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Indice
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È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-188-3
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica e impaginazione
Costanzo Marciano
Trascrizioni
Annalisa Lodato
Le immagini delle opere sono state fornite dagli intervistati.
Le fotografie dei ritratti sono di Massimo Lama.
La foto a p. 6 è di Rejana Lucci.
in copertina
Corviale, Roma, 1972-1982
(foto di Massimo Lama)
Introduzione
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Alberto Gatti
Pietro Barucci
Lucio Passarelli
Enrico Mandolesi
Carlo Melograni
Luisa Anversa
Carlo Aymonino
Marcello Vittorini
Manfredi Nicoletti
Paolo Portoghesi
Paolo Marconi
Alessandro Anselmi
Piero Sartogo
Tommaso Valle
Franco Purini
Giuseppe Rebecchini
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Bibliografia
Indice dei nomi
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Introduzione
Questo libro è composto da sedici storie raccontate da sedici architetti romani nati tra il 1920 e il
1940. Le sedici storie, lette trasversalmente, compongono un altro racconto: la vicenda di una
generazione di progettisti che ha mantenuto una particolare omogeneità.
Le differenze formali o teoriche col passare degli anni tendono a sbiadirsi e a perdere senso, e le
distanze culturali vengono lentamente dimenticate. Il tempo semplifica. A Roma, più che altrove,
gli architetti “romani” del Novecento possono forse essere accomunati da fattori comuni come la
formazione universitaria, l’influenza dei maestri locali, il contesto culturale giovanile, le collaborazioni lavorative dei primi anni, i dibattiti cittadini.
Partendo da questa idea si è inteso dare voce a una generazione che potrebbe essere etichettata con
un nome: “Architetti di Cemento”. Architetti che hanno memoria del fascismo e della Seconda
guerra mondiale e che, da studenti di architettura o da giovani professionisti, hanno assistito alla
ricostruzione, al boom economico e alla speculazione edilizia degli anni Sessanta e Settanta. Sono
diventati architetti proprio nel momento in cui veniva meno la sicurezza nel razionalismo e quando il Movimento Moderno cominciava a mostrare tutte le sue fragilità. Si sono trovati a operare
professionalmente in un mondo pieno di opportunità ma senza una strada chiara da percorrere:
tra tutte le generazioni di architetti è quella più eterogenea, quella che ha individuato il proprio
cammino stilistico con difficoltà, muovendosi dall’high-tech al post modern, dal regionalismo al
neo-razionalismo, dai prefabbricati al brutalismo, dall’organicismo all’ecologismo, senza mai aderire univocamente a una linea esclusiva e spesso mutando anche radicalmente, lungo il corso di
una carriera, il proprio modo di fare architettura.
Gli “Architetti di Cemento”, contenuti e frenati dalla generazione precedente (gli Architetti d’Oro, i primi architetti moderni romani, Ridolfi, Moretti, Quaroni, Perugini, Fiorentino…), hanno
acquisito visibilità tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta (costruendo in alcuni casi tanto, in altri
casi poco ma con grande risonanza), influendo non poco sulla cultura architettonica del tempo
(solo in alcuni casi sulla forma della città). Già negli anni Novanta sono stati sorpresi dalla caduta
del muro di Berlino e dalla rivoluzione architettonica dei materiali (l’acciaio, il vetro, il legno, la
plastica) e dei mezzi (il computer, internet, i render, le animazioni).
Sono “Architetti di Cemento” perché il cemento - il cemento utilizzato anche come linguaggio,
come tecnica, come scuola, come riferimento, come superficie, come modellatore di forme - oltre
a caratterizzare in profondità il loro lavoro e il loro codice, li identifica come un marchio: sono
coloro che hanno operato (con o senza cemento) nel momento in cui il cemento pervadeva la città
(e diventando il simbolo di tutti i mali). Questo libro è dedicato a loro e alle loro storie.
Ma è dedicato anche alla città dove essi hanno vissuto e lavorato.
Il Novecento è stato un secolo difficile per l’architettura e per l’urbanistica a Roma: la guerra, l’esplosione demografica, la speculazione edilizia, il conservatorismo, i vincoli, il pessimismo, la
mancanza di cultura, l’assenza di iniziative, lo spreco del denaro pubblico hanno procurato danni
Adalberto Libera, Palazzo dei Congressi,
Roma, EUR, 1938-1942
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al sistema urbano romano. In un periodo così confuso, però, c’è chi ha cercato di far emergere una
nuova immagine, un’altra Roma, quella dell’architettura e delle idee.
Attraverso le sedici conversazioni che compongono questo volume si è tentato, quindi, di ricostruire la storia degli uomini, degli architetti, ma anche quella della città dove essi hanno operato,
cercando di capire chi sono stati i loro veri maestri, se è esistita una scuola romana, come si è sviluppata la città e perché, e soprattutto quale sarà il futuro dell’architettura e di Roma.
Roma nei loro ricordi ci appare bellissima come doveva essere negli anni Cinquanta, in un lento
declino dagli anni Ottanta fino a oggi: una città trasformata dal cemento non solo nella sua immagine esteriore, ma anche dentro, nel suo popolo e nel modo di ragionare della sua gente.
