dall`etnopsichiatria all`iconologia: il malinteso culturale nella

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dall`etnopsichiatria all`iconologia: il malinteso culturale nella
SALVATORE INGLESE*
MIRIAM GUALTIERI**
DALL’ETNOPSICHIATRIA ALL’ICONOLOGIA:
IL MALINTESO CULTURALE NELLA FONDAZIONE
DI DISCIPLINE SENZA NOME***
RIASSUNTO
Nell’interazione culturale il malinteso è stato ritenuto un problema da
superare. Rovesciando tale assunto, questo saggio considera l’aspetto euristico
del malinteso nella creazione di due discipline senza nome, fondate da Georges
Devereux e Aby Warburg.
L'incontro giovanile con gli Hopi, nativi americani che stavano
attraversando una drammatica crisi culturale e politica, generò in entrambi
una dinamica di malinteso culturale che ebbe un impatto immediato e duraturo
sulla loro vita intellettuale. Essi sono infine diventati le figure di riferimento
ineludibile per approcci metodologici (Etnopsichiatria e Iconologia) che
tentano di destabilizzare la disciplinarietà dogmatica.
SUMMARY
“Misunderstanding” has been treated mostly as a problem to overcome
instead of as a source of knowledge. In contrast to this, the essay consider
“misunderstanding” as a necessary aspect of development of the unnamed
disciplines to which Georges Devereux and Aby Warburg dedicated their life.
*
Psichiatra. Modulo di Psichiatria transculturale e di comunità. ASP Catanzaro.
Architetto. Dottoranda in Antropologia ed Epistemologia della complessità. Università di Bergamo.
***
Questo studio è frutto della collaborazione tra i due autori. Per questa edizione, S. Inglese ha redatto i
paragrafi 2.1, 3, 4, 6; M. Gualtieri i paragrafi 1, 2.2, 5.
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Formazione Psichiatrica n.1 Gennaio-Giugno 2014
When they were young scholars, they both encountered the Hopi. The
Natives were undergoing a fundamental political and cultural crisis. For
different reasons Warburg and Devereux did not understand the native culture
they observed. This misunderstanding had an immediate and lasting impact on
their works and lives: they have become useful figures for a variety of
methodological approaches (such as “Ethnopsychiatry” and “Iconology”) that
attempt to unsettle dogmatic disciplinarity.
1. Malinteso e ventriloquismo culturale
Due soggetti culturali interagenti donano un senso radicalmente diverso
all’identità (ontologia), ai valori (ethos) e alle azioni sociali (pragmatica)
dell’altro. Questo genera un malinteso culturale consistente in un’autentica
strategia fatale che determina il corso storico delle società umane e il destino
biografico degli individui (Baudrillard, 1984). Ogni equivoco culturale, al
tempo stesso, nega alcune possibilità alla relazione interculturale trasformandola in un rapporto di forza squilibrato tra un soggetto egemone e
uno subalterno (es., dominio coloniale che cancella un mondo; de Martino,
1974) - o afferma ulteriori possibilità alla relazione (ibridazione, mimetismo e
acculturazione antagonistica; Devereux, 1943/1985; 1967).
A nostro avviso, il malinteso culturale prefigura una terza linea di
sviluppo potenziale: emergenza di un evento imprevedibile provocato dalla
cultura soccombente che esercita surrettiziamente la propria forza, in forma
enigmatica e cifrata, all’interno della matrice di senso della cultura
apparentemente vincente. Questa terza linea rovescia il paradigma generale del
dialogo interculturale: solo a partire da un malinteso fondamentale è possibile
avviare una comunicazione progressiva tra mondi culturali. Il malinteso diventa
il generatore dello scambio sociale tra soggettività differenti che si riconoscono
come alterità antropologiche necessarie e feconde (de Pury, 2005). Esso sembra
attivo nei casi di ventriloquismo culturale (Sarnelli, 2011), ovvero quando si
ritiene che un gruppo straniero, vivente in uno spazio lontano (Hopi), parli e
agisca come un popolo estinto (antichi Greci). In questo caso, il malinteso è
provocato da una relazione interculturale fondata sull’analogia senza
familiarità. Tale analogia implica che certe soggettività culturali, di cui non si
ha conoscenza empirica ma solo testuale, vengano proiettate su di una società
ancora sconosciuta ma con la quale si stabilisce un contatto diretto. La
riduzione del pensiero di un popolo a quello di un altro fa smarrire il senso
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Inglese S., Gualtieri M. Dall’etnopsichiatria all’iconologia...
dell’orientamento ideologico di ambedue. Per superare questa distanza
impossibile si utilizzano similitudini casuali tra l’immaginario di due collettivi
umani. La strategia fatale del ventriloquismo culturale fa parlare il soggetto
subalterno, ma questa concessione prevede che le sue memorie diventino
funzionali ai piani generali o particolari del soggetto dominante (Spivak, 1988).
