6. SILVIA ULRICH, Gli eredi di Felix Krull. Dai `falsi`

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6. SILVIA ULRICH, Gli eredi di Felix Krull. Dai `falsi`
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
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Paragrafo
II (2006)
Sommario
QUESTIONI
§1. ANDREA BELLAVITA, L’emersione del Reale. Perché una psicoanalisi
del cinema contemporaneo?
7
§2. ANDREA MICONI, Dal real maravilloso al realismo magico.
Approccio evolutivo alla formazione di un genere
27
FORME
§3. CLAUDIO CATTANEO, Cornici per un assassinio. I confini del testo
in Libra di Don DeLillo
51
§4. MASSIMO VERZELLA, Embers di Christopher Hampton e la traduzione della malinconia
69
§5. ENRICO LODI, La retorica del potere nei discorsi del primo franchismo
83
TEMI
§6. SILVIA ULRICH, Gli eredi di Felix Krull. Dai ‘falsi’ di Wolfgang
Hildesheimer alle imposture del caso Gert Postel
105
§7. FRANCESCA PAGANI, Dal ‘cielo stellato’ di Mallarmé alle ‘bolle
d’inchiostro’ di Reverdy. L’immaginario del libro magico nella
poesia francese della modernità
121
LETTURE
§8. LUCIA QUAQUARELLI, La vittoria di un’onda. Palomar di Italo
Calvino
135
§9. VALENTINA LOCATELLI, Christa Wolf, una moderna Medea in
California
149
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
169
NUMERI ARRETRATI
171
§
6
Silvia Ulrich
Gli eredi di Felix Krull
Dai ‘falsi’ di Wolfgang Hildesheimer
alle imposture del caso Gert Postel
Sappiamo tutti che l’arte non è verità. L’arte è una menzogna che ci insegna a comprendere la verità, almeno
quella verità che come uomini riusciamo a intendere.
Pablo Picasso
Quando nel 1954 uscirono le Confessioni del cavaliere d’industria Felix
Krull,1 pubblico e critica letteraria accolsero l’opera con grande entusiasmo; lodavano l’indiscusso valore con cui il romanzo compendiava – malgrado la frammentarietà – l’intera evoluzione di un fenomeno culturale affiorato in Germania agli albori della Gründerzeit, diffusosi poi con impeto
straordinario negli anni della Repubblica di Weimar, e destinato infine ad
arrestarsi solo quando il nazismo operò quell’inesorabile involuzione spirituale atta a nullificare ogni forma di individualismo creativo e antiborghese. Mediante l’attenta osservazione delle ludiche contraddizioni di uno
splendore borghese ormai defunto, il Krull, già nel momento del suo tardivo esordio sembrava destinato ad esaurire ogni ulteriore attestazione letteraria di impostura. La belle époque – il comune denominatore di tutte le
vicende di avventurieri apparse fino ad allora – era definitivamente tramontata portandosi via lo ‘scenario’ prediletto dal cavaliere d’industria, il
più adatto alla messinscena di ruoli mistificatori sempre diversi. La critica,
dedicatasi immediatamente ad un’attenta esegesi del romanzo, ritenne superflue ulteriori indagini sulla sopravvivenza del fenomeno in opere successive. Vi sono tuttavia esempi che non hanno mancato di destare attenzione, benché i casi di attualità più significativi siano rimasti di fatto cor1
Thomas Mann, Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull, trad. it. di Lavinia Mazzucchetti, Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, Milano: Mondadori, 1993.
PARAGRAFO II (2006), pp. 105-19
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SILVIA ULRICH
puscoli nel cosmo letterario non meno che nella stampa scandalistica.2 Ai
tempi del Krull insomma, l’apice dell’impostura doveva ancora essere raggiunto; il culmine in Germania sarebbe stato toccato nel 1999.
In quell’anno a Berlino si riunì il Primo Congresso dei Cavalieri d’Industria Tedeschi. Il tema era la Millanteria, il fulcro dell’era postmoderna.3
Più che un vero e proprio simposio, si trattava di una ‘rimpatriata’ di impostori di ogni fatta, desiderosi di contribuire per puro amore della verità,
con aneddoti, facezie, storie (naturalmente false) di vita vissuta alla formazione della consapevolezza collettiva che l’impostura è una costante umana: ogni realtà reca il segno indelebile della finzione, forma e contenuto
convergono oggi come un tempo fino all’assoluta identità o all’inevitabile
dissolvenza. Il congresso non celebrava – come insegnano le confessioni
della tradizione letteraria – l’autocompiacimento di se stessi, bensì il riconoscimento dell’impostura come linguaggio collettivo, per il pregio che
possiede di rischiarare verità nascoste inventandole di sana pianta.4
Il crescente individualismo che ha contrassegnato l’Occidente dalla fine della guerra al nostro presente si è progressivamente sostituito all’antica ansia borghese di relazionarsi con quei milieu ritenuti superiori per influenza e prestigio; per contro, il venir meno del vincolo sociale quale
unico vero presupposto dell’appartenenza a una classe ha favorito un graduale isolamento dei singoli tale da aumentarne la vulnerabilità. L’inganno nell’era attuale è sempre meno plateale, sicché la messinscena del cavaliere d’industria ha luogo più facilmente nel privato, nella diabolica complicità tra l’artefice e la sua vittima, all’ombra di qualunque testimone;
l’anonimato, assai più che il pubblico applauso, è il vero obiettivo dell’odierno avventuriero, ben più avido di denaro oggi che in passato. Il passaggio formale dal teatro5 al romanzo, che il Krull ha operato, ha trasformato l’impostura da messinscena pubblica a strategia individuale, tesa tra
il soggetto che si confessa e il lettore; negli anni Cinquanta tale riflessione
raggiunge il pubblico sotto forma di radiodramma, una varietà di espres2
Cfr. Stephan Porombka, Felix Krulls Erben. Geschichte der Hochstapelei im 20. Jahrhundert, Berlin: Bostelmann & Siebenhaar, 2001, in part. le pp. 119-89.