La scelta dei sedici architetti da intervistare per realizzare questo libro è avvenuta attraverso criteri arbitrari e soggettivi (e con molte deroghe).
Il primo criterio è stato quello di prendere in considerazione solo i progettisti, nati dal 1920 al
1940, che si sono distinti nel corso della propria vita professionale nella trasformazione del territorio. Si è tentato quindi di intervistare gli architetti romani (architetti che vivono e lavorano a
Roma, non necessariamente nati a Roma) più famosi e più rappresentativi del XX secolo, dando
spazio soprattutto a coloro che lasciano alle spalle un edificio significativo o un seguito di allievi.
È stato chiesto a cinque storici, critici e architetti (romani e non) di segnalare almeno venti nomi
di progettisti. È stato chiarito loro che la scelta non doveva essere influenzata dalla “qualità” del
lavoro svolto dai singoli (che è un criterio troppo soggettivo, soprattutto per l’architettura recente) ma dalla “quantità” di lavoro portato avanti, quindi dal numero di opere realizzate o dalla capacità di influenzare la produzione architettonica generale.
Le cinque liste ottenute (redatte da Pasquale Belfiore, Renato Nicolini, Luigi Prestinenza Puglisi,
Massimo Pica Ciamarra, Franco Purini), unite in un unico elenco, comprendevano in totale circa 50 nomi diversi. Sono stati scelti solo i nomi presenti contemporaneamente almeno in due delle cinque liste. L’indice definitivo è stato poi illustrato a tre storici - Giorgio Ciucci, Renato De
Fusco, Cesare de Seta - che hanno espresso la loro opinione dando utili suggerimenti senza però
entrare nel merito delle scelte effettuate.
Alla fine di un lungo lavoro di selezione sono stati scelti 16 architetti (o ingegneri): Alberto Gatti (1921), Pietro Barucci (1922), Lucio Passarelli (1922), Enrico Mandolesi (1924), Carlo Melograni (1924), Luisa Anversa (1926), Carlo Aymonino (1926), Marcello Vittorini (1927), Manfredi Nicoletti (1930), Paolo Portoghesi (1931), Paolo Marconi (1933), Alessandro Anselmi
(1934), Piero Sartogo (1934), Tommaso Valle (1934), Franco Purini (1941), Giuseppe Rebecchini (1941).
Nell’elenco finale comparivano anche i nomi di due progettisti: Eduardo Vittoria (1923-2009) e
Gaspare De Fiore (1926). Tra tutti gli architetti contattati De Fiore è stato l’unico che ha gentilmente rifiutato l’invito a donare la sua testimonianza per questo volume. Eduardo Vittoria invece si è dimostrato molto felice di partecipare al racconto collettivo propostogli telefonicamente.
Purtroppo, il peggiorare delle sue condizioni di salute durante i mesi in cui materialmente sono
state effettuate le interviste, non ha permesso che avvenisse l’incontro definitivo.
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L’idea di partenza era quella di scegliere architetti o ingegneri che avessero influenzato, soprattutto con opere costruite e con idee, la trasformazione materiale e/o culturale di Roma, magari contribuendo alla formazione di una “scuola” romana. Durante il corso del lavoro di preparazione è
emerso che non sempre un architetto, anche se famoso, ha avuto la possibilità di costruire nella
propria città (soprattutto in una città grande e complessa come Roma): la maggior parte dei progettisti selezionati - che restano i più importanti e i più famosi architetti romani - hanno costruito poco o pochissimo a Roma.
Un altro criterio è stato quello di prendere in esame solo gli architetti romani impegnati in questioni di natura progettuale, escludendo quindi gli storici dell’architettura, i tecnologi e coloro
che si sono avvicinati alla materia in modo diverso dalla progettazione. Sono stati quindi esclusi
gli urbanisti (fatta eccezione per Marcello Vittorini che ha realizzato anche molte costruzioni di
notevoli dimensioni), i designer, i grafici e i restauratori (fatta eccezione per Paolo Marconi che,
secondo il giudizio di molti, è un restauratore con una solida “ossatura” da architetto).
All’interno del gruppo scelto sono evidenti altre eccezioni. La più palese è costituita dalla presenza di tre ingegneri. Le esperienze professionali di Passarelli, Mandolesi e Vittorini - così attente
all’architettura e spesso arricchite da collaborazioni importanti - sono state ritenute perfettamente compatibili e confrontabili con quelle dei colleghi architetti.
Si tratta di un gruppo eterogeneo anche per la differenza di età tra i più anziani e i più giovani:
potrebbero essere distinti almeno due grandi insiemi composti da progettisti che hanno avuto frequentazioni universitarie ed esperienze lavorative molto simili, e che hanno svolto incarichi spesso
in collaborazione tra loro (anche se gli esempi di cooperazione trans-generazionale sono tanti).
Purini e Rebecchini, entrambi nati nel 1941, non avrebbero dovuto far parte del libro non rientrando nei confini cronologici stabiliti.
