04.Una vita tra ricordi e testimonianze di Simona
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04.Una vita tra ricordi e testimonianze di Simona
Una vita tra ricordi e testimonianze Simona Rinaldi Ausonio Tanda nasce a Sorso, piccolo centro agricolo in provincia di Sassari, il 19 ottobre 1926. Primogenito di Paolo Tanda e Clelia Cossu, avrà tre fratelli: Nicola, Francesco e Anton Paolo. La madre proveniva da una famiglia di proprietari terrieri, il padre era perito tecnico. Dopo la scuola elementare a Sorso, si iscrive al Liceo scientifico Giovanni Spano di Sassari e a causa di un insuccesso scolastico viene mandato presso uno zio materno a Roma per frequentare un istituto privato presso piazza di Spagna (all’epoca chiamato Galileo Ferraris). Si trova dunque a Roma nel 1943, l’anno più tragico della guerra, costretto per sopravvivere a fare la borsa nera nei pressi del teatro Sistina, e per evitare l’arruolamento forzato nell’esercito della Repubblica Sociale entra nell’organizzazione Todt che assumeva manodopera italiana per opere pubbliche. All’interno di tale organizzazione, che era divenuta il rifugio di molti partigiani, partecipava ad attività di sabotaggio antinazista e nel corso di una di tali azioni alla stazione Termini, viene arrestato insieme al suo amico Gino Viana, interrogato e torturato alla pensione Jaccarino, sede della famigerata banda Koch. Trasferito nel carcere di Regina Coeli, fu liberato poco prima dell’attentato a via Rasella, grazie alle conoscenze del padre di Viana che riuscì a corrompere un ufficiale nazista. L’arrivo degli alleati nel giugno 1944 consente a Tanda di tornare in Sardegna con un mezzo di fortuna, e di riprendere i contatti con la famiglia di cui non aveva avuto più notizie. Arrivato a Sorso, viene a conoscenza della morte del padre. Per completare gli studi interrotti si iscrive all’Istituto d’arte di Sassari e consegue il diploma di maestro d’architettura, seguendo la passione per il disegno e la pittura che aveva nutrito sin dall’infanzia. Dopo il diploma comincia a frequentare il pittore Pietro Antonio Manca che ha sempre considerato come il suo maestro e al quale rimane legato sino alla morte nel 1975, nonostante la diversità profonda dei loro modi pittorici. Nel 1950 partecipa alla Mostra nazionale Città di Sassari vincendo il primo premio ex aequo con una serie di dipinti a olio dedicati alla vita dei pescatori, alla caccia al tonno e alle “tonnare”, in cui veniva a fondersi la lezione realistica di Giuseppe Biasi (con l’iconografia contadina e pastorale della Sardegna da lui introdotta nel primo Novecento), e le ricerche cromatiche di Pietro Antonio Manca. Da allora ha conseguito numerosi riconoscimenti, che hanno contribuito a mantenere vivo il legame mai reciso con la sua terra natale e con gli amici artisti, come Mauro Manca, Libero Meledina, Stanis Dessì, Italo Antico. Numerose risultano infatti le mostre personali allestite in Sardegna4, nonostante il trasferimento a Roma dal 1951, avendo quell’anno sposato Marinù Piredda, figlia di un magistrato sardo residente nella capitale. Qui ottiene un insegnamento nella scuola media e frequenta molti artisti: Corrado Cagli, Giuseppe Dessì, Richard Antohi, Lia Drei, Francesco Guerrieri, Enrico Accatino, Franco Villoresi, Achille Pace, Bice Lazzari, Francesco Del Drago, partecipando a svariate collettive allestite in quegli anni: la mostra annuale degli artisti sardi residenti a Roma, nel Palazzo delle esposizioni,1956 e 1958; la mostra nazionale di pittura dell’Ente Zolfatare Italiane,1961; la mostra regionale sarda d’arte figurativa al Palazzo delle Esposizioni, 1961; una collettiva con Capacci, Dessanti, Marcantonio e Masci alla Galleria La cappuccina, 1961. Un viaggio, condotto nel 1957 negli USA e in Canada come aggiornamento della propria formazione, si era ridotto a un breve soggiorno non avendo suscitato l’interesse che l’artista si aspettava, mentre assai più stimolanti si rivelavano per lui le esperienze informali europee che influiscono sul colorismo acceso della sua pittura, accrescendone la corporeità, come testimoniano i dipinti a olio e a tempera (ancora prevalentemente sul tema delle “tonnare”) esposti nelle personali allestite nelle principali gallerie romane: alla Fondazione Besso nel 1956; alla Galleria San Marco