INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

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INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
La scheda filmica e didattica è a cura di Giancarlo Visitilli. Ogni diritto è riservato.
INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO (Italia, 1970)
Regia: Elio Petri
Interpreti: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan, Gianni Santuccio, Salvo Randone, Orazio
Orlando
Genere: drammatico, thriller
Durata: 112’
Sinossi
Roma. Il giorno stesso della sua promozione al comando dell'ufficio politico della questura, il capo
della Sezione Omicidi, uomo conservatore e reazionario, assassina la propria bellissima amante nel
suo appartamento, in via del Tempio nº 1. Augusta Terzi invitava il commissario ad abusare del
proprio potere o a narrarle particolari scabrosi cui aveva assistito nelle vesti di poliziotto o, ancora,
lo provocava parlandogli di una sua relazione con un giovane “rivoluzionario”, che altri non è, poi,
che lo studente Pace. Consapevole e contemporaneamente incapace di sostenere il potere che egli
stesso incarna, il poliziotto dissemina la scena del delitto di prove e, durante le indagini,
alternativamente ricatta, imbecca e depista i colleghi che si occupano del caso. Se in un primo
momento ciò che guida il protagonista pare essere l'arroganza di chi confida nella propria
insospettabilità, la veridicità di questa convinzione viene via via smentita dai fatti. Il poliziotto
assassino, in virtù della vittoria dell’ordine costituito, finisce per agognare alla propria punizione,
che tuttavia gli viene preclusa dal suo potere e dalla sua posizione: l’unico testimone dei fatti,
l’anarchico individualista Pace, non vorrà denunciarlo per poterlo ricattare.
DENTRO IL FILM
Film shock su “i servi del potere”
Così l’ha definito il co-sceneggiatore* Ugo Pirro, il film di Elio Petri, uscito in Italia nel gennaio
1970: un momento scottante e delicatissimo, per tutto il mondo e ancor di più per l’Italia. Si è da
poco consumata la strage di Piazza Fontana (12 dicembre ’69), sono gli anni del clima politico teso,
del terrorismo, delle contestazioni giovanili, gli anni dei cineforum nei circoli Arci e nelle
parrocchie, la cupa entrata nei cosiddetti “anni di piombo”. In questo clima di tensione, la pellicola
fu messa sotto processo dalla censura per il soggetto narrato, per la rappresentazione che si faceva
della Polizia (e molti videro nel personaggio del Commissario più di una somiglianza con
Calabresi), e rischiò di non uscire nelle sale cinematografiche. Ma fu assolto dalla magistratura e
riuscì a ottenere un grande successo di pubblico nelle sale italiane.
Infatti, il film provocò un vero e proprio shock, alla sua uscita: “Indagine su un cittadino al di sopra
di ogni sospetto – sostenne Pirro - ha rappresentato un fenomeno incredibile nel nostro paese,
qualcosa di difficile da dimenticare. L’affluenza del pubblico nelle sale era enorme e in alcuni casi
fu necessario interrompere la circolazione dei veicoli data la lunghezza delle file alle biglietterie. La
gente si accalcava perché non credeva ai propri occhi. Credo si debba apprezzare il coraggio civile
di un’opera che ha aperto la strada a tutti nel cinema politico. Ci avevano detto che saremmo finiti
in carcere: era una tale bomba... Ma il film non fu bloccato dalla censura perché tutti si resero conto
che la cosa avrebbe provocato uno scandalo enorme. Il particolare contesto politico del momento,
una crisi di governo e la volontà della Democrazia Cristiana di trovare un accordo con i socialisti
dopo le bombe di Milano, rese possibile l’uscita del film”. Eppure, il contenuto di Indagine non era
tenero nei confronti delle autorità, mostrate in tutta la loro arroganza. “La polizia della Repubblica
italiana ‒ ricorda Elio Petri ‒ nei venticinque anni successivi alla caduta del fascismo, nonostante
l’abolizione della pena capitale, ha perpetrato nelle strade e nelle piazze decine e decine di
condanne sommarie contro masse indifese di operai e di contadini colpevoli unicamente di lottare
contro la miseria e l’ingiustizia. Nessun poliziotto ha mai pagato per tutti questi morti. Io provavo, e
provo tuttora, un odio profondo nei confronti dei mandanti ‒ appartenenti alle classi dominanti ‒ e
degli esecutori di questi assassinii. Tuttavia nel film mi interessava soprattutto descrivere il
meccanismo che garantisce l’immunità ai servi del potere. Volevo fare un film contro la polizia, ma
a modo mio”.