Tuttavia, le loro esperienze architettoniche sono apparse, al curatore, molto annodate a quelle del
gruppo degli Architetti di Cemento. Al contrario, a malincuore, non sono stati inseriti in questo
volume architetti importanti, bravi, famosi (come ad esempio Renato Nicolini, Francesco Cellini
e Massimiliano Fuksas) che, nati tra il 1942 e il 1944, si allontanano troppo dalla generazione
degli Architetti di Cemento non solo cronologicamente, anche per modalità operativa, obiettivi,
suggestioni.
Luisa Anversa è l’unica donna del volume, la sua presenza solitaria conferma quanto già si sapeva
in merito al ruolo marginale che le “architette” hanno svolto in questo campo, almeno fino agli
anni Sessanta, anche a Roma.
Piacentini, Ridolfi, Foschini, Fasolo, Perugini, Muratori, Zevi, Quaroni sono, secondo il racconto collettivo degli Architetti di Cemento i principali riferimenti culturali, anche se il rapporto con
i maestri risulta sempre critico, difficile, incompreso.
Anche tra loro (tenendo conto di tutto ciò che è stato tagliato dai testi finali) gli Architetti di
Cemento appaiono uniti o separati da antiche amicizie e antichi malintesi, imperdonabili distacchi e incomprensibili risentimenti.
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Essi si dividono tra coloro che si sono posti sul solco dell’insegnamento dei maestri (Ridolfi, Quaroni) superando il funzionalismo ma sempre in continuità con esso; coloro che invece si sono
posizionati trasversalmente a quel solco e a quei mastri (alcuni tra loro hanno scelto come riferimento non a caso Muratori); infine coloro che hanno viaggiato su un solco parallelo, alternativo
e non lineare, che si identificano in Zevi.
Gli architetti sono raccolti nel volume in ordine cronologico, partendo da chi è nato prima.
Per ogni intervista è annotato il giorno e il luogo dove si è svolto il primo incontro registrato.
Per rendere più agile la lettura delle interviste, e per evitare inutili ripetizioni, sono state eliminate le domande nel testo finale pubblicato in questo volume.
Al monologo dell’architetto è stata aggiunta una colonna che contiene una raccolta di parole chiave, utili per chi volesse selezionare gli argomenti e fare una lettura trasversale del testo.
A ciascun architetto è stato fatto lo stesso protocollo di venti domande ripetute più o meno nello stesso ordine:
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Dov’è nato, quando, che origine ha la sua famiglia?
Che studi ha fatto prima dell’Università?
Perché ha scelto di iscriversi alla Facoltà di Architettura?
I suoi maestri all’interno della Facoltà e fuori?
I suoi colleghi all’interno della Facoltà e fuori?
Ricorda un episodio della sua formazione universitaria?
Con che voto si è laureato e che tipo di tesi ha elaborato?
L’Università di allora era molto diversa da quella di oggi?
La città, quando ha cominciato a svolgere la professione?
I principali professionisti agli inizi della sua professione?
Chi ha sostenuto la sua attività?
Il suo primo lavoro importante, perché lo ricorda?
I colleghi che stima (o ha stimato) maggiormente?
I suoi principali riferimenti culturali?
Come è cambiata Roma in questi anni?
Come definirebbe l’attuale fase dell’architettura?
La sua opera più recente?
Cosa diventerà l’architettura?
Cosa sta diventando questa città?
Cosa vorrebbe che accadesse all’architettura e a questa città?
Tutti gli architetti hanno chiesto di poter rileggere (ed eventualmente correggere) la propria intervista, fatta eccezione per Mandolesi e Vittorini.
Aymonino non ha apportato alcuna modifica al testo che gli è stato inviato, per questo motivo la
sua intervista risulta particolarmente immediata e autentica.
Analogo discorso vale per Nicoletti, Purini e Portoghesi che hanno cambiato il testo ricevuto solo
con piccoli interventi che non hanno modificato la struttura generale del racconto.
La maggior parte degli intervistati ha preferito riscrivere completamente il testo sulla base della trascrizione che gli era stata inviata. In questi casi sono andati perduti giudizi su colleghi (non sempre positivi ma sempre molto illuminanti sul contesto analizzato), ricordi, esperienze dirette (ritenute probabilmente troppo intime) e considerazioni personali (spesso molto interessanti anche se
politicamente scorrette). Nel complesso il libro ne ha risentito per immediatezza e spontaneità
(così come prefissato nel progetto iniziale), ma ha acquisito maggior omogeneità generale.
In ogni caso, il criterio di pubblicare soprattutto interviste “approvate” dagli intervistati è stato
ritenuto indispensabile per portare a termine, senza troppe difficoltà, un lavoro già molto complesso (basta pensare che i testi rivisti e corretti dagli architetti, in alcuni casi sono ritornati al mittente solo dopo quattro, sei, otto mesi, e dopo un imbarazzante numero di telefonate di sollecito).
In alcuni casi la conversazione è durata circa un’ora, altre volte si è prolungata per quasi tre ore o
si è ripetuta nel tempo. Gli incontri sono stati registrati su supporto digitale.
