1 CORSO DI FORMAZIONE: “L`ETICA DEL PRENDERSI CURA” 1

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1 CORSO DI FORMAZIONE: “L`ETICA DEL PRENDERSI CURA” 1
CORSO DI FORMAZIONE: “L’ETICA DEL PRENDERSI CURA”
1° MODULO: Lo sguardo sull’altro
“Il volto senza fine”: la sofferenza della mente
Bosisio Parini (LC), 9 ottobre 2009
Relatore: Barbara PINCIARA, Psichiatra
In questo mio intervento mi preme non tanto fare una relazione più o meno dotta su quanto c’è in
materia di Etica in Psichiatria, ma fornire agli uditori, nella loro veste di addetti ai lavori, spunti
interessanti per una proficua discussione su temi molto attuali, che ci coinvolgono tutti come
operatori della Psichiatria, indipendentemente dal ruolo ricoperto, per poter intrattenere un sano
confronto su opinioni e posizioni personali.
L’etica è un tema, a cui ci si affaccia ora inderogabilmente, specchio di una società, i cui veloci
cambiamenti ad ampio raggio, ci portano ad avere un concetto molto elastico in materia. Sappiamo
che l’Etica cambia in virtù dei cambiamenti della società, in cui viviamo, basta vedere nelle recenti
diatribe politiche come i punti di vista siano spesso dettati da un opportunismo estremo, in difesa di
interessi personali, che di etico hanno ben poco.
Nelle nostre scuole e Università non si insegna l’Etica, la domanda che mi viene spontanea è:
l’Etica si può apprendere come informazione o è patrimonio dell’individuo e dell’Uomo e della sua
formazione personale nell’insieme di quelle significative relazioni umane, che lo rendono tale?
Nella pratica psichiatrica c’è molta ambiguità, da una parte la dimensione narcisistica del “lo faccio
già”, che compare sia nella formazione che nella qualità, nel senso sono etico di per me, nessuno mi
può insegnare nulla, nessuno mi deve controllare, vedi, ad esempio, le resistenze ad applicare le
Linee Guida.
Gli psichiatri ed i medici in generale o gli operatori si aspettano spesso un rispetto cieco ed
un’acquiescenza dovuta, come se nella loro posizione, di coloro che sanno, dovessero essere seguiti
acriticamente.
Questo fa parte dell’ubris psichiatrica e di un malsano rapporto con il paziente, in cui lo psichiatra o
l’operatore psichiatrico si sente il depositario della verità, della salute, della guarigione e a volte
onnipotentemente persino della vita del paziente.
Dall’altra parte la nuova Psichiatria ci richiama ad un corretto rapporto medico paziente, al
contratto stipulato, alla precisa individuazione dei bisogni, alla condivisione del piano terapeutico.
A proposito però, basti pensare che sul Piano di Trattamento Individuale è prevista la firma del
paziente a conferma della condivisione degli obbiettivi da raggiungere, delle strategie necessarie per
farlo e dei trattamenti messi in atto, ma di fatto la firma a suggello della condivisione non esiste
mai!
Allo stesso modo per quanto riguarda il consenso informato, spesso il paziente, in quanto alterato e
sospettoso, non viene messo a conoscenza di come si intende intervenire su di lui, con la
motivazione che non è in grado di comprendere e che comunque il consenso non lo concederebbe.
Lo stesso dicasi per il rapporto con la famiglia, in passato accusata e colpevolizzata del malessere
del paziente e non vista invece come un polo della sofferenza dell’insieme e quindi come una parte
importante a cui rivolgersi, il che chiarisce come nel tempo si siano costituite le Associazioni dei
famigliari, che a volte è vero cavalcano la rivendicazione patologica, ma spesso promuovono il
rispetto dei diritti e il bisogno di dar voce alla loro sofferenza con una richiesta legittima di
considerazione ed ascolto.
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Teniamo conto della situazione di dipendenza in cui il paziente, in condizione di malattia dovendo
affrontare le angosce di morte, si trova rispetto al medico in generale ed allo psichiatra in
particolare, situazione ancora più complessa, dal momento che per la psicopatologia il rapporto con
la realtà, la capacità di giudizio e la capacità relazionale sono spesso alterate.
