Qualunque cosa la libert…
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Qualunque cosa la libert…
Era scappato da quel posto per le stesse ragioni per cui adesso ci tornava. Sentiva il peso del viaggio spargersi nelle sue gambe in piccoli crampi, il calore del sole oltrepassare il finestrino e raggiungerlo, violento, in faccia. Quel treno sembrava viaggiasse sul mare tanto era poco percepibile il confine tra la terra e il blu, ma a lui, quel mare, non faceva nessun effetto. Almeno non in quel momento. Aveva la faccia stropicciata, più dei vestiti. Vedeva i bambini appiccicare il naso e le mani ai vetri luridi e sorridere per quel contenitore naturale di giochi. In lui era silente il ricordo dell’infanzia. Comprese in quell’istante che non sarebbe stato facile. Dopo tredici anni di assenza da quei posti, capì che non sarebbe stato capace di ignorare per molto tempo il richiamo del passato. Si tirò in piedi, si sentì in bilico per un po’, la stazione era ormai vicina. Preparò il borsone, si fece largo tra i viaggiatori assorti, attese dietro la porta che il treno si fermasse. «E se», pensò, «non scendessi? Se tirassi dritto?» Ma non poteva. Questa volta proprio no. Il treno si fermò in una nuvola di rumore, i freni fischiarono stridendo sulle rotaie, come una lama che graffia sul piatto, l’aria intorno era incerta quasi quanto lui. Fece un volo, saltò giù ma nessuno lo stava aspettando. Non era mai riuscito a condurre nessuno fino a quel punto di tensione e desiderio, di mancanza e impazienza. Il paese era immobile, identico a come lo aveva lasciato. Tutto era in perfetto ordine, come una casa abbandonata per qualche tempo, dove la polvere si posa sugli oggetti, ma non è così forte da cambiarne le posizioni. E poi era caldo. Un caldo umido e denso di respiri di giornata piena. Casa sua era sempre stata troppo lontana, da lì così come da tutti gli altri posti in cui aveva vissuto. Il borsone sulle spalle, e si diresse verso l’uscita. Alcuni anziani giocavano a briscola sulle panchine di marmo. Ebbe l’impressione di averli lasciati a quella stessa partita anche il giorno in cui era partito. Cavalcioni, i calzettoni di cotone con le infradito. Non si accorse di sorridere. Passò dalla piazza e la fontana non dava più acqua. Superò l’alimentari e si comprò un lemonissimo. Passò dal molo e si ritrovò a pensare alla promessa fatta a se stesso quando aveva deciso di partire. Dimenticare e la libertà. Si accorse di quel pensiero, lo ricacciò indietro, dentro, come si fa col cibo indigesto. Adesso che si accorgeva di non essere mai riuscito a dimenticare niente e che la libertà l’aveva raggiunta, persa, ripresa, sfiorata, e nuovamente persa, tutto sembrava non avere più nessuna importanza. Le ragioni che lo avevano portato lontano, via da lì, adesso si frantumavano miseramente. Pensò a cosa dire alle poche persone che aveva voglia di rivedere. Inaspettatamente, si ritrovò sotto casa sua. Il portone era lo stesso, diverso era solo il pulsante del campanello, un po’ più sbiadito. Suonò, ma nessuno rispose. Suonò di nuovo e, ancora, niente. Appoggiò il borsone e le chiappe sul marciapiede. Si stese, senti l’asfalto rovente attraversargli la maglietta bucherellata dalla cinta. Era dimagrito di un chilo l’anno da quando era partito. Tredici anni, tredici chili. I capelli, identici: bruni e scarmigliati. Il naso importante, gli occhi grandi e incoscienti. Il fisico più forte, i muscoli delle braccia pieni di viaggi. Si addormentò lì, sul marciapiede, e dormì, forse per cento ore. Sognò una donna, affacciata ad un balcone, con la chioma rossa foltissima, che lo salutava a mano aperta. Faceva per voltarsi e tornare in casa, ma il balcone era murato. Quello che prima era un sorriso divenne paralisi, la donna cercò invano un aiuto perché se lei non poteva muoversi, lui non riusciva più a parlare. Non aveva più voce… Si svegliò all’improvviso, affannato, il cuore accelerato, la saliva seccata agli angoli della bocca. Cazzo, pensò. Questo sogno mi perseguita. Riprovò a suonare il campanello senza ottenere risposta. Pensò che forse avrebbe dovuto avvisare del suo rientro. Anzi pensò, non sarebbe proprio dovuto tornare. Mentre infilava uno dietro l’altro questi pensieri di disfatta e vittimismo, vide sua madre sopraggiungere con le buste della spesa tra le mani. Era più bassa, più piccola, i capelli raccolti nel fermacapelli d’osso. Si guardarono per un tempo che parve infinito a entrambi. Poi le arance e le mele rotolarono per strada. La busta si ruppe, proprio come la distanza. Si precipitò a raccoglierle, le mise nel borsone sudicio. Sua madre gli mise una mano sul viso, poi sulle braccia, poi sulle spalle, come a sincerarsi che fosse ancora vivo