Tutte le fotografie pubblicate sono state scattate durante le interviste agli architetti, tranne quella a Tommaso Valle (che ha espresso il desiderio di sostituire l’immagine scattata per questo volume, davvero cattiva, con un’altra migliore estratta dal suo archivio).
Gli incontri sono avvenuti durante la primavera/estate 2009. Il 16 marzo sono stati intervistati a
Roma Barucci, Aymonino e Anselmi. Sempre a Roma, il 1 aprile, Nicoletti, Passarelli e Valle; il 29
aprile, Sartogo, Rebecchini, Mandolesi; il 18 maggio Marconi, Anversa, Vittorini; il 10 giugno Purini e Gatti. A Calcata, il 7 luglio, Portoghesi. A Capri, il 7 settembre, Melograni.
Questo libro, anche se è realizzato con le parole dei “vecchi”, è stato scritto pensando ai “giovani”.
Soprattutto ai giovani che (come l’autore, quando era giovane) non sono riusciti a trovare le proprie radici tra i maestri incontrati nell’Università, o fuori. È stato scritto nella convinzione che il
passato - con il suo carico di vita, di passione, di idee, di emozioni, di parole - possa diventare un
grande maestro, un maestro ritrovato.
Napoli, giugno 2010
La trascrizione delle risposte è avvenuta rispettando anche le singole parole o le singole espressioni utilizzate, anche quelle più forti, correggendo la forma generale del discorso ed eliminando le
ripetizioni. In alcuni casi, nel tentativo di ricostruire una successione cronologica, le risposte sono
state trascritte secondo un altro ordine.
In molti casi sono state omesse parole, intere frasi o lunghe dissertazioni.
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Alberto Gatti
Via dei Casali Santovetti, Roma
Mercoledì, 10 giugno 2009 - ore 16.30/17.30
Arrivo in ritardo. La casa di Alberto Gatti si trova vicino via Aurelia, in un
complesso immerso nel verde progettato dall’architetto trenta anni prima.
Ogni villa è circondata da un prato verde molto curato. Mi accoglie un
domestico, mi offre un caffé mentre l’architetto scende dal piano di sopra.
Gatti mi propone subito di dargli del tu, “…tanto siamo colleghi!”.
Mi parla della moglie, Ambra Gatti De Sanctis, scomparsa solo da sei mesi.
Percepisco il dolore che prova nel ricordare la sua perdita, dopo 61 anni di
convivenza. Sulla scrivania di fronte a noi c’è un grande computer che gli ha
regalato sua figlia per le ore di solitudine. Il computer è spento.
Sono costretto ad affrettare la conclusione dell’intervista per paura di perdere il
treno. Ho la sensazione che a Gatti avrebbe fatto piacere conversare ancora.
Sono nato a Roma il 25 luglio 1921. La mia famiglia è di origini piemontesi,
discese a Roma all’epoca della fondazione del Regno d’Italia. Mio padre era un
politico prefascista, è stato deputato, senatore, consigliere di Stato, era un personaggio famoso. Si chiamava Salvatore Gatti, nome che adesso appartiene ad
alcuni nipoti.
Mio padre e mia madre mi hanno insegnato un certo modo di vivere, improntato al rispetto degli altri, della legge, delle istituzioni; molto diverso, quindi,
da quello di oggi, sul piano umano e sul piano politico e per questo sono attaccato alle memorie di famiglia.
Non ho studiato sempre a Roma, sono stato fuori per molti anni, in particolare ad Anagni, una cittadina medievale dove si svolgeva, allora, la stessa vita dei
tempi di Bonifacio VIII la cui presenza vi ha lasciato prerogative e usanze. La
mia formazione risente molto del fatto di avere passato l’infanzia in quei luoghi e anche la mia maturazione culturale è stata influenzata da quella realtà;
nella mia attività di docente universitario ho seguito alcuni criteri, come quello di considerare la città come una unità complessiva, fatta di parti omogenee,
che si corrispondono perché ospitano gente, che deve essere considerata socialmente uguale. Il mio modello, non so se ne fossi consapevole, era la città di
Anagni e le tante altre simili nel Lazio meridionale, la Ciociaria. Ma proprio su
questi temi ho avuto infine una crisi molto profonda: da docente di urbanistica a un certo punto, direi verso la fine della mia carriera, mi sono reso conto che
l’urbanistica in Italia, non esisteva più: la prevalenza dell’interesse privato speculativo ha spento qualsiasi aspirazione al “disegno della città” e alla sua indispensabile integralità; avevano vinto loro, i “palazzinari” e i tanti altri aggressori del territorio. Ad Anagni stavo da una vecchia nonna molto religiosa, con la
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Salvatore Gatti
Rispetto
Anagni
Modello
Urbanistica
in Italia
quale sono stato a lungo da ragazzo; forse, ripensandoci oggi, proprio quel
periodo della vita, nella grande casa vuota e buia, non è stato molto confortevole; sono stato con lei molti anni, la famiglia non considerava ammissibile che
lei, rimasta vedova, fosse costretta a vivere da sola quindi fu deciso che io sarei
Inconcepibile rimasto con lei a farle compagnia; oggi ciò sarebbe inconcepibile. Insomma
sono stato, in qualche misura, costretto.