3
Cfr. la pagina internet <http://www.jf-archiv.de/archiv99/289yy27.htm>.
4
Robert Mingau, Hochstapelei und postmoderne Gesellschaft – Über-Leben einer anthropologischen Konstante. Ausblick auf das dritte Jahrtausend, intervento d’apertura del suddetto congresso, cit. in Stephan Porombka, op. cit., p. 7.
5
Cfr. Silvia Ulrich, “Il cavaliere d’industria tra condanna e apologia. L’avventuriero in
Vincenzo Martini, Frank Wedekind, Robert Musil e Hermann Broch”, Crocevia, 3, 2006,
pp. 190-209.
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sione scenica in grado di stabilire un legame diretto tra ciascun attore e il
singolo spettatore. Ai giorni nostri poi la virtualizzazione dei rapporti interpersonali ha favorito una diffusione tanto capillare dell’impostura da
renderla spesso incontrollabile; internet è il regno in cui la truffa serpeggia, proprio come un tempo erano gli sfarzosi non-luoghi dell’inautenticità, gli hotel di lusso, i rinomati ristoranti, la Borsa o le grandi banche a
schiudere agli arrampicatori sociali vantaggiose quanto incalcolabili opportunità. Un falso titolo – oggi accademico poiché più credibile dell’antica onorificenza nobiliare – resta ancora la chiave d’acceso al regno del
fantastico, un punto debole che nella sobria e pragmatica società tedesca
contemporanea finisce tuttora per sorprendere. Per quanto in definitiva
sia mutata la pur ricca facoltà espressiva dell’impostura, il contenuto è rimasto pressoché inalterato. Nella Germania postbellica i cavalieri d’industria non si sono dissolti; sono tornati alla ribalta con rinnovato vigore; al
pari di un virus potente si insinuano nel quotidiano, artefici di una mimesi sempre più autentica e ardua da smascherare. Merito, certo, della loro indiscussa bravura. Mentitori abilissimi, essi interpretano ruoli molteplici con una verosimiglianza ‘scientifica’ (compaiono nei panni di medici, professori, giuristi), tale da sconcertare il professionista più esperto,
proprio come Thomas Mann aveva celebrato l’apoteosi del falso principe
che appare più autentico e convincente di un vero re.
Il riaffiorare dei cavalieri d’industria nella letteratura dopo il 1945 è
da ricondurre prevalentemente al boom economico, simbolo dell’ondata
di benessere che investì l’Europa occidentale a vari livelli, allorché le fasce
più colpite dagli effetti disastrosi del conflitto si ritrovarono a dover ricominciare la propria vita da zero. La propensione a ‘voltare pagina’ che caratterizzò la società tedesca dei primi anni Cinquanta, e l’indegno revisionismo delle atrocità dei campi di sterminio, si propose agli occhi di molti
come nulla osta alla ‘riscrittura’ del passato individuale. Il milieu borghese
poi, l’humus imprescindibile che fa da sfondo ai raggiri dei predecessori
di Krull, è sopravvissuto praticamente intatto – dietro la maschera di una
rinnovata identità – al processo di denazificazione del paese. Negli anni
Cinquanta la Germania del Piano Marshall andava incontro a una nuova
belle époque. Con simili premesse storico-sociali, quasi a conferma dell’universalità dei corsi e ricorsi storici, c’è da chiedersi per quale motivo il fenomeno dell’impostura non avrebbe dovuto ripresentarsi con slancio e vigore rinnovati. Dal 1945 a oggi i cavalieri d’industria in Germania dilagano più che mai per le strade, sugli schermi cinematografici o nei para-
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disi mediatici, ma anche nella letteratura, e non solo d’intrattenimento.6
Chi sono dunque gli eredi di Felix Krull?
Nel 1953, sull’onda di una serie di opere neo-picaresche, esce il romanzo Falsi e falsari di Wolfgang Hildesheimer.7 L’ambientazione è molto
simile a quella del Krull: l’artista Anton Velhagen narra la propria storia,
un intreccio di avventure facenti capo all’immaginario principato di Prozegovina e al suo pittore nazionale (ovvio, inesistente) Ayax Mazyrka.
Formalmente, la forma dell’autobiografia fittizia riprende il capolavoro
manniano, tuttavia la problematica della finzione analizzata da Hildesheimer fa del rapporto menzogna-verità – lo stesso su cui Krull fonda le proprie confessioni – l’apologia dell’assoluta inattendibilità del narrato, tanto
contenutistica quanto strettamente narratologica, esito di uno sperimentalismo stilistico che, senza troppe forzature, si può definire ‘negativo’:
Il pittore Ayax Mazyrka, detto anche il ‘Rembrandt della Prozegovina’,
una delle personalità più significative della storia dell’arte, non è mai esistito. Le sue opere sono dei falsi e la storia della sua vita è un’invenzione.
