Pierri - Cis Editore

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MARIA PIERRI
Identità e trasformazione
del setting
Molti psicoanalisti che si misurano, oggi come in passato, con le difficoltà e
con le soddisfazioni del nostro lavoro, si trovano di fronte alla tentazione di attribuire l’impasse della cura alle trasformazioni della società e alla collegata crisi
della psicoanalisi, mentre stentano a riconoscere e a valorizzare la crisi trasformativa dentro di sé, e a portare nel contempo il dovuto rispetto, oggi come nel
passato, al fatto che la psicoanalisi continua a essere la “peste” che mette in
crisi e dissemina trasformazioni nella società, nei pazienti e negli analisti, e per
quanto si cerchi non si lascia addomesticare né si può dare per scontata.
Il tema da me scelto, il setting, può essere una buona chiave di lettura delle
trasformazioni che gli analisti si trovano ad attraversare insieme ai loro pazienti.
Si discute molto sull’uso del lettino e delle quattro sedute, che se rappresentano un punto fermo nella tradizione psicoanalitica e nella formazione dello
psicoanalista, tanto da entrare a far parte della sua identità professionale e del
suo senso di appartenenza all’IPA, non possono essere considerati quella
pietra di paragone, distintiva e specifica della funzione analitica, che è costituita dall’attenzione e dalla consapevolezza personale e relazionale ai processi
inconsci e al transfert.
Le quattro-cinque o sei sedute non sono legate soltanto ai diversi ritmi della
società dell’inizio del Novecento, oltre che alle legittime esigenze dell’allestimento della cura collegate alla circostanza che i pazienti di Freud arrivavano a
Vienna e si stabilivano in una pensione prossima alla Berggasse per distendersi
sul lettino e sottoporsi a un trattamento analitico pressoché quotidiano, della
durata di qualche mese. E neppure il lettino ci è stato tramandato semplice-
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mente a causa di un’idiosincrasia di Freud per la posizione vis à vis, come alcuni autori che proclamano la crisi della psicoanalisi banalizzano.
Le sedute quasi quotidiane e la disposizione dell’analista dietro al paziente
disteso sul lettino costituiscono elementi fondanti della forma storica che ha
preso fin dall’inizio l’incontro fra Freud e le sue prime pazienti isteriche: è all’interno di quelle circostanze relazionali e di quel contesto clinico che si è costruita la teoria psicoanalitica, disciplina in cui ogni teorizzazione, ricordiamo,
ha intimamente a che fare con il suo autore, con la sua storia e le sue relazioni
significative (Pierri e Racalbuto, 2001).
I racconti dei pazienti di allora ci descrivono nell’incontro l’impatto con la
presenza fisica di Freud, con i suoi occhi penetranti, ma anche le impressioni all’ingresso nel suo studio e nella sua casa: “Ricordo ancora, come se li avessi davanti agli occhi, i due studi contigui, con la porta di comunicazione aperta e con
le finestre che affacciavano sul cortiletto. Lì c’era sempre un senso di pace sacra,
di tranquillità. Le due stanze di per sé dovevano sorprendere qualsiasi paziente,
perché non ricordavano affatto il gabinetto di un medico, ma piuttosto lo studio
di un archeologo. C’erano statuine di ogni tipo e altri oggetti insoliti, che anche
un ignorante avrebbe riconosciuto come pezzi di scavo egiziani. Qua e là sulle
pareti, pannelli di pietra rappresentavano scene varie di epoche da lungo tempo
scomparse. Qualche pianta in vaso ravvivava le due stanze, e il folto tappeto e le
tende vi aggiungevano una nota di intimità domestica” (Gardiner, 1972).
Come ci ricorda Cremerius (1985), fra le due stanze che componevano il
suo studio Freud sovente si spostava, invitando il paziente a passare dal lettino
alla stanza accanto, quella degli oggetti antichi, dove si soffermava a parlare
prendendo in mano una statuetta che poteva illustrare il tema particolare che
intendeva approfondire.