Solo più tardi ho amato quel paese, perché era bellissimo, prima che cominciasse, con il dopoguerra, l’ondata dell’edilizia dilagante, assolutamente priva di
riferimenti a un qualche contesto, con il quale avrebbe dovuto integrarsi. Era,
prima, una cittadina fatta di case tutte uguali, ma anche tutte diverse: il gioco
L’uguale e il complesso tra l’uguale e il diverso, mi ha sempre interessato nella progettaziodiverso ne architettonica e urbanistica. E poi, naturalmente, c’erano i palazzi della aristocrazia, tutti di grande pregio. Era un aggregato urbano non circondato, ma
sostenuto dalle mura ciclopiche, mura che la rendevano dominante sulla Valle
de Sacco, con un affaccio quindi su di una sconfinata pianura, bellissima. Certo, mi dispiaceva di non vivere a Roma. Sono rimasto in quella casa fino al
quinto ginnasio, per ben sette anni. Fuori dalla mia famiglia, proprio nel delicato periodo della formazione, ciò ha molto influito sulla mia personalità.
Liceo Tasso
Guerra
Renitenti
Rastrellamento
Poi sono finalmente tornato a Roma dove ho preso la licenza ginnasiale al Collegio Nazareno e quindi sono passato al Liceo Tasso, allora uno dei migliori di
Roma. Poi mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura: l’architettura mi aveva
e mi ha sempre stimolato e coinvolto, anche da ragazzo, forse proprio perché
nel luogo ove avevo vissuto e nei pressi, c’era una importante presenza di architettura: cattedrali meravigliose e complesse, palazzi antichi splendidi, sistemi
urbani rimasti intatti e omogenei, molto suggestivi.
Mi sono iscritto nel 1940; la Seconda guerra mondiale era iniziata per noi allora, il 10 giugno. Quindi entrai in Facoltà in piena atmosfera di guerra ed è da
ricordare che l’Università chiuse i battenti nel 1943, dall’ottobre al giugno successivo. Può essere interessante ricordare della nostra vita di allora, all’epoca
della guerra: molti studenti vivevano fuori di Roma anche se un gruppo cospicuo di giovani risiedeva nella città, ma molti di questi erano imboscati, quindi
scomparsi. Allora, uno studente come me, poteva essere arrestato per la strada
all’improvviso, infatti io ero in breve licenza dell’Accademia Navale di Livorno
e quindi fui, come tutti i miei coetanei, richiamato alle armi e di conseguenza
appartenevo alla categoria dei renitenti. Andavo lo stesso in giro dovunque, ma
mi guardavo intorno accortamente; anche al cinema, quando ci andavo, stavo
molto attento. Un giorno, ad esempio, mi trovai al centro di una retata: via
Nazionale fu chiusa ai due estremi e i soldati tedeschi cominciarono ad avanzare per compiere il “rastrellamento”. Arrestavano le persone, le selezionavano,
qualcuno veniva mandato a via Tasso e qualcun altro era avviato ai centri di raccolta per il nord e poi da lì, in Germania. Quel giorno io riuscii a scappare facil-
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mente, attraverso una strada laterale, tra le tante. In quegli anni ho fatto uno
strano servizio militare perché, avendo un fratello sul fronte russo, mio padre
decise di tenermi fuori. Così ebbi l’opportunità di farmi una cultura, nel senso
che partecipai a una serie di concorsi in successione per essere ammesso in varie
accademie militari, le prove duravano tempi lunghi e così io fui tenuto lontano
dalla guerra combattuta. In ogni caso, passando da un’accademia all’altra, ho
raggiunto una cultura militare di non scarso rilievo, ma di scarsa utilità. Poi
però sono giunto alla fine e mi sono trovato in qualche difficoltà, perché il mio
documento militare era una licenza dell’Accademia Navale così come mio fratello aveva una licenza della sua Caserma di ufficiale degli Autieri. Entrambe le
licenze scadevano nel corso del 1943. Ma in quel momento, dopo l’8 settembre, presi con mio fratello, per avventura reduce dalla Russia, una decisione
radicale, nel senso che ce ne andammo, diciamo così “in montagna”. Da queste In montagna
parti non ci sono vere montagne, ma sui Colli Albani c’era comunque la possibilità di sottrarsi al regime e ai tedeschi, per quanto in quegli stessi luoghi, si
era accampato il comando supremo tedesco del generale Kesserling, ciò nonostante ci siamo nascosti in un convento di maroniti libanesi, dove ci siamo trat- Convento
tenuti per un certo tempo.
Quel periodo ha anche sicuramente rafforzato la mia nascente posizione politica, diversa. Poi si è sfasciato tutto: non ho mai più ritrovato al Distretto, il
mio documento militare, non so cosa sia successo. Proprio per questo motivo
ho avuto difficoltà dopo, durante la carriera universitaria, perché ogni anno,
tra gli altri, era richiesto il certificato militare, quando ero professore incaricato, mentre avevo un iniziale congedo dall’esercito e andavo avanti con questo
documento, che non valeva più nulla e se qualcuno mi avesse chiesto la licenza, mi sarei trovato in grave imbarazzo.