2. Uomini-opera
La centralità del malinteso culturale si riconosce anche in alcune
biografie eccellenti che hanno fatto nascere nuove discipline, necessarie a
risolvere vecchi problemi.
2.1 Georges Devereux (1908 –1985)
Da giovane ricercatore, Georges Devereux non è riuscito a stabilire una
buona relazione con gli Hopi, ostili (“ultra-xénophobes”) nei confronti degli
estranei e degli stranieri (Bloch, 2000). L’incomprensione culturale (sapere
nativo impenetrabile alla ragione etnologica) e la resistenza politica
(refrattarietà degli autoctoni al rapporto con l’etnologo straniero) provocano il
suo abbandono del terreno etnologico e un più solido arroccamento da parte
degli Hopi. Devereux percepisce correttamente la loro ostilità nei suoi confronti
ma non sa riconoscerne la ragione profonda (storica, gnoseologica, profetica);
essi si sottraggono effettivamente alle istanze della ragione occidentale ma non
spiegano all’etnologo i motivi della loro chiusura difensiva (profetica,
gnoseologica, storica). La tensione conflittuale ispirata dal primo malinteso
genera un effetto imprevedibile: dopo essersi ritirato da Oraibi, Devereux
acquisisce un profondo livello di conoscenza di un altro popolo americano –
Mohave - ma solo dopo averne superato le soglie di affiliazione. Si lascia
infiltrare dal loro sapere, estraneo al mondo occidentale (nosologia psicologica
etnica), e ciò gli permette di conquistare il nuovo sapere della psicoanalisi,
interno alla propria cultura. Devereux, lo straniero perfetto (senza patria e,
apparentemente, senza origine), muta il suo status di etnologo e diventa
psicoanalista. Riesce poi a coniugare gli strumenti delle due discipline per
spiegare importanti fenomeni sociali (clinici e culturali), realizzando l’ideale
epistemologico dei suoi maestri (Mauss, Kroeber).
Affronta la categoria maussiana del cosiddetto fatto sociale totale con un
sapere asintoticamente totale, utilizzando sempre almeno due discipline
complementari (etnologia e psicoanalisi). Esse funzionano come una sorta di
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nuovo organo sensoriale che esplora i comportamenti umani nel tentativo di
ottenerne una descrizione e un’interpretazione esaustive, pur sapendo di non
poterle mai raggiungere per via scientifica (Devereux, 1984; 2007). I Mohave
“lavorano” il loro ospite, bizzarro e ignoto, per affiliarlo alla loro matrice
ideologica; lo adottano come un membro anomalo ma necessario alla loro
società soccombente (diventa il depositario della loro sofisticata psicopatologia
clinica così come la terra mohave diventa depositaria delle sue ceneri;
Devereux, 1961/1996). In tal modo lo trasformano in uomo-opera (o uomodestino), completamente dedicato a difendere gli aspetti virtuosi dei saperi
costruiti in altri mondi culturali. Il senso di questa operazione esistenziale,
biografica, scientifica e romantica è però destinato a perdersi nel tempo poiché
a simili imprese non è concesso di diventare punti cardinali di un pensiero
condiviso ma solo il nucleo originale (e recessivo) di una conoscenza
conflittuale.