Che questo fatto sia chiaro fin d’ora perché è sia il punto di partenza che
il movente per queste mie note. Non mi aspetto che il lettore mi presti
fede e se questo fatto viene messo per la prima volta nero su bianco, è soltanto perché – a dispetto di ogni incredulità – è di importanza fondamentale per quel che credo di dover raccontare. (FF, p. 9)
L’incipit del romanzo esprime in nuce l’intera estetica dell’autore, volta a
cambiare i connotati ai concetti di verità-finzione che già il Krull aveva
invertito: Krull era mentitore in quanto geniale artista, i personaggi di
Hildesheimer sono invece artisti in quanto geniali falsari. Tutti nel romanzo rivestono il ruolo di contraffatori: Robert Guiscard, presunto zio
del protagonista, Philipp Roskol, suo precettore e la ‘zia’ Lydia, collezionatrice di false anticaglie; tutti quanti maestri dell’imbroglio, spesso addirittura rivelato, a dimostrazione del fatto che il moderno cavaliere d’indu6
Cfr. Evelyn Finger, “Unheiligenschein. Brich aus, wenn du kannst”, Die Zeit, 27 aprile 2003. Nel sottotitolo l’autrice poneva in risalto l’attualità del fenomeno: “Nei film e nei
libri pullula di cavalieri d’industria e di imbroglioni geniali. Ma perché queste canaglie sono così affascinanti?” Una possibile risposta si trova nel libro-scandalo di Gert Postel,
Doktorspiele. Geständnisse eines Hochstaplers (2001), che ha portato alla ribalta un fenomeno sociale creduto ormai estinto da tempo.
7
Wolfgang Hildesheimer, Paradies der falschen Vögel (1953), trad. it. di Paola Galimberti, Falsi e falsari, Milano: Marcos y Marcos, 1991, p. 9. D’ora in avanti la sigla FF farà
riferimento a questo volume.
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stria ha raggiunto la piena consapevolezza del proprio mentire: “Non sono un pittore”, afferma Robert, “sono un falsario, ma un falsario geniale,
un grande, non uno di quei miseri imitatori di prati e di boschi che si appropriano di una piccola fetta di storia dell’arte e se la imparano a memoria” (FF, p. 56). Una simile ammissione ricorda un po’ la riabilitazione
che Thomas Mann fa a proposito del furto nel Krull, un inchino di fronte all’art pour l’art. La finzione è arte rispettabile nella misura in cui crea
verità nuove di zecca, assolutamente credibili e indubitabili. Non siamo
di fronte all’apoteosi della dissimulazione, ma di una forma di estro al
‘negativo’, poiché crea, falsificandola, la verità e i suoi stessi fondamenti.
Così, una volta inventato il pittore Mazyrka, ecco immaginata anche la
sua biografia, un saggio di storia dell’arte di singolare “fantasia scientifica”
(FF, p. 63); un’aporia della gnoseologia dopo il 1945, che solo l’ossimoro
può davvero esprimere: “Sì – risposi per amore della verità – mia zia possiede due autentici Mazyrka” (FF, p. 77), afferma Velhagen con quell’incrollabile sicurezza che solo la menzogna può davvero conferire.
In questo breve romanzo Hildesheimer rinuncia a proporre ulteriori
riflessioni sull’inautenticità di ogni testimonianza, tanto verbale quanto
scritta, che ancora nel Krull trovava ampio spazio. Nel testo mancano vere digressioni sull’estetica della finzione e quando se ne fa cenno (“Che
cos’è un quadro autentico?”, FF, p. 121), si tratta solo di fugaci interrogativi, apparentemente aperti, cui è il tessuto narrativo stesso a dare risposta. Perché il falsario geniale falsifica anche l’arte apocrifa, e il giovane
Velhagen, malgrado il tentativo di dare espressione in modo tradizionale
alla propria vena artistica, una volta abbandonato il proprio ruolo di paesaggista prozegovniaco morto prematuramente, scopre come la propria
opera sia stata falsificata proprio da colui che lo ha iniziato all’arte del falso, lo zio Robert. Non potendo smascherarlo, pena la rivelazione della
propria identità, Velhagen persevera nel solo inganno di sopravvivere alla
propria morte, universalmente riconosciuta come tale ma proprio per
questo altrettanto ingannevole: essa conferisce al personaggio quel tanto
di ermetico che è in fondo la caratteristica precipua di ogni cavaliere d’industria.8 Nel momento in cui l’originale smaschera l’imitazione, Velhagen
comprende come la verità agli occhi del mondo appaia una menzogna e
l’individuo autentico un impostore: ecco perché l’autenticità si mostra
8
Cfr. Claudia Monti, “Una scrittura ermetica. Il Felix Krull”, Cultura tedesca, 1, 1994,
p. 99-114.
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non già come una verità comprovata dalla realtà, ma esclusivamente come ciò che “è dichiarato autentico da uno o più esperti” (FF, p. 121).