Immediatamente dopo la guerra ho svolto attività politica e poi sono stato
anche candidato, senza grandi aspirazioni, debbo dire, perché allora altre erano le mie prospettive e ho militato, con grande interesse, nel Partito Socialista. Partito
Mi piaceva, mi corrispondeva. Ero nella sinistra del partito e mi hanno candi- Socialista
dato perché, bontà loro, rappresentavo la cultura, la scienza, ero un intellettuale, modestamente. Nelle elezioni locali, il fatto di avere un urbanista, abbastanza noto, faceva premio rispetto ad altre figure. Certo sarebbe stato meglio avere degli operai nella lista socialista, invece, se ce n’era qualcuno, era inserito solo
perché dirigente del sindacato. Comunque, pur non eletto, ebbi un buon successo e mi divertii molto, specie nei comizi.
La presenza della politica nella mia attività è stata molto determinante, ma per
i suoi contenuti, non già perché ne derivasse il minimo interesse professionale,
come per quasi tutti gli altri candidati.
Quando ho cominciato la mia attività di architetto, proprio all’inizio, ho avuto l’incarico di costruire un edificio molto speciale: la sede dell’Istituto Nazio-
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nale delle Assicurazioni, a Cassino. La città di Cassino, dopo i bombardamen- Cassino
ti, che l’avevano completamente rasa al suolo, si presentava con un’altezza delle case di non oltre i 50 cm. Per questo, quando cominciò ad apparire, nel vuoto della piazza principale, l’edificio da me progettato, che era molto moderno e
particolare, si generò un grande scalpore e i politici vollero cavalcare l’iniziativa, perché essa dimostrava la volontà e l’impegno dei partiti alla Ricostruzione.
In quel periodo ho incontrato molti dei personaggi dell’epoca a cominciare da
Giulio Andreotti. Debbo dire che il ruolo dell’architetto era molto diverso, era Andreotti
molto elevato. Noi eravamo considerati alla stessa stregua, che dire, di un politico, di un attore, di un imprenditore importante, comunque di un personaggio. Le cose sono molto cambiate in seguito. Adesso un architetto in Italia non
conta nulla, salvo, ma neanche tanto, se frequenta la TV; incontro molti giovani, e non più tali, miei ex studenti, i quali si trovano in una situazione, direi,
disperata; se c’è da fare architettura è di moda chiamare l’architetto straniero;
che peraltro è e resta del tutto estraneo rispetto alla complessità delle situazioni e produce spesso dei guasti. La mia generazione ha lavorato in maniera molto diversa dalle successive, anche grazie alla molteplicità delle iniziative, al Piano Fanfani, che ha coinvolto tutti e che ci ha permesso di costruire molto, con
un ritmo costante, facendo case per lavoratori, ciò anche attraverso concorsi e
comunque sempre a livello progettuale molto elevato. Io e mia moglie, separatamente, riuscimmo a vincere, molto bene, il concorso INA-Casa e risultammo INA-Casa
inseriti nel gruppo dei venti migliori progettisti e i nostri disegni rimasero
esposti alla Mostra Permanente di via L. Bissolati. Molti sindaci e presidenti,
che andavano in quella sala a scegliere gli architetti per costruire le case per i
lavoratori, nei loro Paesi o per i loro Enti, nelle diverse parti della Penisola, ci
scelsero e quindi ricevemmo “deferenti” lettere d’incarico. Da quei giorni del
1950 lavorammo moltissimo e ovunque nel Paese.
1970. Albergo Taormina,
A. Gatti, A. De Sanctis
Un passo indietro. Torniamo alla Facoltà. Nel 1946 mi sono laureato, con un anno
di ritardo, non sono stato io a perdere l’anno, cosa allora inammissibile, ci laureammo in cinque anni. Cinque più uno, compreso quell’anno, il 1943, in cui l’Università era chiusa. È stata dura, ma fu così, non come adesso, che la caduta degli obiettivi ha reso imprecisato il numero degli anni di studio: oggi all’Università si va
Balli e sballi
anche per organizzare feste, balli e sballi.
Di quegli anni ricordo tutti i professori, e particolarmente quelli, almeno quattro,
di cui sono stato assistente, a cominciare da Marcello Piacentini, che era il Preside Piacentini
della Facoltà. Venne con altri accusato di essere fascista, ma era anche un democratico. Ricordo che un giorno, durante una sua lezione, io mi resi conto che quanto
da lui detto, in effetti, non era proprio giusto e allora, con educazione e superando la timidezza che egli incuteva, dissi che ritenevo errata la sua tesi. Lui mi rispose: “quello che dici potrebbe anche essere non sbagliato, però lo devi dimostrare,
e con un disegno che porterai alla prossima lezione”. Così feci, eseguii un grande
21
Assistente
subito
Fascista
Sfascio
disegno con molta cura e andai a scuola con una bella tavola a colori, che mostrai
a lezione. Lui riconobbe che io effettivamente avevo ragione. Questa cosa mi
lasciò di stucco. In quel periodo c’era una norma, che consentiva di nominare assistente uno studente del V corso. Mi nominò suo assistente subito, sul campo. Ero
assistente volontario, quindi lavoravo gratis, però, insomma, era un inizio.
