CAPITOLO 2 - CISADU
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CAPITOLO 2 - CISADU
Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolastica Simona Braga, Bambini tra due culture. Una ricerca nella scuola dell’infanzia “ Carlo Pisacane” di Roma Tesi di laurea (nuovo ordinamento – triennale) Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Teorie e pratiche dell'antropologia - a.a. 2004/2005 Relatore: prof. Laura Faranda Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 5 febbraio 2006 http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html CAPITOLO 2 2.1) IL “PROGETTO INCONTRO” DEL CEMEA DEL MEZZOGIORNO NELLA SCUOLA “C. PISACANE” I motivi della mia presenza nella scuola “C. Pisacane” sono due. Il primo è che l’anno scorso ho condotto in questa struttura le mia esperienza di tirocinio della durata di 150 ore; il secondo invece è che quest’anno ho fatto la domanda di servizio civile nazionale volontario con l’ente Cemea del Mezzogiorno, e tra le attività che dovrò svolgere durante questi dodici mesi, è incluso il “Progetto Incontro” del Cemea, all’interno della scuola “C. Pisacane”. Principalmente mi sembra indispensabile precisare cos’è il Cemea e di cosa si occupa. La sigla Cemea significa Centri di Esercitazione ai Metodi dell’ Educazione Attiva, ed è un movimento internazionale di educatori nato in Francia nel 1937 e operativo in Italia dal 1950 nel campo della formazione e della realizzazione di esperienze educative e ricreative. Pertanto i Cemea del Mezzogiorno sono una ONLUS che opera nei settori della prevenzione del disagio giovanile, della promozione del successo formativo, dello sviluppo della comunità locale e della cittadinanza attiva, tramite azioni di tipo ricreativo e ludico rivolte a bambini, adolescenti, famiglie, insegnanti. Agiscono per realizzare le condizioni in cui ciascuno: bambino, adolescente, adulto, possa essere più cosciente del mondo che lo circonda, appropriarsene, farlo progredire, modificarlo in una prospettiva di sviluppo individuale e sociale. La scuola dell’infanzia “C. Pisacane”, ha avviato questa collaborazione con l’associazione Cemea del mezzogiorno per la sperimentazione di alcune pratiche pedagogiche, per poter far fronte sempre più adeguatamente ad alcuni problemi con delle particolarità specifiche, come quella di esser posta su un territorio caratterizzato da un forte svantaggio sociale, o ancora per l’alta presenza di alunni stranieri. A questo scopo è stato realizzato il “Progetto Incontro/Anime Emigranti”” attraverso cui si promuove lo scambio interculturale; i processi di formazione ed autoformazione del gruppo educativo; una riprogettazione degli spazi della scuola; una riflessione sulla mancanza di strumenti e attività idonee e adeguate per la didattica e per l’approccio di tipo pedagogico interculturale; si è avviata una intensa collaborazione con le famiglie, attraverso uno spazio di ascolto per i genitori; la progettazione di sostegno psicologico mirato ad alcuni bambini più in difficoltà, con percorsi individuali di gioco; e infine laboratori mirati sulle classi particolarmente difficili, in collaborazione fra professionisti, volontari e insegnanti. L’eterogeneità dei gruppi classe dovuta all’alta presenza di alunni stranieri, ha posto il problema di dover riflettere su come condurre una didattica più mirata e in alcuni casi individualizzata, ma contemporaneamente come migliorare la qualità della relazione pedagogica e della socio-affettività nei gruppi classe. Si è cominciata ad introdurre la possibilità di lavorare su progetti in gruppi di bambini omogenei per fasce d’età, e questo è reso possibile soltanto attraverso la sperimentazione di una progettualità a “classi aperte”, che sfrutta la collaborazione fra le insegnanti e richiede grande impegno di programmazione da parte delle stesse. Le idee di partenza del Progetto Incontro erano essenzialmente due, poi sviluppatesi in vari modi e con vari laboratori. La prima è quella di considerare l’intercultura come benessere sociale di tutti, mentre la seconda riguarda l’accoglienza, (parola chiave) e sulla quale vale la pena di impegnarsi in sperimentazioni e riflessioni che riguardano l’agire, i metodi, gli strumenti degli educatori, ma anche e sopratutto del vivere la scuola, come luogo importante di comunità reale. Quindi la scuola si appresta ad accogliere tenendo conto: del livello linguistico del bambino entrante, della situazione familiare, della transitorietà della famiglia sul territorio, della situazione emotiva particolare del bambino straniero “di spaesamento”, e infine della difficoltà di comunicazione con la famiglia su un piano linguistico e culturale. Il gruppo educativo si è quindi dotato di strumenti ed ha ricercato capacità nuove da utilizzare in attività didattiche che facilitino e migliorino la relazione con i bambini e favoriscano la socializzazione e l’integrazione nei gruppi classe. In particolare gli strumenti prescelti sono stati: il cerchio per la narrazione, il racconto e l’ascolto, sia tra adulti che con i bambini, la pittura, le attività manipolative, l’attività corporea, il gioco e il canto di tradizione popolare italiana e straniera. Parallelamente il gruppo educativo si è impegnato nell’approfondimento e nella riflessione del clima relazionale all’interno della scuola, mettendo come parole chiave centrali, “il sé e l’altro” e “l’accoglienza”. Per la realizzazione di questo obiettivo, vi è stato il coinvolgimento delle famiglie in alcuni contesti formativi, concepiti proprio come situazioni di arricchimento, di scambio e costituzione di una comunità educante, anche in grado di uscire dai propri ruoli per comunicare e riflettere insieme, sulle situazioni reali dei bambini, degli insegnanti e delle famiglie. Si sono anche riorganizzati gli spazi all’interno delle aule, dando maggior rilievo alla socialità e alle possibilità di autonomia del bambino, attrezzandole ad angoli differenziati per attività, e che possano dare al bambino (straniero e non) l’opportunità di appropriarsi dello spazio, dei giochi e degli strumenti che gli sono necessari, in maniera autonoma. Infine vi sono anche due spazi collettivi, una stanza ludoteca e per i laboratori manuali, e una stanza per l’incontro tra adulti, quindi per l’accoglienza dei genitori, per i cerchi narrativi e per i momenti di formazione delle insegnanti. All’interno di questa stanza è stata allestita anche una biblioteca interculturale, in collaborazione con i genitori. L’apertura della scuola alle famiglie, pertanto, non si limita solo ad una collaborazione per le attività didattiche, ma mira alla creazione di contesti di scambio, confronto e condivisione in chiave di formazione interculturale e d’accoglienza. Quindi di qui la necessità ad un sostegno mirato per i genitori e la possibilità di seguire anche individualmente alcuni bambini provenienti da famiglie problematiche o da situazioni traumatiche, dovute al loro essere immigrati da un paese straniero, (in molti casi anche semplicemente le condizioni di viaggio o le difficoltà di integrazione della famiglia sul piano lavorativo, di legalità o di situazione abitativa). Nel plesso scolastico “C. Pisacane”, oltre alla scuola dell’infanzia, è compresa anche la scuola elementare e i C.T.P. (Centri Territoriali Permanenti per la formazione degli adulti), è questo quindi un luogo privilegiato d’azione, in quanto snodo fondamentale di transito degli stranieri sul territorio. All’interno delle scuole elementari e dell’infanzia si calcola infatti (come già detto più volte) un 70% di alunni stranieri, e all’interno dei C.T.P., circa 400 adulti stranieri iscritti ai corsi di italiano, molti dei quali sono genitori dei bambini della scuola elementare e materna. La proposta di lavoro interculturale mira a migliorare il benessere sociale di tutti i soggetti che “abitano” la scuola, siano essi grandi o piccoli, mira a favorire lo scambio interculturale attraverso il coinvolgimento delle famiglie degli alunni della scuola elementare e dell’infanzia e mira ad aprirsi al territorio attraverso la creazione condivisa di eventi simbolici e visibili, come una festa, un’uscita sul quartiere, un lavoro sugli spazi degli edifici scolastici. Finalità fondamentale del Progetto Incontro è anche fornire ai bambini occasioni di collaborazione e di scambio che incontrino i loro desideri di espressione, individuazione e collaborazione, intendendo per intercultura l’approfondimento del campo d’esperienza “il sé e l’altro”. Gli obiettivi principali del progetto sono tre: - Favorire la partecipazione dei genitori degli alunni ad attività laboratoriali, persone italiane o straniere disponibili e interessate ad impegnarsi all’interno della scuola per la promozione dell’intercultura, offrendo il loro sostegno su attività didattiche mirate, la loro mediazione linguistica, il loro apporto progettuale ed umano per la creazione di occasioni di scambio sociale e interculturale. - Offrire ai bambini occasione di svolgere attività di laboratori manuali ed espressivi facendo particolare attenzione al clima relazionale ed affettivo del gruppo. - Costruire con gli adulti e i bambini uno o più “eventi” finali che siano espressione del percorso svolto insieme Per quel che concerne la metodologia, come già sopra indicato, si è privilegiata la narrazione e il racconto, autobiografico o fantastico, come mezzi particolarmente utili ed efficaci. Le tecniche utilizzate nei laboratori sono la cartapesta, la pittura, la creta, la costruzione di piccole strutture con la gommapiuma, o il cartone. 