A proposito dell`episodio psicotico che presentò l`Uomo dei lupi

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A proposito dell`episodio psicotico che presentò l`Uomo dei lupi
A PROPOSITO DELL’EPISODIO PSICOTICO
CHE PRESENTÒ
“L’UOMO DEI LUPI”
[Il concetto di « castrazione » in psicoanalisi]
di
SERGE LECLAIRE
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Nota del traduttore
Una prima traduzione italiana dello scritto di Serge Leclaire , À propos de l'épisode
psychotique que présenta "l'homme aux loups" (1958) (La Psychanalyse, n° 4, P.U.F., pp. 83110; ristampato in Cliniques méditeranéennes, n° 33-34, Erès, Toulose 1992, pp. 135-157), è
apparsa, col titolo A proposito dell’episodio psicotico presentato dall’ “uomo dei lupi”, in un
una raccolta di saggi di autori vari (Solomon Resnik e Piera Aulagnier, oltre allo stesso Leclaire)
edita da Marsilio nel 1978 nella collana Psicologia analitica, col titolo Psicosi e linguaggio, a
cura di Pietro Bria, Sergio De Risio, Filippo Maria Ferro. Le gravissime insufficienze di questa
traduzione, sia dal punto di vista tecnico che teorico, sono da noi discusse nello scritto “Tendenza verso l’uomo o relazione verso l’uomo?”, posto al seguito della nostra traduzione del
saggio di Leclaire. In quest’ultimo sono saltuari, e per la gran parte mancano i riferimenti di
pagina al testo di Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile (caso clinico dell’uomo dei lupi)
[1914] e di Ruth Mack Brunswick, Supplemento alla “storia di una nevrosi infantile” di Freud
[1928], largamente citati dall’autore.
Anche la traduzione edita da Marsilio non riporta i riferimenti di pagina, limitandosi a
dichiarare le fonti bibliografiche da cui prende le citazioni: S. Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile (l'uomo dei lupi), in Casi Clinici, Einaudi, Torino, 1952 [d’ora in poi CC]; R. Mack
Brunswick , Supplemento alla Storia di una nevrosi infantile di Freud, in Letture di Psicoanalisi,
Boringhieri, Torino, 1972, pp. 94-139 [d’ora in poi LP].
Per quanto riguarda la presente traduzione, i riferimenti citati sono: S. Freud, Dalla storia
di una nevrosi infantile (caso clinico dell’uomo dei lupi) [1914], traduzione di Mario Lucentini
e Renata Colorni, in Opere di Sigmund Freud, volume 7, Boringhieri, Torino 1975 [d’ora in poi
OSF]; R. Mack Brunswick, Supplemento alla Storia di una nevrosi infantile di Freud [1928], traduzione di Gianna Tornabuoni, in Freud/Gardiner il caso dell’uomo dei lupi, Newton Compton, Roma 1974 [d’ora in poi NC]. Confrontando i brani citati nella traduzione Marsilio con
quelli delle fonti in nostro possesso, abbiamo constatato: 1) la maggior duttilità linguistica della traduzione delle OSF è purtroppo mal compensata dall’adeguamento forzato all’apparato
critico della Standard Edition, dove per esempio Verwerfung è tradotto con “ripudio”, invece
che con “rigetto”, e Kastration, Kastrationskomplex “ con “evirazione”, “complesso di evirazione”, invece che con castrazione, complesso di castrazione, ecc., laddove CC traduce correttamente dal tedesco di Freud e non dall’inglese di Strachey; 2) la traduzione NC del testo di
R. Mack Brunswick è lacunosa riguardo alla conoscenza del lessico psicoanalitico di base (per
esempio, “libidico” in LP diventa “emotivo”in NC). Pertanto, in tutti quei casi dove l’abbiamo
ritenuto opportuno, anche considerando l’inevitabile adattamento delle citazioni al contesto
del saggio di Leclaire, abbiamo lievemente o sostanzialmente modificato la traduzione dei luoghi
citati.
Moreno Manghi
Chies d’Alpago, agosto 2011
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... und alle Arbeit richtete sich
darauf, sein ihm
unbewusstes Verhâltnis zum
Manne aufzudecken 1.
E lo scopo di tutto il nostro lavoro fu di rivelargli la sua relazione inconscia verso l’uomo,
2
scrive Freud per riassumere il senso dei quattro anni di
analisi che l’uomo dei lupi aveva sostenuto con lui. Ed è sicuramente nella misura in cui questa impresa rimase incompiuta che, a distanza di dodici anni,
dopo varie tribolazioni, si sviluppò nello stesso soggetto un delirio ipocondriaco a struttura paranoica.
Potremmo in qualche modo parlare di « psicosi sperimentale » per designare la malattia mentale che fu curata e guarita da Ruth Mack Brunswick
3
con la psicoanalisi: « psicosi », proprio come sostiene a più riprese l'autore del
Supplemento alla storia di una nevrosi infantile; « sperimentale », in quanto,
nell’ambito di dati tanto completi quanto è possibile ottenerne in psicopatologia (dopo una psicoanalisi), interviene un’ingerenza (il dono, rinnovato ogni
S. Freud, Gesammelten Werke, XII, p. 153.
S. Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile (caso clinico dell’uomo dei lupi) [1914],
traduzione di Mario Lucentini e Renata Colorni, in Opere di Sigmund Freud, volume 7, Boringhieri, Torino 1975, p. 589 (trad. rivista).
3
R. Mack Brunswick, Supplemento alla “Storia di una nevrosi infantile” di Freud, pubblicato originariamente in The International Journal of Psycho-Analysis, IX, 1928; ripreso in The
Wolf-Man by the Wolf-Man, a cura di Muriel Gardiner; trad it. di Gianna Tornabuoni, in Sigmund Freud / Muriel Gardiner, Il caso dell’uomo dei lupi , Newton Compton, collana Psicologia
e psicoanalisi, Roma 1974, pp. 232-269.
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anno, di una somma di denaro) che può essere sperimentata e vissuta dal paziente solo come una reale rimessa in questione delle sue relazioni con l’uomo
Freud. Involontariamente sperimentale, senza dubbio, dal momento che Freud
aveva ritenuto che l'analisi fosse terminata: proprio quello che successivamente R. M. Brunswick contraddice palesemente:
« Se il paziente avesse completamente superato, come sembrava, il suo atteggiamento femminile nei riguardi del padre, quei doni per lui sarebbero stati privi
di ogni significato libidico » 1.
Siamo di fronte, non v'è da dubitarne, a una situazione eccezionale che
propone alla nostra riflessione la questione « squisita » dell’insorgere di una
psicosi – momento privilegiato che ci viene descritto con una sobrietà e una
penetrazione ammirevoli. Senza misconoscere le insidie di un commento testuale, che talvolta sale in cattedra, e che spesso è un pretesto per allontanarsi
dall'esperienza, tenteremo, riprendendo questa duplice osservazione, di restarne fedeli lettori.