nel 1957 e 1959; alla Galleria Elmo nel 1960; alla Galleria La Cappuccina, 1961. Dal 1963, e per i tre ani successivi circa, dirige a Roma la Galleria Albatros, organizzando personali e collettive dei principali artisti italiani come Drei, Guerrieri, Lazzari, Lorenzetti, Pace, Pizzo. Nel 1961 Massimo Mida, per la produzione Patara, realizza un documentario sulla sua pittura, commentato da Giuseppe Dessì e con la colonna sonora di Piero Piccioni. A Grosseto allestisce nel 1962 una antologica presso la Sala d’Arte Comunale Paride Pascucci e oltre a impegnarsi nell’illustrazione di opere letterarie di autori classici e moderni, l’anno successivo viene invitato con Aligi Sassu e Roberto Sebastian Matta a realizzare un murale a Dozza (Bologna). A Roma conosce Guttuso, con il quale fa un viaggio in Sardegna nel 1963, come testimonia il coevo Omaggio dell’omaggio di Guttuso a Picasso, appartenente alla serie degli iconogrammi che dal 1961 l’artista aveva iniziato a sperimentare accanto alla raffigurazione di marine, ancore, tonnare e stazioni ferroviarie che avevano caratterizzato fino a quel momento la sua pittura. Come avvertono tempestivamente i critici che seguono il suo percorso artistico (in primo luogo Apuleo, Maltese e Venturoli) Tanda avvia dal 1961 una ricerca sui linguaggi e i materiali dell’arte pittorica in grado di rappresentare efficacemente non solo i valori universali dell’umanità, ma di recuperare quella finalità di denuncia e di vigile consapevolezza del presente esemplarmente espressa dalle avanguardie del primo Novecento. Vedono così la luce tra 1961 e 1962 i primi iconogrammi a colori e in bianco e nero (esposti alla Galleria Penelope di Roma nel 1963 e presentati da Guglielmo Petroni) che sottraggono la loro denominazione inventata all’iconografia, riprendendo come ready-made le immagini già elaborate dai grandi artisti del passato per riproporle in un contesto e con una tecnica diversa, di riproduzione meccanica. Il catalogo che nel 1964 presenta gli iconogrammi esposti nella Galleria Penelope contiene la testimonianza diretta dell’artista senza mediazioni critiche e dagli appunti manoscritti emerge un brano significativo, escluso allora dalla pubblicazione: «Oggi si invita l’uomo, con tutti i mezzi della tecnica riproduttiva (giornali, film, rotocalchi illustrati, trasmissioni televisive), a contemplare immagini di tutto il mondo e quindi a essere partecipi di tutto il mondo (o quello che fanno passare per essere il mondo intero). Ma in realtà quanto più lo si invita a guardare ed esaminare gli ingranaggi del mondo, tanto più gli si toglie la possibilità di prendere parte alle decisioni più o meno importanti che riguardano il mondo. Il problema quindi non sarebbe quello della macchina, della tecnica, ma dell’uso che se ne fa. Non si tratta di un fenomeno legato a teorie politiche o a cambiamenti, ma è un fenomeno della nostra epoca, per cui questa sistematica inondazione di immagini, questa ICONOMANIA alla quale il “voyeur” è costretto, presenta tutte le caratteristiche di un vero e proprio processo di rimbecillimento, in quanto le immagini non fanno vedere i nessi, i rapporti, ma brandelli di mondi, quindi piuttosto che mostrarlo, il mondo lo nascondono». Le ricerche e gli accesi dibattiti tra gli artisti nei primi anni Sessanta conducono Tanda a una elaborazione del tutto originale dell’opposizione tra figurazione e astrazione, realizzando una progressiva smaterializzazione delle forme: dalle figure modellate di pescatori e pastori alle forme sempre più scarne, fino alla sola definizione di sagome nelle impronte (torsi, mani), dapprima dipinte e poi impresse nel polistirolo dove l’impronta diviene estrazione plastica, materia fossilizzata e non più immediatamente riconducibile a una forma umana. Il velocissimo susseguirsi di sperimentazioni che è possibile registrare tra 1963 e 1965 coinvolge sia i temi che i materiali: dagli inchiostri con solvente alla trielina su carta velina o cartone per la serie delle impronte, all’impiego del polistirolo espanso in blocchi o fogli, scavato con l’acido o con il calore, all’uso del plexiglass, con il quale progetta «un edificio trasparente con alternativa di opacità» (1964-1970). La finalità di tali ricerche emerge chiaramente anche da alcuni testi scritti dell’artista: «Questa