2.2 Aby Warburg (1866-1929)
Warburg è un vettore eminente del malinteso tra mondo europeo e civiltà
nordamericane originarie. Egli si attribuisce un’ascendenza culturale multipla
di cui vuole armonizzare le differenze specifiche per attingere a un ideale di
conoscenza avanzata sui canoni, gli stili e i significati delle produzioni estetiche
e artistiche più eteroclite. Nel 1895, quando salpa alla volta di New York, sente
che dentro di lui si agitano i punti di frizione tra il suo essere ebreo (che però si
sottrae agli obblighi del vincolo religioso), l’appartenere al mondo ideologico
tedesco (impara da Usener, è in sintonia con Burckhardt ma turbato da
Nietzsche), il suo sentirsi greco (ninfolettico: posseduto dalle Ninfe; Calasso,
2005) e il sublimarsi negli ideali estetici degli artisti italiani del primo
Rinascimento (Botticelli, Ghirlandaio). Con questa moltitudine interiore
incontra i nativi per estrarre dalle manifestazioni della loro vita sociale i nuclei
sapienti sul rapporto tra le forme degli stati passionali della mente
(pathosformeln) e le creazioni artistiche o le scenografie rituali (cerimonie
danzate). In New Mexico e Arizona, si accompagna a figure ibride di
esploratori per aprirsi una via all’interno di mondi primigeni e poi ritornare in
Europa, impugnando un “nuovo” metodo per l’interpretazione filologica e
culturale delle immagini artistiche di tutte le civiltà (iconologia nel quadro di
una Kulturwissenschaftliche - Storia della scienza generale della cultura).
Negli anni in cui Warburg sfiora i misteri degli Hopi, essi sono esposti
all’attenzione di personaggi a doppia natura: archeologi ed etnologi
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(Nordenskjiold, Fewkes: preconizzatore di una etno-archeologia), antropologi e
militari (Bourke), missionari e mercanti di arte nativa (Voth), Bianchi diventati
indiani (Cushing) o attraversati da fantasmi indiani (Mooney) che tentano di far
riemergere da deserti smisurati i segreti di popolazioni ancestrali (Anasazi) e di
abitanti enigmatici, apparentemente amichevoli ma spesso ostili (Hopi).
L’estrazione di questi saperi passa attraverso la visione testimoniale di alcuni
fenomeni sociali, estetici e religiosi che, in questi gruppi, non sono divergenti o
alternativi ma tendono a sovrapporsi lungo uno zelante calendario rituale.
L’estemporaneità dell’incontro, l’assenza di prove iniziatiche, la sua improvvisa
reazione di fuga di fronte ai dilemmi proposti da un gruppo minoritario, saturo
di sapere esoterico e impegnato in un cerimonialismo immutabile, non gli
permettono di valorizzare immediatamente la densità di queste conoscenze
totali (la cosmologia e il profetismo hopi attendono il ritorno di un antico
“fratello bianco perduto”). Posto di fronte a ceramiche (l’antico stile riprodotto
da Nampeyo), oggetti cultuali, cerimonie (del bisonte-antilope a San Ildefonso)
e danze (Hemiskatchina a Oraibi), gestalten psicologiche (esperimento di
disegno proiettivo con alcuni bambini hopi) decide di utilizzare le idee degli
antropologi euroamericani che si sono maggiormente avvicinati agli Hopi.
Questo popolo non può sottrarsi all’accanimento intrusivo di simili personaggi
dopo che l’autonomia politica, la resistenza ideologica e la sopravvivenza
demografica delle nazioni “rosse” sono state aggredite con l’ennesimo
massacro (Wounded Knee, 1890). Esempio di queste relazioni oblique è il
Reverendo mennonita Voth, il migliore conoscitore del cerimonialismo hopi ma
inviso a questo popolo (Talayesva, 1960). Warburg assiste alle cerimonie e
penetra in una kiva preceduto dal tallone di ferro di questo fondamentalista
religioso, di cui deve sopportare l’avidità per acquisire oggetti di culto
(kachina, pahos) e manufatti domestici. Si ritrova infine a violare con le sue
fotografie, senza troppa consapevolezza, l’intimità personale e cerimoniale
degli autoctoni. In poche settimane nasce un malinteso strisciante tra Warburg e
gli Hopi che non sprigiona immediatamente i suoi effetti ma deve attendere a
lungo per manifestarsi in modo originale (una conferenza sul suo viaggio oltre
frontiera) e in un luogo improbabile (clinica psichiatrica di Kreuzlingen, dove
lo studioso è ricoverato da qualche anno perché affetto da una Psicosi maniacodepressiva. Stato misto, diagnosticata da Emil Kraepelin; Binswanger, Warburg,
2005).