In un recente lavoro, ripensando a queste immagini, alla presenza di questi
“reperti archeologici”, alla collezione di antichità i cui simboli e miti avevano
accompagnato le prime scoperte dell’autoanalisi, e al gesto di Freud che
prende in mano la statuetta, che lo aiuta a parlare con il paziente, mi sono
chiesta se per il padre della psicoanalisi questi concreti oggetti non costituissero il suo personale modo di ritornare indietro nel tempo, di ritrovare i reperti
infantili, concreti ricordi di un antico linguaggio “materno” (Pierri, 2003).
Ho in mente quanto afferma a questo proposito Bollas (1987): a suo parere
Freud, nella creazione della situazione analitica, dello spazio e del processo
analitico, ha tacitamente proposto quel modello delle cure materne che aveva
trascurato nella teoria e che non era in grado personalmente di elaborare, e
per questo motivo la pratica psicoanalitica si verrebbe a costituire proprio quale
forma di controtransfert difensivo in relazione al primo rapporto con l’oggetto.
Freud non ci ha affidato semplicemente una tecnica e una forma, e dunque
anche una resistenza controtransferale all’incontro; ci ha indicato soprattutto
un percorso creativo che fin dall’inizio gli analisti hanno cercato di ripercorrere e fare proprio, di approfondire e vivificare.
Credo che l’elemento più rivoluzionario e insieme rappresentativo di una
fedeltà all’eredità freudiana fu introdotto, dopo Ferenczi e la sua “flessibilità”,
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da una sua allieva, Melanie Klein, con la creazione del setting per l’analisi infantile, in considerazione della necessità di costruire un ambiente adatto al linguaggio comunicativo del bambino e alla sua modalità di “associare” nel gioco.
Così facendo la Klein ci ha indicato un luogo di possibile riflessione e progresso teorico-clinico. Winnicott, l’analista che più di ogni altro sapeva riconoscere il valore della Klein, ne ha compreso il profondo messaggio e ha proposto a sua volta un originale modello di setting nella sua esperienza di psicoanalisi della madre e del bambino nella “situazione prefissata” (l’osservazione
del bambino in una situazione prefissata è un lavoro psicoanalitico di una portata rivoluzionaria, forse non sufficientemente compreso, e non ha nulla a che
vedere, intendiamoci, con l’“infant observation” della Bick, che incontra un
maggiore gradimento). Winnicott in realtà è il primo che fonda le trasformazioni del setting sulla persona dello psicoanalista, e non tanto per il suo lavoro
di riconoscimento e di valorizzazione del controtransfert, ma perché, pur
senza dichiararlo in maniera manifesta, riconosce quali elementi del controtransfert gli elementi di allestimento concreto del setting, le circostanze collegate a elementi della realtà dell’analista, comprese le sue cosiddette “idiosincrasie”. Egli non ha nel suo studio reperti archeologici, e neppure si trasferisce
come la Klein nella stanza dei giochi dei figli, ma sul tavolo del suo ambulatorio pediatrico ha l’abbassalingua luccicante, e osserva come il bambino, portato in consultazione dalla madre, dalle sue braccia comincia a osservarlo e si
muove verso l’oggetto, lo prende in mano, lo mette in bocca e infine lo butta
lontano: da strumento medico l’oggetto si trasforma in oggetto di gioco, di comunicazione e di rappresentazione. Vediamo nel suo caso dunque come l’analista possa riuscire a interpretare nel setting una propria variabile soggettiva
(vedi anche Eissler, 1953) – il fatto di essere pediatra e di lavorare in un ambulatorio -– e a usarla non come difesa ma come strumento ulteriore di comunicazione (“Through” pediatrics to psychoanalysis è il titolo del testo in cui compare
il suo articolo).
Quello che ci sorprende sempre e può metterci in crisi nel nostro lavoro è il
fatto che non può funzionare solo come una tecnica appresa: il lettino e le
quattro sedute sono un ricordo e un omaggio alla tradizione, un punto di arrivo per l’apprendista psicoanalista, e stanno a significare la conquista della
propria poltrona, ma tale conquista non è scontata, va in realtà costruita e ricostruita volta per volta col singolo paziente: e non si tratta tanto di dimostrare
elasticità ma piuttosto di accedere alla creatività, quella che Lopez chiama
creatività preconscia, della persona (1991).