L’arte tematizzata nel romanzo, un vero falso materiale oltre che ideologico, è figlia dell’etica borghese del profitto; e profondamente borghesi sono in fondo tutti i personaggi della commedia, a cominciare da Robert
Guiscard, del quale il nipote e discepolo Velhagen afferma che “l’accumulo
di ricchezze era la forza che lo muoveva” (FF, p. 40),9 fino a Liane, una
spia che il matrimonio con Robert trasforma in poco tempo in “una vera
donna di casa” (FF, p. 89). Anche il ministro della cultura prozegovniaco è
un cultore del falso a puro scopo di lucro (“Abbiamo un solo olandese, un
Rubens, che – detto tra noi – non è autentico” (FF, p. 59); infine lo stesso
Velhagen, che dopo la leggendaria fucilazione del suo personaggio, mutata
la propria identità e ritrovatosi a dipingere sui marciapiedi, afferma: “Sarebbe stata un’impresa titanica spiegare che la posizione di un pittore di
strada, anche se socialmente inferiore a quella del suo collega d’atelier, rendeva materialmente molto di più” (FF, p. 109). In tal modo Hildesheimer
rintraccia e snida una borghesia diabolicamente camuffata, pronta a tutto
pur di sopravvivere ai tempi, avvolta nel canovaccio della finzione di sempre; se poi è lo stesso artista-falsario ad affermare che “i tempi sono cambiati e non ha alcun senso ignorare il cambiamento; bisogna adeguarsi”
(FF, p. 88), significa che l’impostore è ancora sempre un prodotto imperfetto del trionfo borghese; o forse davvero perfetto per via della fiera rinuncia a “smascherare i mali esistenti o addirittura di correggerli” (FF, p. 9). Il
compito di miglioratore del mondo, del resto, non si addice a una canaglia, poiché va da sé che perseguendo i propri interessi egli debba inevitabilmente danneggiare il prossimo. Ma sconcerta assai più la considerazione
del protagonista, secondo cui “è molto difficile stabilire dove siano veramente gli interessi: l’azione di ieri, pensata e ripensata, oggi può rivelarsi
affrettata e sciocca, il fatto di oggi è il misfatto di domani” (FF, p. 122). La
distanza temporale, che nella satira di Hildesheimer muta gli avvenimenti
in verità storiche, altera il valore di un’azione, la fa mutare di segno.
Tramontata la parola quale garanzia di attendibilità, la Sekurität borghese, portata allo scoperto dalla narrazione, cerca appoggio nella presun9
Mediante l’allusione allo storico condottiero normanno Roberto Guiscardo l’autore
insiste sull’attitudine a plasmare l’identità servendosi di personaggi realmente esistititi, di
cui le figure fittizie del romanzo si offrono come copia. La falsificazione del ‘lignaggio’ del
resto è una pratica che il cavaliere d’industria mette in atto frequentemente; essa diviene
la base su cui tutte le finzioni si fondano.
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ta autenticità di fatti storicamente accaduti. Nell’indagine fantasmagorica
che l’autore compie attraverso un’Europa balcanica dalla fisionomia cangiante, dove Paesi mai realmente esistiti scompaiono con grande rapidità
dalla carta geografica – sono chiare le allusioni all’invasione della Polonia
nel 1939 –10 emerge un quadro tanto ilare quanto inquietante: l’intera
storia dell’arte si rivela una pedagogia del falso, fin dal primo approccio
accademico al disegno, che avviene mediante l’esercizio della copia, definita nient’altro che imitazione. Non stupisce come il cavaliere d’industria, plasmando il proprio talento sulla pratica dell’emulazione, faccia
dell’arte pittorica il regno di nuove conquiste. Il problema morale che
sottende al difficile rapporto verità-menzogna emerge proprio dal potenziale mistificatorio che contrassegna l’Europa negli anni Cinquanta. La
finzione non costituisce più un ‘caso’ meritevole di indagine sociologica e
psicologica; essa appartiene più che mai al contesto socio-politico, con il
quale ogni riflessione sulla realtà è inevitabilmente costretta a confrontarsi. L’argomento stesso del romanzo viene presentato con grandissima naturalezza, quasi con ingenua innocenza, sì da instillare nel lettore il dubbio che nelle trame del racconto non si nasconda davvero una verità ignota ai più e su cui nessuno ha mai osato porre domande:
[Le] gallerie europee e americane […] traboccano di falsi – uno qui, uno
là, sistemati con mano abile – ma nessuno ne parla perché non rientra nell’ambito della vita di tutti i giorni. E certamente in questi ultimi anni ci
sono state altre cose che hanno assorbito in misura crescente l’interesse del
pubblico e che – chi potrebbe mai negarlo – per l’immediato futuro dell’umanità sono ben più significative di qualche quadro falso. (FF, pp. 9-10)
Così come la vera autenticità del gesto pittorico può nascondersi anche
nella silenziosa attività del falsario, allo stesso modo la rivelazione della ve10
“Il principato di Prozegovina è ormai scomparso dalla cartina dell’Europa da più di
vent’anni e, fatta eccezione per un piccolo pugno di ex prozegovniaci dallo spirito nazionalista, oggi non sono più molti quelli che si cullano nell’illusione di una rinascita di quello stato. Il governo in esilio, formatosi a Londra durante l’ultima guerra mondiale, esiste tutt’ora
e si riunisce una volta all’anno, ma nessuno sa di preciso cosa governi e così si avanza la supposizione che si tratti di un’istituzione destinata a scomparire. Tuttavia lungi da me l’idea di
voler scoraggiare coloro che, imperterriti, continuano a crederci. E perché mai dovrei farlo?
Chi di noi sa quale assetto avrà la carta geografica dopo la prossima guerra mondiale scagli
la prima pietra contro i prozegovniaci” (FF, p. 79). Il narratore (oltre al riferimento specificamente musiliano) possiede una forte consapevolezza storica profeticamente inquietante,
dal momento che la vicenda non è storicamente determinata, ma si presenta atemporale come una fiaba, dunque fittizia per quanto autentica nel messaggio che trasmette.
