Piccole mani grandi alI

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Piccole mani grandi alI
Laura Brettel, di Valleggia Quiliano (Savona)
TROFEO BAIA DELLE FAVOLE 2013
Piccole mani. Grandi ali.
Suona la campanella alla periferia di Karachi, nel Pakistan meridionale, e i bambini si avviano in una fila
ordinata, dalle baracche verso il grande edificio.
Non è la campanella della scuola che suona alle quattro del mattino. Questi bambini non vanno a scuola.
Nel buio notturno che avvolge tutto, come il sari di Jamila che avvolge la bimba dalla testa ai piedi, i piccoli si
muovono in fretta, stringendo le magre braccine attorno agli esili corpi.
Jamila ha cinque anni, occhi e capelli neri in un visino dolce e assorto e assieme alla sorellina Malala, di
appena un anno più grande di lei, è stata ceduta dalla propria famiglia ad un fabbricante di tappeti. E’ molto
povera la famiglia di Jamila. I soldi ricevuti per il lavoro delle bambine basteranno appena per far cessare un
poco la fame. Là dove il cibo è un lusso, anche i bambini diventano una merce di scambio.
Il grande portone dell’edificio si apre con un cigolio sinistro e i piccoli s’infilano dentro, andando ai propri
posti.
Non vanno a sedersi al proprio banco.
Non ci sono piccoli banchi e piccole sedie ad attendere questi bambini. Non ci sono giocattoli. Non ci sono
penne, matite colorate, quaderni a righe e a quadretti. Non ci sono libri illustrati da leggere. Questi bambini
non giocano. Questi bambini non leggono. Questi bambini non esistono.
Questi bambini lavorano.
E’ il telaio che li attende. Grandi telai dove intessere magnifici tappeti. Sono i rocchetti di fili colorati che
occhieggiano presso le cordicelle tese verticalmente, ardue pareti da scalare, con fatica e sudore. E’ la dura
pietra che accoglie i fanciulli: su di essa resteranno inginocchiati tutto il giorno. Chini sul telaio,
scomodamente acquattati, i bambini fanno volare i rocchetti, annodano, intrecciano, rapidi ed abili con le loro
piccole manine, creando disegni meravigliosi.
Jamila è la più brava di tutti.
E’ anche la più piccola.
Le sue piccole mani, veloci come il vento, sanno fare nodi così minuscoli e precisi come nessun adulto
sarebbe in grado di fare. Le mani di Jamila sono minute, strette e sottili sono le sue gracili dita.
Jamila canta mentre lavora.
Quando il giorno a poco a poco squarcia il buio della notte, facendo timidamente capolino anche all’interno
dell’enorme edificio, dove luci ed ombre si alternano tra i grandi telai, Jamila ha già compiuto gran parte del
suo lavoro. Ed un’altra enorme parte ne porterà a termine prima che cali nuovamente la notte, prima che il
buio sia di nuovo pronto ad inghiottire i piccoli lavoratori, per rigurgitarli nelle baracche, dove potranno
riposare qualche ora.
La luce piena del giorno non esiste, per Jamila.
A metà giornata consuma in fretta la sua ciotola di riso, accanto al telaio, pronta a ricominciare
immediatamente. Se non lo facesse la picchierebbero.
Jamila ricorda ancora benissimo il primo schiaffo.
Fuori da uno dei piccoli finestrini che bordano in alto il suo grande edificio si era posato un uccello. Era molto
bello. Grande, bianco, con un lungo becco giallo. Jamila si era fermata un attimo per contemplarlo
meravigliata. Com’era splendido! Le sue piume candide, appena accarezzate ed arruffate da una lieve
brezza, riverberavano un bagliore nuovo, luminoso ed accecante…
E poi all’improvviso, era giunto inatteso lo schiaffo. Un forte bruciore sul viso, un dolore acuto all’occhio e a
tutta la testa, una paura folle nel cuoricino impazzito.
Il sorvegliante l’aveva scorta a poltrire e l’aveva punita.
Non si può poltrire nel grande edificio alla periferia di Karachi, la città indaffarata, affacciata su di un golfo del
grande Oceano Indiano. Non si può perdere tempo ad osservare un gabbiano. Nel grande edificio dove si
fabbricano tappeti non ci si può fermare. Il lavoro deve proseguire sempre: incalzante, rapido, doloroso,
inesorabile, cadenzato, ingiusto, rapace, terribile, mostruoso, vorace.