Il film è parte di un’ideale trilogia di Elio Petri, insieme a La classe operaia va in paradiso del ’71 e
La proprietà non è più un furto del ’73 e che vide la collaborazione alla sceneggiatura e
all’ideazione narrativa tra il regista romano e Ugo Pirro. Il sodalizio tra i due si basò sulla comune
necessità di raccontare le trasformazioni della società italiana in atto e lo scontro di classe nelle sue
diverse espressioni.
Petri, autore atipico nel panorama cinematografico italiano, cineasta barocco e immaginifico, è stato
il regista che più di ogni altro è riuscito a raccontare gli anni Sessanta e Settanta dell’Italia
proletaria e piccolo borghese. Egli, per realizzare questo film, ricorre ad una vera enciclopedia del
sapere: dall’invenzione, il grottesco e il paradosso brechtiani, agli aspetti del torbido e della
confusione tipici degli insegnamenti di Marx e di Freud, muovendosi in direzione dell’onirico
kafkiano (non solo l’esplicita citazione finale, ma non sfuggirà un immediato collegamento al suo
noto romanzo “Il Processo” del ’25, insieme alle continue apparizioni del ‘fantasma’ della donna,
dopo il suo delitto), senza dimenticare Dostoevskij di “Delitto e castigo” e, finanche, Simenon.
Egli si serve dell’artificio, per circoscrivere meglio il reale, abitato dall’ipocrisia del potere, contro
cui si avventa, indagando, in modo particolare quel potere tipico dei regimi in cui la democrazia è
soltanto una comoda etichetta, un alibi che giustifica ogni tipo di repressione.
La prima sequenza* di Indagine ci mostra un uomo, tampinato da un’insistente macchina da presa*,
che mostra anche ciò che sta al di là di ‘finestre che guardano’ (l’immagine di una donna vista
attraverso un velo-tenda…). L’uomo entra in un palazzo elegante e antico, nel centro di Roma. Ha
l’appuntamento con quella stessa donna che abbiamo appena intravisto, con lei avrà un rapporto
sessuale. Sin dall’ingresso dell’uomo nell’appartamento, tutto acquisisce la sua importanza: dalla
trasparenza della tenda di poco prima, allo scialle nero con cui la donna avvolge il suo uomo, al
colore del rosso delle tende inquadrate*, che subito dopo diventano sangue, per analogia del colore.
Il colore, in una di queste prime sequenze* la fa da padrone: c’è, in tutta la sua evidenza, una
gamma di colori caldi, soprattutto il bianco, dopo il delitto. Merito di un grandissimo direttore della
fotografia*, Luigi Kuiveller. L’omicidio avviene in scena, ma non è visibile, con i corpi dei
protagonisti nascosti sotto le lenzuola nere, lo spettatore sente il rantolo della donna, fra l’altro
ripresa di spalle, che solo dopo, si capirà essere morta, mediante l’uomo nudo coperto del suo
sangue. Questi, dopo essersi lavato, con estrema meticolosità, lascia indizi e tracce della sua
presenza nell’appartamento. Mentre esce dal cancello del palazzo, viene visto da un giovane che sta
entrando e non fa nulla per evitarne lo sguardo.
E’ notevole la scelta registica di iniziare il racconto con un assassinio, dove l’omicida è parte attiva
dell’indagine, perché il carnefice è un Commissario di Polizia, interpretato da Gian Maria Volonté,
che regala una delle sue prove interpretative più convincenti e superbe di sempre. Altra grande
invenzione registica, quella di non svelare mai il nome del Commissario, che sarà chiamato da tutti
“dottore”. Eppure, Petri ‘gioca’ a carte scoperte: il delitto diviene il meccanismo dove il
Commissario è l’icona di un potere tout court. Le movenze di tutti i gesti del Commissario e quelle
altre della vittima, donna moraviana, annoiata e borghese, sono scandite da una colonna sonora* di
Ennio Morricone, fin dall’inizio: il tema principale, detta e descrive, in modo particolare, tutte le
scene del rapporto di amore e violenza fra i due.