Ecco come ordineremo la nostra riflessione: dopo aver brevemente ricordato l'essenziale della storia dell'uomo dei lupi (I), studieremo, esaminando le
relazioni verso l'uomo, il problema del complesso di castrazione (II), esamineremo in seguito come il paziente si comportò davanti alla possibilità della castrazione (III), prima di tentare di articolare, nel modo più chiaro possibile,
l'insieme dei fattori storici e accidentali che contribuirono alla costituzione
della psicosi (IV).
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Ibid., p. 265 (trad. rivista).
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I
Quando, nel 1910, si presentò a Freud, l'uomo dei lupi aveva ventidue
anni; aveva appena ereditato l'immensa fortuna del padre morto due anni prima:
« si tratta, ci dice Freud, di un giovane la cui salute aveva subito un crollo in seguito a un’infezione blenoraggica contratta nel diciottesimo anno d’età, e che
quando iniziò il trattamento psicoanalitico, parecchi anni pi tardi, era assolutamente incapace di affrontare la vita e di fare a meno dell’altrui aiuto. Aveva trascorso in modo pressoché normale i dieci anni dell’adolescenza prima che insorgesse la malattia e condotto a termine senza speciali difficoltà gli studi secondari.
I suoi primi anni invece erano stati dominati da gravi disturbi nevrotici i quali
presentatisi subito prima del compimento del quarto anno d’età sotto forma
d’isteria d’angoscia (zoofobia) si erano poi trasformati in una nevrosi ossessiva
a contenuto religioso, protrattasi con i suoi postumi fino al decimo anno d’età. » 1
Freud precisa che solo la nevrosi infantile costituì l'oggetto di questo lavoro, con esclusione della nevrosi dell'adulto, della quale non ci dice altro se
non che la considera come lo stato subentrante a una nevrosi ossessiva spontaneamente risolta, ma la cui guarigione aveva lasciato dietro di sé dei postumi.
Tutta l'analisi è in realtà incentrata sullo studio di un sogno fatto dal
bambino pochi giorni prima del suo quarto Natale, che costituiva anche il suo
quarto compleanno; è il sogno in cui compaiono i lupi, sei o sette di numero,
seduti su un gran noce davanti al quale la finestra del sognatore si spalanca da
sé. L'analisi di questo sogno conduce al problema della scena primaria, a cui il
paziente avrebbe assistito all'età di un anno e mezzo. Ma la maggior parte dei
risultati dell'analisi, come anche gli elementi essenziali che permisero la ricostruzione della nevrosi infantile, furono ottenuti da Freud nel corso degli ultimi
mesi di quattro anni di analisi, sotto la pressione di un termine irrevocabile fissato allo scopo di forzare la resistenza e la passività del soggetto.
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Op. cit., p. 487 (trad. rivista).
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È così che Freud, dopo aver raccolto un materiale di straordinaria ricchezza, e accuratamente ordinato la cronologia degli avvenimenti, lasciò partire il
paziente, a suo parere guarito, prima dello scoppio della grande guerra.
Doveva rivederlo alla fine dell'anno 1919; l'uomo dei lupi riprese per alcuni mesi l'analisi allo scopo, che fu raggiunto, di venire a capo di una recidiva
della sua costipazione isterica: ma non poté pagare questa analisi.
Il seguito della storia ci è noto soprattutto attraverso l'osservazione di R.
Mack Brunswick . In effetti, ella ci dice,
« al termine dell'analisi l'uomo dei lupi – il milionario di un tempo – non aveva
né lavoro né mezzi di sussistenza, sua moglie era ammalata, ed egli si trovava in
condizioni economiche disperate. Freud allora mise insieme una certa somma di
denaro per il suo ex-paziente, che gli era stato utilissimo ai fini teorici dell'analisi ».1
Freud ripeté questa colletta ogni primavera, per sei anni.
Quando, nell'ottobre 1926, l'uomo dei lupi riprese dietro consiglio di
Freud un trattamento gratuito con R. M. Brunswick , guadagnava appena, ci
dice, di che nutrire la moglie malata e se stesso.
In effetti, dopo molte tribolazioni causate da gravi preoccupazioni ipocondriache centrate sull'intestino, poi alternativamente sul naso e sui denti,
all'inizio dell'ottobre 1926 il suo stato appariva assai preoccupante.
« Soffriva di un'idée fixe ipocondriaca. Si lamentava di essere vittima di una lesione nasale provocata dall'elettrolisi, fatta nel corso del trattamento di ghiandole sebacee del naso, che si erano ostruite. Secondo lui, la lesione consisteva in
una cicatrice, in un foro, o in un tumore del tessuto cicatriziale. Il profilo del suo
naso era rovinato per sempre! […] Come aveva potuto, si chiedeva, il celebre
prof. X., il più eminente dermatologo di Vienna, rendersi colpevole di una lesione così irreparabile ... Con tutto il cuore, ci dice R. M. Brunswick, il paziente odiava il prof. X. come il suo più mortale nemico ...
L'Uomo dei Lupi era disperato. Malgrado sapesse che per il suo naso non si poteva far nulla per la buona ragione che non c'era nulla da fare, nessun male da
1
Op. cit., p. 235 (trad. rivista).
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curare, egli sentiva di non poter continuare a vivere in quella condizione di irreparabile menomazione ... Trascurava la vita quotidiana e il lavoro, assorbito
com'era, a esclusione di tutto il resto, dallo stato del suo naso ... Centro della
sua vita era il piccolo specchio che si portava in tasca e il suo destino dipendeva
da ciò che esso gli rivelava o stava per rivelargli ...
La diagnosi di paranoia, scrive ancora R. M. Brunswick, non mi sembra necessiti,
a sostegno, di altre prove che quelle fornite dalla storia del caso stesso. Il quadro
clinico è tipico di quei casi conosciuti sotto il nome di paranoia a carattere ipocondriaco ».1
Quanto alla cura stessa che durò solo alcuni mesi e portò a una trasformazione spettacolare, l'autore scrive che non rivelò nulla di nuovo riguardo al
materiale infantile.
« L'origine della nuova malattia, precisa, era un residuo non risolto del transfert
che, dopo quattordici anni2, sotto la pressione di particolari circostanze, era diventato la base per una nuova forma della vecchia malattia. »3
« Non abbiamo dovuto fare altro, dice R. M. Brunswick, che occuparci di un'unica cosa, di un residuo del transfert su Freud »,
al che modestamente aggiunge:
« Nel corso dell'analisi, il mio ruolo è stato quasi trascurabile, poiché ho agito
unicamente come mediatore tra il paziente e Freud. »4
Al termine della cura, continua, l'uomo ritornò quel che avevamo imparato a conoscere di lui attraverso la storia pubblicata da Freud:
Leclaire riassume il caso e riporta brani stralciati da varie pagine dell’articolo di R. M.