2.2) L’INSERIMENTO NELLA SCUOLA DELL’INFANZIA Basandomi su dati tratti da ricerche nazionali e locali, e sui colloqui condotti con insegnanti e genitori immigrati, cerco di descrivere le modalità di accoglienza e di inserimento dei bambini venuti da lontano. Ricordo ancora che il loro numero è in continuo aumento e che, la presenza si va diffondendo in maniera capillare e infine che si tratta soprattutto di bambini piccoli appartenenti per il 50% alla fascia di età compresa fra 3 e 8 anni, inseriti nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare. In tale contesto è importante, il concetto delle tre I che indica comportamenti educativi ben diversi, di cui parla D. Demetrio, e che riporto: “Inserire – nella sua freddezza un pò burocratica e amministrativa – vuol dire introdurre un elemento estraneo in un corpo compatto o presunto tale” Integrare, invece, pur lasciando presupporre che un innesto come quello precedente abbia luogo, implica un processo in cui l’estraneo, subito o gradatamente, ha modo di sentirsi meno estraneo e di essere vissuto dal contesto ospitante come meno straniero di quanto possa apparire almeno all’inizio. Interagire: la parola implica un movimento di azioni e risposte, di richieste e contrattazioni con quel corpo sociale nel quale non ci si trova improvvisamente collocati, oppure, in cui a un certo punto ci si scopre completamente, o quasi, assimilati (integrati)1.” Quindi è l’interazione la nozione chiave di una strategia veramente interculturale. La frequenza da parte dei bambini immigrati delle scuole dell’infanzia rappresenta un elemento fortemente positivo ai fini dell’interazione, dell’inserimento e della riuscita del percorso scolastico. Per questo motivo, sono previsti attenzioni e interventi per favorire l’inserimento dei bambini dell’immigrazione nella scuola materna: facilitazioni all’accesso, materiali informativi in varie lingue, collaborazione di “figure ponte” che promuovono i contatti con le famiglie e rendono più vicino e accessibile il percorso educativo. L’inserimento nella scuola materna (statale, privata o comunale) riguarda oramai altissime percentuali di bambini, mediamente più del 90%. Questo è dunque un servizio facilmente 1 D. Demetrio, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Meltemi, Roma, 2001 accessibile, perché diffuso, a basso costo e con una buona disponibilità di posti. L’accesso alla scuola materna è, quindi, “garantito” a tutti.2 Da i colloqui svolti con alcuni insegnanti e genitori stranieri della scuola, emergono alcune indicazioni sulle loro aspettative, difficoltà e valutazioni. Le immagini prevalenti della scuola materna diffuse tra i genitori immigrati e le loro aspettative disegnano un servizio che si configura come un luogo: - di assistenza e di cura, nei casi in cui la madre lavori o soprattutto quando si debba occupare di un nuovo nato; - ludico e protettivo, che deve essere flessibile nei tempi e nelle regole, differentemente dalla scuola elementare; - viceversa, può essere inteso come un percorso educativo basato sulla disciplina, l’ambito entro il quale il bambino apprende le norme sociali e i comportamenti corretti. Spesso infatti molti genitori, ritengono la scuola materna troppo permissiva e priva di regole; - di apprendimento linguistico della seconda lingua, funzionale al successivo inserimento nella scuola dell’obbligo; - di socializzazione e adattamento alla nuova realtà, perché il bambino impara a stare con gli altri. Per tutte queste ragioni la scuola dell’infanzia è piuttosto utilizzata dalle famiglie straniere anche quando la madre non lavora. I bambini vengono inseriti perché apprendano l’italiano, stiano con altri bambini, si abituino alla nuova realtà, giochino o, viceversa, imparino la disciplina. I genitori stranieri sono sostenuti nella loro scelta di inserimento anche da precedenti saperi ed esperienze poiché nei paesi d’origine la presenza di luoghi e servizi per i bambini è piuttosto diffusa. Una parte di bambini stranieri (sopratutto i cinesi) viene inserita più tardi, verso i cinque anni e ha una frequenza spesso discontinua, ciò è dovuto al fatto che il bambino inizia a frequentare la scuola quando la padronanza della lingua familiare è ben consolidata e sembrano minori i rischi di erosione della lingua e cultura d’origine. 2 G. Favaro, A. Genovese (a cura di), Incontri di infanzie, I bambini dell’immigrazione nei servizi educativi, Bologna, CLUEB, 1996. Sempre attraverso i colloqui con i genitori, la maggior parte delle famiglie immigrate ha dichiarato di aver provato sentimenti di paura, diffidenza ed ansia nel momento in cui ha deciso di affidare i figli ancora piccoli, a un’istituzione “altra”. Altra e distante, per lingua, religione, alimentazione, concezione del tempo e dei ruoli. Così le famiglie, tendenti, da una parte al mantenimento dei valori comunitari e, dall’altra all’inserimento positivo nel nuovo paese, possono prevedere una gamma di comportamenti, che vanno dalla chiusura-difesa del microcosmo famiglia, dalla distinzione netta tra i due spazi – quello familiare e quello sociale – e infine all’adesione totale al nuovo modo di vivere, con tutte le possibili mediazioni che si collocano tra questi due estremi. Vi è nelle famiglie immigrate, da una parte, un grande investimento nella riuscita scolastica e sociale delle nuove generazioni e, dall’altra la volontà di mantenere intatti i riferimenti religiosi, culturali, linguistici. Il bambino migrante è quindi, al centro di questa doppia aspettativa: riuscire nella nuova realtà e conservare intatti i valori e i riferimenti culturali di origine. 2.3) UN MOMENTO FONDAMENTALE: L’ACCOGLIENZA La fase dell' accoglienza rappresenta il primo contatto del bambino e della famiglia straniera con la scuola italiana, con gli insegnanti e i dirigenti scolastici. Quindi, “accogliere” vuol dire prima di tutto cercare di rimuovere gli ostacoli che impediscono a bambini e famiglie di altre culture di accedere ai servizi educativi. Mi riferisco, ad esempio, agli aspetti burocratici e organizzativi, alla necessità di promuovere l’informazione fra le famiglie straniere utilizzando anche strumenti di comunicazione nelle varie lingue. Quindi come nel precedente capitolo sull’inserimento abbiamo visto il concetto delle tre I, ora riporto quello delle tre A, del medesimo autore, D.Demetrio: “Accogliere, Ascoltare, Accompagnare: tre azioni pedagogiche concrete. Ci avvertono, subito, che nella relazione con il bambino straniero gli insegnanti non possono che assumere modi e toni coerenti con il senso inequivocabile delle tre A (mettere a proprio agio qualcuno, interessarsi a quello che dice o vorrebbe dire, dargli sicurezza)3.” 