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3. La marcia del serpente
La Conferenza di Kreuzlingen diventa il suo testo più famoso e viene
spesso citato come Il rituale del serpente (Chu’tiva: danza del serpente). Egli
genera un malinteso culturale quando parla di un rito a cui non assiste e di cui
conosce le versioni redatte da Fewkes (1894; 1897) e Voth (1903) su quello
praticato a Walpi e Oraibi negli anni in cui lo studioso amburghese sta per
arrivare (agosto 1895) o è appena ripartito (agosto 1896) dalle terre hopi
(Freedberg, 2004).
Un esame testuale dei lavori pubblicati dai due studiosi mette in evidenza
una forzatura del senso operata da Warburg. L’uno e l’altro sottolineano che il
significato profondo di questo rito resta del tutto ignoto ed è destinato a
rimanere tale. Di più: essi ipotizzano che la cerimonia possieda molteplici
significati e non sia finalizzata al solo scopo di garantire le piogge necessarie al
ciclo di sviluppo del mais. Illustrando l’intera cerimonia, ne riconoscono le
funzioni di rituale funerario, di guerra, di sacrificio, di iniziazione, di
evocazione degli antenati, nella trama di un mito originario che narra l’incontro
tra la Donna-serpente e l’eroe hopi Tiyo. Come tutte le mitologie anche questa
serve a fabbricare i membri di un popolo in modo conforme agli ideali etici e
psicologici della società di appartenenza (Geertz, 2007). L’insieme di queste
possibilità non possono essere contemplate da coloro i quali non siano iscritti
nella matrice ideologica più profonda dei clan tribali (Fewkes, 1894). La
classificazione del rito come “danza della pioggia” (innocua, buona e utile)
attenua la tensione ideologica tra gli Hopi e i Bianchi e può essere celebrata
senza contrasti da parte di questi ultimi. La situazione era alquanto diversa
alcuni secoli prima, quando gli aspetti antagonistici del rito dovevano essere
più evidenti e preoccupanti (per i Bianchi). A più riprese, la penetrazione della
religione cristiana nell’area della Black Mesa aveva prodotto conflitti cruenti
con gli Spagnoli, culminata in una rivolta generalizzata (1680): gli Hopi
sopprimono i sacerdoti monoteisti che hanno osato bruciare i loro “idoli”.
Duecento anni dopo, questa tensione sale di grado ancora una volta: la ferrovia,
i commerci, i piani di scolarizzazione governativa dei bambini riportano i
Bianchi a ridosso di questo popolo che si era isolato per dedicarsi alla missione
di assicurare l’equilibrio cosmogonico (ciclo astronomico; Perez, 2004),
restando in attesa silenziosa del ritorno, dai confini orientali del mondo, del
loro “fratello bianco perduto” (ciclo profetico). Anche gli Hopi (“popolo
pacifico” in lingua ute-azteca) possiedono una natura multipla: appaiono come
gli esemplari del cosiddetto stile apollineo delle culture native nordamericane
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(Benedict, 1960) ma conoscono la guerra e i suoi trofei (scalpi), la caccia
collettiva e la razzia, il massacro dei simili o degli affini, la stregoneria, la
messa al bando dei reietti, le scissioni interne ed esterne (1906: scisma di
Oraibi tra tradizionalisti e progressisti). Warburg, uomo-opera, si ritrae
precocemente dalle sfide ermeneutiche proposte da questo popolo-destino che,
però, si deposita con i suoi enigmi irrisolti nella parte inaccessibile della sua
mente.
La Conferenza di Kreuzlingen diventa un discorso influenzato dal
malinteso culturale quando assegna al rito aborigeno la funzione di una tecnica
magica per ottenere la pioggia. Il modello esplicativo warburghiano è noto: non
potendo fisicamente governare la potenza dei fulmini, gli Hopi credono di
controllarne la forza agendo magicamente su un simbolo teriomorfo di cui
sanno invece addomesticare la pericolosità naturale (chu’a: serpente). Warburg
ritiene che questo controllo fisico curi angosce primordiali ma che, in quanto
sapere illusorio elaborato negli stadi primitivi dello sviluppo sociale, deve
cedere la propria supremazia alla scienza e alla tecnica degli unici uomini che
hanno saputo interpretare le leggi fisiche naturali (tramonto del mondo magico;
de Martino, 1974).