Petri utilizza ogni singola inquadratura*, con perfezione (dopo l’esplosione della bomba in caserma,
osserva la postura degli uomini di potere: le loro mimiche sono molto simili a quelle di Mussolini,
mani ai fianchi, tono della voce impostato ed esasperato) ed un gusto elegante, alterna primi piani*
(specie durante i dialoghi fra indagatore e indagato, la macchina da presa* stringe sempre più,
ossessivamente, sui volti, sudati, tremanti, pallidi) a dettagli e particolari (le mani, le scarpe, gli
occhi e gli orecchi, ecc.). Anche i movimenti* di macchina, sin dall’inizio, sono fluidi,
assolutamente descrittivi, fin nei minimi particolari. Petri dà forza al messaggio scegliendo di
utilizzare carrellate*, evitando il controcampo*, proprio per far prendere corpo alle parole del
personaggio. A ciò si aggiunga la scenografia* e i costumi*, per mezzo dei quali si passa da temi
orientaleggianti e in stile liberty dell’appartamento della Terzi, all’architettura funzionale e asettica
degli uffici della Questura, fino all'arredamento scarno, sofisticato e post-moderno
dell’appartamento periferico del Commissario. Insomma, trattasi di grande cinema.
Il gioco di incastri: un puzzle sul Potere
E’ singolare che l’omicidio è, nella struttura del film, l’ultimo atto di una serie di prove, di finzioni,
di vere e proprie messe in scena di delitti diversi, presi dalla cronaca, che il Commissario e la Terzi
si divertono a interpretare, a mimare, sempre preludio o seguito dei loro incontri sessuali. Tutto
questo è mostrato mediante flashback*, disseminati durante il tempo filmico, a comporre il quadro
generale di un puzzle.
I cinque flashback risultano essere veri e propri racconti a se stanti, onirici, sia per i contenuti della
messa in scena, che mostrano un Commissario in una veste altra, diversa, differente, intima, sia per
la loro messa in serie: nessuno stacco* o dissolvenza*, solo veri e propri sbalzi, mediante un
montaggio* che utilizza i fotogrammi*, tra una sequenza e l’altra, danno un senso di sussulto
mentale del personaggio. Lo spettatore entra nei ricordi, penetra appunto in una dimensione onirica,
la stessa del Commissario, abitata da momenti di sensi di colpa sempre più crescenti.
Non mancano sotto testi, come quello, molto freudiano, relativo al personaggio del Commissario,
continuamente redarguito dalla sua amante di essere un “bambino”, di essere infantile e
“sessualmente incompetente”. Si tratta di un bambino-adulto che gioca a fare il poliziotto,
dall’inizio alla fine, quando il Commissario piagnucola e viene rimproverato, come un bambino, e
si assiste a un contrappasso degli interrogatori precedenti, dove l’interrogato confessa e chi
interroga smonta la confessione. Ammetterà egli stesso che “dinanzi all’ordine costituito, tutti
torniamo bambini”.
Il “dottore” è un personaggio complesso, pieno di sfaccettature psicologiche, arricchito da tic
verbali (l’utilizzo grottesco dell’intonazione dialettale) e fisici (le smorfie facciali e il movimento
delle mani e delle braccia). Per Elio Petri, però, questo fu solo un punto di partenza per affrontare
un discorso più ampio. Il suo interesse principale era mostrare l’esercizio del potere da parte dello
Stato. L’esercizio del potere diventa azione sistemica di controllo della masse attraverso l’uso della
coercizione, dell’intimidazione, della rappresentazione dell’essere al di sopra della legge, che vale
per il popolo e non per i suoi servitori. Non sarà un caso, quindi, se l’omicidio avviene nello stesso
giorno in cui il Commissario, da capo della Squadra Omicidi, viene nominato responsabile
dell’Ufficio Politico e nel suo discorso programmatico di insediamento proclamerà: “L’uso della
libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite. Noi siamo a guardia
della legge, che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne. La città è malata.
Ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere. La repressione è il
nostro vaccino. Repressione è civiltà”.