3 D. Demetrio, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Meltemi, Roma, 2001 Accoglienza significa anche la capacità di stabilire una relazione positiva con le famiglie venute da lontano, ascoltare i loro dubbi e le loro domande, stabilendo spazi di negoziazione sugli aspetti della vita quotidiana. Significa prevedere e organizzare dispositivi per dare risposte di qualità a nuovi problemi didattici, adottare e promuovere atteggiamenti di attenzione, ascolto apertura nei confronti degli altri. Pertanto l’accoglienza, più che avere obiettivi prevalentemente informativi, dovrebbe configurarsi come un momento interattivo di reciproca conoscenza. In quanto tale, non è un momento “problematico” da aggirare in fretta, ma una fase in cui è importante porsi da entrambe le parti, in un atteggiamento di ascolto e di attesa, per evitare un processo di conoscenza unilaterale4. Nel momento dell'accoglienza quindi, si pongono le basi per l'inserimento e l'integrazione : é il momento di scoperta dell' altro, delle sue ansie, delle sue paure e delle sue attese. L'arrivo di un bambino nuovo modifica il clima del gruppo e della classe, scompone e ricompone i fili della relazione. I suoi compagni hanno già tante cose in comune: esperienze di anni vissuti insieme, di giochi e feste, antipatie e simpatie consolidate, paure e progetti condivisi. Gli stessi insegnanti possono avere un transfert empatico e assumere un atteggiamento protettivo, oppure provare ansia e impotenza di fronte alle difficoltà comunicative e voler forzare i tempi dell' apprendimento5. Gli altri bambini sono curiosi e timorosi al tempo stesso di conoscere la sua storia, le mille cose che li uniscono e ciò che li differenzia. Il bambino straniero da parte sua è impegnato in uno sforzo enorme di adattamento e di apprendimento. Deve infatti adattarsi alla nuova scuola e alla sua situazione di vita: capire che cosa si fa in determinate occasioni, come è meglio comportarsi ed agire. Spesso il bambino che ha avuto una precedente esperienza scolastica può avere vissuto situazioni molto differenti da quella in cui si trova inserito attualmente. In questa prima fase deve quindi decodificare i segni nuovi e attribuirvi significato, osservare i comportamenti degli altri per poterli imitare. 4 Cfr. T. Dodaro, in G. Favaro, A. Genovese (a cura di) Incontri di infanzie, I bambini dell’immigrazione nei servizi educativi,Bologna, CLUEB,1996, p. 247 5 D. Demetrio, G. Favaro, (a cura di), Bambini stranieri a scuola, Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La nuova Italia, 1997 Deve inoltre imparare la lingua per la comunicazione quotidiana di base, per esprimere i bisogni e inserirsi nel gioco. Le difficoltà di inserimento iniziale sono più o meno forti a seconda dell'età, della scolarità precedente, della lingua d'origine, della storia personale e familiare del bambino immigrato. Durante i primi giorni d' inserimento, l'insegnante che si occupa dell'accoglienza cerca di raccogliere informazioni e dati sul bambino, la sua storia scolastica e il percorso migratorio. Nei casi di difficoltà comunicative con i genitori può ricorrere anche all'aiuto di mediatori informali (altri genitori stranieri, connazionali, vicini di casa, ecc.) o formali (traduttori stranieri, leader di comunità straniere, ecc.). Le difficoltà linguistiche, infatti, impediscono in molti casi alle famiglie immigrate di seguire e accompagnare il processo di inserimento del figlio, di comprendere i messaggi della scuola, di rispondere agli avvisi e alle richieste . Per superare questo problema comunicativo nella scuola C. Pisacane abbiamo realizzato dei messaggi di routine tradotti nelle lingue più diffuse ( soprattutto in cinese e arabo ). Le circolari emanate consigliano di sottoporre l'alunno neo-arrivato a delle prove di ingresso, non tanto per esprimere una valutazione sui livelli di competenze, quanto per programmare un intervento didattico individualizzato. Spesso queste prove non sono valide, perché utilizzano la lingua scritta (ovviamente non conosciuta), oppure sono connotate culturalmente, poiché fanno riferimento a pre-requisiti impliciti non sempre comuni e condivisi da tutti. E' necessario sperimentare delle prove d'ingresso che non usino il linguaggio, o che vengano tradotte anche nella lingua del bambino straniero. Durante la fase d' inserimento è fondamentale prevedere un sostegno di tipo linguistico6. Concretamente il momento dell' accoglienza diventa meno traumatico per il bambino straniero se quest' ultimo sente di essere " atteso", aspettato con cartelli di benvenuto e segni concreti di ospitalità. Il bambino nuovo inserito ha bisogno di essere conosciuto e riconosciuto (ad esempio con scritture del suo nome nella propria lingua, con cartina e foto del paese dal quale proviene). Inoltre il nuovo alunno ha bisogno di essere informato gradualmente e regolarmente sui diversi aspetti e momenti della vita scolastica per poter riconoscere il "ritmo" della scuola, 6 D. Demetrio, G. Favaro, (a cura di), Bambini stranieri a scuola, Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La nuova Italia, 1997 costruirsi riferimenti spaziali e temporali, in modo da diventare più sicuro nei confronti di un mondo ancora sconosciuto e poco decifrabile. Ogni bambino, quando arriva in un paese straniero, porta con sé uno zaino pieno di storia, tradizione e cultura. Affinché il suo zaino non diventi un fardello di cui liberarsi il più in fretta possibile, va aiutato a ri-scoprire la sua ricchezza e a dividerla con gli altri. Allo stesso modo i suoi compagni, di scuola o di gioco, vanno aiutati a ri-scoprire il loro bagaglio e a tradurlo in una comune esperienza. Il compito del mediatore psicopedagogico é quello di favorire questo incontro e di trasformarlo, assieme alle insegnanti e alle educatrici, in un momento di crescita comune. Per superare le diversità bisogna puntare a conoscere l' altro come persona globale e permettergli di prendere coscienza del proprio e altrui corpo, delle proprie e altrui emozioni, sensazioni ed espressioni in un autentico e totale linguaggio espressivo. Il gioco è lo strumento più adatto per facilitare questo incontro, in quanto il bambino, straniero e non, può investire provando piacere, scoprendo modalità d' interazione che si avvalgono non solo del linguaggio verbale o di prerequisiti codificati, ma anche di modalità legate all' espressione non verbale e corporea. A questo scopo sono interessanti le esperienze che si ispirano all'espressione corporea, alla danza, allo psicodramma e al gioco drammatico. Il gioco del "racconto del viaggio", ha aiutato chi l' ha effettuato a ridiventare protagonista di un' esperienza importante. La storia del proprio viaggio può diventare un momento significativo nella relazione tra coetanei : per chi é arrivato, perché gli dà la possibilità di affermare la propria identità a partire dalla propria storia personale; e per chi è qui da sempre, perché impara a scoprire che l'altro viene da un paese reale, che ha un passato e delle radici. “Se volessimo utilizzare la metafora del viaggio, potremmo dire che la Scuola diventa la stazione di partenza e le Culture le destinazioni, le postazioni di arrivo da guadagnare attraverso le tappe intermedie previste da un viaggio etnografico”7. 2.4) LA MIA ESPERIENZA DURANTE L’ACCOGLIENZA 7 Relazione scritta dalla Prof.ssa Laura Faranda , Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolastica, Roma 12 Luglio 2004 L’accoglienza quindi, è fondamentale considerando la presenza di alunni immigrati, ma è tanto più importante, in quanto genera richiami al rispetto anche per chi straniero non sia. Ricorda che chi è in crescita ha un estremo bisogno di sentirsi accettato incondizionatamente, e quindi riconosciuto, e guidato con fermezza. I bambini immigrati (al di là delle somiglianze con i coetanei di tutto il mondo) ci chiedono, però, qualcosa di più e di diverso. Una maggiore capacità nel far spazio, a un’appartenenza linguistica, culturale, religiosa altra e inoltre una disponibilità a cambiare punto di vista rispetto a standard consueti.8 A questo proposito vorrei riportare delle osservazioni rilevate durante la mia ricerca sul campo, nel momento dell’accoglienza nella scuola “C. Pisacane”. Il mio compito in quanto tirocinante prima e successivamente volontaria del servizio civile, doveva essere quello di fare osservazione nelle classi. Ovviamente ero stata messa al corrente preventivamente sia dalle maestre e dalla coordinatrice che dalla psicologa dell’infanzia, di come si svolgesse l’inserimento e di quanto questo fosse un momento delicato e particolare. A discrezione della scuola e quindi della coordinatrice, l’inserimento