Brunswick, di cui abbiamo rivisto la traduzione. (n. d. t.)
2
Contiamo dodici anni dal 1914 (conclusione della prima analisi con Freud) al 1926 (inizio dell'analisi con R. M. Brunswick).
3
Op. cit., p. 234 (trad. rivista).
4
Op. cit., p. 268 (trad. rivista).
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« una personalità vivace, un individuo scrupoloso, simpatico, con interessi e talenti vari, e una profondità di comprensione e precisione analitica da costituire
una costante fonte di piacere. » 1
Tale da allora è restato, come ci riferisce Muriel Gardiner, che ci descrive
negli stessi in termini l'impressione che conserva del suo ultimo incontro con
l'uomo dei lupi, a Linz, nel 19492.
Quanto al meccanismo della psicosi, ecco l'opinione di R. M. Brunswick :
« Difficile dire per quale ragione nel paziente si manifestò una forma paranoica
in luogo della nevrosi originaria… Io credo, prosegue, che la forma paranoica che
assunse la malattia vada addebitata unicamente alla profondità, e al relativo grado di regressione del suo attaccamento al padre. » 3
La circostanza occasionale sarebbe pertanto stata, secondo R. M. Brunswick , la malattia di Freud, e il timore della sua morte che
« accrescendo il pericoloso attaccamento passivo del paziente, con il conseguente accrescimento della tentazione di assoggettarsi alla castrazione, spinge
l'ostilità a un punto tale che, per darle sfogo, è necessario ricorrere a un nuovo
meccanismo, il meccanismo della proiezione. » 4
Tuttavia, lungi dal limitare a questo meccanismo la sua riflessione sulla
genesi dell'episodio psicotico, ella sottolinea altri due punti ai quali presteremo particolare attenzione:
1) « il significato libidico dei doni che percorre tutta la storia del paziente
come un filo conduttore » 5;
1
2
Op. cit., p. 260 (trad. rivista).
M.M. Gardiner, Meetings with the wolfman, in «Bullettin of the Philadelphia Associa-
tion for Psychoanalisis », 2-32-38, giugno 1952, ristampato in « Bullettin of the Menninger
Clinic », vol. 17, marzo 1953, n. 2 pp. 41-48; [trad. it. di Gianna Tornabuoni, Incontri con
l’Uomo dei Lupi (1938-1949), in Sigmund Freud / Muriel Gardiner, Il caso dell’uomo dei lupi ,
cit., pp. 273-279].
3
Op. cit., p. 267 (trad. rivista).
4
Op. cit., pp. 267-268 (trad. rivista).
5
Op. cit., p. 265 (trad. rivista).
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2) « la pressione esercitata dal termine fissato [...] che permise al paziente di trattenere in sé quel nucleo che più tardi produsse la sua psicosi »1.
II
A rischio di scoprire fin dall'inizio l'impostazione semplicistica del nostro
lavoro, tenteremo subito di ordinare sommariamente questa lunga storia.
Se, come abbiamo già sottolineato, tutto il lavoro di Freud fu, come egli
stesso ammette, di rivelare al paziente la sua relazione inconscia verso l'uo-
mo, è del tutto evidente che questa relazione si rese attuale nel corso degli anni 1910–1914, nella situazione analitica e nel transfert che ne conseguì. Freud
ci dice chiaramente che aspettò che « l'attaccamento del paziente nei suoi
confronti » fosse divenuto abbastanza forte per conferire all'analisi un impulso
decisivo (sul quale avremo occasione di ritornare a lungo).
Non è meno evidente allora (la seconda parte della storia ce lo ha mostrato) che questa relazione inconscia verso l'uomo, fuori dal transfert, e soprattutto nel transfert, fu analizzata in maniera incompleta.
Certamente, l'espressione relazione verso l'uomo, “Verhältnis zum Man-
ne”, sorprende in primo luogo per il suo carattere impreciso e per le sue troppo
vaste implicazioni. È tuttavia quella scelta da Freud, senza dubbio perché era
la sola che potesse giustamente abbracciare il problema in tutta la sua ampiezza. Se la locuzione evoca per alcuni la « relazione d'oggetto », e per altri il
« complesso di Edipo », è senza alcun dubbio per le migliori ragioni. Ma abbiamo preferito, come d'altronde ci spinge a fare l'insieme delle osservazioni,
1
Op. cit., p. 266 (trad. rivista).
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affrontare l'argomento delle relazioni del paziente verso l'uomo secondo
l’angolatura particolare del complesso di castrazione.
Il partito che pertanto abbiamo scelto è di esaminare la storia dell'uomo
dei lupi dal punto di vista del problema della castrazione.
Occorre ricordare che ciò facendo non apportiamo alcuna innovazione e
che per ogni lettore, in ogni pagina di questa storia, la questione riappare, insistente, tenace. Castrazione augurata sul piano libidico, associata all'erotismo
anale, temuta narcisisticamente, svariati equivalenti della castrazione quali il
gonococcico, le relazioni con il sarto, il dentista, il dermatologo tra gli altri, realizzazione immaginaria poi allucinatoria della castrazione: questi sono, tanto
per ricordarli, i temi fondamentali attorno ai quali gravitano tutta la prima e la
seconda analisi dell'uomo dei lupi.
Potremmo ora, forti della nostra esperienza analitica e consci della nostra
scienza, maneggiare senza troppo imbarazzo il concetto di castrazione; sembra comodo, relativamente semplice da usare, fonte di un immaginario polimorfo e plasmabile, sempre disponibile a essere illustrato in modo seducente.
Così, beninteso, senza prendere il termine castrazione nel senso di una mutilazione reale, gli diamo per esempio il significato assai ampio, come scrive Dolto 1, «di una frustrazione di possibilità di soddisfacimenti sessuali ».
Ma, a tentare una definizione, ci si accorge rapidamente della relativa imprecisione del concetto psicoanalitico di castrazione. Se evoca la mancanza
dell'oggetto, bisogna dire che si tratta, come sottolinea Lacan 2, della mancanza reale risultante dalla privazione di un oggetto necessariamente simbolico,
del torto immaginario subito in conseguenza della frustrazione di un oggetto
reale o piuttosto – è questo il senso che egli attribuisce al termine castrazione
1
2
Psychanalyse et pédiatrie. Le complex de castration, Amédée Legrand, Paris, 1940.
Séminaire de textes freudiens, Clinique Sainte-Anne, novembre 1956.
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– di una specie di debito simbolico generato dalla possibilità di una mutilazione immaginaria?
Ecco perché, scontrandoci con l’imprecisione di questo concetto, ci è
sembrato più semplice, prima di considerare i diversi modi in cui se ne può
mancare, esaminare di cosa a ogni istante si parla quando si dice castrazione, e
cioè il pene.