Altro esempio di questa rappresentazione sono i tre interrogatori: il primo avviene subito dopo la
scoperta del corpo di Augusta Terzi. Uscendo dal proprio ufficio di capo della Squadra Omicidi, il
Commissario raggiunge i colleghi che stanno interrogando un sospettato. Il presunto assassino è
seduto, attorniato dai poliziotti che incombono e con il Commissario che stappa le bottiglie e invita
tutti a bere, compreso il sospettato, e guardandolo, dall’alto in basso, afferma: “Qui l'unico
colpevole sono io”. La macchina da presa* è ossessiva e oppressiva e lo sguardo inquisitorio,
soffocante, pur essendo un momento di finta giovialità. Il secondo interrogatorio è quello dell’exmarito della Terzi, che non per niente si svolge nei sotterranei della Questura (sotto il livello della
città, al di sotto delle regole civili, al di sopra della legge). Il Commissario assiste al di là di un vetro
come uno spettatore qualsiasi. L’ultimo interrogatorio avviene sempre nelle medesime stanze. Degli
studenti sono stati fermati in un rastrellamento, dopo che è scoppiata una bomba nei pressi della
Questura. Il Commissario interroga e tortura uno dei sospettati, facendogli bere dell’acqua salata e
facendogli così confessare che il colpevole è Antonio Pace. Quest'ultimo è stato un amante di
Augusta ed è il giovane che ha visto uscire il Commissario dalla casa dell’amante, subito dopo
l’omicidio. Il Commissario interroga Pace che gli tiene testa e da un iniziale comizio contro la
democrazia, il Commissario piagnucola e implora il Pace di denunciarlo in una messa in scena dai
toni fortemente grotteschi e iperrealisti, dove si assiste a un ribaltamento dei ruoli tra accusato e
accusatore.
Queste tre sequenze-interrogatori rappresentano, appunto, un’evoluzione massiccia del sistemapotere: la messa in scena dell’esercizio quotidiano della sopraffazione, che tracima dalle regole ed
elimina i confini tra bene e male, giusto e ingiusto, legge e illegalità.
Solo così si spiega il meraviglioso ed emblematico finale del film, lì dove è evidente che ciò che
può essere mostrato, attraverso una dimensione onirica, deve essere celato agli occhi dello
spettatore e del pubblico. Infatti, il Commissario abbassa la persiana e nella penombra china il capo
di fronte ai colleghi. La confessione del potere è celata perché in questo caso la realtà non supera la
fantasia.
Il regista
Elio Petri nasce a Roma il 29 gennaio 1929 da una famiglia di artigiani. Della sua infanzia dirà, in
un’intervista rilasciata a Dacia Maraini: “ero un bambino infelice, avevo paura della morte, ero
insicuro, solo. L’unica cosa che rimpiango sono certe giornate di sole in una Roma vuota e
silenziosa, accanto al corpo bassotto di mio padre”.
Sin da giovane si dedica alla militanza politica e alla critica cinematografica partecipando alle
attività della federazione giovanile del Partito Comunista. Inizia la sua carriera professionale come
giornalista a “L’Unità” (dove ricopre il ruolo di vice-critico cinematografico) terminando, negli
anni dell’invasione sovietica dell’Ungheria, con il giornale “Città Aperta”. Grazie all’incontro con
Giuseppe De Santis, nel 1951 esordisce nel mondo del cinema come sceneggiatore (non accreditato)
e aiuto regista per il film “Roma ore 11″ di cui realizza anche l’inchiesta preparatoria sul fatto di
cronaca che sarà pubblicato nel 1956 da “L’Avanti”. Negli anni successivi prosegue l’attività di
sceneggiatore e nel 1954 dirige il cortometraggio “Nasce un campione” seguito, nel 1957, da “I
sette contadini”. All’età di trentadue anni gira il suo primo lungometraggio, “L’assassino” (1961),
interpretato da Marcello Mastroianni, Micheline Presle e Salvo Randone che ricoprirà il ruolo di
protagonista nel successivo film di Petri, “I giorni contati” (1962), vincitore del Festival di Mar de
la Plata. Dopo “Il maestro di Vigevano (1963) e “Peccato nel pomeriggio” – episodio di “Alta
infedeltà” (1964) – realizza il film di fantascienza “La decima vittima (1965), tratto da un racconto
di Robert Sheckley. La pellicola successiva “A ciascuno il suo” (1967), ispirata al romanzo di