è stato organizzato seguendo una logica differenziata, a seconda delle fasce d’età (rispettivamente, 3, 4, 5 anni) e ancora tra vecchi e nuovi iscritti. Quindi il primo giorno di scuola e per tutta la prima settimana (con orario ridotto) era previsto l’arrivo dei bimbi vecchi iscritti di 4 e 5 anni, mentre i nuovi iscritti delle tre rispettive fasce d’età sarebbero arrivati solo a partire dalla seconda settimana. Il motivo della scelta per questo tipo di accoglienza, nasce dalla necessità di creare un clima di tranquillità per i vecchi iscritti, per dare l’opportunità ai bambini italiani e stranieri, dopo le vacanze, di reinserirsi gradualmente e serenamente. Un tempo tutto loro nel quale riappropriarsi degli spazi della scuola, per rendere nuovamente familiari le maestre e i compagni, in un contesto sereno ed intimo, dove ci si ritrova, ci si riscopre magari diversi, più alti, più grandi e con qualche dente in meno. Un tempo nel quale ci si racconta, partendo dall’estate appena trascorsa, e nel caso dei bambini stranieri, molto spesso caratterizzata dal viaggio nel proprio paese, (o meglio nel paese d’origine dei loro genitori, dato che la maggior parte sono nati qui) e infine un tempo 8 Cfr. D. Demetrio, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Meltemi, Roma 2001, p. 16. anche per piangere, dato che il distacco dalla mamma è sempre traumatico, anche se l’ambiente non è sconosciuto. A questo proposito, racconto le vacanze di Donas, un bambino eritreo (di 5 anni), nato in Italia, della classe 9. Quella mattina eravamo tutti seduti in cerchio nell’angolo morbido tra comodi cuscini e la maestra a chiesto ai bambini chi volesse raccontare le proprie vacanze. Si è subito proposto Donas. Con grande entusiasmo ha iniziato dicendo che lui aveva preso l’aereo insieme alla mamma e sua sorella Esgamen, che ha 16 anni (quest’ultima è una studentessa del CTP che spesso collabora con noi volontari sopratutto nei laboratori e nell’organizzazione delle feste a scuola), iniziando poi una descrizione dettagliata dell’aereo. A quel punto la maestra a domandato a Donas dove fosse andato e lui a sbrigativamente risposto: “ Eritrea “ riprendendo subito a parlare dell’aereo. Dopo la maestra ha lasciato che continuasse liberamente, senza più fargli domande, finchè la mamma di un altro bambino lì presente, ha chiesto a Donas come fosse l’Eritrea e lui cambiando improvvisamente espressione e con lo sguardo misto tra lo stupore e l’incertezza e la voce fioca, ci ha raccontato che anche in Eritera c’è il sole, il mare, le strade, le macchine e le case, solo che fa più caldo e che è più brutta dell’Italia e che lui non ci vuole più andare. La maestra lo ha ringraziato del suo racconto e si è subito rivolta ad un’altra bambina, che aveva già iniziato a raccontare, ma Donas si è alzato in piedi e guardando solo la maestra ha detto che lui si era divertito ad andare sull’aereo e che lo avrebbe voluto prendere di nuovo, ma non per andare in Eritrea, ma per farsi un giretto tra le nuvole e poi tornare nella sua casa a Roma con sua madre e sua sorella e poi a concluso dicendo: “ Basta sempre parlare, andiamo a giocare? “. E si è alzato , andando verso le costruzioni. Tornando all’inserimento, trascorsa quasi la prima settimana, ed essendosi i bambini ormai riambientati, li abbiamo preparati all’arrivo dei nuovi compagni, (caratterizzato da un caos generale), rivestendoli di un compito importante, quello di essere appunto loro i protagonisti dell’accoglienza per i nuovi arrivati. Nel ruolo di guida, in quanto ormai grandi ed esperti della scuola, dovevano accoglierli facendo loro conoscere la classe, i giochi, i nostri angoli: l’angolo morbido, dove ci si riposa o ci si raccontano le storie, l’angolo della cucina, l’angolo della pittura, quello delle costruzioni, o ancora l’angolo del travestimento. Tutto ciò ovviamente per evitare, data la grande attenzione ed energia che richiedono i nuovi arrivati, che i vecchi iscritti non si sentissero trascurati o poco attesi, ma anzi valorizzando la loro presenza in un momento particolare come quello dell’inserimento (ancora più complicato per i bambini stranieri). Il giorno dell’arrivo dei nuovi , io mi sentivo particolarmente nervosa, sapevo che sarei dovuta stare in tre classi, la numero 3, la 4 e la 9. I primi tempi non ho seguito nessun bambino in particolare, ma sono stata da supporto alle maestre, data la situazione. Quindi ho osservato, non riuscendo però mai ad essere una presenza invisibile, annotando nella mia mente alcuni episodi che ritenevo peculiari. Solo con il tempo e non con poche difficoltà, sono riuscita a capire che ciò che principalmente dovevo fare era: << prestare attenzione alle sequenze spezzate del loro vissuto quotidiano, senza pretendere di classificarle o di ordinarle subito in una visione critica rubricabile>>9. In quei giorni, lo scenario generale era questo: le classi affollate di bambini, la maggior parte dei quali piangevano attaccati alle proprie mamme, (i papà erano pochi), altri bimbi invece avevano lo sguardo atterrito e dubbioso, pronti a scoppiare in un pianto se la propria mamma si alzava solo per un attimo, altri ancora invece, tranquilli ed assorti in qualche gioco, ma con lo sguardo sempre vigile a non perdere mai di vista la propria mamma. Anche quando si riusciva a creare un clima più tranquillo, magari facendo un cerchio, o allestendo per l’attività con la pittura, o semplicemente cantando una canzone, bastava il pianto di un solo bimbo, per riscatenare a catena il pianto di tutti. La situazione dei bambini stranieri, sopratutto quelli di 3 anni, i quali non parlavano una sola parola di italiano, (né i bambini, né le loro mamme) è stata la più difficile. Ricordo che a volte scorgevo negli occhi di alcune mamme straniere (alcune davvero molto giovani e arrivate in Italia da poco tempo), la stessa paura e disorientamento del proprio bambino, sembrava che da un momento all’altro sarebbero volentieri scoppiante anche loro in un pianto liberatorio. Tendevano a rimanere in disparte con il proprio figlio e difficilmente si integravano nel gruppo se non venivano sollecitate dalle maestre. Alcune volte si creavano microgruppi tra connazionali. Quindi i bengalesi tutti da una parte, i cinesi da un’altra, e poi le donne arabe, le italiane o quelle dell’est, ovviamente ogni gruppo unito dalla lingua comune. Spesso mi avvicinavo ad alcune di loro, semplicemente chiedendogli come stavano, ma non venivo capita, allora provavo a chiederlo in inglese, ma quasi tutte mi rispondevano 9 L. Faranda (a cura di) “Non uno di meno”. Diari minimi per un’antropologia della mediazione scolastica. Armando 2004 facendomi un piccolo cenno di no con la testa, quindi percependo anche attraverso il loro corpo che si sentivano invase e a disagio, anche solo da una semplice domanda, con un sorriso mi allontanavo, provando a giocare con il loro bambino che stava seduto accanto. Il bimbo, tendeva ad avere la stessa reazione della mamma, cioè di rifiuto, oppure in altri casi si rivolgeva alla mamma parlando la propria lingua e io attendevo, alcune volte si fidava e giocava, altre no. Gli stessi microgruppi creati dagli adulti, spesso sempre per una questione di lingua, venivano riproposti anche dai bambini, con una grande differenza, che se si inseriva un altro bambino di un’altra nazionalità veniva, quasi sempre accolto senza resistenze, dato che fortunatamente il gioco è universale e ha altri codici, che non sono solo quelli linguistici. A questo proposito, ricordo un episodio che si è svolto una mattina nella classe 3. Subro e Shimanto, due bambini Bangladesh, le cui due mamme sono amiche, stavano giocando con le costruzioni, (senza mai perdere però d’occhio le loro madri), ad un certo punto, Simone un bambino di una coppia mista ( di 5 anni e vecchio iscritto), con madre italiana e padre egiziano, il quale ovviamente parla l’italiano, stava giocando anche lui con le costruzioni non lontano da loro e sembrava molto incuriosito da ciò che costruivano i due bimbi accanto. Dopo qualche esitazione, si è alzato e tenendo in mano una specie di robot che aveva costruito, si è rivolto a loro (in italiano) chiedendogli se volevano mettere in cima alla torre che avevano creato con le costruzioni, il suo robot. Subro e Shimanto lo hanno guardato