto si oppongono allo stato di cose
esistente. Non può sfuggire che questo è il principio su cui si fonda
l’attuale rete di mobilitazione mondiale che si oppone ai guasti del
neoliberismo globale.
Malgré Tout è all’origine del Manifesto degli Indios Sem terra
brasiliani, è in costante dialogo con gli zapatisti, lavora con il Ras
l’Front, con le organizzazioni dei senzatetto in Francia. Il tutto senza
una sede, un’iscrizione formale. L’unica esperienza con uno spazio
proprio è quella della Université populaire de la Cité des 4000, a la
Courneuve, un centro nella banlieue nord di Parigi.
Dalle esperienze di contropotere maturate in quegli anni, nasce
nell’autunno del 1999, a Buenos Aires, il «Manifesto della Rete di
Resistenza alternativa», che pone tra i suoi impegni: «Resistere è
creare. Resistere alla tristezza. Resistere è molteplicità. Resistere non
è desiderare il potere…».
Oggi il suo impegno è rivolto soprattutto verso i «senza», i senza
permesso di soggiorno, i senza lavoro, i senzatetto, quelli che non
hanno voce, nella rete No Vox, nata nel 2003 a Porto Alegre e che
riunisce collettivi di Francia, Portogallo, India, Giappone e Brasile.
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In Italia i suoi libri e i suoi interventi sono conosciuti da una
decina d’anni prima in certi settori del movimento. Nel movimento
delle donne, soprattutto, che ha riconosciuto nelle sue proposte
l’ispirazione alle pratiche della differenza. Benasayag dice esplicitamente, infatti, che l’unica vera rivoluzione del secolo scorso è quella
delle donne, che non si è mai posta l’obiettivo della presa del potere,
ma ha puntato sulle pratiche di relazione e sulla creazione di nuovi
modi di vita.
Il successo dei suoi libri ha fatto sì che anche i media italiani
si occupassero di lui, presentandolo come uno «psicoanalista» o un
«filosofo franco-argentino». Nelle pagine di questo libro egli spiega
esaurientemente come le etichette mediatiche, le «rappresentazioni», le «immagini», portino allo snaturamento delle esperienze reali
di vita. Per questo invito il lettore ad affrontare questo dialogo tra
Ernesto Che Guevara e Miguel Benasayag, due «medici argentini»,
in modo da trarne i frutti più fertili, quelli che aprono l’esistenza
alla gioia, alla creazione e alla volontà di resistere e cambiare questo
mondo triste.
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Introduzione
Non sono un «guevarologo» né uno specialista di Che Guevara.
Sono, peraltro, talmente legato a questo personaggio a causa del mio
passato impegno nella guerriglia guevarista e talmente implicato negli
attuali movimenti alternativi, che non potrei svolgere uno studio
obiettivo. Semplicemente, non ho il distacco indispensabile per
effettuare un lavoro del genere. È come se un turista mi chiedesse di
fargli una visita guidata in una città che conosco a memoria: in un
certo senso mi sfuggirebbe del tutto.
Poi, vista la quantità e la varietà delle biografie del Che, mi
sembra ridicolo cimentarmi a mia volta in un tentativo del genere.
Che interesse ci sarebbe a ricostruire una volta di più questa storia
o, peggio ancora, a comporre un’agiografia simile ai panegirici medioevali?
Per rispondere a questa domanda, segnaliamo soltanto l’opera
di Pierre Kalfon,1 un testo eccellente che articola alla perfezione la
riflessione e la ricerca. Mi pare inutile farne un remake.2
Sono queste alcune delle ragioni per le quali ho avuto qualche
esitazione davanti alla gentile proposta di Anne Dufourmantelle,
perché scrivessi un saggio su Che Guevara. Ho finito per cedere alla
tentazione. Era diventata evidente la necessità di adottare una duplice
1
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Pierre Kalfon, Il Che: una leggenda del secolo; prefazione di Manuel Vázquez Montalbán; traduzione di Luisa Cortese, Milano, Feltrinelli, 1998.
Naturalmente esiste una mole considerevole di lavori in proposito. Inviterei a
seguire quelli di uno degli studiosi italiani più attivi e fertili nell’approfondimento
della biografia guevariana: Antonio Moscato. [ndr]
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prospettiva che mi portasse a trattare il personaggio del Che come
uomo e insieme come immagine, ovvero nella sua dimensione mitica.