Nel primo lavoro apparso su gli argonauti Lopez segnala il pericolo che l’analista possa avvertire “la sua stessa maschera, il setting e la neutralità come
qualcosa di misterioso e inquietante” (1979), mentre è indispensabile che se
ne impadronisca, la faccia propria e possa interpretarla in maniera rappresentativa. In uno dei lavori di Lopez che mi aveva più colpito proprio nel corso
della mia formazione, quando come psichiatra e psicoterapeuta mi interrogavo sul diventare-essere una psicoanalista, e le psicoterapie che avevo avviato
gradualmente cambiavano forma e sostanza e cominciavano a trasformarsi in
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analisi, Lopez, ricordando l’opera di un altro grande interprete-trasformatore
dell’eredità freudiana, Wilhelm Reich, affermava l’importanza della forma dell’incontro fra analista e paziente e incoraggiava l’analista a modulare la propria tecnica in relazione alle necessità del paziente, considerando in certi casi
la costruzione graduale di un setting e di una situazione analitica una riuscita
elaborazione controtransferale dei modelli teorici e tecnici di riferimento, di
cui allora l’analista si dimostra autentico interprete (1992).
È questa ricerca di autenticità creativa della persona che permette di superare quanto di arbitrario, personalistico, idiosincrasico o, viceversa, di eccessivamente anonimo, istituzionale e irreggimentato può essere proposto al paziente nel setting come resistenza dell’analista all’incontro.
Il lavoro dello psicoanalista è spesso avvicinato a quello dell’artista e dell’artigiano: nonostante il primato attribuito alla parola e al linguaggio, il trattamento necessita di manodopera, ha a che fare con un lavoro di costruzione
concreta della realtà della relazione, dello sfondo sul quale potranno iscriversi
le immagini e i pensieri. Ogni artista è anzitutto un artigiano, conosce e impara a usare i materiali più diversi, si costruisce e prepara le tele, sceglie la
pietra da lavorare, e a volte cerca il materiale disponibile a portata di mano,
quello che l’ambiente circostante offre e ne fa tesoro e lo trasforma.
Freud paragonava spesso l’analista allo scultore, che procede per via di levare o di porre; non mi pare abbia utilizzato mai quella del pittore (piuttosto si
riferiva al poeta) come costruttore di immagini e di fantasie. Il paragone con il
pittore, anzi con l’acquerellista, mi è più congeniale e mi sembra rispondere
meglio alle esigenze di immediatezza e intuito creativo che il nostro lavoro richiede(1) (c’è da cogliere il momento giusto, la giusta luce, il timing), ma
anche alla pazienza, ai tentativi ripetuti e alla notevole scuola richiesta: il pittore molto spesso provvede a costruirsi anche le cornici. Abbiamo imparato da
Bleger (1967) l’importanza del lavoro sulla cornice analitica.
D’accordo con Berlincioni e Petrella (1993) sono del parere che la cornice,
oltre a contenere aspetti primitivi e muti, indistinti, possieda nello stesso
tempo una sua specifica funzione distintiva e costruttiva, organizzatrice, qualcosa che considero una “matrice” o “mente locale”, che si riattiva e che nel
corso del trattamento “cresce” e si differenzia in relazione e in dialogo con l’evoluzione e l’elaborazione degli eventi affettivi a cui serve da contesto, ponendo in campo l’esigenza di riadattare il ritmo alle nuove condizioni.
Il colloquio psicoanalitico italo-argentino tenutosi a Bologna nel 2002 è stato
dedicato al tema del setting: molti relatori si sono interrogati sia sul lavoro analitico di continuo aggiustamento del setting sia sulle variazioni vere e proprie
atte a permettere di trattare pazienti con patologie non nevrotiche, o la parte
non nevrotica della patologia dei pazienti, e insieme preparare le condizioni
per il passaggio dal lavoro sulla dimensione narcisistica del transfert al lavoro
sul transfert oggettuale (Rappoport de Aisemberg et al.). C’è stato chi ha pro1. Hawthorne affermava: “Un buon acquerello è un evento fortunato, ove si precisi
l’affermazione col dire che, più bravo è l’artista, più spesso l’evento si verifica”.