Poi sono stato chiamato alla Facoltà di Ingegneria, dove mi fu offerto un posto
stipendiato; mi dispiacque abbandonare Architettura, ma ero sposato da poco,
avevo una bambina, avevo quindi bisogno di uno stipendio, anche se modesto.
Piacentini era un uomo straordinario, un grandissimo architetto, era un fascista, come abbiamo detto, ma diverso, come abbiamo visto. E poi, prima della
guerra, quasi tutti erano fascisti. L’antifascismo diffuso, è cominciato, direi, nel
1942, soprattutto a causa dei disastri dovuti alla guerra. Come uomo era una
persona simpaticissima: spiegava l’urbanistica, utilizzando la sua esperienza,
non tanto di studioso, quanto di uomo di mondo. Raccontava la sua vita nelle
città, soprattutto nelle capitali europee, dove aveva soggiornato, facendo vita
mondana, ma anche guardandole con occhio attento, da studioso, da architetto, da urbanista. Tra gli architetti che ho conosciuto era uno dei più rilevanti,
uno che ha dato un’impronta all’architettura in maniera indiscutibile. Le cose
che ha fatto lui o soltanto ha organizzato o coordinato, hanno coinvolto e convinto molti altri, anche suoi oppositori, da lui stesso chiamati e mi riferisco, per
esempio, alla Città Universitaria, una sua opera esemplare, alla quale hanno
lavorato molti altri e diversi architetti. È stato lui però ad avere la regia complessiva e a disegnarne lo schema d’insieme ed è per questo, che sono venute
fuori soluzioni comunque unitarie. Si sono tutti allineati, tutti hanno fatto ciò
che lui ha richiesto, anche se nel rispetto della propria linea di ricerca. Lui ha
giustamente proposto o imposto un’architettura unitaria, caratterizzata da forme, che noi studenti allora non accettavamo, perché tendevamo al razionalismo, cosa ben diversa dalle simmetrie del classicismo piacentiniano. Comunque, noi poi abbiamo fatto cose che erano diverse dal razionalismo.
Quando ci laureammo ci fu infatti una crisi tremenda, perché entrammo in
contatto con la realtà di un Paese allo sfascio. Il razionalismo ci è sembrato, a
un certo punto, come dire, una sorta di rappresentazione del capitalismo e siccome eravamo ormai di sinistra, abbiamo cercato un’altra figurazione, che ci
rappresentasse: abbiamo riscoperto “la casa con il tetto”. Una casa che nessuno
di noi avrebbe mai disegnato in Facoltà, non esistono progetti di case con il tetto durante tutta la nostra formazione, fino alla nascita dell’INA-Casa, cioè al
1949. Da quel momento, le case da noi progettate hanno tutte avuto quel tipo
di copertura e, di conseguenza, una diversa composizione, quasi tutti gli architetti hanno lavorato in questa nuova, ma anche antica, direzione.
Marino Ripensando ai nostri professori, ma non maestri, un altro è stato Roberto Marino, che mi è molto presente, un professionista perfetto nel suo metodo; l’ho
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visto progettare. I professori di allora erano modesti nei loro comportamenti,
pur essendo alcuni dei personaggi famosi, alcuni membri dell’Accademia d’Italia, e avendo una professione molto avviata. Sono andato spesso nella casa di
Marino, che abitava vicino alla mia abitazione: lavorava da solo o con un disegnatore al massimo, ma faceva cose ineccepibili, assolutamente esatte dal punto di vista della tecnica progettuale.
Oggi è diverso. Sono andato in un grosso e prestigioso baraccone commerciale, che si trova a Fiumicino dove ho visto come, invece, si può progettare oggi:
due soffitti di due grossi spazi, che si incrociano, appartenenti a due corpi di
fabbrica perpendicolari, che nel loro incontrarsi producono una gran confusione, perdono le loro rispettive inconciliabili geometrie dei piani illuminanti di
copertura che si scompongono, rinunciando alla risoluzione. Siamo dunque a
livelli incredibili di pessima conoscenza e utilizzazione delle tecniche della progettazione nonostante l’ausilio del computer. Ricordo altri professori, per
esempio Gaetano Minnucci, che ha fatto, tra l’altro il Palazzo per gli uffici dell’EUR. Era forse il più moderno tra tutti. E poi Vincenzo Fasolo, docente di
storia dell’architettura: quando faceva, con autentica passione, le sue lezioni, a
volte cantava. Era un omone grosso ma bellissimo nel suo genere, grasso e con
capelli lunghi. Era molto divertente, conosceva la storia dell’architettura per
averla “toccata”, era innamorato dell’architettura.
E ancora, Arnaldo Foschini, che fu anche preside della Facoltà. In un’occasione, mi fece un attestato, che mi apparve molto esagerato in termini di lodi, scrivendo anche che ero un “ottimo compositore”, insomma, come se mi volesse
bene. Un giorno mi portò a una riunione di professori al caffé Greco. Io ero
allora molto delicato, molto sensibile e lui, non so per quale motivo, volle
introdurmi. Accadde, non so come e perché, che io caddi a terra, svenuto! Non
ho ancora capito per quale motivo.