Mi sono allora riproposto di fare una specie di viaggio intorno a quella
complessa costellazione, fatta di caratteristiche personali e di circostanze storiche, e che ha reso il Che un emblema della contestazione
e un fenomeno cui riferirsi, dall’incomparabile forza di attrazione.
Mi sono messo, insomma, a incrociare lo sguardo del filosofo
che sono ora con la voce del giovane combattente guevarista che sono
stato. Grazie alla riproposizione di esperienze concrete, sarà possibile
riaprire gli archivi della memoria di un’intera generazione segnata e
influenzata dal campo gravitazionale del Che.
In contrappunto a queste due voci, spero che emergano alcuni
elementi di analisi che contribuiscano a capire meglio l’attualità; da
qualche anno, infatti, le idee guevariste avanzano in tutto il mondo
e improvvisamente si rinnovano.
Spero ardentemente che, in un modo o nell’altro, questo saggio
sulla rinascita del guevarismo possa sopire un po’ il senso di colpa che
provo per essere in vita quando tanti sono morti! Da più di un decennio, dai miei trentanove anni (un’età quanto mai emblematica, quella
in cui sono morti il Che e il suo successore argentino Mario Roberto
Santucho) io ho la sensazione di vivere ore rubate. Sono stato scosso
come da una sentenza di morte e il mio animo s’è molto incupito. La
sorte, tragicamente, è stata molto meno generosa con altri compagni, la
cui vita tanto breve non è stata per questo meno nobile e coraggiosa.
Mi sembra importante sottolineare subito che il guevarismo
è stato fin dai primissimi esordi un modo assai particolare di «fare
politica» e di sviluppare legami sociali, perché era soprattutto fondato
sul principio del «contropotere».
Questo è il termine che oggi si utilizza per definire un insieme
di movimenti alternativi che sono emersi da circa un decennio un po’
dovunque nel mondo. Sembra che il fatalismo degli anni Ottanta ceda
il passo a questi movimenti, le cui pratiche diverse e creative puntano
alla ricerca di alternative allo stato generale di tristezza. O, comunque, tentano di costruirne, nel desiderio di sottrarsi a questo mondo
dell’economicismo e delle società della disciplina, in cui regnano le
passioni tristi. Infatti, mentre sorge e si sviluppa il contropotere, il
neoliberismo non appare più come un orizzonte invalicabile.
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I senza terra, i senza casa, i senza documenti, insomma tutti i
«senza» fanno improvvisamente fronte comune, formano una specie
di terzo stato dei tempi moderni; altre forme di contestazione cercano
propri punti di riferimento e sperimentano ipotesi originali. Oggi,
in ogni manifestazione o esperienza alternativa, che sia in uno squat,
sulle terre occupate o in qualsiasi altro luogo, ritroviamo sempre e
comunque il nostro Ernesto, il Che, il dottor Guevara Lynch.
Per questa ragione non è possibile capire la potenza dei movimenti attuali e la loro specificità, se non guardando che cosa c’è
dentro al «fenomeno Che» e analizzandone i possibili effetti. In
filigrana si disegnano sempre quella barba, quello sguardo, quella
seduzione irresistibile. È lui: lo si riconosce ogni volta, anche se non
sono sempre gli stessi che lo fanno rivivere.
Che, questo soprannome tanto comune in Argentina e in
Uruguay, con cui ci si rivolge agli altri, risuona come un’eco strana,
singolare e quasi magica. Si ricongiunge, attraverso un percorso che
assomiglia a quello del destino, alle radici profonde latino-americane:
nelle lingue indiane il termine che rimanda ai concetti d’identità, di
comune e di condivisione. Così, il nome Mapuche è composto da
mapu (la dea della Terra) e che (le genti) e indica quindi la gente della
terra. E non sarete sorpresi nell’apprendere che in lingua guaranì la
parola chamigo vuole dire amico mio. È così che comincia un destino
mitico?
Occorre ricordare che un mito, nel senso antropologico del
termine, è molto più potente di quei prodotti contemporanei che si
chiamano «star»? È necessario sottolineare che un mito non ha nulla
a che vedere con quei personaggi creati artificialmente da una società
avida di consumo?