un pò perplessi, allora Simone è passato all’azione, mettendo in pratica ciò che gli aveva precedentemente detto. I due bambini lo hanno lasciato fare senza resistenze e appena hanno ben capito di cosa si trattava, si sono adoperati per cercare altre costruzioni e continuare insieme tutti e tre la loro opera. Intanto le loro mamme, compresa quella di Simone, guardavano incuriosite quanto stava succedendo. Il loro gioco proseguiva tranquillamente, e a volte Subro dava dei consigli a Simone, naturalmente parlando bangladesh, su come posizionare alcune costruzioni, e Simone acconsentiva oppure gli obbiettava rispondendogli in italiano su quale secondo lui era la soluzione migliore. Il tutto è avvenuto in totale naturalezza, i bambini avevano comunicato tra loro, utilizzando due lingue diverse, ma si erano perfettamente compresi. Mentre i bimbi continuavano a giocare, la mamma di Simone si è avvicinata alle due madri bangladesh, che avevano ripreso a chiacchierare, facendogli un sorriso al quale hanno risposto anche loro con un altro sorriso. Subito dopo è sorto dell’imbarazzo, perché si percepiva che le tre donne avrebbero voluto proseguire in questo approccio, nato con il reciproco sorriso, ma non sono riuscite, a differenza dei loro figli, a trovare i mezzi per farlo. Quindi la mamma di Simone si è allontanata tornando dove era prima e le due donne bangladesh, hanno ripreso a parlare tra di loro, secondo me, commentando quanto era appena accaduto, anche se ovviamente non capivo ciò che dicevano. A quel punto, io mi sono avvicinata alla mamma di Simone, la quale non sapeva che io avessi osservato la scena, quindi le ho chiesto come stava e lei subito con grande entusiasmo mi ha raccontato quello che era avvenuto prima ai bambini, e mentre parlava a volte rivolgeva lo sguardo verso le mamme di Subro e Shimanto, scambiandosi i soliti sorrisi. Dopo le prime due settimane, la situazione si è stabilizzata. I bambini, ma anche le loro madri erano più sereni, ancora qualcuno piangeva, ma la presenza dei genitori nelle classi era nettamente inferiore, quindi la fase più dura dell’inserimento era superata. Dato che nella classe 3 e nella 9, c’erano situazioni abbastanza tranquille, per un pò di giorni sono stata solo nella classe 4 insieme ad Alessio, un bambino cinese di 5 anni. In generale, l’inserimento dei cinesi è stato tra i più complicati, in quanto la maggior parte delle mamme, sempre per motivi di lavoro, si tratteneva pochissimo in classe con i figli, spesso costrette a scappare di nascosto, alla prima svista del bambino, il quale poi ovviamente scoppiava in un mare di lacrime. Alcune volte ho provato a richiamare le mamme, spiegandomi a gesti, tentando di far capire che ancora dovevano restare perché il loro bimbo piangeva disperato, ma puntualmente dicevano di non capire facendo di no con la testa. Quando ritornavo in classe, un pò desolata, la maestra mi diceva che i cinesi sono così, non sono cattivi, ma pensano sempre a lavorare. Il pianto dei bambini a volte durava davvero a lungo, e insieme alle maestre e agli altri volontari abbiamo dovuto provare parecchi stratagemmi per farli smettere di piangere, per di più ovviamente con l’ostacolo della lingua. Anche la mamma di Alessio, appena poteva scappava, ma lui a differenza di Zhu, un’altro bambino cinese della sua classe, non ha mai pianto. Alessio, ogni volta che si accorgeva che sua madre era andata via, prendeva il suo zainetto e si sedeva in un angolo con lo sguardo imbronciato, non considerando né me né la maestra. Un’ unica cosa lo distraeva, gli altri bambini. Ogni volta che un bambino gli si avvicinavano, lui si metteve lo zainetto sulle spalle e iniziava a fare il verso del leone, poi stringeva gli occhi e metteva le sue manine in posizione d’attacco. A quel punto gli altri bimbi iniziavano quasi sempre a ridere, e lui invece passava all’attacco reale. Prima gli stringeva le braccia al collo e poi si rotolava a terra continuando a fare il verso del leone, ma subito interveniva la maestra. Alessio appena veniva toccato dalla maestra, iniziava a urlare forte e l’unico modo per farlo smettere era non toccarlo più e allontanarsi. Lui quindi rimostrava alla maestra i suoi presunti artigli e abbracciato al suo zainetto si rimetteva seduto in un angolo. Ripeteva questo modo di fare più volte e soprattutto non si distaccava mai dal suo zaino, era il suo scudo di protezione. Un giorno infatti la maestra ha provato a toglierlo perché bisognava andare a mensa, ma Alessio è subito scoppiato in una crisi di pianto e buttandosi per terra ha iniziato a sbattere le gambe, le braccia e persino la testa, ovviamente lo zaino gli è stato subito restituito. Alessio come gli altri non parlava l’italiano, l’unica parola che sapeva dire era “mangiare” e l’unico momento lieto per lui, appunto la mensa. Un giorno però, sono riuscita a conquistarmi la sua fiducia. Mentre giocavo con gli altri bambini sull’angolo morbido a farci il solletico, mi sono accorta che lui mi guardava incuriosito, così gli ho detto di venire, facendogli cenno con la mano, mi aveva capito, ma sapevo che non si sarebbe mai avvicinato e non l’ho forzato. Darius, un bambino rumeno della sua classe, tornando dal bagno è passato vicino ad Alessio per poi raggiungere noi che giocavamo sull’angolo morbido. Mentre camminava verso di noi, Alessio lo ha preso per un braccio, per poi iniziare il rito del leone. A quel punto ho chiesto alla maestra se questa volta potevo intervenire io, e lei ha acconsentito, quindi ho iniziato a fare anch’io il leone e mentre ruggivo mi sono avvicinata a lui che era stupito e sorpreso. Poi ha subito lasciato Darius, mi si è avvicinato e tentava di ruggire più forte di me e continuava a stringere gli occhi e a mostrarmi le sue piccole manine pronte ad attaccarmi. Quindi, passato all’attacco mi ha stretto le sue braccia al collo. Era la prima volta che aveva un contatto con un adulto. Io ho subito iniziato a fargli il solletico e lui ridendo staccava le braccia e poi ci ritentava, non riuscendo più a ruggire perché rideva, io continuavo con il solletico, finché all’ennesimo tentativo, invece che stringermi il collo mi ha semplicemente abbracciata, quindi l’ho preso in braccio ed ho ricambiato l’abbraccio. In quel momento sono riuscita a malapena a trattenere le mie emozioni, infatti ero profondamente commossa. Quando ci siamo distaccati, si è subito accorto che non aveva più il suo zainetto quindi è corso a riprenderlo e a sedersi nel suo angolo. Da quel giorno tra me e lui iniziava un rapporto di complicità sempre però con qualche resistenza. Questo episodio è successo ad ottobre, oggi Alessio ha imparato molte parole d’italiano, non è più tanto aggressivo, ma anzi al contrario bacia e abbraccia tutti i bimbi anche se a volte in maniera troppo ossessiva, comunque lui utilizza il suo corpo per farsi capire, nel bene e nel male. << Nel mondo dei bambini la complicità e l’amicizia si esprimono quasi sempre attraverso la condivisione di un’intimità corporea. L’intensità delle relazioni si misura spesso con un bisogno di toccare, essere toccati, toccarsi che assicura e al tempo stesso rappresenta transitivamente la dimensione fusionale delle amicizie infantili>>10. All’inizio della terza settimana, la situazione si era assestata. I casi di bimbi che ancora piangevano, erano rari, e la maggior parte di loro ormai aveva piena padronanza degli spazi e tempi della scuola e delle figure di riferimento. In questo clima di tranquillità, spesso però mi capitava di osservare alcuni bambini stranieri, che se ne stavano buoni-buoni, tranquilli, seminascosti, e alle maestre non sembrava vero di ospitare alunni stranieri, che in molti casi non ponevano problemi, per lo meno disciplinari. Infatti era frequente la frase: “Fossero tutti così”! Cosa sentiva, provava e viveva in profondità la bambina o il bambino quasi invisibile passava in secondo piano. Questo nonostante le maestre, fossero continuamente sollecitate ad essere attente e sensibili e animate da buoni propositi interculturali. Mi sembrava che a volte, fossero intenti ad osservare i loro coetanei, interessati a capire come diventare uguali, nei limiti del possibile, ai loro compagni che percepivano come privilegiati: per colore della pelle, vantaggi, genitori, lingua. << Per questo il bambino