Non c’è tempo per giocare. Non c’è tempo per leggere. Non c’è tempo per distrarsi.
Anche mangiare è una distrazione. Una distrazione necessaria, ma che deve durare poco. Si mangia in
gretta. O si prendono delle botte.
Non ci si può ribellare nel grande edificio dove si fabbricano tappeti. O si viene incatenati al telaio.
Come Ajib.
Jamila getta un rapido sguardo al bambino intento al lavoro presso il telaio vicino. Pesanti catene legano il
piccolo al suo strumento di tortura.
Ajib ha sette anni. Occhi scuri e mobilissimi in un faccino da monello. Capelli castani selvaggiamente
spettinati e scomposti. Ajib è un ribelle.
Durante il lavoro spesso fa smorfie, pernacchie, emette gridolini e schiocchi. Fa sempre ridere Jamila. Ma
quando il sorvegliante lo sorprende sono guai. Guai seri.
Ajib ne ha già presi parecchi, di schiaffi. E anche calci e pugni. Ormai ci è abituato.
Qualche volta Ajib ha anche tentato di fuggire, di sgattaiolare fuori. Per questo è stato legato al telaio con
una catena.
Sai che il cielo è azzurro e il sole giallo oro? -, ha detto un giorno Ajib a Jamila. Lei ha strabuzzato gli occhi.
Possibile? Jamila si era immaginata il cielo giallo polvere, come lo vedeva attraverso i vetri delle finestrelle,
lassù in cima. Quanto alla lanterna che illumina il giorno…bè, quella proprio non riesce ad immaginarsela.
Non ricorda nulla del suo passato. Ormai sono due anni che è rinchiusa lì dentro. Arriva col buio e riparte col
buio. Cosa ci potrà mai essere fuori?
Jamila è molto brava al telaio.
Tutti lo riconoscono. Ma nessuno la loda.
Se il sorvegliante o il proprietario della fabbrica la lodassero, dovrebbero aumentarle la paga, invece non le
dicono niente, le danno una miseria e godono dei frutti del suo lavoro. Il lavoro delle sue piccole mani.
Ajib quella mattina ha perso il suo primo dentino. La guarda e le sorride. E quella buffa finestrella nella bocca
dell’amico la fa ridere. Jamila però deve soffocare le risate. Altrimenti arriva un altro schiaffo. Allora si gira,
riprende più lesta il lavoro e ricomincia a canticchiare.
Sotto le sue abili manine il tappeto prende vita. Tra i nodi di lana sbocciano fiori, si arriciano tralci fronzuti
carichi di foglie, s’intrecciano motivi floreali e geometrici, ricami tramandati dalla notte dei tempi.
Eppure alla sera qualcosa di nuovo fa capolino tra i disegni del tappeto di Jamila.
Lì per lì non se n’era accorta nemmeno lei.
Quel giorno aveva lavorato molto alacremente, pensando al grande uccello intravisto oltre i vetri della
finestrella, pensando al divertente sorriso di Ajib, con quel buchetto vuoto tra i denti, pensando ad uno
straordinario mondo su cui posa in bilico un cielo azzurro, nel quale una grande lampada color giallo oro
illumina le corse di bambini su prati…Quanti pensieri strambi erano venuti in mente a Jamila!
Al termine della giornata sul suo telaio si delinea un non so che di anomalo e soprendente. Nessuno
apparentemente se ne avvede, ma Ajib le strizza l’occhio con fare complice, e sua sorella Malala le lancia
un’occhiata preoccupata.
Trascorrono i giorni nel grande edificio dove i bambini fabbricano tappeti, ed il tappeto di Jamila è ormai
quasi pronto.
Nella semioscurità i colori brillano più vividi che mai con i loro rossi vermigli, gli azzurri come lapislazzuli, i
verdi smeraldo, i bianchi candidi. Proprio questa è la novità: il bianco!
Jamila non aveva mai usato fino a quel momento il colore bianco.
Il color panna, certo. Il crema. Il beige. L’écru. L’ocra chiaro. Ma quello è un bianco abbagliante, puro,
incandescente.
Una grande macchia bianca troneggia superba ed altera al centro del tappeto di Jamila.
Ajib smette di lavorare al suo telaio e cerca di avvicinarsi alla bambina, facendo tintinnare le sue catene e
mettendo seriamente a repentaglio la propria vita: se il sorvegliante se ne dovesse accorgere…
Il bambino indica qualcosa sul tappeto di Jamila, qualcosa che neppure lei fino a quel momento era riuscita
a scorgere: una forma inconsueta, strabiliante, straordinaria, magnifica, esorbitante, traslucida, leggiadra.