Diciamo soltanto che un personaggio mitico non è né una
semplice figura d’identificazione né una leggenda che si fabbrica o
si crea come e quando ci pare e piace. Contrariamente a quanto i
furfanti della postmodernità vorrebbero farci credere, non si possono
sfornare miti ricorrendo a semplici meccanismi di marketing o a
strategie perverse per fabbricare simboli usa-e-getta.
Si spiega così come mai il carattere mitico del Che non possa
in nessun caso essere ridotto al rilievo (peraltro divertente o irritante)
dell’incessante riproposizione del suo volto e della sua metastasi.
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Si tratta invece di capire se in questo universo neoliberista, nel
quale l’economicismo e lo scientismo proclamano a gran voce che
«tutto è possibile», dove si disconosce addirittura il senso del limite
e della restrizione, la figura del Che non rappresenti una vera forma
di resistenza che tenta di stabilire o di ristabilire le leggi fondamentali della nostra società, in difesa dell’uomo e della vita e contro il
diffuso utilitarismo.
Certo, la risposta non è così scontata, ma vale la pena rifletterci.
Perché, in fin dei conti, il nostro caro Ernesto se ne andrebbe tanto
a spasso per il mondo? Per quale altra ragione il suo volto, il suo
nome, la sua vita continuerebbero a battere e a riecheggiare in ogni
angolo di strada?
Questo libro, allora, propone un viaggio intorno a un patchwork
di fatti dell’uomo, del mito e del guevarismo, ma anche della contestazione radicale di ieri e di oggi.
«Un rivoluzionario fa la rivoluzione»: questa è la consegna del
Che, radicale e contestataria. Riecheggia una formula di Sartre, che
dice: «È sempre giusto ribellarsi». La dissidenza che qui emerge è una
delle dimensioni più profonde e audaci del guevarismo. Non è rivolta,
infatti, soltanto contro il potere borghese e imperialista, ma va ben
al di là, sollevandosi anche, e in una maniera altrettanto sovversiva,
contro i santoni della contestazione.
Il guevarismo respinge in modo irrevocabile l’aspettativa, l’impotenza e l’attesa che sospendono e fermano il tempo. Si oppone
a un certo tipo di militantismo. Rifiuta l’incoerenza tra le idee e la
vita quotidiana, non aspira alla giustizia per desumerne la propria
impotenza… in sintesi, adotta un vero atteggiamento esistenziale e
una modalità specifica d’impegno. Quanto al suo metodo, la ricerca
di nuove forme di vita e la loro applicazione nel guevarismo sono
paragonabili alla vera pratica della pietà, che non induce nessuno a
diventare cristiano ma esorta a comportarsi come Cristo.
Come si spiega, però, la costante presenza e l’attualità del Che in
un mondo dominato dalla tristezza e dall’impotenza? In un mondo che
minaccia di escludere le nuove forme di socialità e di solidarietà perché
esse negano la falsa dicotomia individualismo/collettivismo?
La critica più aspra della società disciplinata e regolata, composta
da individui isolati ed egoisti, spinge il Che, in modo perfettamente
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logico, a enunciare il suo corollario; una critica altrettanto feroce nei
confronti del collettivismo, quest’altra modalità sociale, altrettanto
costruita e regolata da individui ben disciplinati.
È così che Che Guevara s’impone come il perfetto ribelle radicale:
è il personaggio antagonista all’ordine esistente ma anche nei confronti
dei «capi liberatori». Intendiamoci: quelli che esigono la disciplina e il
silenzio in cambio della promessa di libertà ripetuta ogni giorno, una
promessa che si realizzerà presto, «perché il giorno della liberazione
è vicino, arriverà entro domani…», così assicurano.
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CAPITOLO PRIMO
Una costellazione
Dove sei, Ernesto caro?
Settembre 2002. Sono di ritorno a Parigi, in aereo. All’aeroporto
di Napoli temevo che l’espressione stupefatta stampata sul mio viso
dal mio arrivo in città, quattro giorni prima, potesse suscitare sospetti
tra gli agenti della sicurezza. Per fortuna sono riuscito a imbarcarmi
senza contrattempi.
Devo precisare che non è nel mio carattere sorprendermi a
ogni pie’ sospinto; anzi, mi capita assai raramente. E tuttavia laggiù
la sorpresa mi coglieva a ogni angolo di strada. Fin dalla mia prima
passeggiata per le vie caotiche della città italiana, mi accorgo che su
ogni motorino, su ogni auto, su ogni spalla o braccio tatuato c’è un
volto che mi osserva, uno sguardo focoso e riconoscibile tra tutti:
è quello del mio celebre compatriota, il mio amatissimo Ernesto, il
Che.