Una seconda prospettiva interpretativa, fondata sull’analogia senza
familiarità, è rilanciata dallo studioso tedesco quando assimila il dramma hopi a
quello dionisiaco (Freedberg, 2005). Al contrario, la “marcia” del serpente
(termine che a noi sembra più appropriato di quello di “danza” per qualificare il
“passo” ritmato degli officianti), non prevede stati alterati di coscienza ma gesti
consapevoli, lenti e misurati; è eseguita da uomini (sacerdoti-guerrieri); prevede
alleanze claniche; non ammette sacrifici cruenti. Essa gravita intorno a un
essere animale (serpente) con cui impegnarsi in un corpo a corpo che innesca
un processo di contaminazione/ibridazione/metamorfosi tra una o più nature
differenti (animali, umani, antenati, elementi naturali). L’elemento più
sorprendente della lettura warburghiana è di considerare come certa
l’iniziazione del serpente (fase del suo lavaggio con acqua e sostanze
biologiche) che lo trasforma in messaggero benigno dell’istanza avanzata dagli
Hopi alle potenze del cielo e della terra (ottenere il fulmine che farà rovesciare
la pioggia). Invece trascura la funzione di una coppia di giovani iniziandi che,
nella kiva, personificano l’eroe culturale Tiyo e la sua sposa non umana
(Donna-serpente), dalla cui congiunzione misterica vengono procreati i
discendenti del Clan del serpente.
La creazione di una figura ibrida uomo-serpente riproduce la forma
doppia degli esseri mitici, permettendo il passaggio agli uomini della forza
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d’influenzamento (charming) dei rettili catturati. Questi ultimi conservano le
proprie qualità naturali che servono loro quando sono infine liberati nel deserto;
simmetricamente, i danzatori riconquistano la condizione umana ricorrendo a
una bevanda emetica. Agli occhi degli Hopi i serpenti non hanno nulla di
tremendum, neanche quelli letali, come dimostra finanche la loro maestria nel
maneggiarli. Il Bianco, invece, assume per principio generale e, soprattutto, a
causa di una fobia culturale specifica che tutti i rettili siano, naturalmente,
malefici, ripugnanti e terribili; che essi possiedano la forza superiore del
fulmine perché il loro movimento guizzante e zigzagante li rende simili ad esso.
4. Da Oraibi a Kreuzlingen
L’esperienza hopi si deposita nella coscienza di Warburg come
perturbazione, a effetto psicologico latente, e sfida interpretativa alla sua
capacità di offrire una teoria soddisfacente sulla migrazione delle forme
simboliche da un’epoca e da una civiltà all’altra. Questa perturbazione irrompe
nel 1918 quando la sua posizione esistenziale rispetto alla Storia (Prima guerra
mondiale) non può più essere astenica e fobica (evitante), ma diventa stenica e
ossessiva. Scrive giornali di propaganda, accumula una massa di frammenti
informativi sulla crisi mondiale, si sente colpevole della rovina dell’Occidente
e, in questo modo, si elegge a uomo-destino (nefasto). Difendendo le ragioni
etiche e politiche dell’Impero, non può più sfuggire agli eventi (già in passato si
era sottratto all’epidemia di colera d’Amburgo, al servizio nell’esercito e agli
Hopi) ma resta intrappolato nella caduta di un universo monocratico,
centralistico, cristiano: per lunghi anni viene attanagliato, come Laocoonte, tra
le spire costrittive di un delirio megalomanico, intriso di colpa e persecuzione.
Dopo la catabasi psicotica, abbraccia di nuovo gli Hopi per interpretarne
le complesse caratteristiche culturali all’interno del suo paradigma generale
(Nachleben der Antike – Sopravvivenza dell’antico). Ciò avviene perché essi si
sono incarnati in lui come delirio, allucinazione, eccesso comportamentale: si
sono impressionati nella sua mente come sequenze in movimento
(dinamogrammi), infine proiettate nello spazio della vita reale (DidiHubermann, 2006). Il vissuto psicopatologico riproduce i temi culturali
distintivi dei suoi Indiani ma, questa volta, come inneschi di terrore diurno e
notturno: sangue, sacrifici umani, metamorfosi teriomorfe (farfalline, falene),
ruggiti felini, aggressività combattiva di un dio guerriero (Maasaw).
