Il viaggiatore oscuro_stampa.indd

Transcript

Il viaggiatore oscuro_stampa.indd
O. Henry Award, 1935, 1942, 1945
Pulitzer Prize for Fiction, 1935
Menzione della Washington University, 1955
Ohioana Library Award, 1964
Dottorato ad honorem, Washington University, 1970
American Institute of Arts and Letter Award, 1974
«Nei suoi testi c’è più amarezza che rabbia, più
rassegnazione che protesta. […] La rappresentazione
intensa di una parte della vita americana, che
era singolare all’epoca ed è rimasta ancora oggi
sostanzialmente unica.»
Richard Greenleaf,
Contemporary Novelists
hanno scritto
formelunghe
46
Josephine W. Johnson, Il viaggiatore oscuro
Titolo originale: The Dark Traveler
Copyright © Josephine W. Johnson, 1963
Copyright © Del Vecchio Editore, 2015
Redazione: Carlo Alberto Montalto, Vittoria Rosati Tarulli
Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | ifix
www.delvecchioeditore.it
www.twitter.com/DelVecchioEd
www.senzazuccheroblog.it
ISBN: 9788861101326
ISBN: 9788861101517 (ebook)
«Il vantaggio dello scrittore su coloro che trovano
la propria espressione in altri campi è il privilegio
di una doppia – talvolta tripla – vita. Piacere che
si moltiplica negli specchi delle parole, e sofferenza
che si trasforma in parole.»
—
JOSEPHINE W. JOHNSON
TRADUZIONE
STELLA SACCHINI
formelunghe
Capitolo i
Era una sera tempestosa di fine febbraio, gelida e piena di
vento, e i rami dell’olmo sbattevano contro i vecchi vetri
azzurri delle finestre. Quando la porta si aprì, quasi spalancata dagli uccelli fradici e infreddoliti e dai rami in cerca di riparo, videro Paul, fermo sulla soglia, simile anche
lui a un merlo fradicio, con in braccio una vecchia valigia.
Dai capelli scuri la pioggia gli ricadeva sugli occhiali, e teneva la valigia stretta a sé, quasi fosse un bimbo stremato.
Dietro di lui, alto come una torre, il padre di Norah poggiò una mano sulla spalla di Paul spingendolo avanti e, come sempre accadeva in presenza del padre, la ragazza lo sentì emanare una calda luce dorata, anche con la gelida pioggia tutto intorno. Da bambina pensava che, al contatto con
quella luce, il gelo invernale si sciogliesse e la pioggia si asciugasse, evaporando.
– Bene, bene! – disse Douglass. – Eccoci qua! Finalmente
a casa, sani e salvi. Lisa… Norah… Tom… Christopher…
vi presento Paul.
Tutta la famiglia si fece avanti, obbediente, in una calda ondata di benvenuto, per afferrare e stringere la mano
fredda e tremante che Paul aveva teso per salutarli. Sembrava molto più giovane di quanto si erano aspettati. A dire il vero, aveva ventotto anni eppure, magro e angosciato
9
e sorridente com’era, pareva sì e no un ragazzino delle superiori. Non potevano certo sapere che in quel momento
Paul non riusciva a vedere nulla.
– Hai mangiato? – chiese Lisa. Era la prima e inevitabile domanda. I giovani non si sognano neppure di farla. È
piuttosto la domanda delle madri, delle persone responsabili, del calore e dell’ospitalità, e anche una cosa che si dice un po’ così, per riempire quegli istanti grandi e vuoti durante certi incontri bizzarri.
– Oh, sì! Anzi, no, – disse Paul. Sul suo viso era dipinta
un’espressione di imbarazzo inesprimibile e si mise a ridere, nervoso. – Ho mangiato, come no! In passato, si capisce… Ma vorrei mangiare un altro po’, certo… se avete…
se non è… – Poggiò in terra la valigia fradicia, poi, di scatto, agguantò di nuovo quel rottame appiccicoso e se lo rimise in braccio. – Se è… se non è… vorrei… – Sembrava
non riuscisse a smettere di parlare e neppure a dire una frase di senso compiuto.
– Vorremmo qualcosa da mettere sotto i denti, Lisa, –
disse Douglass. Poi accompagnò Paul in cucina, insieme
alla sua valigia.
Tom e Norah si scambiarono uno sguardo. Tom diceva
ohmiodio con gli occhi. Negli occhi di Lisa, invece, c’erano
alcune lacrime e una malcelata espressione di panico, ma
abbozzò un sorriso e disse che immaginava che sarebbero
tornati con la fame, e quindi aveva preparato un po’ di caffè e una crumb cake. – Ti piace questo tipo di torta, Paul?
È buona e appena uscita dal forno. L’ha fatta Norah.