Ecco dunque questo oggetto eminentemente singolare del corpo maschile
a proposito del quale conoscere soltanto l'anatomia e il meccanismo fisiologico significherebbe conoscerlo male, benché sembra che molti analisti, per sentirsi più sicuri, siano tentati di studiare il complesso di castrazione, come avviene in una certa psicoanalisi infantile, ricorrendo alla sua osservazione diretta.
Se, in un certo senso, non v'è niente di più naturale di questo attributo
del sesso maschile, tuttavia non esiste un oggetto più carico di realtà simbolica
del fallo. Fondamentale organo della generazione, testimone per eccellenza, elemento che può fare di un uomo un padre, il sesso maschile ci indica il luogo
stesso dell'articolazione del reale e del simbolico, perché in effetti, solo la testimonianza della fede o della legge possono render conto della paternità.
Nulla potrebbe illustrare il carattere simbolico del pene meglio del problema della paternità. « L'astronomo sa se la luna sia abitata o no, all’incirca
con la stessa certezza con cui sa chi sia stato suo padre, ma con ben altra certezza sa invece chi è sua madre ». Del resto a proposito di questo aforisma di
Lichtenberg, da lui citato, Freud propone il seguente commento:
« Un gran progresso della civiltà si compì il giorno in cui l’uomo decise di avvalersi, accanto alla testimonianza dei sensi, della deduzione logica e di passare
dal matriarcato al patriarcato. (…) Ancora oggi, in tedesco, il testimone che attesa qualcosa davanti a una corte giudicante si chiama Zeuge [letteralmente “generatore”], per la parte che ha il maschio nell’atto di procreazione; già nei geroglifici troviamo rappresentato il testimone con l’immagine dei genitali maschili »1
S. Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (caso clinico dell’uomo dei topi)
[1909], in Opere, Boringhieri, Torino 1974, vol. 6, pp. 63-64, nota 2 (trad. lievemente rivista).
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Se per ciascuno è certo – o quasi – che è attraverso l'intervento di un pene che fu concepito nel ventre della madre (è questo l'aspetto naturale della
funzione del fallo) resta tuttavia il fatto che proprio in questo punto preciso
sorge la domanda: pene di chi? Se tuttavia questa domanda non sorge quasi
mai, salvo nel delirio, è appunto perché il soggetto, saldamente e ciecamente
installato nell'ordine simbolico della società, si fida di ciò che è scritto nei libri;
e per fortuna è proprio così ... da quando vi sono padri di famiglia. A partire
dal concetto di padre (che in un certo qual modo specifica l'uomo), si differenzia già, e senza neppure fare intervenire una qualche tendenza nevrotica, il
« concetto di una piccola cosa separabile dal corpo » come scrive Freud.
È questa dunque, fin dall'inizio, prima ancora di parlare di castrazione, e
senza giri di parole, la dimensione autentica dell'oggetto in questione, il pene,
nella misura in cui organizza e struttura realmente e simbolicamente le relazioni tra gli uomini.
Abbiamo già avuto modo di dire che la questione cominciava dall'appartenenza del pene che ha concepito; se in effetti, quanto al fatto puro e semplice della concezione, è indifferente ch'esso appartenga al marito o all'amante,
tutto il problema sarà per l’appunto, su un altro piano, di sapere se il pene in
questione sia stato quello dell'amante o del marito.
È così che ci appare chiaramente una specie di separazione virtuale tra un
pene indifferenziato e la singolarità imprescindibile del suo possessore. Occorre senza dubbio, per farci capire meglio su questo punto (che per essere troppo evidente rischia di essere misconosciuto), ricordare che a livello della nevrosi comunemente accade che, nel pensiero del bambino e dell'adulto nevrotico, questo pene che chiamiamo indifferenziato viene a trovarsi assai naturalmente, per così dire, attribuito alla madre per esempio.
È questo pene, di cui l'uomo-padre è realmente provvisto (qualunque sia
l'uso che possa farne o la padronanza che possa averne), che spesso è attribuito alla madre, un pene oggetto per il bambino di desiderio o di timore; è
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questo pene che, nell'avventura edipica per esempio, diviene il simbolo per eccellenza, il termine attorno al quale tutto si ordina e tenta di unificarsi.
È qui – ed è tutto quel che volevo sottolineare per il momento – che vediamo in qualche maniera disegnarsi tra il reale e il simbolico, la linea tratteg-
giata che converrà seguire per operare la castrazione nel senso psicoanalitico
del termine.
Ecco dunque alcuni degli elementi principali, che ora dobbiamo considerare a livello della realtà clinica e di tutto quello che l'immaginazione può
farne per il nevrotico.
Vedremo così in quale maniera la linea tratteggiata si ispessisca fino a diventare una linea di separazione.
Se è questa dunque, prima d'ogni storia nevrotica, la funzione simbolica
del pene, come potrà il nostro nevrotico adattarsi al suo pene reale, se è maschio, o alla sua non meno reale assenza, se è donna? Come constatiamo ogni
momento sul nostro divano, è grazie al gioco della propria immaginazione che
lei se ne attribuisce uno grandioso, o che lui troppo modestamente se ne priva.
A livello della clinica psicoanalitica, che qui si separa dalla clinica comune
(dove ci si contenta di distinguere maschio e femmina), il paradosso comincia
dalla semplicissima constatazione che « non è perché si è provvisti di un pene
che se ne può avere l'uso ».
Penso sia inutile illustrare tale evidenza di fronte a psicoanalisti1. Ma il
fatto che si tratti di un'evidenza clinica, non ci dispensa tuttavia dall'esaminarla con più attenzione.
Perché tante difficoltà a proposito di una differenza nell'apparenza, differenza che al bambino occorre talvolta tanto tempo a riconoscere?
Devo tuttavia sottolineare che questo punto di vista urtò alquanto un eminente praticante forse impregnato di un certo biologismo di moda presso coloro che credono così di fondare solidamente la loro scienza.
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Il fatto è che per l'appunto la differenza in quanto tale, e proprio per essere riconosciuta, suppone che l'oggetto in causa, il pene, sia non solo provato
nella sua funzione, ma soprattutto e prima di tutto riconosciuto nella sua singolarità, sperimentato, messo da parte nella sua attività. Ora, come si può « riconoscere » se non simbolizzando, dando un nome (che non manca mai
nell'uso infantile o preteso tale) che da quel momento rende possibile il confronto, si tratti di differenza o di rassomiglianza?
È solo mediante questa esperienza individuale, questa modesta scoperta
dell'ordine simbolico a livello del proprio corpo, che si sviluppa tutta la serie di
problemi immaginari.
Poiché di questo « significante » pene (o qualunque altro) e di questo
simbolo fallico – che situa il bambino tra i ragazzi dal momento in cui ricono-
sce che non è lui a mancarne –, di questa realtà e di questo simbolo, che fare,
se non sogni: ed è proprio quel che accade.
È attorno a questa proliferazione immaginaria, a queste sovrapposizioni e
confusioni non riconosciute, nell’intima vicinanza con il mondo delle sensazioni, che nasce allora ciò che chiamiamo correntemente il complesso di castrazione.