Ovviamente, fu per me una situazione estremamente imbarazzante, ma anche
una cosa molto strana determinata forse dall’emozione di stare a contatto con
i professori che ci mettevano tanta soggezione. Allora era molto forte il senso
dell’autorità e c’era una fortissima distanza tra noi e loro. I professori di solito
parlavano solo per conto loro, la lezione era una cosa molto seria e formale,
importante. Anche per me lo è sempre stato.
Questa è una delle cose, che ho imparato da loro. Anch’io sono stato professore, avevo centinaia di studenti, non so se per mia bravura o per simpatia o forse, più probabilmente, perché altri colleghi se ne liberavano (qualcuno, anzi
uno, ne aveva addirittura cinque e altri cercavano di imitarlo). Non ho mai
ripetuto una lezione, anche se le lezioni nel mio programma annuale, avevano
circa lo stesso titolo. Un mio assistente, l’architetto Wallach, un giorno mi fece
una dichiarazione di cui rimasi molto colpito. A un certo punto gli chiesi: “Ma
non ti sarai scocciato di sentire sempre le stesse cose, a lezione?” e lui mi rispose: “Ma tu non hai mai ripetuto alcunché. Le tue lezioni sono sempre state
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Minnucci
Fasolo
Foschini
Svenuto
Wallach
aggiornate, e quindi ogni volta, altri pensieri, altri discorsi, anche se trattano
del medesimo tema”. Ne sono rimasto molto colpito.
Sono stato nella Facoltà di Ingegneria per un paio di anni con Giuseppe Nicolosi, con cui il rapporto divenne non buono, finché un giorno fui congedato
bruscamente, perché il 2 di gennaio non ero presente in Facoltà. Mi cacciò senza remore pur essendo diventato amico di famiglia, essendoci incontrati al
mare. Non ho mai capito cosa gli fosse passato per la testa. Anzi no, seppi che
aveva riscontrato che gli studenti presenti alle mie lezioni erano molti di più di
quelli presenti alle sue e poi allora l’architetto e l’ingegnere avevano forti attriti, per cui non era sempre facile la frequentazione. Gli ingegneri avevano un po’
di complessi nei confronti degli architetti.
Tra i miei colleghi ricordo, prima assoluta, in cima alla lista, naturalmente,
quella che sarebbe stata mia moglie: Diambra de Sanctis. Con lei avevo un rapporto particolare, un rapporto tra colleghi, sì, ma un rapporto speciale. A un
certo punto, dopo alcuni anni, con sorpresa, ci siamo resi conto, in occasione
di una gita del corso al mare ad Anzio, che ci eravamo innamorati. È stato molto bello e poi è durato tanto, tantissimo, senza confronti. Sono rimasto solo da
poco, nel buio e nel silenzio, lei e io abbiamo vissuto sempre insieme, anche se
abbiamo lavorato spesso separatamente, facendo cose diverse. Lei è stata professore alla Facoltà di Architettura dell’Università di Roma, ove ha diretto il
Dipartimento di Composizione.
Debbo dire che tutto quello che io ho fatto nel corso della mia vita, l’ho sempre sottoposto alla sua approvazione. Tutto. Anche quello che ho scritto, non
solo quello che ho disegnato. Non ho fatto niente che non fosse in linea con le
sue idee. Insomma, è stato un rapporto bellissimo che si è interrotto improvvisamente dopo sessant’anni, una vita.
1980. Edificio in via Leopardi, Napoli,
A. Gatti, A. De Sanctis
Ricordo tanti colleghi. Bianca Marchesano che era una ragazza straordinaria,
molto intelligente: spiegava la matematica a tutti noi che non ne capivamo
niente. Avevamo allora un professore di matematica, Ugo Amaldi che faceva
delle lezioni sicuramente bellissime, ma assurde: sembrava del tutto incurante
del risultato dei suoi discorsi. Si metteva alla lavagna, scriveva, la riempiva, cancellava tutto e poi di seguito. Alla fine se ne andava. Non ne ricordo il volto,
noi l’avevamo visto soltanto di spalle. Ricordo Pietro Barucci, lo stimo, era
molto bravo. Ha avuto delle crisi, per cui, a un certo punto ha rinnegato ciò che
aveva prodotto, non so per quale motivo, ma le cose cambiano. Adesso, per
esempio, l’architettura è diventata un’altra disciplina: con il computer viene ad
avere un altro rapporto con la realtà. Il computer, eccolo lì, mi fa compagnia,
ma costituisce anche per me una sofferenza continua. La mia figlia maggiore
mi ha imposto di imparare a usarlo e mi ha insegnato a fare varie cose: ogni tanto scrivo, ma in realtà appartengo a una generazione, che è precedente al computer. Io sono un pensionato, un anziano, un ex, purtuttavia produco qualche
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Nicolosi
Diambra de
Sanctis
Innamorati
Una vita
Bianca
Marchesano
Amaldi
Barucci