Le Società di Psichiatria si sono poste il problema dell’Etica già dal 1977 con la Declaration of
Hawai in occasione del Congresso Mondiale di Psichiatria, denunciando gli abusi politici nei lager,
anche se gli Psichiatri Russi avevano fatto in modo che i termini fossero molto smorzati.
E’ però già dai tempi del giuramento di Ippocrate che la Medicina sente il bisogno di darsi delle
regole e dei codici di comportamento a protezione del paziente, vedi ad esempio il Codice
Deontologico per evitare abusi nella professione.
Pensiamo quanto in passato siano stati messi in atto trattamenti pericolosi e del tutto inutili, anzi
con esiti devastanti e definitivi come la psicochirurgia, i coma insulinici, la piretoterapia, gli EKS,
l’uso di neurolettici in modo indiscriminato, che hanno procurato ad esempio la discinesia tardiva,
sintomo irreversibile e fortemente invalidante.
Per quanto si riferisce all’EKS, indicato in rarissimi casi di Depressione Melanconica con resistenza
agli AD e grave rischio suicidario, è solo di qualche anno fa la circolare ministeriale che ne aveva
caldeggiato l’uso, suscitando un’ondata di indignazione nella Società di Psichiatria e in quasi tutti
gli Psichiatri, che ovviamente non vi ricorrono più da tempo.
O ancora, riferendosi al passato, ricordiamo come, in corso della chiusura dei manicomi, si sia
proceduto alla deistituzionalizzazione selvaggia, in nome dell’ideologia, dimettendo a forza
pazienti, che erano totalmente impreparati ad una vita più stimolante all’interno della società, dopo
anni di ritiro, situazione così grave che, in alcuni casi, li ha persino condotti al suicidio.
Un’altra fondamentale questione, che si pone, è lo scontro tra la libertà dello psichiatra di curare e
la libera scelta del paziente di essere curato e la differenza tra cura e custodia.
In passato, la così detta società civile si “difendeva” dalla follia e dal timore della contaminazione
dalla stessa, rinchiudendo gli alienati in manicomio, dove molta gente ha trascorso l’intera vita, si
pensi che l’Istituto FBF di Cernusco s/N era arrivato al punto di ospitare fino a 1500 pazienti, come
se fosse un piccolo paese, dove c’erano il sarto, il parrucchiere e da cui gli ospiti non uscivano mai
per varcare la soglia dei cancelli.
La Psichiatria, attraverso la istituzionalizzazione in manicomio, era il braccio operativo di questo
pensiero, bastava un certificato di qualunque medico per finire rinchiusi; è facile pensare quanti
abusi siano stati perpetrati, a volte anche per motivi economici nella gestione di grandi patrimoni.
Ora rimangono i problemi degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dove vengono ricoverati autori di
reati, riconosciuti totalmente incapaci di intendere e di volere, di cui l’unico, che è realmente dedito
alla cura oltre che alla custodia è situato a Castiglione delle Stiviere, mentre gli Istituti collocati nel
resto d’Italia sono invece rimasti al di fuori del processo di umanizzazione.
Pensate al riguardo come certe valutazioni siano del tutto relative se, in corso di dibattimento, le
perizie psichiatriche del CTU e del perito così detto di parte riescano a dipingere la stessa persona
come vittima predestinata o al contrario come un pericoloso delinquente, come capace di intendere
e di volere o, al contrario, totalmente incapace e quindi come lo spazio della discrezionalità sia
molto ampio.
Così, sempre per ricordare i mezzi coercitivi, un problema importante è quello della contenzione
fisica, considerato evento sentinella, da monitorare costantemente e dettato per la sorveglianza da
Linee Guida ed indicazioni istituzionali. Esiste sempre il rischio che di fronte al paziente aggressivo
vengano messi in atto dei contro agiti violenti, che oltrepassano la necessità del contenimento e
della protezione dell’infermo, dei codegenti e degli operatori stessi, ma agiscono e mettono in atto
l’aggressività dell’operatore.