straniero vive un’identità “sospesa” in attesa di riprendere forze e poter poi, forse un giorno, riavvicinarsi alle sue origini>>11. Trascorrevo molte mattine insieme a loro, penso che anch’io ero diventata una figura di riferimento. Giocavamo molto, però a volte mi piaceva anche stare in un angolo ad osservarli, (anche se durava poco, perché venivo subito coinvolta). Spesso mentre li guardavo, mi chiedevo a quale età i bambini cominciano a notare certe differenze (rispetto ai tratti somatici) negli altri e a classificare le reazioni associate a tali riconoscimenti. Sono convinta che un bambino di tre anni sia in grado di distinguere un 10 L. Faranda (a cura di), Non uno di meno. Diari minimi per un’antropologia della mediazione scolastica, Armando 2004, p.144 bambino nero da uno bianco, semplicemente, non connette alcunché di particolare alle differenze somatiche percepite. Insomma, la pelle sarebbe un elemento di nessuna importanza nel modo in cui i bambini concepiscono gli altri. In un bimbo che frequenta la scuola materna, non vi sono stereotipi legati alla razza. A questo riguardo riporto un episodio che si è svolto una mattina mentre eravamo in giardino. Essendo ancora il periodo dell’inserimento, ovviamente i bambini non si conoscevano bene tra loro, ma sopratutto non avevano memorizzato i loro nomi, in particolare quelli dei bambini stranieri. Mentre due bimbe, Purmi (del Bangladesh) e Chen Chen (della Cina) litigavano per chi dovesse salire per prima sullo scivolo, una terza bambina, Benedetta (italiana) è accorsa dalla maestra a riferire che la bambina “nera” del qual non ricordava il nome, stava tirando i capelli alla bambina: “con gli occhi così”, (mostrando alla maestra gli occhi a mandorla), con un nome troppo difficile da ricordare e pronunciare. Il tutto però è avvenuto con grande naturalezza e spontaneità. La bambina aveva utilizzato i connotati fisici evidenti (la pelle scura per la bimba bengalese, e gli occhi a mandorla per la bimba cinese) come segni distintivi immediati, di una diversità che sicuramente percepiva, ma con grande tranquillità, naturale come se avesse parlato di bimba con la maglietta rossa e bimba con i pantaloni verdi. Il rimprovero della maestra seguito da un :”Non si dice così”, ha reso improvvisamente innaturale ciò che in principio era del tutto spontaneo. Benedetta e la maestra, partivano da due punti di vista diversi. Racconto questo episodio con un senso di conforto, sollevata dall’aver scoperto che la bambina non aveva attribuito importanza all’elemento etnico. C’è dunque uno sguardo diverso da parte dei bambini, un altro modo di leggere le differenze. L’episodio, insieme ad altri che sono accaduti, è anche la spia rivelatrice di due culture diversissime: quella dei bambini e quella degli adulti, << popoli che parlano lingue diverse, queste sì due “etnie” spesso lontane>>12. Riguardo questo argomento vorrei riportare un altro episodio. 11 12 D. Demetrio, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Meltemi, Roma, 2001 V. Ongini, Lo scaffale multiculturale, Mondadori, 1999, p. 8 Un giorno in classe abbiamo svolto l’attività di mescolanza dei colori, e per introdurre l’argomento la psicologa dell’infanzia ha utilizzato una favoletta, che cito brevemente. Due amici, pallino giallo e pallino blu, giocavano sempre insieme, ma i loro genitori gli proibivano categoricamente di toccarsi. Una volta però accadde che i due amici si abbracciarono e diventarono entrambe verdi, ma poi arrivò la pioggia e ritornarono rispettivamente blu e giallo - . Finito il racconto, i bambini hanno svolto l’attività della magia dei colori, attraverso la mescolanza di due colori che danno origine ad una terza tonalità diversa. Terminata l’attività, due bambini molto amici tra loro, Donas (eritreo) di carnagione scura e Patrich (rumeno) di carnagione chiara, hanno chiesto alla maestra come mai loro abbracciandosi, non diventavano grigi. E’ stato spiegato loro che la magia dei colori, avviene soltanto con determinati colori, e che poi si tratta solo di un attimo di magia, perché poi ritorna tutto alla normalità. Così loro hanno concluso dicendo che era uguale, tanto anche senza magia dei colori, rimanevano comunque amici del cuore. Infine, e con questo episodio concludo, durante l’inserimento c’è stato un bambino cinese, Whowhei, con particolari problemi ad integrarsi con la classe per varie cause. Innanzitutto perché molto piccolo (tre anni), poi non conosceva assolutamente l’italiano, ed infine perché era la prima volta che veniva in contatto con gente diversa dai suoi connazionali. La sua mamma (anche lei non parlava italiano) si è dovuta trattenere in classe per oltre un mese per riuscire con le maestre nell’inserimento. Trascorso questo tempo, il bimbo ha iniziato a socializzare con altri bambini e a riconoscere quell’ambiente come familiare. Una mattina la sua mamma, è arrivata a scuola accompagnata dalla figlia maggiore (11 anni), la quale nel ruolo di interprete e mediatrice linguistica, ha parlato con la maestra spiegandole che da quel giorno Whowhei lo avremmo dovuto chiamare “Luca”. Ha poi assicurato la maestra che anche loro a casa lo avrebbero chiamato così. Questa cosa inizialmente mi ha turbata. L’ho interpretata come una perdita di identità per il bambino anche abbastanza grave. Poi mi è stato spiegato che è abitudine dei cinesi acquisire un secondo nome, tipico del paese di accoglienza. Quindi ho dedotto che più che di una perdita d’identità, si tratta di un’acquisizione di una doppia identità. Il bambino straniero, soprattutto se inserito precocemente nei servizi per l’infanzia, è “malleabile”, privo di rigidi riferimenti culturali; impara abbastanza in fretta la lingua, si abitua a vivere qui, con gli altri e come gli altri. Quindi le reali resistenze durante l’accoglienza, spesso si sono riscontrate rispetto ai genitori. Questi ultimi, a differenza dei loro figli, arrivano in Italia con le loro culture, le loro abitudini, si chiudono, si difendono; non sono sempre disposti ad adattarsi, a cambiare. Ci sono state frequenti situazioni di malinteso, incomprensione linguistica e difficoltà di contatto e di comunicazione tra la scuola e le famiglie che non conoscono la lingua. Nella fase iniziale, del primo inserimento, la distanza comunicativa, ha provocato fraintendimenti rispetto alla gestione della vita quotidiana nel servizio, alle sue regole, ai tempi e ai modi della frequenza. La non-comunicazione con le famiglie impedisce in certi casi alle maestre di comprendere le cause dei comportamenti “problematici” dei bambini: “l’aggressività, l’isolamento, l’eccessivo attaccamento agli adulti, la timidezza”. Con i genitori che non conoscono l’italiano, la comunicazione è naturalmente limitata e difficoltosa, ma anche coloro che parlano la lingua, sembrano a volte sfuggire al rapporto con le maestre e voler evitare ogni occasione di incontro. Per tutte queste ragioni è stato attivato subito a scuola, lo spazio d’ascolto per i genitori. I servizi educativi per l’infanzia costituiscono un luogo privilegiato nel quale poter stabilire un contatto, informarsi, esprimere dubbi e porre domande. La relazione tra scuola e famiglia è quindi uno degli elementi centrali che stanno alla base di un inserimento positivo. Stabilire un rapporto di fiducia e un dialogo tra genitori e scuola richiede disponibilità e apertura da entrambe le parti, che si basino sul rispetto reciproco, la curiosità, il riconoscimento e la negoziazione. Tornando ai bambini vorrei concludere citando un passo tratto dal libro “I bambini che si perdono nel bosco” di Andrea Canevaro: “Quando un bambino va a scuola, è come se fosse portato nel bosco, lontano da casa. Ci sono bambini che si riempiono le tasche di sassolini bianchi, e li buttano per terra, in modo da saper ritrovare la strada di casa anche di notte alla luce della luna... ma ci sono bambini che non riescono a far provvista di sassolini, e lasciano delle briciole di pane secco come traccia per tornare a casa. E’ una traccia molto fragile e bastano le formiche per cancellarla: i bambini si perdono nel bosco e non sanno più ritornare a casa. La scuola è come un bosco in cui alcuni sanno ritrovare la propria strada, sanno leggerla e sanno orientarsi: passano la giornata nel bosco, si divertono a scoprirlo, a conoscerlo... e