e fatto di carne. Lo abbracciò fortissimo, in mezzo alla strada assolata. Salirono insieme vicini e stretti nell’ascensore. Lei lo guardava come di solito guardava l’immagine della Madonna prima di andare a dormire. Casa sua era rimasta la stessa. Le stesse macchie di umido nel corridoio, lo stesso odore di pomodoro fresco, lo stesso divano nel salone dove non andava mai nessuno. Sua madre mise a fare il caffè, lui andò nella sua stanza per posare la roba. Gli sembrò di far visita ad un museo. C’era un’aria di timore e reverenza. Anche lì tutto era rimasto uguale perché senza vita. Guardò il letto che era stato suo e poi anche quello che era stato di suo fratello. Si sentì ferito, ebbe voglia di piangere come non aveva fatto mai. Posò lo sguardo sulle foto, quelle sulla scrivania, in bianco e nero, quando andavano a scuola, e poi su quella a colori, fatta al mare, con le canne da pesca. Gli venne da vomitare, forse per il caldo, forse per il lemonissimo ghiacciato, forse per tutto il tempo che era passato, forse per il fatto che suo fratello era morto. Sua madre lo chiamò dalla cucina. Udire il suo nome pronunciato da quella voce gli procurò una fitta allo sterno. Il caffè era pronto, le tazzine col piattino di porcellana, lo zucchero, i biscotti con la pasta reale. Sua madre lo aveva sempre fatto sentire come un ospite. Aveva sempre riconosciuto in quel figlio un senso di approssimazione e di latenza. Di inquietudine e di bontà. Lo aveva sempre trattato come uno a cui prima o poi si dovrà rinunciare. Bevvero il caffè seduti al tavolino, si tennero le mani tutto il tempo. Lui poteva sentirne le rughe e lei i calli. Si raccontarono cose senza alcun senso, si guardarono negli occhi. Sua madre non gli chiese dove avesse trascorso tutti quegli anni, adesso che era tornato non contava più dove fosse stato. Contava solo quell’istante di presenza. Dalla strada proveniva l’odore della sera che incedeva, profumata di salsedine, il vociare di una partita di pallone molto accesa, una canzone stonata dal bagno di qualcuno. Com’era cambiata sua madre, gli occhi opachi come biglie, le guance e le labbra che si erano ritirate come una spiaggia in inverno. Ebbe ancora voglia di piangere e desiderò affogare dentro il caffè che stava bevendo. Andò in bagno, si tagliò la barba, si fece una doccia, lavò i riccioli col bagnoschiuma. Indossò un paio di jeans scoloriti, una maglietta grigia che dava di buono, le stesse scarpe del viaggio e uscì. Le strade sembravano tutte identiche e a scacchiera. Passò dai vicoli del centro storico, rivide le case bianche a calce, una giovane signora lavava con lo spazzolone i gradini di marmo della sua abitazione. L’aria sapeva di pasta al forno e di varechina. Raggiunse il porto e l’odore di nafta e mare lo investirono con la loro abituale prepotenza. Chi appartiene al mare non può andare via per tutto quel tempo e poi credere di averla fatta franca. Il mare torna sempre a reclamare ciò che un tempo era suo. È il peggiore dei padroni e il migliore degli amanti. Camminò sfiorando con le dita le bitte, tutto si scrostava al suo passaggio. Si sentiva sale, si sentiva vento, di nuovo vento finalmente. In tutti quegli anni in cui aveva viaggiato, era passato attraverso climi assurdi e implacabili. A Londra aveva lavorato per quasi due anni come lavapiatti in un ristorante turco. Puzzava sempre di kebab, nonostante si strofinasse fino a farsi sanguinare la pelle. Aveva vissuto in una casa con cinque ragazzi nigeriani. Per due anni gli era sembrato che la sua vita fosse sempre stata quella. Per questa ragione, per la sua capacità di sprofondare amabilmente nella routine e per la sua incapacità di sciogliere il nodo gordiano che si portava dentro, andò via anche da quel luogo. Dopo Londra, senza alcuna convinzione e forse anche per caso, stette per qualche tempo a Bedford. Qui aveva venduto abbonamenti telefonici senza ottenere alcun tipo di risultato né gratificazione. Gli sembrava però stupendo poter usufruire di un fisso mensile sebbene si sentisse privo di qualsiasi talento. Ma durò poco, venne infatti licenziato giustamente, gli venne voglia di chiamare tutti quelli a cui fortunatamente era riuscito a vendere qualcosa per chiedergli scusa. Ma non lo fece. Lasciò quel posto senza alcuno spasimo e, con i soldi che aveva da parte, riuscì ad arrivare in Spagna, a Siviglia. In quel luogo la vita era notevolmente diversa, così lontana dai paesaggi industriali, dal fumo e dalla nebbia che inghiottivano ogni cosa. In qualche modo però quel clima era stato così simile alla stagione che il suo cuore in quel momento aveva vissuto. Nebbia fitta, pioggia a ricoprire ogni intenzione. Ma lì, lo accolse invece il caldo di un sole che non