« Le feci, il bambino, il pene, scrive Freud, costituiscono pertanto una unità, un
– sit venia verbo – concetto inconscio, il concetto di una piccola cosa separabile
dal corpo ».1
Egli sottolinea, d'altronde, nel corso di questa osservazione e nello stesso passo, il contributo dell'erotismo anale all'attaccamento narcisistico che il soggetto prova nei confronti del suo pene. Questo «contributo» dell'erotismo anale è
tipico di quel che chiamiamo sovrapposizione o confusione immaginaria.
È così che il concetto di un pene simbolicamente indipendente si trova
immaginariamente alterato dall'esperienza del rigetto del bolo fecale.
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Op. cit., pp. 557-558 (trad. rivista).
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C’è qui una certa ambiguità, ci sembra, quando Freud descrive questo rigetto come un dono, cioè come un atto primitivamente simbolico; poiché, se
tale rigetto è in effetti simbolico, è nella misura in cui rappresenta l'esperienza
di una specie di bipartizione, di parto autoerotico e nient’affatto (come in alcune circostanze può secondariamente diventare) un ridicolo intermediario tra
una madre nevrotica e il bambino.
Questa distinzione, fedele alla tradizione, ci appare tuttavia capitale. È
proprio in essa, infatti, che possiamo riconoscere – da una parte – il prototipo
sperimentale dell’alterità profondamente narcisistica, duale, puramente immaginaria in fin dei conti, nata da un’esperienza di creazione autogena mediante
bipartizione, che sfocia nel concetto dell'altro come parte di se stesso; e –
dall’altra – l'alterità terza , primitivamente simbolica, il cui modello è l'immagine, altamente simbolica, del pene.
Possiamo di sfuggita sottolineare quanto questa esperienza di bipartizione immaginaria contenga, per intero, la modalità, inesauribile per definizione,
della struttura ossessiva in tutta la sua purezza, illustrata clinicamente nei temi
familiari delle « serie » o dell’immagine indefinitamente ripetuta in un gioco di
specchi.
Questa alterità immaginaria, puramente narcisistica, è proprio quella a cui
si arresta il futuro ossessivo. Contrariamente all'uso approssimativo che si fa
abitualmente della concezione dell'organizzazione libidica di tipo anale, bisogna riconoscere chiaramente che non c’è scambio, rigorosamente parlando, a
livello dell'analità, ma un semplice confronto immaginario attraverso
l’intermediario derisorio di quel terzo oggetto narcisistico che sono le feci, che
non sono altre, se non in quanto sono in realtà lo stesso.
Qualunque sia il rivestimento simbolico secondario con cui si possa adornare l’oggetto escremenziale, questo altro, parte di sé, resterà fondamentalmente ciò che è, il cattivo stesso per così dire.
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Se ci siamo dilungati un po' laboriosamente a distinguere il carattere, tanto simbolico quanto reale, del possesso del pene – da una parte – e l'apporto
immaginario dell'erotismo anale – dall'altra –, è innanzitutto perché si trovano
profondamente intrecciati nel complesso di castrazione; e anche perché ci
sembra essenziale sottolineare che lo scambio di tipo anale è solo un inganno
perpetuo, profondamente differente, in questo, dall'economia del dono, che è
tanto più reale quanto più è altamente simbolico.
A un certo livello di umanità cosa vi è di più reale, per l'impegno che
comporta, del « dono » della parola?
Non ci soffermeremo sul terzo termine della formula freudiana: pene = feci = bambino, perché ciò ci porterebbe a considerare troppo a lungo l'estrema
complessità di questo terzo termine, il bambino, che nella sua realtà partecipa,
a gradi diversi, dell'ordine immaginario così come dell'ordine simbolico.
Vedremo tra breve, a proposito dell'economia dello scambio nell'uomo
dei lupi, fino a che punto era necessario tentare, almeno nel quadro del complesso di castrazione, di precisarne il valore secondo una prospettiva specificamente psicoanalitica, poiché lo scambio che perde il suo valore simbolico
comporta la schiavitù del legame immaginario; e la peculiarità dell'ossessivo è
appunto di essere prigioniero di questo legame.
III
Dopo aver tentato di mettere così in evidenza alcuni dei principali componenti immaginari e simbolici del concetto psicoanalitico di castrazione, è
opportuno tornare al testo stesso dell'analisi freudiana, per esaminare l'atteggiamento del soggetto davanti alla possibilità della castrazione, della quale vo-
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lentieri ora dirò (riassumendo) che risulta principalmente da un misconosci-
mento della funzione simbolica del pene.
Occorre a questo punto citare per esteso un passo dell'osservazione di
Freud, sul quale Lacan si era a lungo soffermato nel corso del suo seminario
consacrato alla questione della psicosi:
« Noi conosciamo già, scrive Freud, quale atteggiamento il nostro paziente
aveva adottato di fronte al problema della castrazione. Egli la rigettò e si attenne alla teoria del coito anale ».1
Su questo punto Freud insiste, attirando la nostra attenzione con
un’osservazione importante ma di difficile comprensione:
« Quando dico che la rigettò, lo dico nel senso immediato di questa espressione, nel senso che non ne volle saper nulla; nel senso, cioè, della rimozione » 2.
Egli ricorda allora una distinzione fondamentale che aveva fatto alcune
pagine prima in forma lapidaria: «Una rimozione è qualcos’altro da un rigetto» 3, in tedesco: « Eine Verdrängung ist etwas anderes als eine Verwerfung ».
Lacan propone di tradurre il termine Verwerfung, rigetto, con forclusion, « preclusione ». Freud quindi precisa:
« Nessun giudizio, dunque, fu propriamente formulato circa l’esistenza
dell’evirazione, ma si fece semplicemente conto che essa non esistesse. » 4
Questa frase in se stessa ci sembra perfettamente chiara nel senso che il
rigetto o preclusione della castrazione implica l'assenza di ogni giudizio di esiOp. cit., p. 558 (trad. rivista).
S. Freud, op. cit., G.W., XII, p. 117; [trad. it. cit., p. 558].
3
Ibid., p. 111 (trad. it. cit., p. 553, trad. rivista).
4
Op. cit., p. 558.
1
2
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stenza sul fatto, contrariamente, ricordiamolo, alla rimozione che invece suppone per lo meno che il fatto da rimuovere sia stato riconosciuto come esistente. È dunque necessario che il fatto da rimuovere (scomparsa dal pene, per esempio) sia già stato considerato in quanto tale, che il pene per esempio sia
stato in certo qual modo simbolizzato, poi situato, reperito in una rete di conoscenze, per quanto elementare; in altri termini, è necessario che il signifi-
cante (pene, per esempio) abbia già potuto integrarsi nella trama di un discorso personale.