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posto di considerare l’analisi del comportamento del paziente di fronte al setting, la sua accettazione o trasgressione, come una messa in scena della storia
infantile (Fischbein e Schust). Altri infine suggerivano, come nella più fedele
tradizione, di cominciare a valorizzare gli attuali ostacoli nella costruzione dell’alleanza col paziente e nello stabilire un setting classico come fonte di nuovo
sapere, non solo delle difficoltà dei pazienti, attuali e infantili, ad avere fiducia e
a dipendere dall’oggetto, ma soprattutto come luogo di potenzialità della cura
ancora non dispiegate, che si attivano nell’incontro creativo fra due persone e
possono a volte restare celate in quella che consideriamo un’umile cornice.
C’è un consenso generalizzato sul fatto che questo lavoro elaborativo sul setting costituisca una novità non scevra di pericoli, ma sia un impegno inderogabile che pone l’analista di fronte a un problema di perizia, ma soprattutto di
creatività.
Come qualcuno ha ricordato, il numero delle sedute non è un fattore necessario e sufficiente perché si faccia un’analisi, questo non dimostra però che
la frequenza sia un fattore irrilevante ai fini dello sviluppo di tale processualità,
e del legame su cui fondare la situazione analitica (Fonda, 2002).
Vorrei riferire qui quanto affermava un mio paziente dopo qualche anno di
analisi: “Ho capito che gli amici non sono subito amici, è il tempo che fa sì che
siano gli amici”.
E, come allieva di Lopez, parafrasando il titolo di un lavoro da poco tradotto su gli argonauti, vorrei proporre alcune vignette cliniche con il titolo: Lettino sì, poltrona sì.
Marinella è una quarantenne che mi chiede una psicoterapia dopo aver interrotto varie cure psichiatriche e psicoterapeutiche: si tratta di una paziente
con problemi di personalità borderline, vivace e intelligente, che se è riuscita a
condurre una vita abbastanza normale, e dal punto di vista affettivo relativamente soddisfacente, ha però sempre dovuto convivere con una profonda sofferenza personale, caratterizzata da senso di inadeguatezza, instabilità, notevole influenzabilità e oppositività nelle relazioni più strette, vissute con idealizzazioni magiche e precarie, subito persecutorie, frequenti sbalzi dell’umore
con tendenza alla depressione, periodi di angoscia confusiva e paralizzante. Il
tipo di difesa caratteriale generalmente utilizzato è un continuo darsi da fare
per gli altri, non solo in famiglia, con un certo fanatismo maniacale, interrotto
da periodici crolli e ritiri in se stessa, che la vedono incapace di occuparsi
anche solo del quotidiano.
Riporta un primo grave scompenso, con confusione e depressione, che fa risalire alla prima esperienza di psicoterapia (e a mio parere probabilmente all’impatto idealizzante-persecutorio con una psicoterapeuta con cui si erano ripresentate le difficoltà della relazione con la madre), e appare molto impaurita di ripetere con me tale esperienza disastrosa.
Per circa un anno e mezzo Marinella resta in terapia con me, a due sedute
alla settimana vis à vis, e riesce nel frattempo a seguire abbastanza stabilmente
anche una cura psicofarmacologica da un collega psichiatra: la relazione ha
notevoli alti e bassi, nel senso che la paziente chiede aiuto e vicinanza emotiva
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e subito la respinge, in un’altalena che a ogni piè sospinto la porta ad annunciare ora che è guarita, e che ha finalmente capito cosa è meglio fare, come
un’illuminazione, ora che non c’è nulla da fare e che è troppo malata.
In effetti proprio in una svolta di “guarigione” Marinella mi annuncia per
l’ennesima volta che intende concludere il trattamento, decisione che decido
di accettare e rispettare, pur esprimendo con una certa cautela una mia diversa opinione.
Dopo circa tre anni Marinella ritorna in consultazione da me (riferisce alti e
bassi e comunque non ha avuto gravi scompensi ed è riuscita a mantenere stabilmente una terapia farmacologica), è nuovamente in depressione e mi rimprovera di non averla fermata nella sua decisione di interrompere, ma esprime
anche il terrore di peggiorare la sua situazione con la sua rinnovata richiesta.