– Sì, certo, – esclamò Paul, poi aggiunse: – Cioè, mi pote-
10
te dire che cos’è? Non l’abbiamo mai… io non l’ho mai…
– Il suo viso, rivolto verso la voce di Lisa, si era fatto di un
bianco cadaverico.
– È fatta con pane e zucchero e frolla sbriciolata, e poi
ci metti un po’ di altra roba sopra, – intervenne Tom. Lo
disse tutto d’un fiato e con estrema gentilezza. – È spettacolare!… È buonissima! L’ha fatta Norey.
– Oh, ma è un dolce allora! – disse Paul. Parlava per
esclamazioni. – Sì, sì. Ne vorrei un po’!
Christopher, che era un bambino di cinque anni grassottello e timido e con i capelli scompigliati, se ne stava
tutto serio in mezzo alla cucina, le mani dietro la schiena e
gli occhi fissi su Paul. Aveva visto una quantità infinita di
persone in quella cucina, gli amici del padre, contadini e
scienziati, ricconi e disperati, persone importanti e sciocchi,
ma nessuno somigliava a questo cugino Paul, con la faccia
stravolta, vecchia e giovane allo stesso tempo, e la giacchetta di velluto a coste grigia e trasandata, troppo stretta sulle
spalle, con le maniche corte e logore, quasi se la fosse messa
a sedici anni per poi continuare a crescerci dentro.
Pare una locusta, pensava Tom, che mentre si libera dalla pelle rimane incastrata a metà. E quelle mani, poi, che
sembrano artigli!
D’improvviso, Christopher si avvicinò al tavolo e chiese
a Paul cosa contenesse la valigia. – Mica saranno regali? –
chiese, pieno di speranza. – Per me?
Appena sentì, così vicina all’orecchio, la voce del ragazzino, Paul ebbe un soprassalto e rabbrividì. – Oh, no, bambino!
– Gli tremavano le mani e afferrò la cinghia della valigia. –
11
C’è soltanto un po’ di roba vecchia. Mi dispiace. Mi dispiace
davvero di non averti portato niente! L’avessi saputo, ti avrei
di sicuro portato qualcosa. Ma sono venuto qui in fretta e
furia… a dire il vero, non ero proprio sicuro che sarei venuto qui… mi aspettavo… temevo fosse… un altro posto. Un
posto orribile. Ma se l’avessi saputo… di sicuro avrei…
– Eccoti il caffè, Paul, – disse Lisa. Gli mise la tazza davanti e quel torrente di parole si interruppe, come se la donna avesse messo la mano sopra una fontana. Douglass, che
osservava circospetto il viso del ragazzo, si sporse sul tavolo
e mise la mano di Paul sul manico della tazza, con la scusa
di sentire il calore del caffè. – Non è troppo caldo, Paul, –
disse. – Bevine un sorso. Eccoti lo zucchero. – Ne mise un
po’ nella tazza e poi colpì forte l’orlo con il cucchiaino.
L’uomo incrociò lo sguardo di Lisa, e sia Norah che Tom
ebbero la chiara impressione che stesse dicendo: “Paul non
ci vede”, e poi: “Non preoccupatevi”.
Paul beveva e sorrideva, voltando la testa in direzione dei
suoni. Si era sistemato la valigia sotto i piedi e con la mano libera tastava la tovaglia, facendoci scivolare sopra le dita e pizzicandola, come fanno gli artigli di un uccello che cerca di tenersi in equilibrio.
Tom si tagliò un bel pezzettone di torta calda, poi altri
due. Ne infilò una fetta tra le dita gelate e inquiete di Paul.
– Una cosa così buona in vita tua non l’hai mai mangiata, – esclamò, a voce alta. – Papà, prendine un po’! – e ne
porse un secondo pezzo a Douglass. – Vivere con sprezzo
del pericolo. La ricetta di Norah per le ancore delle navi.
Impedisce alla famiglia di smarrire la rotta.
12
– Oh, sta’ un po’ zitto, – proruppe Norah. Aveva sempre avuto un’assoluta affinità con il fratello, ma in quel
preciso momento lo amava alla follia. Erano tutti ebbri di
gratitudine, tranne quel ragazzo disorientato. Christopher
si era nascosto tra le sottane della madre e, appoggiato con
la schiena alle sue gambe, fissava, pieno di desiderio, la valigia e, un po’ risentito, quell’uomo fradicio e oscuro con un
sorriso bizzarro, simile a un pianto. Non aveva certo paura, ma la sua cucina calda e familiare era stata invasa, e così le sue tendine gialle e avvolgenti, i cespugli di gerani rossi, le viole e il pavimento di mattonelle rosse, e adesso non
era più così calda e non più tutta sua.