Non vi è qui, possiamo esserne certi, nessuna interpretazione abusiva del
testo freudiano. Per maggior sicurezza, continuiamo dunque la semplice lettura del testo citato:
“ Un tale atteggiamento (di rigetto), tuttavia, non poteva durare indefinitamente, neppure negli anni della nevrosi infantile. Come vedremo più innanzi abbiamo buone ragioni per ritenere che a quest’epoca il paziente avesse riconosciuto
la realtà della castrazione. » 1
Al che aggiungeremo, a puro titolo d'indicazione, che egli l'aveva riconosciuta principalmente nella modalità anale che abbiamo prima descritto, cosa
che esclude del tutto l'implicazione di un riconoscimento vero e proprio del pene.
Infine Freud riassume in poche righe di ammirevole chiarezza l'essenziale
del problema dell'uomo dei lupi:
« Il risultato fu che, alla fine, coesistevano in lui, una accanto all’altra, due correnti contrarie, per cui da un lato aveva in orrore la castrazione, e dall’altro era
disposto ad accettarla e a consolarsi con la femminilità a titolo di risarcimento.
Continuava, poi, a restare virtualmente operante la terza corrente, la più antica e
profonda, quella che si era limitata a respingere la castrazione, senza porsi neppure il problema di esprimere un giudizio circa la sua realtà. »2
1
2
Ibid. (trad. rivista).
Ibid.(trad. rivista).
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È precisamente questa terza corrente relativa alla possibilità della castrazione – quella che risulta dal rigetto puro e semplice, in altri termini: dalla preclusione – che, seguendo Lacan, ci sembra caratterizzare uno degli elementi
fondamentali della predisposizione alla psicosi.
Come comprendere, sulla base del testo freudiano, il concetto lacaniano
di preclusione che, contrariamente alla rimozione che genera nevrosi, conterebbe in sé il germe dell'evoluzione psicotica, allucinazioni e deliri? È quel che
ora vorrei sforzarmi di precisare.
Se la rimozione si concepisce agevolmente come un mettere tra parentesi
o un occultare scaltramente un'esperienza già virtualmente strutturata; se è
ugualmente facile comprendere come ciò che in questo modo è stato velato
possa di nuovo, grazie a circostanze favorevoli, essere svelato e re–integrato
nella corrente dialettica dell'esperienza; la preclusione, al contrario, contraddistingue un avvenimento che è più difficile da descrivere tanto nella sua sopravvenienza che nelle sue conseguenze, poiché è difficile rappresentare un
avvenimento che si produce a livello dei fondamenti di tutta la struttura, del
significante stesso.
Se immaginiamo l'esperienza come un tessuto, cioè, alla lettera, come un
pezzo di stoffa costituito da fili incrociati, potremmo dire che la rimozione vi
sarebbe raffigurata da qualche strappo o lacerazione, anche notevole, ma sempre passibile di essere rammendata o ricucita, mentre la preclusione vi sarebbe
raffigurata da un qualche difetto (béance) dovuto alla tessitura stessa, in breve
da un buco originale, che non sarebbe mai suscettibile di ritrovare la propria
sostanza giacché essa non sarebbe mai stata altro che sostanza di buco, e che
potrebbe esser colmato, sempre imperfettamente, solo da un « rammendo »,
per riprendere il termine freudiano 1.
S. Freud, Nevrosi e psicosi, G. W., XIII, p. 389; tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino
1977, vol. 9, p. 613: “Sulla genesi delle formazioni deliranti, alcune analisi ci hanno insegnato
che il delirio si è sovrapposto, come una specie di rammendo, laddove in origine si era prodotta una lacerazione nel rapporto dell’Io con il mondo esterno”.
1
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La preclusione (Verwerfung) designerebbe così un’esperienza contrassegnata dal sigillo indelebile di una mancanza radicale, da un buco nel signifi-
cante anteriore ad ogni possibilità di negazione, e dunque di rimozione.
Ho tentato in un'altra circostanza recente 1 d‘illustrare questo concetto
con la storia di due buontemponi, in una notte di baldoria. L'elemento precluso vi era costituito dall'incontro notturno, ubriachi, con un paio di rondini
(voglio dire di agenti di polizia in bicicletta) che dovevano senza troppi riguardi ricondurli a casa.
Non era certamente il caso, per nessuno dei due, di ricordarsi di quella
scena perduta tra i fiumi dell'alcool; alcune contusioni, il fatto d'essere a casa,
costituivano la sola testimonianza di un avvenimento primitivamente escluso
dalla trama dei ricordi.
Ma l'avvenimento di spicco del racconto era che uno dei due buontemponi presentò all'improvviso, qualche mese più tardi, un delirio ornitologico in
cui riapparivano, oltre alle rondini, ogni specie d'uccelli.
Spuntava così, nella realtà fantasmatica e allucinatoria del delirio, il paio
d'uccelli che aveva costituito il centro dell'esperienza non integrata, il signifi-
cante eluso, il simbolo rimosso, indipendentemente dalle sue correlazioni immaginarie. Secondo una formula di Lacan, potevamo dire che quel che era stato rigettato dall'ordine simbolico, cioè il significante peraltro conosciuto rondine, riappariva al centro del delirio nel reale, o per lo meno attraverso
un’esperienza delirante della realtà, una realtà contrassegnata dall’impronta
dell'immaginario e privata di ogni dimensione autenticamente simbolica.
Così, contrariamente alla rimozione, che si riferisce a un elemento associa-
tivo, possiamo dire, in prima approssimazione, che la preclusione si riferisce a
un elemento simbolico fondamentale, in altri termini a un significante in quanto tale (mentre la rimozione si riferisce a un elemento del discorso costituito).
1
Cf. S. Leclaire, “Alla ricerca dei principi di una psicoterapia della psicosi”, in Psicosi e
linguaggio, cit., pp. 47-82.
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Quel che vorremmo indicare, è che il concetto di preclusione deve poterci
permettere un approccio più diretto e più adeguato alla dinamica peculiare del
fenomeno psicotico, poiché meglio di ogni altro indica le caratteristiche specifiche di quella mancanza di cui ogni clinico sente il richiamo nel suo contatto
con lo psicotico. Dal punto di vista clinico, l'elemento precluso non può evidentemente essere svelato, poiché quel che caratterizza questa esperienza non
dialettizzata è proprio il fatto che è impossibile ritrovarla integralmente. Contrariamente all'elemento rimosso, che si trova al centro della nevrosi e che si
può sempre riconoscere per via di qualche segno o sostituto, e braccare prima
di svelarlo attraverso le sue deformazioni e i suoi travestimenti, l'elemento
precluso è per natura inaccessibile come tale. Ma in compenso, si segnala attraverso la mancanza che costituisce; si manifesta come una profonda depressione, come una specie di richiamo d'aria 1 che accentra e organizza nel modo
più inatteso l'insieme di ciò che si trova tutt'intorno. Il segno clinico della
preclusione è una specie di convergenza irresistibile, disordinata, ma imperiosa, verso un centro che sembra vuoto.