aveva scordato e verso cui, però, non era ancora pronto. La terra secca, arida, rossa. Trovò nuovamente lavoro come lavapiatti. Non era difficile ma ebbe più fortuna. Si fece apprezzare per il suo carattere remissivo e solitario. I suoi colleghi, un portoricano dalle orecchie enormi, un madrileno dalla lingua veloce e un messicano dai baffi a sparviero, lo adottarono amichevolmente. Prese una stanza nella stessa pensione in cui erano loro. Il bagno era in condivisione sul pianerottolo. Mangiava a lavoro oppure, quando non poteva, portava a casa gli avanzi e li mangiava sul letto. A volte era talmente stanco da non riuscire nemmeno a masticare. Pian piano Jorge gli insegnò i trucchi per cucinare la paella, la vera paella spagnola. Così mentre schiumava i piatti unti e le padelle, scrutava con occhi assorti, ascoltava diligentemente tutte le parole. In quella minuscola cucina, in cui gli aliti si mischiavano agli odori, si tenevano vere e proprie lezioni di poesia culinaria. Lui che si era sempre sentito un topo mangia saponette, imparò finalmente a riconoscere e ad apprezzare lo zafferano buono, la cottura del riso, il taglio di carne giusta, i pomodori freschi, i piselli verdi. Lentamente trascorsero gli anni e i giorni, da lavapiatti riuscì a prendere il posto di Jorge, che nel frattempo si era sposato con una cubana ed era tornato a Madrid. Aveva lasciato la stanza della pensione e aveva preso una casetta in fitto, vicino al Barrio de Santa Cruz. Aveva lavorato tanto, si era sbronzato parecchio di tequila insieme ad Alvaro e Josè. Nelle sere afose piene di canicola, amavano cantare vecchie canzoni dei Beatles in tre lingue diverse. Ridevano stupidamente fino a sfinirsi del tutto e addormentarsi sotto il patio. I suoi due colleghi avevano anche provato a convincerlo ad uscire con una donna. Ma lui era timido, talmente timido da sembrare maleducato. Ogni volta che organizzavano un incontro, finiva che lo menavano per il suo atteggiamento. A parte quell’unica volta in cui la presenza di quella donna dai capelli rossi stranamente non lo mise a disagio. Non ebbe la solita voglia di scappare, ma di fermarsi. Fu una serata indimenticabile, mangiarono le tapas, bevvero la Chimay. Lei era di Berlino. Era in Andalusia in vacanza con alcune amiche. Si chiamava Anne. Aveva capelli rossi foltissimi, occhi azzurri con riflessi dorati, pelle bianca latte e mani lunghe, infinite. Era impreparato, assolutamente goffo e soprattutto triste. I suoi due amici lo incitavano con piccole pacche sulle spalle, e alla fine furono bravissimi a lasciarli soli. Si misero a camminare senza una meta e lei ebbe parole per tutt’e due. Dopo quella serata ce ne furono altre. Lei passava a prenderlo dopo il lavoro con la sua Volkswagen, e lui era sempre molto spettinato. Giravano parecchio scegliendo con cura il posto giusto per fermarsi a fare nulla. Una sera, erano in macchina con i sedili stesi, guardavano le zanzare posarsi sulla pelle silenziose. A lei venne voglia di amarlo e a lui di arrendersi. Era umido, i loro corpi più che unirsi si appiccicarono. Lui si sentì risucchiare in un posto in cui non era mai stato, sentiva le mani di Anne spostargli gli organi interni. E il cuore quel giorno finì chissà dove… Poi la vacanza di lei terminò. Si salutarono senza troppa disperazione. A lui non rimase che partire. Verso Cadice, poi Malaga per rendersi conto, guardandosi riflesso in un finestrino, che era scappato per dimenticare e che invece il suo passato continuava a inseguirlo dappertutto. Era scappato per sentirsi libero, e la libertà non è altro che un’ottima compagna della solitudine. Si osservò meglio, era smunto, mangiava cioccolata svizzera da quattro giorni e aveva la bocca piena di bolle. Le unghie delle mani erano in lutto, proprio come lui. Ora che era lì nel porto, a ridosso del mare, tutto ciò che aveva vissuto si fece piccolo e distante. Ripensò a suo fratello, a quanto era bello. Ripensò ad Anne che non aveva saputo trattenere, ad Alvaro e Josè così spensierati, a sua madre invecchiata, ai posti che aveva visto, alle vite sfiorate degli altri, ai fumetti letti alla luce di un neon, alle feste di piazza, alle paure che si portava dentro, alla sua vita sempre sul bordo di un precipizio in cui si era trascinato da solo. Un pescatore lo riconobbe dalla sua camminata dinoccolata, come fosse senza giunture. Gli fece cenno con la mano di raggiungerlo. Non gli chiese come stesse o cose simili, gli porse soltanto una sedia da campeggio. Gli disse: «Siediti vicino a me». Gli mise in mano una canna da pesca e si misero a pescare. Pescò una bella triglia rossa. Rise come un bambino, una risata contagiosissima. Il mare aveva risposto, finalmente. Daniela Medico