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SILVIA ULRICH
rità può avvenire mediante l’inautenticità della narrazione. Hildesheimer
estremizza la riflessione operata da Thomas Mann nel Krull: lì era falsa la
materia narrata, ma veridica la narrazione; qui invece sono false entrambe;
tutto è simulato e contemporaneamente anche dissimulato, senza che per
questo gli opposti si annullino, proprio come prospettava il teatro dell’assurdo, di cui Hildesheimer fu un eclettico rappresentante. Narrare il falso
per ‘amore della verità’ è dunque l’ironico imperativo categorico del romanzo. Ma la riflessione sulla verità, divenuta nel dopoguerra tedesco il
cardine attorno al quale ruota gran parte della letteratura impegnata e
d’intrattenimento, non può prescindere dalla riflessione sull’etica che l’arte può e deve ancora veicolare. Come per il furto compiuto da Krull, anche la creazione di un dipinto attribuibile a Rubens è un atto sublime, un
lungo e autentico processo creativo che presuppone la facoltà di “calarsi
interamente nella personalità dell’autore del modello” (FF, p. 57). L’avvicendamento dei ruoli è ancora sempre il fondamento dell’impostura ‘in
guanti gialli’, sempre meno picaresca, al contrario decisamente più evoluta; ma si è virtualizzato mutando di linguaggio, che ora non è più esclusivamente verbale, bensì affida il suo compito al muto potere di convincimento di un disegno. “Arte della persuasione” (FF, p. 61) viene definita
nel testo: la regina delle arti – nell’era postmoderna assai più che in passato – eletta a fondamento da un capitalismo estremo che fa dell’apparenza
un principio universalmente sostenibile. In un quadro tanto ambiguo come quello che emerge dal romanzo, Hildesheimer, a dispetto dell’atteggiamento rinunciatario che adotta, non esita a emettere un appello all’autenticità, auspicandone una presenza ancora intatta nell’intimo di ogni uomo, per quanto irriducibilmente menzognero: “Le persone migliori sono
quelle alle quali la vita si manifesta nella sua veste più semplice e che tirano avanti ignare davanti ai punti più scabrosi della verità; nel mondo delle
loro rappresentazioni non c’è posto per la malvagità” (FF, p. 110). Anche
per Hildesheimer, come già per Thomas Mann, la riabilitazione dell’errore
acquista proporzioni metafisiche – proteiformi ed ermetiche – che invitano ad un confronto responsabile con le verità scottanti del passato recente.
È un messaggio, questo, che si riverbera anche nel dramma Der Drachenthron (1955),11 una libera interpretazione della leggenda della principessa cinese Turandot. La nota sfida che Turandot impone ai suoi preten11
La traduzione letterale del titolo – Il trono del drago – non rende il gioco di parole tra
Drache (drago) e Drachen (arpia, megera) chiaramente riferito a Turandot.
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denti viene reinterpretata alla luce della tradizione canagliesca. L’aspirante
in questione, infatti, è un falso principe che giunge nel palazzo della principessa quasi per caso e acconsente di sottoporsi alla temibile gara di conversazione, fino a quel momento mai superata da nessuno. Egli però può
superarla poiché conosce le verità inconfessate dell’Impero – l’omicidio
dei pretendenti per l’annessione dei loro regni – che la principessa occulta
dietro l’orrido rito di corteggiamento. Non è di scena la tradizionale lotta
tra Bene e Male, ma tra due tipi di male diversi, il male assoluto (Turandot) e il male relativo (falso principe), pronti a fronteggiarsi in una pericolosa singolar tenzone senza esclusione di colpi. Malgrado tutto, la maggiore levità si raggiunge proprio durante la gara, che è poi un gioco funambolico teso sopra il baratro della morte:
TURANDOT: Del mio predecessore, l’imperatore Yo-Minh, si narra di come un suo sguardo bastasse a nobilitare l’umanità intera.
FALSO PRINCIPE: Onorata Principessa Turandot, sapete bene che a nessuno si attribuiscono tante virtù come a un probo antenato, specialmente
quando è morto da tempo.
TURANDOT: Principe, credo che le Vostre formulazioni siano audaci più
di quanto Vi convenga.
FALSO PRINCIPE: Non credo sia stata l’audacia delle formulazioni a costare la testa ai miei predecessori su questo scranno.12
Pur rimanendo pressoché immutata la natura dell’impostura rispetto alle
precedenti commedie di avventurieri,13 il dramma rappresenta il mutato
contesto in cui agisce l’avventuriero del secondo Novecento: l’esperienza
della guerra, che nell’opera compare come evento quasi metafisico, rende
l’argomento assai più sarcastico di quanto avviene in Falsi e falsari, dove il
tutto si risolve in sorriso dolce-amaro; acquistano poi notevole importanza le rivendicazioni femministe di Turandot (“Non mi vengano a dire che
non avrei fatto bene a farvi giustiziare tutti, voi uomini”, DD, p. 184) e
più in generale la lotta tra i due sessi, che sarà in definitiva lo scoglio contro cui l’orgoglio femminile della principessa andrà a schiantarsi:
12
Wolfgang Hildesheimer, Der Drachenthron, Zürich: Haffmans Verlag, 1984, pp. 5960. Laddove non altrimenti indicato, la traduzione è mia. D’ora in avanti la sigla DD farà
riferimento a questo testo.
13
Alla corte del Regno Cinese la principessa Turandot, che ha fatto voto di concedersi
in sposa al principe che la vincerà in una gara di conversazione, attende il principe di
Astrachan. Quando questi giunge, Pnina, ex principessa ridotta in schiavitù dal diritto
bellico, lo smaschera come impostore, senza tuttavia convincerlo a ritirarsi dalla prova,
114 /
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TURANDOT: Il Principe d’Arabia, hanno dovuto portarlo singhiozzante al
patibolo!!