totale libertà di produrre cose nuove ha portato molto disordine in noi stessi, che siamo limitati nel tempo, per cui ci capita di aggirarci tra i nostri congegni, tra i nostri prodotti, tra le nostre macchine, ma come esseri antiquati, addirittura preistorici, rispetto al mondo della produzione. La distanza tra l’uomo e i suoi prodotti si fa ogni giorno più grande. Tra i vari dislivelli c’è quello tra congegno e corpo. In questo caso delle immagini, c’è certo da parte del congegno un anticipo sul corpo. Noi possiamo è vero costruire la bomba all’idrogeno, ma non abbiamo un’idea delle conseguenze. Noi insomma siamo preceduti dalle nostre azioni, questo per quello che riguarda l’anima, il corpo è ancora più indietro, non sincronizzato con tutto ciò che lo precede. Ecco presentarsi la domanda della modificazione dell’uomo. Non soltanto dell’uomo, ma anche delle sue facoltà, fantasia, responsabilità, modi di sentire ecc.». In un taccuino d’appunti relativo agli stessi anni si trova annotato: «Ogni epoca ha la sua visione particolare delle cose e ogni artista ha il suo modo particolare di prenderne coscienza. Le ragioni che mi hanno deciso a intraprendere il lavoro di pittore sono ormai ben lontane e vaghe […]. Posso però parlare delle ragioni che ancora mi confermano in quelle decisioni, e sono ragioni esclusivamente morali. […] La necessità di testimoniare la responsabilità dell’uomo di oggi. 1965-1966 cercare d’indirizzare questa civiltà in una direzione meno disumana presentando non l’angoscia di un futuro, ma l’angoscia di un presente che minaccia di continuare nel futuro». Al 1965 risale la prima esposizione di ciborg (presso la Galleria Penelope di Roma, dal 23 marzo), acronimo suggerito all’artista da Corrado Maltese per indicare organismi cibernetici disumanizzati che superano le impronte antropomorfe: «il problema della libertà è oggi come ieri quello del riscatto economico ma è anche un problema di riscatto della coscienza sebbene siano entrambi da ricondursi al motivo più ampio del riscatto della dignità umana. Dignità umana che le mie ultime letture e informazioni più recenti nelle quali mi sono imbattuto, mi persuadono che è minacciata come non mai nella storia della specie. A questo punto ho creduto di dover considerare la pittura proprio come un modo di informazione, di comunicazione, anche se spesso questa informazione contiene un giudizio. Nel mio caso il giudizio è oltremodo difficile, faticoso, trattandosi di un argomento legato ad una delle più importanti espressioni del comportamento umano, cioè alla scienza. Ora queste opere che ho chiamato Ciborg (abbreviazione di organismo cibernetico) nascono proprio dalla considerazione che a fare la scienza non possono essere impegnati che gli scienziati. […] Ora sulla necessità di adeguarsi alle condizioni di vita dettate proprio dalla scienza, o meglio dalla tecnologia, non abbiamo più alcun dubbio. Uomini come Oppenheimer, come Weiner testimoniano questa realtà fornendo alcune informazioni nelle quali mi sono imbattuto, e mi è parsa chiara la pericolosità non soltanto delle indiscriminate ricerche scientifiche, ma addirittura si è adombrato il pericolo che l’uomo di oggi corre a seguito di operazioni capaci di distinguere la coscienza degli uomini. È a questo punto che nasce il ciborg. […] Sono abbastanza numerose le considerazioni che si possono fare per avallare la possibilità che in un disegno molto vasto rientri anche lo spegnimento di ogni rapporto spirituale tra gli uomini (la televisione per esempio che anche se invita alle riunioni esclude la conversazione e quindi lo scambio non soltanto di idee ma anche di notizie che non siano filtrate attraverso il video. La radio che costringe, che persuade al rumore e cancella il silenzio come ambiente creativo, ecc.). Mi pare chiaro che la tecnica conduca un’offensiva massiccia contro la libertà dell’uomo [come] la distruzione della sua intimità per esempio». L’ulteriore elaborazione sperimentale dei ciborg avviata nel 1965 non allontana Tanda dalla partecipazione a numerose occasioni espositive, è infatti presente al Premio Esso, alla mostra dell’Autostrada del sole, alla collettiva dei pittori italiani nel Medio Oriente organizzata dalla Quadriennale di Roma (insieme a Enzo Brunori, Piero Dorazio e Giulio Turcato), viene invitato