Warburg rivive le descrizioni di Bourke, Fewkes, Hough, Voth, delle
storie lette da bambino sui pellirosse urlanti e scalpanti, inclini al pasto
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totemico che, nella sua tragedia delirante, diventa endocannibalico (è convinto
di mangiare la carne dei figli, uccisi da lui stesso; Inglese, Gualtieri, 2012). Gli
Hopi, dimenticati a lungo, adesso corrono (racing) lungo le fibre dei nervi
(Schreber, 1974) e lo costringono ad urlare l’orrore della loro essenza
selvaggia, dissimulata da un quieto ritualismo. Essi restano irriducibili alla
ragione scientifica e, soprattutto, al monoteismo cristiano contro cui si
ribellano. Oraibi e Atene sono infatti gemelle recalcitranti al dispotismo di un
Dio straniero, unico e onnipotente, che sfidano con i loro innumerevoli esseri,
invisibili e sacri. Gli Hopi si annunciano come sintomi inesplicabili che, nella
lettura della sua famosa Conferenza, lo obbligano a rappresentare se stesso
attraverso le convulsioni di una rana decapitata (Gombrich, 2003). Il tormento
e i rischi della sua relazione interculturale con un mondo alieno forse iniziano
in una notte trascorsa a Oraibi, quando Voth impone agli Hopi la presenza di
Warburg e lo fa diventare complice dei suoi furti culturali (trafuga i loro oggetti
più sacri, scrive sulle loro concezioni misteriche, senza esserne autorizzato). In
quella kiva accade qualcosa che non è stato ancora documentato: forse il buio,
il fumo e la polvere; l’atteggiamento scontroso degli Hopi; la presenza
incombente di Maasaw (sovrano sacro e mostruoso della morte), generano un
disagio fisico e mentale che gli impone di fuggire (Mc Ewan, 1998). Il giovane
studioso crede di essersi liberato di questo turbamento, ritornando in Occidente
e cancellando quella esperienza notturna dalla sua mente.
Tra le trincee dell’Europa in guerra, invece, adesso banchetta proprio
Maasaw (il dio hopi della morte divorante, sbranante, asfissiante) e Warburg
non può più sottrarsi al suo supplizio. Non conosce le modalità della
psicopatologia dei nativi d’America ma riproduce l’effervescenza della
sintomatologia dei folli hopi, divenuti tali per aver violato tabù o perché vittime
di attacchi di stregoneria (Fox, 1974). Con le sue smorfie, i movimenti bizzarri
della bocca, la vociferazione a squarciagola, somiglia a un Crazy man che
irrompe in un villaggio pueblo, metà folle e metà stregone (powaqa), dal corpo
caldo e agitato, dal respiro malato con cui esala inquietanti premonizioni di
morte (allucinazioni imperative) (Benedict, 1960; Perez, 2004). Il folle hopi
urla in mezzo al villaggio, fino a rendere irriconoscibile la propria voce, salta e
si arrampica sulle case, minaccia i familiari, si abbandona alla violenza contro
tutti, corre in ogni direzione brandendo un’ascia (Talayesva, 1982). Warburg,
invece, impugna una rivoltella e vuole sacrificare la famiglia sull’altare di una
colpa inemendabile: aver provocato in molti e inconfessabili modi la sconfitta
della propria nazione. Ha un bisogno inestinguibile di acqua per i suoi rituali di
pulizia e allaga puntualmente la stanza in cui è ristretto: la richiesta continua di
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acqua corrente compensa la paura elementare di restarne sprovvisto e forse ciò
rappresenta la deformazione idiosincrasica del timore degli Hopi di non avere
pioggia a sufficienza. Prova angoscia per il colore rosso, quello del sangue e
della carne cannibalizzata, mentre prima lo avrebbe saputo riconoscere come
rivestimento cromatico delle maschere e dei crini di cavallo usati nel corso dei
rituali pueblo (Bonifati, 2007-2008). Al culmine del suo disordine mentale si
sente trasformato in lupo mannaro e attraverso tale metamorfosi paurosa ritiene
di aver acquisito una doppia natura: antropomorfa e teriomorfa. Come un
sacerdote hopi, infine, si dedica al culto di esseri notturni che pure conoscono i
segreti della metamorfosi sottile (Chiarini, 2004).