Paul mangiava in fretta e furia, ingozzandosi di torta e
facendo cadere le briciole sulla tovaglia. Sentiva la pioggia
delle briciole sulla mano e le dita continuavano a frugare, nervose, la tovaglia vicino al piattino e, ogni volta che
scovava una briciola, l’afferrava lesto e la metteva nel piattino, ormai colmo di tutto il caffè freddo versato.
Norah osservava il suo viso. A guardare quegli occhi, non
avresti mai detto che, per lui, la stanza era buia e le persone
intorno soltanto voci. Erano azzurri e brillanti e guizzavano avanti e indietro, su e giù, come avrebbero fatto quelli di qualsiasi estraneo, arrivato per la prima volta in una
casa dove avrebbe vissuto di lì in avanti. L’arrivo di Paul
era bizzarro quanto Paul, ed era proprio questo suo essere
bizzarro a renderlo eccitante agli occhi di Norah.
Frattanto Christopher, che non pensava ad altro che alla misteriosa valigia che, malgrado la bordatura fradicia e
muffita, si immaginava (ne era convinto) piena di oggetti
13
di plastica lucidi, rossi e blu, che saltavano, si contorcevano, facevano rumori, rotolavano e fischiavano, si era avvicinato sempre più a Paul, finché, mentre il bimbo si piegava per sbirciare sotto la sedia, la sua testa di riccioli rossi non gli sfiorò la mano. Paul la ritrasse di scatto ma poi
tornò ad appoggiarla su quei riccioli caldi. Il suo viso fu
percorso da un’espressione di meraviglia e il bambino chinato, mezzo infreddolito, levò lo sguardo e abbozzò un sorrisone timido, tutto rosso in viso. – Stavo solo dando un’occhiatina, – si scusò.
– Che diamine! Ma qui c’è un bambino! – gridò Paul.
Poi sorrise, levò lo sguardo e squadrò quella famiglia attonita e la vide allora per la prima volta, insieme alle tazzine
da caffè bianche e alla torta marrone sbriciolata.
Chissà che idea si sarà fatto di noi, si chiese Norah. Chissà che idea si sarà fatto di me. Fissò Paul con sfacciataggine quasi infantile e osservò il suo viso sottile, devastato, di
una bellezza curiosa, posarsi ora su una persona, ora sull’altra, finché i suoi occhi non si fermarono su Lisa, poi si
alzò, incespicando goffo nel tavolo e facendo un inchino
lesto e nervoso. – Mrs Moore, – proruppe. – Mrs Moore!
Sono tanto felice di essere qui. – E si rimise a sedere, completamente esausto.
Norah era triste perché sembrava che sua madre non riuscisse a parlare. Lisa aveva annuito e sorriso, ma era stato
suo padre a dire le cose appropriate, quelle convenzionali,
con quel gran calore spontaneo, tipico del suo carattere.
– Siamo noi a essere felici che tu sia qui, Paul! – Norah e
Tom avevano risposto all’unisono: – Oh sì! – e Christo-
14
pher aveva strillato: – Buon anno! – per poi precipitarsi,
facendo un gran baccano, verso le sottane di Lisa.
Gli occhi di Paul seguirono, avidi, la corsa del bambino
poi, all’improvviso, si chinò, agguantò la valigia e se la mise
sulle ginocchia. – Volete vedere cosa c’è dentro? – Christopher era di spalle, ma appena lo sentì parlare si voltò con
una piroetta e tornò indietro al galoppo. – Giusto quelle
due o tre cose che sono riuscito a mettere insieme, – disse
Paul. – Io… insomma, non è poi molto. – E le mani presero a pizzicare, alla cieca, lo spago fradicio della valigia.
– Aprila! Aprila! – Christopher prese a tirare i nodi.
– Ci sono ancora i tuoi vestiti in macchina, – disse Douglass a Paul, chiaro e forte. – Ci siamo dimenticati di portare dentro l’altra valigia.
– Oh sì, grazie, hai ragione, – rispose Paul, pieno di gratitudine. – Sì, me lo sono dimenticato. Cioè, non lo sapevo. – Strattonò la cordicella fino a romperla e la parte superiore della valigia si aprì di scatto.
Dentro c’erano un piccolo gufo impagliato con gli occhi
stravolti e fissi nel vuoto, due rocce di quarzo, una mensola pesante e grigia e una macchina fotografica a cassetta.
Quando vide il gufo, Christopher spalancò la bocca senza dire una parola e allungò, timido, la mano grassoccia per
toccarlo. Paul raccolse con tenerezza quelle piume senza peso e gliele consegnò. – È un assiolo, – gli disse. – L’ho trovato morto nel bosco e me lo sono fatto impagliare. Non c’è
pericolo. È stato suffumicato. Senti qua com’è morbido!
Christopher prese ad accarezzarlo e ficcò i ditini negli occhi di vetro. Aveva dimenticato tutte le rosee speranze le-
15
gate alla valigia. Anni dopo, quando parlavano dell’arrivo di Paul, lui ricordava ancora il gufo dagli occhi gialli.