al Premio Villa S. Giovanni e alla Biennale internazionale di Palermo. Tra 1966 e 1967 si susseguono le esposizioni: alla Galleria L’Incontro di Salerno, all’XI Premio Termoli, a Sassari e ad Alghero, al Centro di Cultura Democratica di Cagliari; al Premio internazionale di pittura Acireale, e allestisce personali a Chieti, Ancona, Roma, Sassari. Nel 1967 il Ministero della Pubblica Istruzione gli affida l’istituzione del Liceo Artistico Statale di Cagliari, nel quale tiene l’insegnamento di Figura umana e che dirigerà in qualità di preside fino al 1971. Per questo nuovo impegno che lo occuperà intensamente, Tanda si interessa del pensiero di Piaget sia indagandone le relazioni filosofiche e psicologiche, sia realizzando per una scuola elementare un pannello in ceramica ispirato a temi pedagogici. Nel 1968 incontra Vera Di Maio, pediatra e poi psicanalista, con la quale condividerà appassionatamente gli ultimi venti anni della sua vita, ricchi di riflessioni, interrogativi e rovelli esistenziali, tipici del clima culturale dell’epoca e dell’inclinazione caratteriale dell’artista. Tra 1969 e 1970 intraprende infatti una ricerca sulle costanti automatiche del comportamento umano, volta a individuare le cause della devianza, a partire da quella infantile che indaga sulla base della ripetizione quasi ossessiva dei medesimi segni tracciati dai suoi alunni. Nel 1971 realizza una serie di dipinti su cartoncino, quasi sempre di formato oblungo nel senso della larghezza, che riprendono le figure scarnificate dei pescatori di tonni, ma rendendole ancor più stilizzate e ridotte a mere sagome replicate in serie. Tali ricerche tuttavia rimangono nel chiuso dello studio, senza che l’artista senta il bisogno di comunicarle all’esterno. Fin dal 1966 infatti, la partecipazione a collettive e personali si era progressivamente rarefatta rispetto all’intensa attività espositiva degli anni 1963-1965: nel 1968 si registra la sua presenza soltanto alla VI Rassegna delle Arti Figurative di Roma e del Lazio; alla Galleria Remainders e alla Galleria Dattena, entrambe di Cagliari, e a Sassari alla Galleria Il Cancello, con una personale nuovamente allestita nel novembre 1970. Nel 1971 vince il primo premio nazionale Mario Sironi con un’opera in polistirolo espanso e metacrilato e partecipa alla mostra del Gruppo Monastir (con Umberto Di Pilla e Mirella Mibelli) alla Galleria Il Cancello di Sassari, presentata in catalogo da Placido Cherchi che raccoglie la testimonianza dell’artista quando dichiara che «la mostra in sé, rispetto al mondo della pittura, costituisce una battuta d’arresto e risponde alla volontà teorica di recuperare un grado zero del “fare” artistico ai fini di una ridefinizione del tutto». In realtà l’esposizione in quella occasione di alcuni disegni infantili tratti dalla ricerca sulle costanti meccaniche del comportamento umano rendeva esplicita la crisi d’identità artistica che dal 1967 si era affacciata, maturando negli anni successivi in concomitanza con il riaccendersi delle riflessioni teoriche della critica sul tema ottocentesco e hegeliano della «morte dell’arte». Alcuni appunti abbozzati in taccuini e fogli sparsi, delineano i contorni e le motivazioni del crescente allontanamento dell’artista sia dal campo della sperimentazione, ma anche dall’esecuzione pittorica in generale: «L’Arte in questa nostra epoca ha interessato la collettività più forse che in qualunque altra. Tuttavia l’arte è in crisi. Perché? perché non comunica più cose che la società può utilizzare – o addirittura – è in contraddizione con tutto il sistema delle attività culturali e produttive della società contemporanea. Può darsi che in futuro tra le attività umane non figuri l’arte. Ora, siccome da sempre l’arte ha rappresentato la massima punta della creatività umana, la sua scomparsa sarebbe negativa in quanto l’uomo non sarebbe in grado di dare un senso al lavoro, all’ambiente, insomma una concezione del mondo positiva. Il fatto che si prospetta presuppone la caduta anche di tutta l’arte del passato. Caduta che per la verità è già in atto. Quindi l’arte costituisce uno dei grandi problemi del nostro tempo. Infatti l’arte interessa il settore storico, scientifico operativo, sperimentale, il settore politico economico culturale perfino. Certo è che le ultime operazioni