5. Macchine orfiche
Questo movimento strisciante nelle pieghe dell’etnopsicologia hopi,
amplificata e distorta come psicopatologia individuale, si risolve in una
rinascita personale e scientifica. Warburg crea un Atlante figurato (Bilderatlas)
dove proliferano immagini che catturano una massa di esseri e problemi teorici
straordinari. Tali rappresentazioni visuali sono assemblate e scomposte su
grandi tavole nere che rievocano gli altari squadrati di sabbia degli Hopi, dove
le raffigurazioni mitologiche e simboliche subiscono un incessante processo di
creazione e cancellazione. Sulle tavole dell’Atlante, però, non ci sono mai
immagini di indiani che, intanto, non si lasciano più fotografare dai Bianchi.
L’Atlante viene esposto nello spazio centrale della sua Biblioteca
(Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg - KBW - Mnemosyne): questi due
prodotti rappresentano la materializzazione travestita della relazione tra la
civiltà prometeica degli Occidentali con la metafisica sotterranea di un popolo
dei deserti. La kiva degli Hopi e la Biblioteca warburghiana sono luoghi in cui
si incrociano i flussi convergenti e conflittuali dell’antico e del moderno, del
pagano e dell’ebraico-cristiano. Tali confluenze sono decisive per la storia di un
popolo nativo e per quella di un impero multietnico europeo. La kiva è in
contatto fisico con le abitazioni tradizionali dei Pueblos come la Biblioteca è un
satellite della casa di Warburg. La sala di lettura della Biblioteca è una stanza
ovale centrale e funziona come lo spazio sacro della piazza di Oraibi (Forster,
2002).
Nel suo tempio labirintico Warburg si muove come un danzatore di
fronte a un pubblico che, spesso, non comprende il senso della sua neo-lingua
disciplinare. Ad Oraibi, invece, intorno ai sacerdoti si raduna il popolo hopi,
stratificato in clan con i loro nomi primigeni. Warburg recita litanie quasi
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incomprensibili sul mondo delle forme estetiche così come i sacerdoti hopi
recitano formule incantatorie. I clan della piazza cerimoniale, come i libri della
Biblioteca, si collegano tra loro per mezzo di fili segreti che solo Warburg e
l’iniziato hopi conoscono.
Al termine dell’esperienza indiana e dopo l’esperienza psicotica,
Warburg sviluppa un programma sperimentale per rinvenire la sopravvivenza
delle forme estetiche e ideologiche antiche (selvagge e pagane) in quelle
espresse dalle civiltà umane moderne. Il suo scopo è di comprendere come tali
entità condizionino lo sviluppo delle culture umane. L’esperimento avviene nel
laboratorio dinamico della sua Biblioteca e distilla un insieme ideografico
provvisorio e instabile (Bilderatlas). Con il nome di Mnemosyne Warburg
battezza una macchina orfica doppia (Biblioteca e Atlante) che risucchia
visioni dal centro del mondo verso cui è stato scavato il pozzo della memoria
dei popoli. Con quel nome egli non vuole indicare una memoria puntuale,
capace di ricostruire collegamenti genealogici perduti, ma una disposizione
sempre attiva a ricordare il dimenticato quasi fosse una nuova reminiscenza. Il
simbolo warburghiano non emerge più dalla memoria sociale per imporsi come
significato univoco e universalizzante, ma è pura tendenza dinamica alla
forma, sempre implicita in una struttura vitale ma altrettanto aleatoria.
L’organizzazione mobile della sua Biblioteca e la condizione metastabile
dell’Atlante sono i prodotti delle collisioni intenzionali tra realtà diverse –
distanti nello spazio e nel tempo – e generano una sapienza fondata sull’alterità
culturale (Michaud, 1998b).
6. Discipline senza nome
Warburg ha adottato varie formule per denominare il suo progetto: storia
della cultura, psicologia dell’espressione umana, storia della psiche,
iconologia dell’intervallo (Agamben, 1984). Nessuna di esse si è affermata
come definizione convenzionale ma condivisa di una disciplina dotata di una
propria teoria generale, di una precisa metodologia, di strumenti sperimentati e
di risultati verificabili. Le esplorazioni warburghiane sono il momento
inaugurale dell’iconologia, etichetta usata per primo da Male, nel 1927, e
divulgata da Panofski. Va però riconosciuto che questo nome ormai designa un
dominio disciplinare vasto, eterogeneo e forse ormai estraneo alla prima
fondazione warburghiana, dominato da personalità autonome dal genio di
Amburgo.