Queste considerazioni valgono anche per il Trattamento Sanitario Obbligatorio e per
l’Accertamento Sanitario Obbligatorio, interventi previsti dalla legge, ma certamente traumatici per
il paziente, che si vede prelevato dalle Forze dell’ordine, anche se in concomitanza con gli operatori
del 118 e tradotto contro il suo volere in SPDC, ovvero in reparto di Psichiatria, spesso con
confusione rispetto ai ruoli tra le Forze dell’ordine e gli operatori. Il fatto che il fermo di polizia sia
stato abolito, talvolta mette in contrasto queste due categorie, che si attribuiscono vicendevolmente
la titolarità dell’intervento, per cui paradossalmente gli psichiatri sostengono che l’interessato è un
delinquente e pertanto non di loro competenza e gli agenti che è “matto” e dunque da internare,
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rubandosi competenze e mestiere. Resta il problema della corresponsabilità dello psichiatra e degli
operatori, che nelle ultime sentenze di fronte a reati gravi, compiuti da pazienti, sono stati
condannati per corresponsabilità, per non aver messo in atto interventi contenitivi, atti a prevenire il
possibile reato, fino ad arrivare alla condanna per omicidio colposo o per complicità in omicidio. In
questi casi il diritto alla riservatezza, quando il paziente comunica un’intenzionalità aggressiva, si
scontra con il diritto di difesa del possibile interessato e della società. Nella sentenza Tarasoff
emessa in USA, in cui molte situazioni ci precedono e fanno scuola, è stata evidenziata la questione
che il privilegio della protezione e delle riservatezza del paziente finisce dove incomincia il pericolo
pubblico.
La stessa confusione viene spesso perpetrata dai media, che attribuiscono etichette di follia ad
individui, che compiono reati, mentre verosimilmente sono dei volgari delinquenti violenti, come se
tutto ciò che non rientra nel concetto di norma, fosse necessariamente attribuibile a patologia
psichiatrica. Tanto più che nella Psichiatria moderna il concetto di norma e di guarigione, inteso
come uno stato ideale, ha lasciato posto ad un più verosimile concetto di benessere, che considera
come si deve la percezione ed il punto di vista dell’interessato, il rilevamento e la soddisfazione dei
suoi bisogni, sempre ovviamente nel rispetto della legge e delle regole del vivere civile. Inoltre, in
questo modo i media contribuiscono pesantemente alla stigmatizzazione del folle, identificato
inevitabilmente come pericoloso, anche se solo il 2 per mille dei reati viene compiuto da portatori di
patologia psichiatrica diagnosticata.
Ora che la Psichiatria pone la cura in un contesto sociale e famigliare, si deve affrontare, pertanto, la
questione del segreto professionale, quando ad esempio il paziente non vuole che vengano
comunicate notizie o si abbiano contatti con i famigliari, con cui è spesso in conflitto o con
operatori di agenzie del sociale, che sente non l’abbiano sostenuto in precedenza.
Ma nell’approccio di rete è a volte difficile prescindere dal contesto, sia come fonte di notizie
importanti sia per la messa in atto di ausilii necessari.
Quanto descritto finora pone questioni importanti di carattere etico e sociale, ma provate a pensare
anche più semplicemente, senza che ci siano implicazioni così estese, come anche nel rapporto
duale con il paziente, il terapeuta possa desiderare di ridurre al minimo i preconcetti personali, ma
non possa omettere ciò in cui crede, per cui l’incontro con il paziente implica inevitabilmente la
trasmissione di valori.
D'altronde la personalità del terapeuta, il suo particolare stile di porsi nella relazione è spesso un
tratto fondante dello stabilirsi dell’alleanza terapeutica e del successo del trattamento. Al riguardo
c’è anche da considerare come fioriscano scuole di psicoterapia non ufficiali e non sia
assolutamente del tutto chiaro come distinguere tra seri e preparati professionisti ed apprendisti
stregoni, il che purtroppo coincide con il bisogno specifico della condizione di psicosi di credere nel
pensiero magico e preferire pertanto l’approccio di ciarlatani ad un trattamento corretto, ma
complesso e a volte difficile.