Quando dicevano che Paul era convinto potesse volare, a
lui tornavano in mente soltanto le ali del gufo e si chiedeva perché mai sembrassero tutti così tristi.
– Ah, vedo che hai lì una macchina fotografica, Paul, –
esclamò Tom, con fragorosa allegria. – Una volta o l’altra,
dovremmo scambiarci qualche consiglio. Anch’io ho realizzato un po’ di cosucce.
– Oh, grazie! Grazie! – Erano strane quelle parole, provenienti com’erano dal volto di Paul, stravolto dal terrore. –
Ma, se devo essere sincero, non ne so molto… Se devo essere sincero, non è che ci faccio granché… Certo, non nego
che ci spero… magari in futuro. Ma grazie lo stesso… Io…
Questa volta fu Lisa a salvare Paul dal terrore. – Devi
essere stanco dopo il lungo viaggio. Perché non accompagni Paul nella sua stanza, Douglass? – Lo disse in parte per
distrarre Paul, in parte perché davvero pensava che dovesse
essere stanco dopo aver fatto duecento miglia insieme a
un’altra persona… anche se quella persona era Douglass,
visto lo stato di nervosa alterazione in cui ogni minima
premura sembrava gettarlo.
Douglass si alzò prima che Paul potesse rispondere.
D’improvviso, il suo corpo massiccio sembrava stanchissimo e la sua pazienza quieta recedeva come la marea. Le
ultime ore trascorse con il padre di Paul avevano esaurito
tutte le forze di cui disponeva.
– Buona idea! Rimetti dentro le tue cose e il gufo, Paul.
Tom, tu vai a prendere la valigia in macchina. – Sollevò il
16
pesante Christopher sulle spalle mentre Paul armeggiava,
goffo, con la valigia, legava e rompeva di nuovo la cordicella e si tirava su in piedi, incespicando, in preda alla confusione più totale.
– Da che parte? Da che parte? – Spinse indietro la sedia
con tale forza che questa cadde di lato mentre il sudore gli
inumidiva la fronte.
– Con calma, Paul. Con calma. – La voce tranquillizzante di Douglass era stanca. – Andrà tutto bene! – Pregava con tutta l’anima che fosse vero.
Norah corse avanti a loro per accendere la luce delle
scale. Si precipitò di sopra fino alla camera degli ospiti
mentre Paul, ansioso, seguiva incespicando quella sagoma
azzurra e fugace, con i capelli raccolti in una crocchia pallida e dorata e il profumo del talco di giacinto, avvolta in
una nube di benessere. Dietro di lui, suo zio saliva lento,
portando sulle spalle il figlio assonnato e grassoccio, e, a
chiudere la fila, c’era Tom che faceva due gradini alla volta, con l’altra valigia sulla testa. – Ce l’hai fatta, papà! –
sussurrava, esultante. – Ce l’hai fatta!
In cucina, Lisa chiuse la porta e si mise ad ascoltare il
suono del vento invernale che, nell’ultima ora, si era fatto
più intenso, un suono di burrasca freddo e potente, insensato e minaccioso, e le sferzate del nevischio sui vetri. Poi
girò la chiave nella serratura. Non era la bufera invernale
quella che chiudeva fuori, ma tutto il passato di Paul, insieme ad Angus, suo padre.
17
Capitolo ii
Appresa la notizia della morte di Virginia, la madre di Paul
(una telefonata di Angus a mezzanotte), Douglass aveva vagato per un’ora da una parte all’altra del buio soggiorno, da
solo, pieno d’angoscia. Poi aveva svegliato Lisa. Sapeva che
l’unica cosa giusta da fare era quella che sentiva nel cuore,
ma se Lisa non era d’accordo allora poco importava quale
fosse questa santa decisione. Non provava alcuna sofferenza per la morte della moglie di suo fratello, povera, disperata Virginia… la sua sofferenza era per Paul, che aveva perso l’ultima difesa contro Angus.
– Quanto al ragazzo, lo affiderò a qualche istituto. – Quella voce, enorme ed esasperata, era arrivata da miglia e miglia
di distanza, senza conservare traccia della sua solita sprezzante durezza, andata perduta in quel lungo viaggio oscuro.
– Ha parlato di Paul come del “ragazzo”, – disse Douglass a Lisa, – non “affiderò Paul a qualche istituto”, non
“mio figlio”, ma “il ragazzo”. Gli ho detto di aspettare… di
aspettare solo qualche ora. Ché di sicuro mi sarei fatto venire in mente qualcosa.
Erano state queste parole di Angus a far decidere Lisa, il
suono terribile e alieno con cui si riferiva al figlio, con cui
indicava Paul, il ragazzo terrorizzato e dall’età indefinibile,
il bimbo gentile di tante estati fa.