riescono a collegarlo alla traccia ed alla memoria che li riporta a casa... altri bambini passano la giornata nel bosco e anche loro imparano tante cose; ma alla fine della giornata, conoscono anche la paura di non sapersi orientare, di non sapere la strada di casa. Hanno imparato tanto, forse, ma lo dimenticano perché non riescono a collegarlo alla traccia ed alla memoria della strada di casa; il bosco diventa il luogo pauroso in cui si perdono senza riconoscere le proprie tracce... I bambini che sanno tornare a casa, sono capaci anche di andare avanti nel bosco e oltre il bosco. I bambini che si sono persi, non sanno tornare a casa e non sanno neppure andare avanti perché ogni passo che fanno e sempre per perdersi un po' di più, per non saper riconoscere niente di sé e delle cose che stanno loro attorno: se si incontrano tra loro non si riconoscono e non sanno leggere i segni che possono costruire una strada o un sentiero: sono condannati a vagabondare senza spazio e senza tempo... Le case da cui i bambini partono per arrivare nel bosco sono tutte diverse e di questo la scuola può e deve essere consapevole, i bisogni affettivi hanno forme e modi diversi ma bambini e adulti assieme possono realizzare un percorso nel bosco della crescita e della conoscenza, che sia piacevole e non pauroso, accogliente e non disorientante...13” Questo passo con la metafora del bosco, credo renda bene l’idea di come possa esser vissuto in generale da un bambino il primo contatto con la scuola, questo nuovo luogo che non è la sua casa e con nuovi adulti che non sono i suoi genitori o parenti. Per un bambino immigrato, il “bosco” oltre ad essere sconosciuto, ha anche dei codici e dei segni che proprio non comprende, e i nuovi adulti oltre ad essere degli estranei, hanno connotati fisici molto diversi da quelli di mamma e papà , e in più parlano una lingua strana mai sentita prima, del tutto indecifrabile. Credo che nel loro caso il bosco diventa ancora più pauroso, e la strada da percorrere per arrivare a percepirlo come luogo rassicurante sarà molto più lunga. Quindi la scuola deve provvedere con un’accoglienza tale che il bambino possa orientarsi nel nuovo ambiente, conoscere lo spazio e i tempi, ma soprattutto deve sentire di essere atteso, aspettato e sapere che c’è un posto per lui. 2.5) IL BILINGUISMO La reale differenza che contraddistingue i bambini stranieri, dagli “altri”, é la lingua. Fino al momento del suo inserimento a scuola, il bambino straniero, nato in Italia o immigrato, comprende e parla la lingua materna, che rappresenta per lui la lingua affettiva. 13 A. Canevaro, I bambini che si perdono nel bosco, editrice Erikson, 1999 Nei casi in cui non vi sia la presenza di fratelli più grandi, già inseriti nella scuola, lo sviluppo linguistico del bambino è praticamente nullo , ad eccezione di alcune frasi e modi di dire italiani appresi dalla televisione. La situazione di monolinguismo nella lingua materna, è la più diffusa fra i bambini stranieri nati in Italia , prima del loro inserimento nella scuola. Vi sono in numero limitato, situazioni in cui il bambino parla da subito solo la lingua del paese ospite. Si tratta di casi molto rari, per lo più di bimbi inseriti da piccolissimi negli asilo nido. I genitori, in tali circostanze “scelgono”, solitamente di usare l’italiano, pensando di evitare ai figli confusioni, disagi e disorientamento. A volte sono gli stessi insegnanti a suggerire ai genitori di abbandonare la lingua d’origine nella comunicazione con i figli, per facilitare l’apprendimento della nuova lingua da parte del bambino. In molti casi però, l’uso della seconda lingua, può portare a una comunicazione rigida, perché condotta in un codice che non è quello affettivo, della casa, dei ricordi e dell’immaginario14. Se quindi la famiglia sceglie di parlare al bambino solo in italiano, i genitori si trovano nella difficile situazione di dover usare una lingua in parte estranea e sconosciuta, di non saper esprimere sentimenti ed emozioni. Infine, nel caso di bambini nati e cresciuti per una parte della loro infanzia nel paese d’origine e immigrati per ricongiungersi ai familiari, la situazione linguistica al momento del loro arrivo e dell’inserimento scolastico è naturalmente quella di una competenza consolidata nella lingua materna. Nel momento d’arrivo nella scuola materna, la situazione più diffusa quindi, è quella di monolinguismo in lingua d’origine, ma nel corso dell’inserimento, le situazioni linguistiche inizialmente simili si diversificano. Infatti, vi sono bambini che diventano bilingui e che aggiungono la nuova lingua a quella materna. Questo è definito: bilinguismo aggiuntivo, in quanto aggiungono alla lingua d’origine, la seconda lingua senza mettere in pericolo la prima, poiché ognuno dei due codici, occupa uno spazio proprio. In altri casi, l’apprendimento della seconda lingua si accompagna a forme di “amnesia” e abbandono della lingua materna. Questa situazione linguistica è definita invece: bilinguismo sottrattivo, poiché i progressi in una lingua si accompagnano a perdite nell’altra. Questo 14 Cfr D. Demetrio, G. Favaro, (a cura di), Bambini stranieri a scuola, Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La nuova Italia, 1997 fenomeno di abbandono della lingua, spesso nasce da un sentimento di vergogna, dal desiderio di mimetismo, dalla necessità del bambino di essere accolto e accettato dai compagni e dall’insegnante, e infine perché purtroppo la scuola non riconosce e valorizza la lingua d’origine. A tale proposito, riporto l’esperienza di due bambini l’uno con bilinguismo aggiuntivo e l’altro, sottrattivo. Nel primo caso si tratta di Luca, un bambino cinese di 5 anni della classe numero 9. La sua situazione linguistica quando è arrivato a scuola, era di monolinguismo nella lingua materna. Il suo inserimento è stato ulteriormente complicato dal fatto che neppure la sua mamma parlava l’italiano. Le difficoltà linguistiche però sono emerse sopratutto durante la prima fase, tendendo poi a risolversi anche in breve tempo. Nel giro di 3/4 mesi, aveva quasi imparato la nuova lingua, e aveva raggiunto una competenza superiore a quella dei suoi genitori, spesso nel ruolo di interprete e portavoce. Nel caso di Luca, ci si trova di fronte a un bambino che ha sviluppato una buona competenza nella prima lingua perché è stata valorizzata dal proprio ambiente d’origine, alla quale aggiunge le competenze richieste dalla seconda. Le conoscenze della prima continuano a essere valorizzate, anzi, rendono più ricca l’identità del soggetto, il quale, servendosi indistintamente delle due lingue, aumenterà il proprio prestigio sociale15. Nel suo essere interprete dei genitori nei confronti dell’esterno può mettere a rischio il prestigio del capofamiglia capovolgendo i ruoli genitori/figlio e mettendo a nudo la fragilità e l’incompetenza della madre.16 Nel secondo caso invece, vi racconto l’esperienza di Ruslan, un bambino del Bangladesh di 5 anni, sempre della classe numero 9. Ruslan è nato in Italia, la sua mamma invece è qui da 10 anni, quando è arrivata dal Bangladesh, per ricongiungersi al marito, già in Italia da molti più anni, per motivi di lavoro. Dato che nella famiglia di Ruslan si parla anche italiano, quando lui è arrivato a scuola, aveva una buona padronanza della seconda lingua, in parte appresa attraverso la televisione che entra nella casa quotidianamente, e in parte dovuto ai contatti con i vicini di casa, soprattutto bambini italiani. 