Inoltre, bisogna sottolineare come l’ideologia ed il modello culturale di riferimento improntino
anche l’organizzazione e la filosofia dei servizi psichiatrici, condotti a volte in modo
diametralmente opposto tra spinta all’autonomia e paternalismo.
D'altronde l’Evidence Mental Health è ancora più difficile da oggettivare rispetto alle evidenze in
medicina, basti pensare ancora alle psicoterapie, dove, come abbiamo detto, la soggettività della
cura, lo stile professionale del terapeuta sono elementi inevitabili e come sia difficile individuare
degli indicatori di efficacia, anch’essi non dipendenti da una valutazione soggettiva, tenendo conto
che spesso in generale in Psichiatria l’utente scambia un buon rapporto medico paziente, gentilezza
e disponibilità con la competenza professionale e non necessariamente le due cose vanno di pari
passo.
Passando ad altro argomento si pone la questione del problema dell’innamoramento e della
sessualità tra terapeuta e paziente, che sarebbe di per sé argomento di trattazione, per la frequenza
con cui succede, vedi USA, e per le implicazioni morali che ne seguono.
Pensiamo semplicemente a come transfert e controtransfert, emozioni e sentimenti, siano in gioco in
una relazione terapeutica, che deve ripercorrere pregressi vissuti irrisolti e come in passato anche i
padri della psicoanalisi abbiano intrattenuto rapporti sessuali e sentimentali con pazienti. Molti
terapeuti del resto hanno sposato pazienti o allieve, che erano con loro in terapia.
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Paradossalmente siamo più attrezzati a gestire l’aggressività che non l’innamoramento e la
sessualità ad esempio tra gli ospiti delle comunità.
Ci dobbiamo porre il problema etico se favorire o meno un sentimento che di per sé è
assolutamente positivo, ma che in certe situazioni è connesso a relazioni perverse e di
prevaricazione. E’ opportuno che entrambi i terapeuti dei pazienti interessati si confrontino e
tutelino il più debole, affinché un evento, come si è detto positivo, non si trasformi in una
sofferenza patologica, ma resti nell’ambito della comune umanità.
A volte nel concetto di protezione lo psichiatra stila certificati di comodo, che dipingono il paziente
come incapace se servono a fargli ottenere dei riconoscimenti di invalidità o capace se deve ottenere
il rinnovo della patente e questo ci starebbe, tenendo conto che certe disabilità spesso non inficiano
l’attenzione del paziente, ma il problema vero è che vengono redatte diagnosi incompatibili per lo
stesso paziente.
Quante volte ancora veniamo a conoscenza di abusi, a cui il paziente è sottoposto e qualora non sia
in grado di difendersi, cerchiamo sì di allontanarlo, di trovare soluzioni idonee per proteggerlo, ben
sapendo quali aspetti di dipendenza con il famigliare maltrattante si possano configurare, ma siamo
in difficoltà a prendere provvedimenti, che ci espongano direttamente. E’ importante quindi istituire
un tavolo di confronto istituzionale con i rappresentanti dei servizi, delle Forze dell’ordine, della
Procura o con la presenza del Giudice Tutelare per individuare strategie comuni e condivise di
protezione.
Consideriamo ora gli aspetti etici del trattamento farmacologico, gli effetti collaterali a lungo
termine e sconosciuti, che negli anni hanno prodotto ad esempio dipendenza come l’uso incongruo
di Benzodiazepine, oppure l’insorgere della Sindrome Maligna da Neurolettici o come già
accennato della Discinesia Tardiva e se è pur vero che in letteratura l’uso continuato di antipsicotici
viene segnalato come modalità corretta per evitare ricadute nella Schizofrenia, bisogna tener conto
dei possibili effetti collaterali per il paziente, a volte molto invalidanti e del timore di dipendere per
tutta la vita da una sostanza psicoattiva equiparata alla droga, come viene vissuto nell’immaginario
collettivo l’uso di psicofarmaci.