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Anche Devereux deve continuamente spostarsi tra molte definizioni
diverse per affermare la sua metodologia complementarista come base della
ricerca sulle relazioni tra cultura e psicopatologia. Al suo ritorno in Francia, usa
il termine di etnopsichiatria, suggeritogli dall’amico haitiano Louis Mars. Per
molto tempo ha temuto di doversi accontentare dei termini equivoci di crosscultural o folk psychiatry, perché le accademie americane non gli hanno mai
prima riconosciuto l’autorità istituzionale per affermare quelli di psichiatria
transculturale o, ancor più, metaculturale, coniati da lui stesso per definire
l’oggetto e la base epistemologica del suo lavoro scientifico (Inglese, 2007).
Emil Kraepelin (1996) influenza la biografia scientifica di Devereux
(riconoscendo l’attualità di una moderna psichiatria comparativa) e quella
clinica di Warburg (eseguendo su di lui, a Kreuzlingen, una consulenza
diagnostica decisiva). Il paziente amburghese non tollera l’atteggiamento
professionale che lo psichiatra tedesco osserva nei suoi confronti: gli appare
autoritario e grossolano proprio come, a suo tempo, deve essere stato il
Reverendo Voth rispetto ai popoli delle mesas (Binswanger, Warburg, 2005;
Talayesva, 1982).
L’etnopsichiatria non riesce a emergere come teoria compiuta, con una
prassi metodologica, strumenti propri ed esiti verificabili al di fuori del
perimetro francofono. Anche all’interno di questo confine linguistico e culturale
non riesce a stabilizzarsi all’interno di un paradigma condiviso per diventare,
piuttosto, oggetto di disputa o di anatema. Quando questa denominazione viene
adottata come sinonimo di psichiatria culturale, in ambienti scientifici collegati
a una diversa tradizione culturale (es., USA), essa perde la sua originalità e
viene risucchiata nella voragine sdifferenziante del modello biopsicosociale,
senza riuscire ad ispirare reali cambiamenti della teoria e della tecnica clinica
(Inglese, 2011). Il dominio euristico dell’etnopsichiatria consiste nelle risposte
possibili alla domanda di Devereux su cosa faccia la cultura alla mente.
Ovvero, di come l’una sia necessaria all’altra per dare origine a fenomeni
psicologici e culturali integralmente umani: interrogazione che incomincia nel
dominio della clinica per continuare in quello della cultura come fenomeno
generale e specifico degli esseri umani.
Il dominio euristico dell’iconologia andrebbe riconosciuto nelle risposte
possibili alla domanda di Warburg su cosa faccia una cultura ad un’altra.
Ovvero, di come l’una sia necessaria all’altra per dare origine a fenomeni
psicologici e culturali iscritti nella storia integralmente umana: interrogazione
che incomincia nel dominio dell’estetica per continuare in quello della scienza
generale della cultura di società integralmente umane.
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Inglese S., Gualtieri M. Dall’etnopsichiatria all’iconologia...
Devereux prova a interpretare la caccia collettiva al coniglio ma non
riesce ancora a comprenderne il significato che la collega all’impianto
ideologico generale della cultura hopi (Devereux, 1941); Warburg legge il rito
del serpente ma ne travisa il senso rituale per una società completamente votata
a una missione cerimoniale con cui ritiene di reggere gli equilibri minacciati del
mondo. A differenza del primo, il secondo non segue il percorso affiliativo
necessario alla conquista del senso coerente con i princìpi fondamentali di
culture native oltremodo complesse. Ne subisce, invece, l’impatto traumatico
che lo sprofonda nell’abisso della psicosi, al termine della quale può riprendere
a tessere la trama creativa della sua ricerca scientifica ormai indipendente dalle
concezioni inadeguate della critica d’arte estetizzante (Raulff, 1998).
Etnopsichiatria e iconologia hanno infine dovuto affrontare il problema
della trasmissione delle loro scoperte alla generazione di studiosi discendenti da
Warburg e Devereux. Diventa erede effettivo di una disciplina senza nome solo
colui che sappia rilanciarla verso una direzione imprevedibile – fatale –
attivando problematiche impensabili, sempre più generali e critiche che
investono la costituzione stessa di un nuovo metodo scientifico: la storia di
questo rilancio verrà scritta in un altro momento.
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