Ci accordiamo ufficialmente per non iniziare una psicoterapia, e proseguiamo
con un setting un po’ particolare: infatti dopo le prime consultazioni, che fisso a
distanza di 15 giorni, e che mi trovo a collocare alla stessa ora e giorno della settimana, di fronte a un suo ennesimo dubbio (cominciamo o non cominciamo?) le
propongo di regolarci in questo modo: le dichiaro senza difficoltà che l’ora della
seduta è libera e può restare vacante. Sta a lei fissarla telefonicamente secondo le
sue esigenze, di volta in volta (una volta al mese o alla settimana). Questo accorgimento ci permette in realtà di sgombrare dal campo l’altalena, il desiderio e il
timore della regressione. Marinella sembra sperimentare che sono in grado di
aspettarla e comincia a mettere a fuoco i suoi propri movimenti distinguendoli
da quelli dell’oggetto che la invade o la abbandona. In questo modo siamo andati avanti per quasi un anno con una frequenza grossomodo quindicinale, e
una certa stabilità di investimento emotivo nel legame da parte sua.
Nel frattempo il lavoro di elaborazione interno ha potuto prendere un’efficacia che nella prima tranche di psicoterapia non era pensabile.
In particolare recentemente la paziente sta mettendo a fuoco la gelosia e il
meccanismo con cui cerca di aggirarla, diventando complice dell’indulgenza
dei genitori nei confronti del fratello. Per la prima volta riesce a prendere una
posizione distinta dai genitori e dagli altri fratelli, rispondendo di no alla richiesta di contribuire a un prestito al fratello minore. Questa presa di posizione, molto difficile e spinosa per la paziente, le permette di liberarsi dalla
prigionia della “solidarietà a delinquere” e delle eterne proteste e polemiche
che ne seguono. È proprio in tale frangente, dopo avermi riferito di essersi sottratta alle lusinghe telefoniche della madre, che cercava di riallacciare le catene, e di riportarla nell’altalena “buona e accomodante-arrabbiata e cattiva”,
dicendole esplicitamente che la lasci stare e che in questo periodo ha bisogno
di stare per conto suo, che si verifica l’episodio seguente.
Marinella mi telefona non semplicemente per fissare il suo appuntamento,
ma angosciata e confusa vuole anche subito parlarmi di qualcosa che è successo e preme bruscamente, con tono un po’ invasato: “Volevo prima chiederti, posso darti del tu?”.
Le rispondo senza incertezze che non mi pare il caso e le chiedo a mia volta
cosa la spinge a farmi tale richiesta. Non sa spiegare, ma aggiunge poi che la
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madre, con cui faceva telefonate abbastanza asciutte e un po’ più rade, in concomitanza di un’assenza di alcuni giorni del padre, sentendosi evidentemente
sola, nonostante quanto le aveva detto, era passata da casa sua (cosa che in genere non fa se non invitata) e non avendo trovato nessuno era, ciò nonostante,
riuscita ugualmente a entrare attraverso una porta lasciata aperta nel garage e
le aveva lasciato in cucina un biglietto di saluto intrusivo, seduttivo e altamente
inquietante.
Marinella sembra vivere l’episodio come un manifesto della madre al diritto
continuato di poter usare e di abusare di lei a suo piacere, negando la realtà
della sua esistenza e dei suoi desideri come individuo distinto, ma anche come
seduzione a un’unione senza confini e porte chiuse, in cui è esclusa la presenza del padre o di fratelli (equivalente alla richiesta del tu che poi mi rivolge).
L’intrusione viene riportata e riattualizzata nella relazione con me. In seduta sarà possibile per la prima volta interpretare e limitare la sua confusione,
la perdita dei confini e sottolineare il valore del legame, della distanza e del
controllo delle porte delle telefonate.
* * *
Loredana, tipica donna manager del Nordest, al telefono mi colpisce per la
voce rauca e maschile. Scopro poi una bella donna, decisa e agguerrita negli
affari, del tutto indifesa nelle relazioni affettive: in queste si ritrova puntualmente a impersonare la donna tappabuchi, sempre disponibile e alla mercé di
uomini fragili, egoisti e narcisisti, che la trascurano, la tradiscono e comunque
la fanno sentire in colpa e inadeguata. In realtà sono uomini cui non sembra
mai riuscire a darsi veramente. Accetta con apparente facilità la mia proposta
di tre sedute sul lettino (che devo ritenere a questo punto avventata) e nel
corso di brevissimo tempo scivola insensibilmente alle due sedute sulla poltrona di fronte a me (senza che io riesca a spiccicare qualcosa di sensato al
proposito), del tutto sorda a ogni mio successivo accenno alla cosa. Nella stessa
maniera si dimostra assolutamente impermeabile a qualunque mio tentativo di
interpretare il suo arrivare in seduta perennemente con 15 minuti o più di ritardo, al fatto che tenga sempre acceso il cellulare e che anzi nel corso delle sedute si impegni in conversazioni improrogabili ora per necessità di lavoro, ora
per la sua patologica bontà e cortesia, riceva e mi legga gli “sms”.