La convergenza sintomatica organizzata dal nucleo di una nevrosi, può
essere decifrata razionalmente dopo un lavoro di ricostruzione antitetico a
quello della censura, dello spostamento o della proiezione; tutto al contrario,
la convergenza sintomatica della preclusione è totalmente senz’ordine, come
un vuoto riflesso del simbolo rigettato, del significante espunto; essa costituisce una specie di struttura specifica, originale, nel cui interno si organizza un
nuovo microcosmo di questioni speciose, o addirittura di nevrosi cistiche.
Se dovessimo ora precisare ciò che nella storia dell'uomo dei lupi fu rigettato, precluso, non esiteremmo a dire che fu qualcosa come il simbolo fallico
stesso, per esempio l'uomo-padre nella sua funzione simbolica.
Letteralmente, “appeil d’air”: “differenza di pressione in un locale (prodotta
dall’apertura di una finestra o di una porta) che provoca un’aspirazione, favorendo la combustione”. (Le Robert). (n.d.t.)
1
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Niente preannuncia meglio la psicosi dell'uomo dei lupi, centrata attorno
all'enigma del fallo e ricolma d'ogni riferimento che possa evocare il complesso di castrazione, dell'allucinazione che ebbe a cinque anni:
« Avevo cinque anni. Stavo giocando, in giardino, vicino alla mia bambinaia, e
col mio temperino incidevo la corteccia di uno dei noci che compaiono anche
nel mio sogno. Improvvisamente con indicibile terrore mi accorsi che mi ero tagliato mignolo della mano (destra o sinistra?) in modo che stava appeso solo per
la pelle. Non provavo dolore, ma una grande angoscia. Non osai dire nulla alla
bambinaia, che si trovava solo pochi passi più in là, mi lasciai cadere sulla panchina più vicina e rimasi seduto, incapace di dare una sola occhiata al dito. Alla
fine mi calmai, guardai il dito, e vidi che non era minimamente ferito ». 1
Qui riappare sotto forma d'esperienza, in una realtà allucinatoria (cioè puramente immaginaria senza riferimento simbolico), il « concetto di una piccola
cosa che si può separare dal corpo », insomma il pene il cui peculiare valore
simbolico sarebbe stato in qualche maniera e primitivamente alterato.
È tutta la questione dell’uomo de lupi, posta nella nevrosi, risolta immaginariamente nella psicosi, che troviamo qui formulata in tutta la sua ambiguità, mediante un’allucinazione transitoria.
Parafrasando Freud, che così commenta, riassumendo, l'omosessualità del
suo paziente:
« Essere partorito dal padre (come al principio egli aveva creduto si potesse), ottenere da lui il soddisfacimento sessuale, regalargli un bambino a prezzo della
propria virilità; tutti questi desideri, espressi nel linguaggio dell'erotismo anale,
appartengono al circolo chiuso della fissazione al padre. » 2
1
2
Op. cit., pp. 558-559.
Op. cit., p. 573.
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23 | L ’ e p i s o d i o p s i c o t i c o c h e p r e s e n t ò l ’ u o m o d e i l u p i
potremmo, riformulando tali desideri in termini problematici, articolare così
l'interrogazione del paziente: Cos'è questo padre di cui sono figlio e come pos-
so in quanto figlio di un tale padre, diventare veramente possessore di un pene?
È questa, ci sembra, la questione fondamentale dell'uomo dei lupi. Non
possiamo qui sviluppare e giustificare in tutta l'ampiezza che sarebbe forse
necessaria, questa formulazione nelle sue implicazioni concernenti problemi
specificamente edipici. Ci limiteremo ancora, riguardo alle relazioni del paziente verso l'uomo, all'aspetto particolare del complesso di castrazione nei termini in cui l'abbiamo situato, e all'economia dello scambio nei termini in cui
l'abbiamo considerata.
Se la nevrosi costituiva la formulazione relativamente chiara di questa
questione, se d'altra parte è certo che essa si è attualizzata nella relazione di
transfert con Freud nel corso della prima analisi, è altrettanto certo che l'episo-
dio psicotico costituiva un modo di risposta a questa questione vissuta secondo una modalità puramente immaginaria, incapace (provvisoriamente, per lo
meno in questo caso) di un riconoscimento simbolico, quand'anche parziale.
IV
Tenteremo ora di articolare i differenti elementi della storia del paziente
che possono rendere conto della trasformazione progressiva di una questione
formulata dalla nevrosi in una risposta immaginaria esposta in modo irrisorio
dalla psicosi, riprendendo così l’osservazione di R. M. Brunswick : «È difficile
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dire perché il paziente sviluppò una forma paranoica anziché ritornare alla sua
nevrosi originaria »1.
Come abbiamo già ricordato, R. M. Brunswick attribuisce alla malattia di
Freud il ruolo scatenante che ha dato avvio alla psicosi.
« Così, scrive, la malattia di Freud, accrescendo il pericoloso attaccamento passivo del paziente, con il conseguente accrescimento della tentazione di assoggettarsi alla castrazione, spinge l'ostilità a un punto tale che, per darle sfogo, è
necessario ricorrere a un nuovo meccanismo, il meccanismo della proiezione. » 2
Non torneremo in dettaglio sull'insieme della concezione, così penetrante, di R. M. Brünwick, se non per ricordare come essa sottolinei con discrezione, ma fermamente, tanto il valore eminente di « filo conduttore » costituito
dal significato libidico dei doni, quanto il ruolo determinante, per la successiva
evoluzione del caso, della pressione esercitata da Freud nel fissare un termine
alla prima analisi.
Non ritorneremo neppure sul fenomeno di rigetto della castrazione che
abbiamo sviluppato a lungo e che costituisce a nostro avviso lo sfondo dell'episodio psicotico.
Riportiamoci dunque all'anno 1913, quando l'uomo dei lupi, al suo quarto anno di analisi, continuava a trincerarsi in « un atteggiamento di obbediente
indifferenza », come ci dice Freud. A questo punto si produce un intervento
decisivo:
« Quando da indizi inequivocabili mi resi conto che era giunto il momento di
farlo, palesai al paziente la seguente decisione: a una certa data, indipendentemente dai progressi compiuti, il trattamento avrebbe dovuto concludersi. Ero risoluto a rispettare questo termine; il paziente si convinse finalmente che facevo
sul serio. Sotto la pressione inesorabile di questa scadenza la sua resistenza e
fissazione alla malattia cedettero, e in un tempo straordinariamente breve
1
2
Op. cit., p. 267 (trad. rivista).
Op. cit., pp. 267-268 (trad. rivista).