Ancora va valutata l’annosa questione della somministrazione di Ritalin nei minori, portatori di
Deficit dell’Attenzione e della Condotta o la sedazione eccessiva negli anziani, perpetrata in alcune
case di riposo al fine di ridurre il personale dedicato all’assistenza.
Infine, vorrei soffermarmi sul suicidio del paziente e sui vissuti che l’accompagnano. Chiunque di
noi, pur non essendo affetto da chiara patologia mentale, può aver pensato una volta nella vita al
suicidio come estremo atto di libertà, come possibilità di decidere autonomamente di uscire da una
vita diventata intollerabile. Qui il dilemma si pone tra una scelta libera ed autonoma sottesa ad una
particolare filosofia di vita o una scelta inderogabile, legata a vissuti di rovina e morte, prodotti da
una Depressione Maggiore, in certe fasi della vita degli Schizofrenici, tormentati da voci ingiuntive
o ancora in gravi forme di Anoressia Mentale, dove la sfida con la morte è pressoché quotidiana.
La discriminante nella valutazione è molto difficile, se intervenire con un ricovero oppure no, ma
mentre è più condivisa l’idea dell’intervento quando esistono conclamati sintomi produttivi quali
deliri od allucinazioni, è più difficile prendere posizione rispetto a certe forme di Anoressia, quelle
definite dalla Palazzoli Selvini come sottese da Paranoia Intrapsichica, dove però il nucleo delirante
di onnipotenza sembra connesso unicamente allo specifico problema del cibo, mentre il resto della
personalità si rivela essere più aderente alla realtà, non intaccato da deficit di critica e di giudizio.
Per concludere, possiamo dire che un sistema sanitario può definirsi accettabile, dal punto di vista
etico, se crea un giusto equilibrio tra le necessità dell’individuo e quelle della società nel rispetto dei
reciproci bisogni.
All’interno dell’équipe psichiatrica l’Etica prevede un corretto rapporto tra operatori nella pari
dignità delle funzioni.
Quello che mi sembra più opportuno evidenziare aldilà dell’integrazione, che è la strategia vincente
per poter curare i pazienti gravi, sia schizofrenici, scissi per definizione, o che mettano in atto
meccanismi di negazione e scissionali, tipici dei portatori di gravi Disturbi di Personalità, descritti
nel Cluster A del DSM IV, è la necessità di promuovere la credenza e l’alleanza terapeutica. Il
termine credenza si rifà al mobile che veniva usato nel Medio Evo, per esporre i piatti preparati per
il pranzo del principe dopo che gli scalchi, servitori adibiti allo scopo, li avevano assaggiati, dando
la prova della credenza, cioè il rischio della propria vita a riprova che non fossero avvelenati. Così
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alla vista di tutti non sarebbe più stato possibile un’ulteriore contaminazione. Allo stesso modo,
l’operatore psichiatrico, novello scalco, deve dare al paziente la prova della credenza, cioè la fiducia
di base, per poter stabilire l’alleanza terapeutica.
Inoltre, il paziente deve poter sperimentare la residenza emotiva di Zapparoliana memoria, in una
relazione di rispetto con gli operatori.
Credo, ma questa è un’opinione personale, che un clima etico si stabilisca appunto nel rispetto tra
operatori e tra essi ed il paziente della libertà di pensiero, nell’accoglimento dell’altro con la sua
diversità, come dice sempre Zapparoli, nella relazione con un individuo, che ha semplicemente
un’altra filosofia di vita, perché possa sperimentare delle esperienze emotive correttive rispetto a
quelle vissute nell’infanzia e racchiuse nella sua fantasia.
Ma la domanda ritorna: l’Etica si può imparare? O fa parte della costituzione e della vita di
relazione di ciascuno di noi, di certo in questa bellissima, ma difficilissima professione il problema
è “essere” e, a mio parere, non è possibile essere un buon operatore se non si è nel contempo una
bella persona.
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Zapparoli G.C. e .T.a cura di L a realtà psicotica, Bollati Boringhieri, Torino 1994
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