FALSO PRINCIPE: Posso ben immaginarlo. Amava la sua moglie più giovane sopra ogni cosa! […] Aveva tre mogli, Voi dovevate essere di certo la
quarta. […] Le altre mogli gli avevano dato solo figlie femmine; voleva
ancora un paio di maschi vigorosi! (A poco a poco cresce l’agitazione.) Devo
ammettere che lo capisco. Voi no? (L’agitazione cresce.) Voi tacete, Principessa! (Pausa, L’agitazione cresce.) (DD, pp. 72-73)
Infine vi è la ricerca di un’etica della verità, raggiunta mediante l’indagine
dei lati oscuri della menzogna, che nel dramma non è solo individuale,
ma anche e soprattutto di Stato:
PNINA: È per il tuo bene se mantieni il culto degli dei.
TURADOT: È […] il privilegio del sovrano. Comunque in loro nome ho
fatto voto di castità.
PNINA: [...] Non dimenticare che io so chi ti viene a trovare di notte nella
tua camera da letto.
TURANDOT: Il ricatto, cara Pnina, non si addice a una ex principessa.
PNINA: Non più di quanto non si addica a una futura sovrana ingannare
il suo popolo. (DD, p. 30)
L’inganno collettivo si lega inscindibilmente a una fede ottenebrata e alla
superstizione, quel substrato mitico di sensazioni e fantasie irrazionali che
permette la manipolazione dell’opinione pubblica al fine di giustificare
una sfrenata ambizione di potere. Così – velata dalla metafora sinologica
– l’Autorità falsifica ogni profezia per legittimare agli occhi del popolo
ogni pretesa imperialista, operando una sorta di autodivinazione: “Non
saremmo Gran Sacerdoti, se non fossimo in grado di convincere il popolo
del contrario di ciò che ha visto” (DD, pp. 14-15). Come è lecito attendersi, spetta proprio all’avventuriero, sia esso paladino della verità o pragmatico falsario, adempiere a un compito moralmente elevato: “sono venuto”, afferma il falso principe, “per domare un mostro” (DD, p. 44).
L’avventuriero, smascherato da una Pnina tanto più arrivista quanto meno in grado di godere dei privilegi concessi all’élite, è investito del grave
durante la quale egli, rivelando gli omicidi della Corte, mette in difficoltà la Principessa,
decretandone la sconfitta. Ma il cavaliere d’industria, amante della libertà e paladino della
verità, non accetta di divenire re di un Regno macchiatosi di crimini orribili e abbandona
la principessa al vero principe di Astrachan, un barbaro violento e guerrafondaio, giunto
nel frattempo e assetato a sua volta di potere.
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compito di smascherare le menzogne e i crimini della corte imperiale, la
cui logica ha sostituito quella capitalistica del profitto. Egli infatti, che
difficilmente resiste alla seduzione del denaro, rimane invece assolutamente indifferente al fascino del potere, anzi lo schiva con fierezza, preferendo un’uscita di scena silenziosa e dimessa. Domina l’atteggiamento rinunciatario di chi ha compreso il fondamento di ogni avventura, quella
“radicale finitudine” –14 come l’aveva definitita Georg Simmel che ne aveva teorizzato i fondamenti – ossia la sua totale indipendenza dagli eventi
che la precedono e la seguono e che fanno della vita un Tutto unitario. La
rinuncia del falso principe all’investitura imperiale, tuttavia, pone le basi
per la reiterazione all’infinito del gioco, giacché egli pregusta l’effetto benefico e vivificante di nuove conquiste proprio nel regno di Astrachan, di
cui si è spacciato regnante senza nemmeno conoscerne l’esistenza. Benché
alieno dall’utopia di cambiare il mondo, il cavaliere d’industria risulta vittorioso poiché in fondo non ha nulla da perdere. Ecco perché in un paese
moderno è di gran lunga più gradito un avventuriero che non la minaccia
imperialista di un esercito omicida e devastante.15
La consapevolezza della guerra e dei suoi crimini, che attraversa con
tono perentorio tutta la pièce, sovrasta le parti in gioco come la biblica
pietra, dapprima scartata e divenuta ora sgradita testata d’angolo. Intesa
in tutta la sua negatività, la guerra appare come condizione che incoraggia l’ambiguità e provoca scambi di ruoli inattesi, molto spesso anche
coatti:
PNINA: Tu sei colei che mi ha reso schiava.
TURANDOT: Non io, ma il diritto bellico. Noi abbiamo sconfitto il vostro
paese. Se voi aveste sconfitto il nostro, oggi sarei io la tua schiava.
PNINA: Noi non avremmo attaccato il vostro paese. (DD, p. 15).
L’avventuriero, nostalgico dell’infinito gioco delle possibilità dell’io, può
solo prenderne atto adeguandovisi: “Cara Pnina: si è ciò che si è, non ciò
che si era. Tu sei una schiava e io un Principe. L’unica differenza che esiste tra me e gli altri principi è che io non sono sempre lo stesso principe”
(DD, p. 32). Anche nel dopoguerra dunque, come già avveniva nella tra14
Georg Simmel, “L’avventura”, in Id., Saggi di cultura filosofica, Milano: Longanesi,
1985, p. 16.
15
Cfr. DD, p. 104: “In ogni caso si accetterà di gran lunga più volentieri un avventuriero a ogni corte che non l’imperatore della Cina alla testa di un esercito omicida e devastante”.