Siccome ero rimasto a bocca aperta davanti a questa metastasi
dell’immagine del Che, alcuni amici mi avevano spiegato che un
altro Che, un altro argentino diventato anch’esso una leggenda, ma
per tutt’altre ragioni, aveva giocato nella squadra locale di calcio.
Quel tale Maradona aveva sulla spalla, a quanto pare un tatuaggio
del Che (Guevara, stavolta). Per mimetismo i giovani napoletani
avevano preso l’abitudine di farsi tatuare la stessa immagine. Come
se la metastasi iconografica potesse da sola sviluppare le capacità
sportive del campione.
La spiegazione mi aveva lasciato scettico. Dopo tutto, i napoletani sarebbero corsi in massa a farsi un altro tatuaggio, scoprendo
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che Maradona aveva sulla gamba destra, poco sopra il ginocchio, il
volto di Fidel Castro?
Da oltre trent’anni quel volto dallo sguardo quasi arrogante,
dalla barba ribelle e profetica, con un berretto sistemato quasi al
millimetro sulla testa, non ha mai smesso di attraversare il mondo
come icona del «comandante alla moda» praticamente inventata dal
fotografo Korda. È un fatto: la faccia del Che è proprio dappertutto,
sulle copertine dei quaderni, sui fazzoletti, sui muri, sui reliquiari
e sa Dio su quanti corpi tatuati: se ne va ancora e sempre in giro,
eterna e immutabile.
Lo si è visto talvolta in compagnia dei Beatles, di Marilyn
Monroe, di Mick Jagger o, ancora, di Janis Joplin. Certe volte sopra
una frase quasi messianica, un grido di guerra che proclama la speranza di ogni vittoria e promette un futuro a ogni conflitto: ¡ Hasta
la victoria siempre!
Se si va oltre la banalizzazione prodotta da un eccesso di repliche, resta un enigma che si ripresenta sempre e che ci pone un
interrogativo riguardo alla presenza costante di quella riproduzione
del volto del Che, la quale, invece di cadere in desuetudine, si propaga
ampiamente nel tempo e nello spazio.
Quali sono i meccanismi che fanno sì che un volto si distacchi
in questo modo dal suo corpo e dalla sua storia? Che prenda il volo
in modo quasi autonomo, verso un singolare destino di nomadismo,
d’icona e forse addirittura di mito? Di che cosa deve essere capace,
quel volto, per pretendere di diventare mitico?
Tutto è immagine
Noi viviamo, parrebbe, nell’«era dell’immagine». Questo, almeno, è uno degli stereotipi attribuiti alle nostre società occidentali. È
vero che, per un verso, la supremazia dei messaggi visivi e, per l’altro,
la diffusione di massa che ne deriva sono fenomeni proprio specifici
della nostra epoca.
Non dimentichiamo, però, che il rapporto tra uomo e immagine
è molto complesso per definizione. È una costante, fin dalla notte dei
tempi. Se prendiamo l’esempio delle religioni monoteiste, che sono
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le più diffidenti nei confronti di certe immagini, ci rendiamo conto
che il giudaismo, molto semplicemente, vieta ogni forma di rappresentazione visiva della divinità, che il cristianesimo ha conosciuto
importanti scismi in relazione alla legittimità delle immagini, e che
infine l’islam limita rigorosamente la sua utilizzazione.
Già Platone diffidava con convinzione delle riproduzioni in
immagine e metteva in guardia contro di loro nella famosa metafora
della caverna, in cui dice che esse sono copie di copie, «creazioni
della creazione».
La relazione dell’essere umano con la riproduzione dell’esistente
è sempre stata oggetto di polemiche e questo dimostra l’importanza
del problema.
Sarebbe perciò poco saggio affermare che quello che è cambiato
con l’attuale proliferazione dell’immagine (favorita dallo sviluppo
incontrollato dei mezzi di comunicazione) sia in primo luogo la
funzione conferita all’immagine, quale parametro di estrema potenza
e strutturante dell’ordine sociale e della relazione dell’uomo con se
stesso.