Ci si chiederà come mai abbia potuto tollerare un simile e organizzato insieme di acting nel setting finendo nella condizione stessa che la paziente si
trova di solito a occupare nelle relazioni più importanti affettivamente: assumendomi dunque la posizione masochistica di essere da lei nei fatti trattata
come chi tanto può aspettare, e avvertire di contare meno della parrucchiera
(da cui per motivi di public relations va tre volte la settimana) o della massaggiatrice, di restare spettatrice del suo comparire sempre così tirata, ricercata, impegnata e ricca, costretta ad arrangiare qualche patetica interpretazione, di
cui per altro sembra ringraziarmi per educazione.
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Con notevole abilità, un po’ vezzosa, ora scusandosi con mossette e modestia
da piccola bambina (e vocione maschile), ora cercando di farmi ridere, Loredana sguscia via e riesce in genere a fare quello che vuole, aggirando ogni possibile asperità fra di noi, disarmandomi con l’esibire il comportamento sottomesso
del cucciolo alle mie interpretazioni, che comunque vive alla fin fine come critiche di un nonno che si lascia pure che dica, ma non sa come vanno le cose.
Distendersi nuovamente sul lettino è assolutamente escluso per lei: e in effetti avverto che sta a significare il confronto con una passività e una dipendenza per il momento intollerabili, collegata a vissuti di trascuratezza e abbandono da parte di entrambi i genitori.
Mi lascia intuire, e raramente riferisce direttamente, un’incolmabile solitudine. Nello stesso tempo ha una assoluta inconsapevolezza della propria
rabbia, che emerge furiosa nelle situazioni di lavoro quando individua ingiustizie o soprusi dei rivali, furia che cavalca allora abilmente con la ferocia di
una tigre che difende i piccoli, con piena giustificazione e innocenza ma da
vera e propria rapinatrice.
Seconda di quattro femmine, l’infanzia era trascorsa per lei all’insegna della
povertà affettiva e del non esserci: aveva reagito alla sensazione di non esistere
per i genitori assumendo attivamente tale posizione in maniera difensiva, tanto
che la nonna soleva dire di lei: è senza occhi né bocca. Cresciuta come un maschiaccio (aveva regalato generosamente la sua unica bambola a un’amichetta),
era entrata prontamente nel mondo degli affari con immediato successo, e
dava lavoro a tutta la famiglia originaria, padre compreso: era arrivata da me,
quarantacinquenne depressa, dopo lutti e un matrimonio disastroso alle spalle.
Aveva realizzato l’omosessualità del marito solo dopo la nascita di un figlio e l’aveva tollerata e nascosta a lungo mantenendo una parvenza di famiglia.
Mai un giorno di ferie, una solitudine dopo quella dell’infanzia, accuratamente e sistematicamente evitata, sempre sorridente e seduttiva, pare non
voler essere di peso e man mano, al di là dello sconcerto ma anche della simpatia che mi suscita, intravedo nel suo innocente e disinibito occupare e prendere possesso del mio studio la presenza di una parte più sana, la bambina che
viene sulle ginocchia, tutto guarda e tutto tocca e mette in bocca. Seduta di
fronte a me, mentre cerca di farmi ridere, e di far sì che non la prenda troppo
sul serio, continuamente si muove, apre e chiude la cinghietta del Rolex, gioca
con l’orecchino di brillanti, fa scorrere avanti e indietro la zip della maglia e en
passant si impossessa della mia penna, fa oscillare il calamaio del mio tavolo,
scarabocchia un foglietto, in una continua e pressante ricerca di contatto. Nel
frattempo mi osserva nei dettagli, apprezza e decide di comprare degli occhiali
come i miei, commenta un mio paio di scarpe, ne acquista un paio simile, decide di iscriversi all’università poiché si sente davvero portata per la psicologia
e riesce a empatizzare con i problemi degli altri.