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dizione, il cavaliere d’industria continua a volgere a proprio vantaggio situazioni di per sé profondamente contaminate da un male sociale inestirpabile, senza che venga prospettata alcuna possibilità di riscatto. Spogliando, battuta dopo battuta, la Cina leggendaria dalla sua veste esotica
e fiabesca, Hildesheimer denuncia le contraddizioni di una Germania postbellica dove i criminali nazisti si nascondono impuniti dietro la maschera di sprovveduti funzionari, fruitori di una morale ipocrita molto spesso
deleteria.16
Di questa pièce esiste anche una seconda versione, nota al pubblico soprattutto in forma di radiodramma, intitolata Die Eroberung der Prinzessin Turandot [La conquista della principessa Turandot].17 Scritta nello stesso
anno, essa si presenta però profondamente diversa dalla prima, nonostante i pochi rimaneggiamenti. Turandot, da artefice dei delitti commessi a
corte, diventa vittima inconsapevole, mentre il cavaliere d’industria, sempre nelle vesti di falso principe, interpreta con cognizione di causa il ruolo di Freier, nel senso di Befreier, ossia colui che libera la principessa dalla
tirannia di un sistema perverso. Pentito del tragico cinismo con cui si
chiudeva la prima versione – tutto sommato in netto contrasto con l’intrinseca positività dell’avventuriero – Hildesheimer immagina ora un cavaliere d’industria in grado in qualche modo di offrire ancora possibili alternative allo sfacelo, non già per cambiare il mondo (presupposto negato
a priori nella Weltanschauung dell’autore), bensì per amore della reiterazione all’infinito di un gioco che tiene l’uomo avvinto a una realtà cui in
fondo è impossibile sottrarsi.
La Turandot di questa nuova versione si presenta arricchita di grande,
nobile saggezza; una ricchezza più profonda e genuina, in grado di trattenere l’avventuriero a corte. Entrambi infatti sceglieranno di governare
protetti da un anonimato che libera da vincoli e rituali di potere avvertiti
16
Nella battuta del Custode delle Vacche Sacre (“Ci risparmino gli dei la sventura del
latte sacro che diventa nero. Sarebbe la distruzione immediata del nostro regno”; DD, p.
42) vi è un chiaro riferimento alla lirica di Paul Celan, Todesfuge (1944), uno dei principali atti d’accusa contro i crimini nazisti degli anni immediatamente successivi alla guerra.
17
Il passaggio dalla prima alla seconda versione si deve sostanzialmente alla ‘negatività’
che la vicenda aveva assunto agli occhi della critica. Nella postfazione, l’autore dichiara
che Der Drachenthron non è una vera e propria commedia, dal momento che la vicenda
alla fine non si volge in positivo. Tutto in effetti rimane com’è. Nella seconda versione, invece, Turandot sposerà il cavaliere d’industria e vivrà con lui alle spalle del principe barbaro autentico e della schiava Pnina, divenuta sua moglie per ritornare a essere regina, regnando guidati dai loro consigli e dalla loro saggezza.
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come fasulli. Il vitalismo dell’avventura trova così una possibile fine nel
fingere di ignorare quelle forze che ne stanno alla base, un po’ come
preannuncia la parabola narrata da Turandot all’inizio del primo atto a
proposito dell’inganno agli dèi.18 Più che un vero e proprio raggiro, è
un’astuzia non priva di malizia ma innocua, che preannuncia la volontà
positiva di perseguire il bene della collettività, malgrado i mali che contaminano il presente. Inoltre le rivendicazioni femministe della principessaamazzone si attenuano sensibilmente, a favore invece di una riflessione
più approfondita sui crimini compiuti in seno alla stessa Autorità che dovrebbe impedirli. Nella scoperta che l’ignara Turandot fa dei ripetuti omicidi, perpetrati in suo nome, dei pretendenti che lei credeva solo spogliati
degli averi, emerge la rigorosa denuncia del capitalismo che nasconde, in
modo talvolta inconsapevole, un legame diretto con il totalitarismo: ciò
che compare camuffato dalla cinica legge degli affari non può che nascondere la diaboliche dinamiche della sopraffazione, che sempre più
spesso implicano l’eliminazione di un rivale politico, oltre che di un partner economicamente debole.
Testimone e insieme coartefice di tali dinamiche è anche Gert Postel,
autore delle memorie-scandalo Doktorspiele. Geständnisse eines Hochstaplers (2001). Questo volume si inscrive nella tradizione della memorialistica e, idealmente, anche al termine dell’evoluzione secolare dell’impostura, inaugurata nel 1905 dalle memorie dell’avventuriero rumeno
Georges Manolescu. Esistono alcune importanti analogie tra le memorie
di Gert Postel e l’estetica della finzione di Hildesheimer, in particolare
per quanto riguarda la creazione della verità partendo da un substrato
completamente fittizio. Nella fantasmagoria delle proprie avventure, Postel inventa personaggi cui assegna il compito di farsi garanti per lui; è il
caso dell’immaginario dottor Olivarez, di cui egli fornisce una particolareggiata presentazione:
M’ero immaginato d’aver avuto in una delle mie costellazioni un assistente di sessantatre anni, originario del Brasile, di nome Dott. Olivarez. Oli18
“Nel lontano Nord vive un popolo che venera l’uccello Kuru. Ma il Kuru non è solo
l’uccello sacro: arrostito è un piatto prelibato. Poiché in quel paese è vietato ucciderlo, lo
si fa cacciare agli uomini del popolo vicino. Per costoro è sacro l’uccello Rokh, che è anch’esso una leccornia di cui i regnanti sono ghiotti. Essi chiamano a cacciarlo la gente del
popolo che adora il Kuru, sicché avviene un intenso scambio di cacciatori tra i due popoli
per ingannare gli dèi”. Wolfgang Hildesheimer, Die Eroberung der Prinzessin Turandot,
Frankfurt am Main: Fischer, 1969, p. 22.