Nelle nostre società postmoderne, che negano categoricamente
le questioni di fondamento e di principio, l’intrinseca polisemia dell’immagine non è assolutamente governata. In altre parole l’immagine,
non essendo soggetta a nessun paradigma o a nessuna cosmogonia
che enuncino norme restrittive, oltrepassa ampiamente i limiti della
propria potenzialità.
Si assiste così a una specie di orgia del significato, per cui ciò
che può voler dire tutto finisce per non significare niente. Quando
sostiene che tutto è narrazione e che perciò il senso di ogni cosa è
modificabile indefinitamente come in un racconto, la postmodernità
finisce per annullare la barriera che separa il veridico dal fittizio e il
vero dal falso.
L’unica verità su cui oggi c’è accordo è quella che afferma: «A
ognuno la sua verità». È questa una prova in più della tristezza che
ha invaso la nostra epoca. Gli enunciati relativisti di questa specie di
ideologia conducono a discorsi tirannici e assoluti. Dire che tutto è
discutibile e che ognuno detiene una verità — la sua — finisce per
rendere caduco e illegittimo qualunque interrogativo: nessuno è più
autorizzato a sollevare questioni.
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Sta qui la trappola e la debolezza del relativismo culturale: dietro
a una facciata progressista nasconde un universalismo irresponsabile,
semplicista, acritico e totalitario.
In questo contesto storico e culturale l’unica cosa che sussiste
al di là dei sensi, dell’asimmetria simbolica o del riscontro di una
narrazione con la realtà, è l’immagine, che diventa un messaggio
visivo deprivato di senso.
Dobbiamo allora chiederci se la stupefacente ubiquità dell’immagine metastatica del Che non sia altro che un semplice prodotto
della nostra epoca. Si può avanzare l’ipotesi secondo la quale la grande
diffusione dell’immagine del Che su scala mondiale abbia finito per
dissolvere il personaggio nella sua riproduzione iconografica? Visto
il rapporto che abbiamo oggi con quell’immagine, si può affermare
che il referente, il prototipo si sia involato nella virtualizzazione mille
volte ripetuta?
Ci proponiamo di analizzare questa ipotesi, esaminando più nel
dettaglio il ruolo dell’immagine nella società contemporanea, e poi
ci chiederemo in quale misura un’immagine diventata mitica possa
sottrarsi alla dialettica della disaggregazione del senso.
Verso una chirurgia estetica dell’anima
Mentre l’Antichità e il Medio Evo manifestavano una forte
diffidenza rispetto all’immagine, la nostra epoca si esercita invece a
coltivarla con ardore e arriva addirittura a farne un feticcio. Essa diviene
l’emblema della modernità, esposta senza pudore come vessillo della
soggettività alienata. Si arriva al punto che oggi gli uomini politici e
i personaggi pubblici in generale, ma anche la grande maggioranza
della gente, vivono con l’ossessione di «gestire la propria immagine»,
come si usa dire, di costruirla in funzione dello sguardo degli altri.
Niente e nessuno fa eccezione alla regola: persone, imprese, nazioni, movimenti politici e perfino i supermercati devono possedere
un’immagine, che dovrà essere elaborata, amministrata e governata,
raggiungendo in tal modo il culmine dell’onnipotenza.
In un mondo che svaluta il senso riportando ogni cosa a una
questione d’immagine, fanno la loro comparsa i guru «creatori
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d’immagine», che declamano e, senza curarsi del senso, forniscono
istruzioni sui segreti di quest’arte della composizione, oggi indispensabile per sopravvivere in società. Infatti, per imporsi in questo
nuovo contesto del darwinismo sociale, è indispensabile disporre
di un’immagine forte e capace di difendere il proprio territorio e le
proprie conquiste rispetto ai territori e alle conquiste rivendicate da
ogni altra immagine.
Viviamo una specie d’incubo virtuale, nel quale non siamo più
uomini o donne, ma i loro riflessi che di volta in volta si azzuffano,
si accalcano, si amano, si alleano o si fanno a pezzi…
Sono le immagini che conferiscono alle persone in carne e ossa
le proprie verità e le proprie energie e che danno loro, alla fine, una
ragion d’essere. La nostra epoca ci dice chiaramente: «Poco importano
le tue esperienze, quello che senti o che fai. Ecco la tua immagine
sovrana: tu sei il suo suddito».