18
La scatola nera del traduttore
The Dark Traveler di Josephine Johnson è stata “la mia prima
volta con uno sconosciuto”. Avevo fino a quel momento tradotto soltanto classici, anzi: Classici. Brontë, Fitzgerald, Baum,
Dickens, Gaskell, Collins, Twain. Stranieri, ma non sconosciuti. Stranieri, ma per niente estranei. Mai mi ero spinta oltre il
confine, rassicurante ma non per questo meno impegnativo,
del noto. Ché poi scopri che conosci fino a un certo punto,
e che anche nel classicum classicorum c’è una componente di
estraneità irriducibile, ma questa è un’altra storia. Insomma,
prima di The Dark Traveler mai ero partita dal binomio (apparente) straniero–sconosciuto.
È stato quindi con un’eccitazione trepidante e timorosa che ho
cominciato a leggere il romanzo della Johnson e poi a tradurlo.
All’inizio quella scrittura vergine mi ha dato il capogiro. Non
avevo punti di riferimento. Nessuna rassicurazione. Nessun lessico familiare. Quella storia oscura e lucente al tempo stesso
mi attraeva come una terra inesplorata e mi respingeva come
un pericolo in potenza. Era il mio primo vero incontro con
lo xenos, nel doppio significato che il termine ha nella cultura
greca, di straniero e di nemico. Straniero, portatore di valori
sconosciuti, ospite sacro e degno del massimo rispetto, ma al
tempo stesso, proprio in virtù di questa sua estraneità, potenziale nemico da cui guardarsi.
207
L’unica cosa che mi risuonò subito familiare, fin dai primi capitoli, fu l’autorevolezza della voce che stavo leggendo e poi
traducendo. La voce di Josephine Johnson è pacata, composta,
profondissima e, appunto, autorevole. Non urla, non si sbraccia, non denuncia apertamente. È compassionevole, ma non
offre risposte. Senza mai indulgere in facili patetismi, fa del
rigore la sua cifra stilistica. Una voce che potrebbe tranquillamente essere considerata “classica”, se l’aggettivo classico è da
riferirsi a un autore o a un’opera esemplari e fondamentali, che
costituiscono una realizzazione spirituale e culturale degna di
studio ed elevata a modello.
Ripensando alle quattordici caratteristiche che, secondo Calvino1, un “classico” deve avere per potersi definire tale, mi sono resa
conto che molte di queste potevano valere benissimo anche per
The Dark Traveler: un classico è un libro che non ha mai finito
di dire quel che ha da dire; d’un classico ogni prima lettura è in
realtà una rilettura; i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia
quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale; un classico è un’opera
che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su
di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso; chiamasi classico
un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari
degli antichi talismani; il “tuo” classico è quello che non può
esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto
e magari in contrasto con lui; è classico ciò che tende a relegare
l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di
questo rumore di fondo non può fare a meno.
1
Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1995.
208
E aggiungerei, al quindicesimo posto: un classico è un libro che,
in qualche modo, ci ha cambiato la vita, che ci lascia addosso
la sensazione che non sarebbe stato lo stesso, se non l’avessimo
letto. E se questo vale per i libri che leggiamo, vale ancor di più
per i libri che traduciamo.
Ogni traduzione è un viaggio e l’atto del tradurre può essere visto come un lungo cammino di “avvicinanza”, che rappresenta le
fasi di crescita e maturazione del traduttore, l’andata e ritorno, il
cambiamento di se stessi, la perdita e il ritrovamento della propria identità attraverso la traduzione. Mai come in questo caso,
la traduzione è stata un viaggio, sofferente e sofferto, dolorante e
doloroso, tormentato e tormentoso, estatico ed estasiato.
Uno dei tanti effetti collaterali di questo viaggio chiamato traduzione è che il testo finisce spesso per dare al traduttore l’impressione di raccontare il suo stato. Non è un fenomeno analogo
all’identificazione di un lettore, certo. È piuttosto un sentimento di sorpresa che spunta a metà strada tra le righe dell’originale
e il futuro del testo tradotto. Forse, come per la vita, i testi che
ci càpita di tradurre sono quelli di cui abbiamo più bisogno, e
l’estraneità irriducibile e oscura di un testo del genere quella
che più abbiamo bisogno di attraversare, per trovare la strada di
mattoni gialli che ci riconduca, finalmente, a casa.
E stavolta tornare a casa non è stato per niente facile.
The Dark Traveler è un testo profondamente “diviso”. Intimamente “spaccato”. Che si muove senza posa dal buio alla luce,
dal freddo al caldo, dal fuori al dentro. La schizofrenia del protagonista è un cancro che s’infiltra ovunque, permeando di sé
gli oggetti, le persone, gli ambienti. E la lingua. Che si contrae e
si ridistende, si oppone e si arrende, si spezza e si ricompone. È
209
l’amore e lo schianto di Ungaretti2. O la carezza e il precipizio,
la dolcezza e il lampo di Testori3.