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varez sosteneva di aver conseguito la libera docenza in patria e di essere
stato, prima del suo trasferimento a Zschadraß, direttore di un gigantesco
ospedale psichiatrico in mezzo alla foresta vergine. Sotto di lui pare lavorassero trecento medici […] Olivarez era assolutamente eccentrico […]
Era poco pulito ed estremamente parsimonioso…19
Nella narrazione il Konjunktiv I, volto a stabilire una certa distanza tra il
narratore e il fatto narrato mettendone velatamente in dubbio l’attendibilità, cede quasi subito il passo all’indicativo, decretando così il passaggio
da creazione della fantasia a prodotto reale e autentico. A poco serve la
prefazione alle memorie – redatta da una personalità del mondo medico
del cui nome Postel si è servito per uno dei suoi colpi – nella quale si avvisa il lettore di non prendere troppo sul serio le rivelazioni del reo confesso in quanto frutto di “una percezione distorta della realtà, un rapporto alterato con la verità” (DGH, p. 16). È la totale smentita dell’aletheia,
di cui Postel pone il sigillo all’impostura nella misura in cui l’accosta al
giornalismo, che per tradizione in Germania non gode di una reputazione lusinghiera: “Il mio giornalista preferito [si chiama] Volker Zastrow.
[…] scrive per la Frankfurter Allegemeine Zeitung ciò che vuole e glielo
pubblicano pure! […] Parlando con me ha capito in fretta che io in realtà
non so mentire. Suona paradossale per un cavaliere d’industria, uno che
ha ingannato e deluso tanta gente, eppure è la verità“ (DGH, pp. 88-89).
Dura veritas sed veritas sembra dire Postel, riecheggiando con grande ironia proprio quella stessa legge che egli a più riprese ha sfrontatamente trasgredito. L’esile portalettere senza titoli di studio si rivela però un Ermes
camaleontico, custode di un messaggio di autenticità in cui egli per primo crede fino all’inverosimile.
Vi è nella sua narrazione la matura consapevolezza di trovarsi nel punto di confluenza di più tradizioni letterarie, dall’Hochstaplerliteratur propriamente detta alle più accreditate autobiografie della storia, che egli
mostra di conoscere molto bene, evitando al tempo stesso di qualificarsi
19
“[Da] hatte ich mir ausgedacht, ich hätte in einer meiner Situationen einen 63-jähriger Assistentenarzt gehabt, der aus Brasilien stammte und Dr. Olivarez geheißen habe.
Olivarez behauptete, er habe sich in seiner Heimat habilitiert und sei vor seinem Umzug
nach Zschadraß Leiter eines gigantischen psychiatrischen Hospitals mitten im Urwald
gewesen. Nahezu dreihundert Ärzte hätten unter ihm gearbeitet. […] Olivarez war ein absoluter Exot. […] Er war unsauber und extrem sparsam…” Gert Postel, Doktorspiele. Geständnisse eines Hochstaplers, Frankfurt am Main: Eichborn, 2001, p. 43 (corsivi miei).
D’ora in avanti la sigla DGH farà riferimento a questo volume.
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come semplice imitatore dei suoi modelli: “è evidente”, afferma, “che anche con un modello quale il ‘Felix Krull’ si può scrivere un libro sull’impostura mediocre” (DGH, p. 125); l’avvicendamento dei ruoli nel suo caso non si limita alle maschere proteiformi che gli hanno fornito un volto,
ma si trasmette al travestimento letterario con cui egli camuffa la propria
biografia, e che reca il distintivo di grandi poeti quali Günter Grass,
Heinrich Heine o Paul Celan (DGH, pp. 82, 160-61). La letteratura, il
regno della finzione narrativa mutatasi in realtà, rappresenta la ‘verità
estetica’20 pronta a cedere all’impostura quella dignità e credibilità che solo l’inoppugnabile autorevolezza dei grandi del passato può avvalorare.
Un po’ come avviene in Falsi e falsari, dove l’imitazione non è considerata
artificio, ma un modo ancora possibile di essere creativi nella società contemporanea tragicamente segnata dal male assoluto.
Con la propria confessione Postel opera altresì un tentativo di autoassoluzione dai propri misfatti. Partendo dagli episodi più spiacevoli della
storia tedesca dopo il 1945 – con particolare riferimento alla dittatura
Rdt – la sua narrazione culmina nella lucida consapevolezza di rappresentare ancora sempre il male minore: “Dal mio punto di vista, non avevo
nulla da ridire contro il principio del governo sassone, secondo cui è meglio assumere un imbroglione non qualificato piuttosto che un qualificato membro della Stasi” (DGH, p. 40). È la stessa consapevolezza di cui si
nutre la regale superiorità del falso principe di Astrachan di fronte a Turandot, e che pare destinata a perpetuarsi da un sistema economico-politico all’altro percorrendo l’asse infinito della Storia, quasi a voler scongiurare l’avvento di futuri, ancora più perversi totalitarismi.
20
Cfr. Käthe Hamburger, Wahrheit und Ästhetische Wahrheit, Stuttgart: Klett-Cotta,
1979, p. 141. Schiller, il primo a considerare la verità come principio estetico assai più
moderno del bello, definisce la ‘verità estetica’ estremamente ingannevole.