Solo pochi decenni fa, gli uomini politici vedevano ancora, nelle
loro azioni, nei comportamenti, nei tic, qualcosa che si staccava da
loro, qualcosa che a loro assomigliava. Quell’insieme d’immagini li
rispecchiava, più o meno bene, agli occhi del prossimo, facendo talora
trapelare la loro personalità. Basti pensare a Churchill, a Kennedy, a
De Gaulle o a Krusciov, personaggi di un certo spessore, che hanno
vissuto passaggi cruciali della storia, i cui gesti e la cui eloquenza
restano incisi nella memoria di più generazioni.
Il rapporto tra quegli uomini e la loro immagine era allora
diametralmente opposto a quello dei politici contemporanei, forse
perché all’epoca nessuno si considerava proprietario della sua immagine,
la quale prende forma nella mente altrui come in un caleidoscopio.
Insomma, l’uomo pubblico viveva e agiva senza dubbio speculando e simulando in certi momenti, ma in ogni caso constatava a
posteriori come le proprie azioni influissero, nel bene o nel male, sulla
sua immagine, ricreando o distruggendo ciò che gli altri riuscivano
a vedere in lui. Nella nostra società succede esattamente il contrario.
Le azioni pubbliche sembrano motivate solo dal desiderio di ogni
individuo di servire la propria immagine. Come se il doppio virtuale
lo soggiogasse tanto da prevalere su ogni decisione riguardante i suoi
impegni pubblici o la sua vita privata, l’uomo pubblico agisce di
comune accordo con la propria immagine.
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In un contesto ideologico del genere, raggiunge il culmine il
paradosso dell’immagine del Che. Il Che, infatti, è il personaggio
storico per eccellenza che agisce in funzione della situazione e per
la situazione.
Nella società panottica, in questa società oscena del voyerismo
e della trasparenza, s’impone come un imperativo di sopravvivenza,
una regola fondamentale, la «gestione dell’immagine»: ognuno coltiva la propria con cura e devozione. Ed essa, l’immagine tirannica,
intronizzata, regna quale istanza trascendentale e dissacrata. Davanti
a questo nuovo riferimento che prende il posto finora occupato dalla
verità e che decide costantemente che cosa è bene per lui, l’essere
umano stesso viene limitato.
Così la dimensione virtuale satura il territorio dell’essere e, davanti al trionfo dello spettacolo, l’esistenza reale è a sua volta ridotta e
relegata al rango di epifenomeno, una specie d’insignificante residuo
della dimensione spettacolare.
Questo principio di conservazione dell’immagine si sostituisce in
modo caricaturale al vecchio imperativo di conservazione dell’anima
immortale.
Il fenomeno si estende alla popolazione nel suo insieme, perché
si prendono cura della propria immagine non solamente gli attori e gli
uomini politici, ma si affannano sempre di più a fare una bella figura
i cattedratici, gli artisti, e perfino certi personaggi della controcultura,
subordinando ogni atto e ogni decisione a questo obiettivo assoluto
e assolutista. È nata una nuova religione, che predica la «salvezza
universale dell’immagine».
A questo riguardo, interroghiamoci sull’immagine paradossale
del subcomandante Marcos e osserviamone gli effetti pubblici. Quando il subcomandante ribelle e la maggior parte dei suoi ufficiali si
sono fatti conoscere pubblicamente nel 1994, l’obiettivo era quello
di mettere fine al problema della personalizzazione, che va di pari
passo con quello dell’immagine. Quando si presentavano con il volto
coperto, non volevano tanto tutelare il diritto alla clandestinità, quanto
evitare di cedere sotto il peso della propria immagine riflessa. Ora il
passamontagna, la maschera, non ha soltanto la funzione di prevenire
la metastasi, ma anche quella di riaffermare ciò che la «società della
trasparenza» si ostina a negare. Basti pensare, per convincersene,
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all’effetto che produce immediatamente il volto coperto di Marcos.
Ciò che non si vede è infinitamente più intrigante di ciò che si mostra
senza veli. Un perizoma eccita più di un sesso nudo.
Non è un caso che le parole «maschera» e «persona» abbiano
etimologicamente lo stesso significato. Dietro alla maschera non
c’è una persona3… sotto il velo non c’è nessun volto vero, ma altre
maschere, altre molteplicità. In fin dei conti, se si toglie la maschera,
si scopre ciò che la nostra società nega o ignora, intestardendosi a
prendere la maschera per il tutto.