E’ il gabbiano!
E’ il grande gabbiano bianco che la bambina aveva visto fuori dalle finestrelle della sua prigione. Quel
gabbiano adesso si erge imponente e maestoso tra i fitti disegni floreali del tappeto di Jamila! Ajib si lascia
sfuggire un grido, rischiando di far accorrere il sorvegliante, attualmente per fortuna impegnato altrove, e tutti
i bambini voltano la testa verso di lui. Il maestoso gabbiano al centro del tappeto si sta ingrandendo,
sfiorandone i margini, sfilacciandoli, strappandoli, lacerandoli con un rumore di fili stracciati, mentre i fiori
rosso cremisi, color del sangue, cominciano a tremolare, ciondolando le ampie corolle sugli esili steli, come
sotto la sferzata di un venticello birichino.
Jamila, distratta dal buffo sorriso di Ajib, dapprima non se ne rende conto. Quando rivolge nuovamente lo
sguardo al suo tappeto, il candido uccello ne sta già fuoriuscendo, districandosi a fatica, lentamente ma
ineluttabilmente, dal tessuto divelto. Sbattendo le grandi ali, ampie come lenzuola, smuove l’aria all’interno
dell’edificio.
I bambini lo guardano estasiati, le piccole bocche aperte per lo stupore e la meraviglia.
Jamila se lo vede proprio davanti: grande, enorme, immenso, gigantesco, sconfinato.
Non ne ha timore, però. Il gabbiano la scruta con occhi dolci e materni, quasi invitandola a saltare sul suo
dorso, a seguire il suo istinto.
-Vieni via on me!-, sembra dirle.
Jamila guarda Ajib. Il bambino si stringe nelle spalle e indica le proprie catene, poi le fa cenno di andare,
incoraggiandola a fuggire. Un’espressione triste e impotente vacilla nello sguardo di Jamila, che fa roteare
gli occhi tutto attorno dentro all’edificio, sui bambini che adesso hanno sospeso le loro attività.
Sorprendentemente, il sorvegliante non arriva ancora.
Tutti i bambini cominciano a battere le mani, le loro piccole mani che erano servite ad annodare tanti bei
tappeti. Vogliono che Jamila vada, che almeno lei possa riacquistare la libertà. Per sé stessa- Per tutti loro.
Per tutti i piccoli schiavi che esistono nel mondo.
Jamila sogguarda il gabbiano e quello pare comprendere la sua riluttanza.
Le candide ali diventano ancora più grandi e smisurate, mentre il gabbiano le tende verso i bambini presenti
all’interno dell’edificio, raccogliendoli tutti, ad uno ad uno, per farli salire delicatamente sopra al suo ampio
dorso. Per ultimi tocca a Jamila e ad Ajib. Le catene del bambino vengono spezzate come per magia, con un
rumore sordo e fragoroso, di cascata. Rotto il malefico incantesimo che teneva soggiogato il bambino, egli è
finalmente libero di balzare sulla schiena del grande gabbiano insieme alla sua piccola amica che l’ha
creato.
Con un rombo di tuono il gigantesco uccello s’invola, mandando in frantumi il grande edificio; porta fuori i
bambini nell’azzurro del cielo, davanti ad un grande sole giallo dorato.
E mentre mille frammenti di calcinacci e minuscole schegge di vetro vorticano luccicando nell’aria, i bambini
si alzano sempre più, allontanandosi nel lapislazzuli della volta celeste. Sotto di loro la città scompare,
diventando sempre più piccola, puntino infinitesimale speduto nel cosmo. Le inutili grida del sorvegliante
infine accorso si fanno sempre più roche e flebili, indistinguibili, non più udibili…
Jamila ora contempla con gioia il buffo sorriso di Ajib e non deve più trattenere la sua risata, che esplode
limpida e cristallina nell’aria pura. Anche Ajib ride, mentre batte con forza le piccole mani. I due bambini si
stringono in un forte abbraccio, mentre tutti gli altri bambini cominciano a ridere, a piangere di gioia e ad
abbracciarsi.
I bambini sono liberi! Liberi tutti! E sanno che resteranno per sempre liberi.
Ma più schiavitù per nessun bambino!
Ma più dolore! Mai più ingiustizia!
Le piccole mani dei bambini, al di sopra delle grandi ali del gabbiano, battono finalmente felici.