Intanto passano circa tre anni e Loredana fa dei superficiali ma non banali
progressi: riesce a mettere le distanze con la famiglia dell’amante fisso, sposato
appunto, di cui in precedenza frequentava spensieratamente in amicizia la moglie e i figli. L’umore migliora, e anche la considerazione di se stessa, riesce a
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stabilire delle relazioni di vera amicizia con donne, e si avventura in esperimenti di solidarietà femminile e anche in qualche conflitto, più contenta e fiduciosa, si può permettere di essere meno agguerrita e rapinatrice negli affari,
comincia a coltivare qualche passatempo, riesce a fare qualche giorno di ferie
meno preoccupata del vuoto e della solitudine.
Arrivati a questo punto Loredana sembra poter scivolare fuori dell’analisi
senza colpo ferire: prospetta il passaggio a una seduta (anche in questo caso
mascherando la sua iniziativa, e facendola seguire a una mia assenza, del tipo
“visto che abbiamo fatto una sola seduta questa settimana dalla prossima possiamo continuare a una...” o ancora “non le farò perdere altro tempo”), cerca di
trovare un’uscita dalla tossicomania del non riconosciuto legame di dipendenza
da me, uscita possibilmente indolore (attraverso una graduale riduzione del dosaggio) e insieme onorevole (si accontenta dei risultati e progetta di potermi sostituire con l’ultimo innamorato, che si spera sia finalmente quello buono).
In realtà non è in grado di concludere e sento invece il rischio di un’interminabilità: potrebbe continuare all’infinito con la psicoterapia, così come in
tutto questo tempo continua a mantenere, insieme ai nuovi innamorati, la relazione insoddisfacente ma sicura con l’amante sposato, di cui periodicamente
proclama la fine.
Ma questa volta riesco finalmente a metterla alle strette, a ricordarle il nostro legame e a interpretarle le difficoltà a riconoscerlo. Forte della stabilità
raggiunta penso che sia possibile mettere alla prova la relazione e le chiedo
conto di tutto il suo apparato di agiti, con interpretazioni organizzate relative
alla complessa e strutturata organizzazione difensiva della personalità. Aggiungo che posso mostrarle tutto questo adesso perché ora può accettarlo.
Finalmente sembra davvero ascoltarmi: il nostro lavoro ha una svolta e alla
seduta successiva Loredana arriva dimostrando di aver colto il messaggio. Riferisce di essere riuscita ad affrontare una chiarificazione del rapporto con l’ennesimo uomo da cui stava rischiando di farsi parassitare. Ha realizzato di aver
tollerato finora di dividerlo con altre, questa volta non se lo nasconde: si è mostrata, lo ha messo alle strette su silenzi, appuntamenti saltati o ritardi, su “sms”
di altre donne, anzi ha voluto che lui staccasse il cellulare... Alla fine aggiunge
che ha potuto dirgli quelle cose perché adesso ha senso, un legame con lui si è
stabilito, ora si può rischiare la rottura, prima lei non esisteva ancora per lui.
* * *
Per concludere vorrei sottolineare che il lavoro di costruzione del legame e di
un setting via via più maturo e organizzato non comporta a mio parere una
qualità di elasticità, nell’analista, anzi tale attributo spesso dato a forme di setting non classico mi sembra ambiguo e fuorviante, e suggerisce una qualche
indulgenza dell’analista verso il paziente e verso se stesso. In questi frangenti
l’analista nella sua posizione di attesa si trova a dover essere particolarmente
forte e rigorosamente attento nel mettere a fuoco e dosare la variazione che
l’incontro con quel particolare paziente richiede, mantenendo la fedeltà alla
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tradizione e al gruppo di colleghi da un lato, a se stesso e al paziente dall’altro,
non cedendo alla tentazione di perdere la fiducia e di partire con velleitarismi
o irrigidimenti difensivi che costituiscono un modo per evitare la tensione generativa e anche una certa solitudine che il nostro lavoro comporta.
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Maria Pierri
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