e teorie sull’arte, il concettualismo per esempio, ponendo l’arte fuori dallo spazio e dal tempo, la esclude come dice Argan, forse per sempre dal mondo dell’esistente. […] Secondo me, ogni qualvolta si è verificata una crisi nelle rappresentazioni dell’universo (crisi storica e politica) si è verificata anche una crisi a livello linguistico, per rinnovare le tecniche ed il linguaggio adeguati alla nuova rappresentazione. […] Un antico poeta greco lamentava l’esaurimento dopo Omero delle fonti della poesia […]. Arte d’Avanguardia: arte capace di rivelazioni dentro e fuori l’arte medesima di una condizione psicologica comune di un fatto ideologico unico. Psicologia in che senso? psicologia nel senso di fatto di natura, sia pure sul piano storico, quindi le forze istintive e le correnti primarie. Per ideologia si intende la razionalizzazione di quelle forme in forme logiche, la loro traduzione in teoria, in programmi in manifesti […]. Che rapporto c’è tra avanguardia e rivoluzione sociale? Lo stato d’animo che una ideologia esprime non è tanto individuale o collettivo, quanto di gruppo, a meno di non sconfinare in una filosofia, o in una religione, quindi che l’avanguardia sia giudicata domani va bene purché la si faccia oggi. Arte d’Avanguardia. Mi pare si sia da più parti trascurato di mettere in rilevo la storicità concreta dell’avanguardia. Artisti per i quali l’originalità del messaggio conta più della novità della ricerca, che sembravano ai margini dell’avanguardia, si sono rivelati piuttosto artisti capaci di testimoniare come le operazioni artistiche estetiche moderne siano essenzialmente di avanguardia. Da Eliot a Pound da Joyce a Stravinsky, a Picasso, a Klee ed Henry Moore, Perse e Pasternak, Montale e Ungaretti, Garcìa Lorca e Roualt ecc. Sarebbe io credo inutile rifare la storia delle avanguardie intese in questo senso, cioè nel senso della ricerca del nuovo dentro l’ignoto, e dell’ignoto dentro il nuovo, la soddisfazione quindi del compito di esprimere questo senso dell’ignoto tenendo presente l’esigenza dell’esperimento anche in senso tecnico e formale ma sempre nella direzione del nuovo. Non soltanto interdipendenza d’arte e società ma anche la dottrina dell’arte quale strumento d’azione e di riforma sociale. L’Arte espressione della società, manifesta, nel suo slancio più alto, le tendenze sociali più avanzate: essa è precorritrice e rivelatrice. Ora per sapere se l’arte adempie degnamente alla propria missione d’avanguardia, è necessario sapere dove va l’umanità, quale è il destino della specie». Rarissima diviene la sua presenza alle manifestazioni artistiche degli anni ’70 e ’80 (una personale alla Galleria Vision Art di Alghero nel 1973; la Rassegna Arte Fano alla Rocca Malatestiana nel 1975; la collettiva “I coralli di Fausto Zoboli e gli olii di Ausonio Tanda” alla Galleria Il Cancello di Sassari nel 1976), fino alla partecipazione nel 1985 alla mostra collettiva “Artisti oggi tra Scienza e Tecnologia”, allestita dal 15 aprile al 12 maggio nella sala Barbo di Palazzo Venezia a Roma dall’Associazione per le interazioni tra Arte, Scienza e Tecnologia (AST, fondata da Corrado Maltese) che dal recuperato confronto con le sperimentazioni in corso da parte di altri artisti e scienziati, in costanti contaminazioni reciproche, riattiva i percorsi di ricerca accantonati, rivelandone in realtà la valenza precorritrice. I moltissimi ciborg eseguiti (dal 1984 al 1988) a spruzzo su cartoncini dai fondi ora cupi, ora sgargianti, si colorano di paesaggi frattali dove la natura viene rappresentata attraverso rielaborazioni di forme organiche che appaiono, ancora una volta in anticipo, come immagini di una realtà virtuale nella quale si riaffaccia, riconoscibile, la figura umana e in particolare quella femminile, simbolo di una speranza di rinascita per l’umanità. Tale recuperata vitalità artistica gli consente di avviare la ricerca sugli specchi di Narciso, rimasta allo stadio di progetto, realizzata a partire da una superficie specchiante sulla quale l’immagine riflessa di chi guarda viene costantemente occultata e deformata dall’esistenza quotidiana in un contesto sociale inondato di informazioni e immagini pubblicitarie, che ne ostacolano il riconoscimento, impedendo alla fine il contatto diretto con la propria interiorità.