L’intera struttura del romanzo poggia su un sistema binario: Paul
buono e Paul cattivo, casa di Douglass e casa di Angus, caldo e
freddo, luce e oscurità, sanità e malattia, accogliere e respingere,
amare e odiare, fede e nichilismo. La calda e rassicurante epica
domestica, il lessico familiare della cucina di Lisa, santuario del cibo dove la fame viene saziata con calde preghiere al profumo di tè
e crumb cake si contrappone alla delirante e minacciosa eloquenza
della follia, racchiusa nel libro mastro che Paul usa come diario.
Per tradurre, in generale, e tanto più nel caso di The Dark Traveler, si deve attingere a qualcosa di più profondo della propria più o meno consolidata capacità di capire e di restituire. Il
viaggio verso questa profondità si svolge quasi sempre in modo
inconsapevole e, spesso, ci si rende conto di averlo fatto solo
quando si è già a casa. Solo alla fine del viaggio, quando tu
traduttore, dopo tanto tempo e tanto errare, hai finalmente trovato la tua strada, il tuo percorso e sei ormai pronto a lasciare
una traccia indelebile di te attraverso il riconoscimento del tuo
traguardo ultimo: il tuo “Salva con nome”.
Ci vuole pazienza, per fare questo viaggio, e umiltà, e arroganza, e coraggio, e ardore, e nostalgia, e invidia4. In una parola
(ceca, non italiana, ché, ahimè, in italiano non ne abbiamo una
che le contenga tutte): ci vuole lìtost, termine di cui parla Milan
Giuseppe Ungaretti, Giorno per giorno, da Il dolore, in Vita d’un uomo.
Tutte le poesie, I Meridiani Collezione Mondadori, Milano 2005.
2
3
Giovanni Testori, Interrogatorio a Maria, Rizzoli, Milano 1979.
Sull’invidia del traduttore si veda Susanna Basso, Sul tradurre. Esperienze
e divagazioni militanti, Bruno Mondadori, Milano 2010.
4
210
Kundera ne Il libro del riso e dell’oblio5 e che, appunto, contiene
in miracolosa sintesi tutti i sentimenti di cui sopra. Il lìtost è desiderio profondo, invidioso, ardente dell’originale, nostalgia di
una felicità verbale invariabile che diventa, in traduzione, sorgente di sequenze verbali variabili in modo indefinito: a volte il
testo si mette a nuotare con bracciate rapide e vigorose verso la
riva opposta e noi, cercando di restare a galla e non affondare,
annaspiamo goffi e disperati dietro alle parole, senza riuscire a
trovare il ritmo del respiro.
Ho provato spessissimo questo sentimento, traducendo l’oscurità
della Johnson e la sua dolorosa luce. Spesso, dopo innumerevoli
tentativi, ho provato un fortissimo senso di inadeguatezza e impotenza. E in quei momenti ho desiderato con tutta me stessa
che la storia di Babele e della moltiplicazione delle lingue fosse
solo una stupida leggenda. E ho avuto nostalgia per una lingua
primigenia dove i colori con i loro significati fossero gli stessi
colori per tutti, le piante le stesse piante per tutti, e i cibi, gli
oggetti, i modi di dire gli stessi per tutti. Perché in The Dark Traveler l’estraneità è moltiplicata all’infinito dalla schizofrenia. Ed è
irriducibile. Quello che è due non potrà mai diventare uno. Mai
e poi mai. Se lo diventa, allora vuol dire che stai mentendo.
Steiner6 parla della tristezza che accompagna sempre l’atto del tradurre. Antoine Berman7 afferma che nell’esperienza del tradurre
Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, trad. di S. Vitale, Bompiani,
Milano 1985.
5
George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, trad.
di S. Velotti, Garzanti, Milano 2007. 6
Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, a
cura di G. Giometti, Quodlibet, Macerata 2003.
7
211
vi sia una vera e propria sofferenza, non solo quella del traduttore, ma anche quella del testo tradotto, quella del senso privato
della sua lettera, e scompone il mentire della traduzione in ben
tredici “tendenze deformanti”. Forse esiste, per ogni traduttore,
una forma del mentire sua propria. O, più probabilmente, ogni
traduttore esercita di volta in volta, in base al testo che ha davanti,
un mentire sempre nuovo, o una diversa tendenza deformante.