Leonardo Sciascia, segna l’inizio dello felice collaborazione con l’attore Gian Maria Volonté, con
lo sceneggiatore Ugo Pirro e con il direttore della fotografia Luigi Kuveiller. A “Un tranquillo posto
di campagna” (1968), ritratto di un artista alienato interpretato da Franco Nero insieme o Vanessa
Redgrave, seguiranno nel 1970 il film denuncia sul potere della polizia “Indagine su un cittadino al
di sopra di ogni sospetto” (premio Oscar come miglior film straniero e premio speciale della giuria
al Festival di Cannes) e, nel 1971, “La classe operaia va in paradiso” (Palma d’Oro al Festival di
Connes ex aequo con “Il caso Mattei” di Francesco Rosi), un’opera che, come scrive il regista al
produttore Dino De Laurentiis, “sta dalla parte degli operai, in tutti i sensi, quindi anche dal punto
di vista politico, soprattutto dal punto di visto umano”. Il lucido affresco della società italiana è
completato da “La proprietà non è più un furto” (1973), amara riflessione sul ruolo del denaro, e da
“Todo Modo” (1976), specchio del decadimento della Democrozia Cristiana, ritirato dalle sale dopo
un mese solo di programmazione. Con “Le mani sporche” (1978), versione per la Rai del dramma
omonimo di Jean-Paul Sartre, e “Buone notizie” (1979), prodotto dallo stesso regista con Giancarlo
Giannini, si chiude lo sua carriera cinematografica. Elio Petri muore a Roma il 10 novembre 1982
prima di riuscire a girare il film “Chi illumina la grande notte”.
Curiosità
 Oscar come Migliore film straniero nel 1970;
 Premio speciale della giuria al Festival di Cannes 1970;
 Oscar Miglior film straniero nel ’71;
 Incetta di David di Donatello e Nastri d’Argento;
Vediamo un po’…
1) Descrivi almeno cinque indizi, fra quelli che il Commissario-assassino dissemina nella casa
della donna uccisa.
2) Chi e da quale personaggio del film è giudicato un “cretino”?
3) Chi definisce la città “capitale da basso impero”? Con quale significato?
4) “Sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo e sotto ogni sovversivo può
nascondersi un criminale”. Quale significato dai a questa frase? Confronta la tua risposta
con quella dei tuoi compagni.
5) C’è qualcosa che ti ha stupito nella descrizione e nella visione dell’archivio del
Commissariato? Con quale criterio si distinguono i documenti?
6) “Tutti ritornano un po’ bambini al cospetto dell’autorità costituita. Io rappresento il potere
e la Legge – mentre si vedono scene di violenza nei confronti della donna - E io divento il
padre, il modello intoccabile, la mia faccia diventa come quella di dio. Queste sono le basi
su cui si basa l’autorità costituita: professori universitari, dirigenti politici, procuratori,
capo-stazioni. Poi finiamo per somigliarci noi poliziotti coi delinquenti, nella parole, nella
abitudini, qualche volta addirittura nei gesti”. Commenta questi pensieri del Commissario
in max 10 righe. Poi, confronta il tuo pensiero con quello dei tuoi compagni.
7) Dà un tuo commento alla sequenza* finale, del Commissario che s’inchina, egli stesso,
dinanzi all’autorità costituita e poi la didascalia: “Qualunque impressione faccia su di noi,
egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano. Kafka”.
8) Consiglieresti di vedere questo film? A Chi? Perché?
Se ti è piaciuto questo film…:
GUARDA
Diaz di D. Vicari;
La banda Baader Meinhof di U. Edel;
Salvador, 26 anni contro di M. Huerga;
Le tre sepolture di T. L. Jones;
Le mani sulla città di F. Rosi
LEGGI
“Todo Modo” di Leonardo Sciascia
“Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini
“Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro
“Il processo” di Franz Kafka
“Delitto e castigo” di Fedor Dostoevskij
ASCOLTA
“Il ballo del potere” di Franco Battiato
“Come Savonarola” di Eugenio Finardi
“Il testamento” di Appino
“Questo paese” di Daniele Silvestri
“La tempesta è in arrivo” di Afterhours
Cooperativa Sociale I bambini di Truffaut
www.ibambiniditruffaut.it – Gruppo Fb: I bambini di Truffaut
Twitter: IBambiniDiTruff – Mail: [email protected]
Info.: 342.6624110