Dalla caverna al mirador
Florence Aubenas spiega come oggi noi assistiamo impotenti, e
forse addirittura inconsapevoli, a un cambio di atteggiamento riguardo
al controllo sociale, alla sorveglianza panottica: stranamente non la si
considera più una minaccia, ma un oggetto di desiderio.
Ricordiamo che il progetto panottico di Jeremy Bentham (fatto
conoscere da Foucault nella sua opera Sorvegliare e punire4) si basava
su un programma di sorveglianza continua sui marginali e i delinquenti, fino al momento in cui essi avrebbero finito per introiettare
in se stessi il mirador, il posto di osservazione centrale del panopticum.
Nel programma di Bentham, la prospettiva adottata rispetto all’ordine sociale, si basava sul controllo permanente di tutto ciò che era
relativo al campo del visibile e dell’immagine.
Ne deriva che tutto ciò che esiste deve «apparire», essere visibile,
e che, invece, ciò che non si vede, che sfugge all’immagine, si segnala
immediatamente come qualcosa di sospetto. Secondo questa presa di
posizione «igienista» verso la cultura, ciò che si nasconde fa sempre
parte del brodo di cultura del male.
Così l’immagine, della quale si può dare conto e che si può
controllare, appartiene in modo del tutto naturale alla sfera del bene.
Essa guadagna terreno, si estende fino a diventare l’unica forma
3
4
Personne in francese significa «nessuno». [NdT]
Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi,
2005.
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legittima d’esistenza: ognuno vive identificandosi con lei in tutto il
proprio essere, senza essere più altro che immagine.
Questo significa che per il potere panottico l’underground, l’invisibile, il non raccontabile, insomma tutto quello che non è chiaramente
identificabile o risolvibile grazie all’immagine, viene additato come
contestatario e apertamente sovversivo. Florence Aubenas identifica
l’immagine con l’etichetta che si stabilisce molto rapidamente e con
il potere, cioè con una tassonomia ufficiale della vita, concepita dal
progetto ultrareazionario del sistema. Nel processo di etichettatura,
l’immagine che la società, il potere, il padrone o i vicini si fanno di
qualcuno non è più un semplice accidente, ma diventa quella persona. Si decreta così la fine degli incommensurabili risvolti del cuore
e dell’anima, del divenire singolo e complesso (irriducibile) di ogni
balbettante interiorità.
Quanto all’immagine del Che, sembra che essa segua un percorso
simbolico distinto in due fasi. Negli anni Sessanta, la sua immagine
evocherà fondamentalmente ciò che non è dato vedersi. Il visibile sarà
allora chiaramente percepito con un Che strutturato dall’invisibile.
Meglio ancora, il visibile avrà valore solamente perché evoca implicitamente tutto quello che non si mostra, che è fondamentale e che
appartiene a un territorio irrevocabilmente chiuso allo sguardo.
Ai nostri giorni, nell’ora del trionfo panottico, l’immagine eretta
a sovrana assoluta si sostituisce ai principi fondamentali e al «reale».
Dall’alto del suo bastione essa non solo non evoca l’importante che
non si vede, ma dispone di tutto lo spazio, satura la vista e riempie lo
schermo con la sua vacuità simbolica. Una volta finito il gioco della
rappresentazione, quella visione che non si struttura nel non visibile
si trasforma immediatamente e paradossalmente in una visione cieca:
dietro all’immagine ormai vuota, a forza di trasparenza, svanisce il Che
complesso e plurale. Scompare, un po’ come fanno le top model e i protagonisti dei reality show. Dietro la maschera non c’è più la persona.
Mi guardano, dunque esisto
«Esistere attraverso lo sguardo e per esso»: è la parola d’ordine
attuale, la cui logica non è considerata affatto un immiserimento
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dell’esperienza di vita né una violenza da parte del sistema. Tutt’altro.
Questo principio, nelle nostre società, si è ribaltato e si è imposto come
ideale modo di vita. In questo è possibile scorgere un altro segno della
trasformazione perversa che si verifica attualmente rispetto al potere
dell’immagine e che abbiamo illustrato in precedenza ricorrendo
all’analisi di Florence Aubenas. L’oggetto del desiderio va oramai perdendo del tutto la propria dimensione oscura e insondabile: la libido
contemporanea si nutre esclusivamente di reiterazione e di trasparenza.