Le tendenze deformanti in cui più sono incappata (quelle di
cui sono consapevole) traducendo la Johnson sono almeno tre:
razionalizzazione, chiarificazione, allungamento. La razionalizzazione pesa in primo luogo sulle strutture sintattiche dell’originale e sulla punteggiatura, e riporta violentemente l’originale
dalla sua arborescenza (ripetizioni, proliferazione a cascata delle
relative e dei participi, incisi, frasi lunghe e ingarbugliate) alla
linearità. La chiarificazione può considerarsi un corollario della razionalizzazione, che investe più nello specifico il livello di
“chiarezza” sensibile delle parole o il loro senso. Porta a rendere
definito ciò che nell’originale è indefinito, monosemico quel che
è polisemico. L’allungamento, infine, è una conseguenza delle
prime due: razionalizzare e chiarificare esigono un allungamento, una spiegatura di ciò che è “piegato”, involuto.
Questo incontrollabile impulso a mentire va tenuto a freno e
controllato. Anche quando la sensazione della sconfitta incombe impietosa. Ma bisogna sempre ricordare che la nostra è una
sconfitta incolpevole, perché ogni perdita deve divenire garanzia
di un maggiore impegno futuro. Heidegger8 riguardo all’esperienza dice: «Fare un’esperienza con quel che sia […] vuol dire:
Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. di R. Bianchi,
Mursia, Milano 1999.
8
212
lasciare che venga su di noi, che ci raggiunga, ci piombi sopra, ci
rovesci e ci renda altro. In questa espressione, “fare” non significa, appunto, che noi siamo gli operatori dell’esperienza; fare
vuol dire qui, come nella locuzione “fare una malattia”, passare
attraverso, soffrire da cima a fondo, sopportare, accogliere ciò
che ci raggiunge sottomettendoci a lui…». Questa è la traduzione, afferma Berman: esperienza, e nello specifico «esperienza
delle opere e dell’esser–opera, delle lingue e dell’esser–lingua».
Soltanto la resa ci salva dalla pazzia: riconoscere che quel due non
sarà mai uno, accettare che la molteplicità non sarà mai semplicità, che anche la felicità più perfetta non è immune all’oscurità,
che proprio di quell’oscurità si nutre la luce. Restare sospesi, questo ci chiede la Johnson. Non provare a chiudere quell’abbraccio
che spesso sembra stringersi attorno alle spalle ossute e tremanti
di Paul. Lo si vorrebbe chiudere, certo, ma non si può. E questo è
dolorosissimo. Soprattutto quando la speranza sembra averla vinta, alla fine del romanzo. E invece no. Un solo pronome rimette
tutto in discussione. Un solo, piccolissimo pronome personale di
cui in prima stesura non mi ero nemmeno accorta. Era lì già dal
primo capitolo. Quando Paul arriva, infreddolito e spaventato, a
casa dello zio Douglass, con la sua vecchia valigia stretta al petto, “quasi fosse un bimbo stremato”. Nella vecchia valigia c’è un
gufo impagliato dagli occhi vitrei, che subito accende la curiosità
del cuginetto, Christopher: Years later when they spoke of the coming of Paul he still remembered the owl with its yellow eyes. When
they said Paul thought he could fly, he remembered only the wings of
the owl, and wondered why they seemed so sad about it all («Anni
dopo, quando parlavano dell’arrivo di Paul, lui ricordava ancora
il gufo dagli occhi gialli. Quando dicevano che Paul era convinto
213
potesse volare, a lui tornavano in mente soltanto le ali del gufo
e si chiedeva perché mai sembrassero così tristi, in generale»).
Ecco, quando i miei occhi si sono soffermati quel fondamentale
e letale momento di più su quel “he could fly”, il cuore mi si è
schiantato. All’inizio avevo pensato che si riferisse al gufo, perché
spesso, nel corso del romanzo, gli animali hanno pronomi maschili o femminili. Ma poco sopra l’autrice si riferisce al gufo con
il pronome personale neutro it (Christopher patted it and poked
his fingers in the glass eyes). Per cui quel he forse si riferisce a Paul,
e non al gufo. E questo cambia tutto. Cambia come cambia essere vivi o essere morti. Resta un’ambiguità irriducibile, che ho
voluto conservare in italiano. Resta un abbraccio sospeso, pronto
a spezzarsi o a chiudersi al primo battito di ciglia. E non ti resta
che continuare a viaggiare, nell’oscurità.
Stella Sacchini
Stella Sacchini è traduttrice letteraria dall’inglese, dal latino
e dal greco. È fra i traduttori di John Berger, a cura di Maria
Nadotti, edito da Marcos y Marcos, e di Francis Scott Fitzgerald, Racconti, a cura di Franca Cavagnoli, uscito nei Classici
Feltrinelli. Sempre per i Classici Feltrinelli ha tradotto e curato
Jane Eyre, di Charlotte Brontë (Premio Babel 2014), e Il
meraviglioso mago di Oz, di L. Frank Baum. È autrice di Fuori
posto, romanzo pubblicato da Coazinzola Press. Per Del Vecchio editore ha tradotto Le stanze dei fantasmi (2014).