15 D. Demetrio, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Meltemi, Roma, 2001 Cfr D. Demetrio, G. Favaro, (a cura di), Bambini stranieri a scuola, Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La nuova Italia, 1997 16 La madre di Ruslan, nella sua scelta di bilinguismo per il figlio, si era orientata verso una distinzione degli spazi: la famiglia garantisce l’identità; la scuola trasmette apprendimento e strumenti. Una consapevole scelta di bilinguismo come promozione e arricchimento. Ruslan, una volta inserito, passati i primi tempi, capendo che la prima lingua non era stimata e valorizzata, e costretto contemporaneamente a imparare bene la seconda, che è la più apprezzata in quanto dominante, pur di essere accolto dal nuovo ambiente, (in questo caso la scuola), ha respinto definitivamente la lingua d’origine, dato che quel codice altrimenti lo avrebbe connotato come diverso ed estraneo al gruppo. Ricordo che un pomeriggio, all’uscita di scuola ho incontrato Masuda (la mamma di Ruslan) ed abbiamo iniziato a chiacchierare mentre lui giocava con gli altri bambini poco lontano. Ad un certo punto, essendosi fatto tardi, Masuda ha richiamato Ruslan, parlandogli in bangladesh, ma lui proprio non ascoltava. Allora io scherzando le ho detto che quasi tutti i bimbi quando giocano non sentono. Quindi Masuda rivolgendosi a me con lo sguardo serio e la voce impostata, mi ha detto che Ruslan non sente solo quando lei parla bangladesh, però solo in tutti i posti all’aperto, al parco, a scuola, per strada; mentre a casa no, a casa parla bangladesh. Io sono rimasta in silenzio, non sapevo cosa dire, quindi lei ha proseguito dicendo di essere coscente che Ruslan si vergognava, e che questa cosa la faceva stare un pò male. Dopo è stata alcuni istanti in silenzio con lo sguardo rivolto verso il figlio, e sempre guardando Ruslan mi ha detto che lei avrebbe continuato a parlargli bangladesh per mantenere i legami, l’appartenenza e le relazioni con la famiglia d’origine. Infine si è nuovamente voltata verso di me e sorridendomi mi ha detto: “Guarda adesso viene”! E poi rivolgendosi a lui in italiano gli ha detto di andare perché era tardi, a quel punto Ruslan ha salutato i suoi amici ed ha risposto: “Ok mamma arrivo”! Quindi Masuda sollevando le spalle mi ha detto: “ Vedi è sempre così”. Dopo ci siamo salutati e sono andati via. Il meccanismo che conduce i figli degli immigrati a “dimenticare” la lingua dei genitori è poco conosciuto e ancora scarsamente indagato. Nel primo caso, i bambini cinesi, appartenenti a famiglie rigidamente monolingue nella lingua d’origine, sembrano mantenere a lungo la distinzione tra i due sistemi e i due mondi linguistici e culturali e il possesso della lingua familiare resta intatto per generazioni. Quando un bambino, figlio di due genitori della stessa origine e lingua, prova delle difficoltà linguistiche, significa spesso che altri fattori entrano in gioco e rischiano di essere destabilizzanti dal punto di vista psicologico . I problemi che incontrano i bambini bilingui non sono dovuti al solo fatto che parlano due lingue. I disagi derivano dalle circostanze sociali e culturali complesse che formano la trama dell’ambiente in cui vive il bambino. Le condizioni materiali difficili, i problemi economici e di alloggio, la provvisorietà del soggiorno, la mancanza di contatti con gli autoctoni17. La famiglia può incoraggiare, da una parte, l’assimilazione linguistica e la riuscita scolastica dei figli, ma chiedere, dall’altra, la fedeltà e l’adesione ai riferimenti culturali d’origine, mandando massaggi contraddittori (come nel caso di Masuda, la mamma di Ruslan). Naturalmente anche il paese d’accoglienza e, in particolare la scuola, hanno una grande responsabilità in tutto questo. Il fatto che la scuola ignori l’esistenza della lingua materna, fa sì che i bambini la vivano come un elemento di cui vergognarsi, un tratto che va nascosto e abbandonato in fretta, perché è fonte di disagio o ostacolo all’inserimento. Per tutti questi motivi, nella scuola “C. Pisacane”, durante la fase di accoglienza, le maestre cercano di raccogliere informazioni sulla storia del bambino, sull’inserimento educativo e scolastico nel paese d’origine attraverso colloqui con i genitori e con il bambino. Cercano di ricostruire anche la biografia linguistica dell’alunno neo-arrivato per raccogliere informazioni sulla sua lingua d’origine, sulle pratiche comunicative nel quotidiano, sul mondo comunicativo del piccolo al di fuori della scuola. Inoltre nel percorso didattico sono previsti anche dei laboratori di facilitazione linguistica, cioè dello spazio e del tempo dedicati ai singoli bambini con più difficoltà. I problemi linguistici dei bambini stranieri sono al centro del discorso delle maestre, esse infatti li ritengono le cause principali delle difficoltà di adattamento. Sono difficoltà che possono essere superate più in fretta nella scuola materna, poiché i bambini sono esposti a una lingua più concreta legata al fare e all’esperienza. Ma non in tutti i casi è così. Adnin una bambina bangladesh di 4 anni della classe numero 3, ha costruito il silenzio attorno a sé come una frontiera invisibile tra i due territori, quello familiare, protettivo e rassicurante e quello esterno che le incute ancora timori e paura. In 17 Cfr D. Demetrio, G. Favaro, (a cura di), Bambini stranieri a scuola, Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La nuova Italia, 1997 bilico tra i due mondi che non hanno parole comuni, non sa come parlare. Così ha scelto di imitare sua madre, di tacere per essere fedele al suo mondo d’origine e al comportamento linguistico materno. La donna infatti, nonostante gli anni di soggiorno in Italia, è pressoché ancora “muta” in italiano e con questo suo silenzio esprime il disagio di vivere in un luogo che sente ostile. La mamma di Adnin infatti ha una storia davvero singolare. Mentre era ancora in Bangladesh, ha ricevuto una telefonata dall’Italia, da quello che poi sarebbe diventato suo marito. Lei lo aveva visto solo una volta. Quindi ha lasciato il suo paese, i suoi genitori, le sue sorelle, le sue certezze, ed è venuta in Italia, un paese sconosciuto, da un uomo che per lei era un perfetto estraneo. Dopo sei mesi era già incinta di Adnin, la sua prima gravidanza, senza l’aiuto di nessuno, neppure un’amica, senza nessun affetto e sostegno. Ora sono quasi sei anni che è in Italia, non parla, forse un pò la lingua la conosce pure, ma non ha voglia e motivazione a parlare. Non accetta questa sua condizione. Inoltre essendo di religione mussulmana, non può neppure frequentare un corso di italiano per adulti ai C.T.P., dato che le classi sono miste e per la sua religione non è consentito ad una donna andare a scuola insieme ad altri uomini. Io credo che Adnin avendo percepito lo stato di malessere della madre, riproponga gli stessi atteggiamenti. Comunque a scuola, attraverso lo spazio d’ascolto e i cerchi narrativi, siamo riusciti a coinvolgere la mamma di Adnin, all’inizio con grande difficoltà. Ha collaborato con noi nell’organizzazione e realizzazione della festa del Ramadan. Oggi nonostante abbia ancora grandi difficoltà con la lingua, spesso comunica come meglio può, a gesti, altre volte proprio non capisce. Si è aperta, semplicemente ha trovato qualcuno disposto ad ascoltarla, qualcuno che si è accorto del suo malessere, qualcuno disposto ad alleggerirle il peso che si porta dietro, semplicemente condividendolo. L’aiuto che la scuola sta offrendo alla sua mamma, Adnin, lo ha percepito, infatti ultimamente anche lei in classe è molto più tranquilla. Il bambino straniero, apprende la sua prima lingua come tutti i bambini monolingui, poi acquisisce la seconda, al fine di soddisfare il bisogno vitale di comunicare con gli altri. In particolar modo tra le prime espressioni italiane apprese di bambini che tentano fin dall’inizio di comunicare figurano quelle relative al soddisfacimento delle esigenze più fondamentali, quali il cibo e il bagno. Nel corso del tempo, il bambino passerà una parte sempre più rilevante della sua vita all’esterno della famiglia, nell’ambiente di immigrazione e a contatto con la seconda lingua. La lingua parlata a casa cederà progressivamente terreno alla nuova lingua, quella della scuola, della strada, della televisione. Il bambino immigrato vivrà situazioni ed esperienze “in italiano” e tenderà ad esprimerle solo in questa lingua. Il viaggio del bambino immigrato dentro la seconda lingua è un percorso pieno di ostacoli. In questo cammino di apprendimento, che disegna strade di riuscita ed inserimento, o viceversa, di difficoltà ed insuccesso, il bambino è spesso solo. E non può contare neppure sulla famiglia, per la quale la lingua è ugualmente sconosciuta. Affinché questo cammino non diventi un “trasloco” doloroso, al passaggio traumatico da un mondo di suoni familiari a uno di minaccianti rumori, bisogna partire dai saperi che il bambino porta con sé, valorizzando la sua lingua d’origine18. 18 Cfr D. Demetrio, G. Favaro, (a cura di), Bambini stranieri a scuola, Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, La nuova Italia, 1997