A l’amour comme à la guerre, il personaggio contemporaneo si tiene
nell’ombra per far vedere di sé solo l’immagine, perché non è altro che
quell’immagine creata di sana pianta, semplicemente inventata.
Il grande successo del potere mediatico è di aver saputo ridurre
la molteplicità dell’esistenza a uno spazio a una sola dimensione,
quella del virtuale. Il potere crede che controllando l’etichetta sarà
in grado di controllare tutto, di sorvegliare e dominare ogni cosa,
senza nessuna eccezione.
Qualche anno fa, la realizzazione di un carcere «moderno»,
basato sull’impiego di braccialetti elettronici, aveva suscitato una
forte opposizione nei Paesi occidentali. Le manette futuribili dovevano permettere ai prigionieri di superare le barriere del carcere.
La sorveglianza elettronica nel nuovo sistema penitenziario, infatti,
poteva seguire ogni prigioniero fin nei suoi minimi spostamenti,
trasformando in tal modo la città in una grande prigione.
I detrattori di quell’invenzione la criticavano in quanto massima
espressione perversa di un sistema che si dava i mezzi per introdursi
nella vita della gente senza nessun ritegno.
Solo pochi anni dopo, con l’arrivo del telefono portatile, il «libero» cittadino paga per possedere un nuovo tipo di braccialetto elettronico, grazie al quale diventa trasparente al controllo panottico.
L’immediata possibilità di comunicare si trasforma oggi in obbligo immediato di comunicare: tutto ciò che capita a uno deve essere
riferito a qualcun altro nel giro di un minuto. Davanti al dubbio,
alla gioia o all’ansia l’uomo moderno non si concede più qualche
momento riservato alla riflessione e all’elaborazione personale del
pensiero. «Poter comunicare» diventa l’esigenza sociale e quasi etica
di «dover comunicare», perché chi non espone e non trasmette tutto,
ma proprio tutto, e subito, deve nascondere per forza qualcosa.
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All’apogeo di questa società di osservatori di sorveglianza,
nessuno riesce più a sfuggire o a passare inosservato davanti alle migliaia di occhi avidi che lo circondano. Al termine di questa caccia
infernale, di questa osservazione incessante, che cosa si sa davvero di
noi? La risposta è questa: chi ci osserva non sa un bel niente o proprio
tutto. Dipende dalla capacità di ognuno di abitare altre dimensioni
al di fuori di quella spia rossa luminosa sullo schermo del controllo
panottico.
A livello monodimensionale, il potere può sorvegliare tutte le
etichette e tutte le immagini, ma quando la vita travalica la maschera
e non s’identifica più con essa, l’occhio panottico è ridotto alla cecità.
Continua a guardare, crede di vedere sempre, ma il suo cervello da
dinosauro futuribile è capace solo di elaborare i dati repertoriati.
Naturalmente nemmeno l’immagine del Che si sottrae a questa
dialettica. È tuttavia possibile portare avanti il ragionamento, dicendo
che il Che incarna in modo paradigmatico la lotta tra due tendenze: quella che desidera (in modo invisibile) l’esperienza profonda,
la liberazione e la giustizia, e l’altra che finisce per coincidere con
un’immagine troppo carica e che rimanda solo a se stessa?
Che Guevara e la translatio ad prototipum
Nel corso di tutto il Medio Evo la questione delle icone fu al
centro di un ferocissimo dibattito. La discussione verteva in particolare sul tema della translatio ad prototipum, come la chiamavano
gli iconografi e gli iconoclasti dell’epoca. In virtù di quel principio,
si riteneva che gli omaggi resi all’immagine fossero direttamente
trasferiti al suo prototipo senza essere contaminati. Gli avversari di
quella tesi sostenevano invece che la venerazione delle immagini
sviasse l’omaggio e le attestazioni di devozione: poiché l’immagine è
solo una copia fallace del prototipo, l’adorazione degli oggetti, non
avendo nessuna relazione diretta con le sfere divine, non si discosterebbe dall’idolatria.
In questa querelle medievale i contendenti accettavano un
presupposto che alla nostra epoca non interessa e che forse non capirebbe nemmeno, quello del riferimento ontologico, ovvero della
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