214
Indice
Il viaggiatore oscuro
pag. 7
Note
pag. 201
Josephine Johnson, scrittrice dell’attico
pag. 203
Ringraziamenti
pag. 206
La scatola nera del traduttore
pag. 207
in uscita
«Il romanzo non è una verità rivelata
o un dogma, ma un tentativo di dialogo.»
—
FOUAD LAROUI
formelunghe
Un anno con i francesi
di Fouad Laroui
traduzione di Cristina Vezzaro
nella stessa collana
1. Nato di sabato di Ray Banks
2. Confessioni di una giocatrice d’azzardo di Rayda Jacobs
3. L’ebbrezza degli dei di Laurent Martin
4. Un’indagine senza importanza di Robert Hültner
5. Sweet Sixteen di Birgit Vanderbeke
6. Sale e miele di Candy Miller
7. Senza via d’uscita di Val McDermid
8. Saloon di Aude Walker
9. Il trucco della morte di Astrid Paprotta
10. Fiamma abbagliante di Barry Levy
11. Alle spalle di Birgit Vanderbeke
12. Colazione con Mick Jagger di Nathalie Kuperman
13. La dea madrina di Robert Hültner
14. L’assassino di Banconi di Moussa Konaté
15. Quindici giorni di novembre di José Luis Correa
16. La bambina che imparò a non parlare di Yasmine Ghata
17. Morte in aprile di José Luis Correa
18. Il sole è una donna di Félix de Belloy
19. L’imperatore della Cina di Tilman Rammstedt
20. L’onore dei Kéita di Moussa Konaté
21. La straordinaria carriera della signora Choi
di Birgit Vanderbeke
22. Le sorelle Brelan di François Vallejo
23. Apostoloff di Sibylle Lewitscharoff
24. L’ispettore Kajetan e gli impostori di Robert Hültner
25. L’impronta della volpe di Moussa Konaté
26. A portata di mano di Tilman Rammstedt
27. Si può fare di Birgit Vanderbeke
28. La traccia della sirena di José Luis Correa
29. La tempesta di neve di Robert Hültner
30. Blumenberg di Sibylle Lewitscharoff
31. Concerto per mio padre di Yasmine Ghata
32. Cosa vuoi fare da grande di Ivan Baio, Angelo Orlando Meloni
33. Exchange Place, Belfast di Ciaran Carson
34. Quasi mai di Daniel Sada
35. Il silenzio di Max Frisch
36. I passanti di Laurent Mauvignier
37. Gli innocenti di Burhan Sönmez
38. Verità imperfette di Aa. Vv
39. Johanna di Felicitas Hoppe
40. Esilio di Çiler İlhan
41. L’ultimo minuto di Marcelo Backes
42. Il gatto di Schrödinger di Philippe Forest
43. Arcano 21 di Luca Ragagnin
44. Il linguaggio del gioco di Daniel Sada
45. Perché non sono un sasso di Gianni Agostinelli
I S T R U Z I O N I P E R L’ U S O
IL VIAGGIATORE OSCURO
VO
VO
VO
Il viaggiatore oscuro (VO) si muove
in ambiente subatomico e possiede
carica elettrica negativa. Gli studiosi non sono ancora concordi nel considerarla una particella elementare.
Insieme ai protoni e ai neutroni, è
componente essenziale di atomi e,
sebbene contribuisca alla massa
totale dell’atomo per meno dello
0,000001%, ne caratterizza sensibilmente la natura e ne determina le
proprietà: per esempio nel legame
chimico covalente che si forma in
seguito alla condivisione di elettroni tra due o più atomi, non è escluso che il VO contribuisca al legame
stesso.
Si tratta di una particella molto
studiata anche in diversi ambiti della fisica, in particolare nell’elettromagnetismo. La particolarità è che
le intuizioni più interessanti rispetto
al VO vengono dagli ambiti più
disparati, quali la sociologia, la psi-
cologia e non in ultimo gli studi letterari. Si sospetta che il moto del VO
possa generare un campo magnetico; la variazione della sua energia e
della sua accelerazione causano l’emissione di fotoni, come accade nel
caso di accelerazione di elettroni. In
casi specifici è inoltre responsabile di
un’accelerazione nella conduzione
della corrente elettrica e del calore.
Come nel caso dell’elettrone è
del tutto probabile che la maggior
parte dei VO presenti nell’universo risalga direttamente al Big
Bang, ma si stanno recentemente
studiando il decadimento beta
degli isotopi radioattivi in collisioni ad alta energia e la possibilità di
annichilimento, che comunque
andrebbe sviluppato tramite una
collisione con il positrone, e che
porterebbe la particella assorbita
alla partecipazione in un processo
di nucleosintesi stellare.
Finito di stampare nel Marzo 2015
presso la tipografia Printì di Saulino Ivana
Manocalzati (Avellino)