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l’analisi fornì tutto il materiale necessario per la soluzione delle inibizioni del
malato e l’eliminazione dei suoi sintomi. Da questa ultima fase di lavoro, durante la quale la resistenza fu temporaneamente eliminata e il paziente dimostrò
una lucidità che normalmente si ottiene solo nell’ipnosi, emersero tutti gli elementi che mi permisero la comprensione della sua nevrosi infantile. » 1
Tutta l’osservazione sulla nevrosi infantile ha origine dunque da questa
presa di posizione. Ecco l'opinione di R. M. Brunswick su ciò che possiamo a
buon diritto chiamare la « forzatura »:
« A volte la pressione fa affiorare tutto quello che c’è, ma penso che un paziente, tanto inaccessibile da rendere necessario un limite di tempo per sciogliersi,
molto spesso si servirà di tale limite per i propri scopi… Il risultato [prosegue
quindi senza più tergiversare] fu che il paziente portò alla luce materiale sufficiente a produrre la guarigione, ma riuscì a trattenere per sé quel nucleo che in
seguito provocò la sua psicosi. » 2
Ci sforzeremo ora a nostra volta di comprendere la natura e gli effetti della
decisione fondamentale di Freud di fissare un termine all’analisi.
Riportiamoci ancora all'autore, al testo stesso della sua Premessa:
« Per quanto riguarda il medico dirò soltanto che se vuole imparare qualche cosa
o raggiungere qualche risultato deve comportarsi, di fronte a un caso del genere,
con la stessa “atemporalità”(zeitlos) dell’inconscio. » 3
Penso che non ci sia nulla da ridire sulla saggezza di questo consiglio,
che tutte le analisi possono comprovare; possiamo tutt'al più cercare di comprenderlo meglio, prima di vedere perché Freud se ne discostò e quel che ne seguì.
Se ci è difficile precisare, in termini chiari e concisi, in cosa consista questa “atemporalità”, questo « essere-fuori-del-tempo » dell'inconscio, benché
ciascuno di noi ne abbia l'esperienza, ci è più facile considerare come l'anali-
Op. cit., pp. 490-491 (corsivi nostri).
Op. cit., pp. 266 e 267 (trad. rivista).
3
Op. cit., p. 490.
1
2
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sta vi risponda instaurando una relazione dal ritmo imperturbabilmente scandito; tempo misurato, quasi ossessivo, del quale è tuttavia indispensabile sostenere e affermare ch'esso è perfettamente indefinito nel numero e nel prolungamento delle sue sequenze. Imponendo un ritmo che scandisce il tempo, e
riservandosi di proseguirlo indefinitamente « dentro-il-tempo », l'analista può
veramente mettersi all'ascolto dell'inconscio, di cui sarebbe forse più opportuno dire che si attua in un tempo senza misura.
In questo tempo cosa attende? Il transfert.
Così il tempo senza misura dell'inconscio si scandisce al ritmo che l'analista gli impone senza fine e che appare grazie alla congiunzione del transfert.
Ci sembra che, non avendo chiaramente colto questa parentela del transfert con i tempi dell'analisi e dell'inconscio, Freud, giunto al nocciolo del problema, lo risolve in deroga al proprio consiglio.
Piuttosto che analizzare il legame attuale, temporale ma ancora irrazionale, che è il transfert, egli agisce, fissando un termine:
« Dovetti attendere che l'attaccamento per la mia persona fosse divenuto abbastanza forte da controbilanciare quell’orrore (al cambiamento) poi giocai questo
fattore contro l'altro ». 1
Ma cambiare significava appunto « prendere coscienza » del transfert presente,
realizzare la vera natura della relazione attuale verso l'uomo Freud; rientrare
nel tempo presente significava precisamente questo.
Senza dubbio, il fissare un termine, compreso nel suo pieno valore di liquidazione analitica del transfert, forse può in alcuni casi essere tecnicamente
sostenuto. Ma qui è in tutt’altro modo, lo vedremo, che si giocò la partita.
Effettivamente Freud intende – lo dice espressamente – giocare un fattore
contro l'altro: l'avversione al cambiamento, all’indipendenza, contro l'attaccamento di transfert. È come se il cambio-motore entrasse in conflitto con
1
Op. cit., p. 490.
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l’albero di trasmissione, giacché l'avversione al cambiamento e il transfert sono due elementi di una stessa coppia di forza, ambedue strettamente congiunti nel tempo dell'analisi ...
Così, per illustrare meglio ciò che indichiamo, prendiamo quale esempio il
caso di un ossessivo, che ci allontana solo di poco dall'uomo dei lupi. Abbiamo già avuto occasione 1 di indicare fino a che punto l'ossessivo vive un tempo già finito, compiuto prima ancora d'esser trascorso, per la paura di doverlo
vivere: tutto quel che accade in questo tempo non può essere compreso.
Quando un ossessivo simile entra in analisi, e dopo che attraverso tutta una
serie di ragionamenti, che lo voglia o no, viene catturato nelle reti del transfert,
eccolo preso, attraverso il legame di transfert, « dentro-il-tempo » presente. Il
transfert diviene una porta aperta tra il tempo morto della sua nevrosi e l'altro,
di cui siamo lì per testimoniare. Non significherebbe, allora, fare il gioco della
nevrosi, il proporre un termine a quest'esperienza, che all’inizio tentenna, e
fornire in tal modo l’ancoraggio di un limite che ormai permetterà all’ossessivo
di mantenersi immobile, tanto più che d'ora in poi, e fino al sopraggiungere
della scadenza, tutto non sarà ormai che occasione di riempire il tempo – perché no in maniera interessante –, senza mai arrischiarsi nel presente che il
transfert proponeva?
Ma dobbiamo ora passare allo studio delle conseguenze di una decisione
della quale abbiamo tentato di coglier meglio il significato immediato. Vedremo che da questo momento esse si concatenano secondo una logica e una
chiarezza perfette.
Se è vero che la questione dell'uomo dei lupi verte in effetti sulla modalità
delle sue relazioni verso l'uomo, dobbiamo comprendere il transfert come l'espressione attuale della questione, in quanto interessa il legame che si è stabi-
S. Leclaire, “La morte nella vita dell'ossessivo”, in Smascherare il reale, Astrolabio,
Roma, 1973.
1
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lito tra lui e Freud; il transfert è pertanto la questione attualizzata nel tempo,
ma ancora male articolata.
In un certo senso, fissare un termine, significa tagliar corto con la questione, cosa che potrebbe risultare opportuna solo se l'interrogazione chiaramente formulata dall'analisi fosse già approdata a una modalità di risposta diversa dal legame di transfert. Ma nella situazione presente dell'uomo dei lupi,
la pressione così esercitata non può condurre cha a un risultato: la preserva-
zione a ogni costo, da parte del soggetto, del legame di transfert che lo lega a
Freud; il soggetto sarà ormai preoccupato unicamente di mantenere questa relazione come la sola promessa di risposta vera alla sua questione sull'uomo.
Così che successivamente, egli si fisserà fino all'alienazione in questo legame
che, per lui, indicherà sempre il soccorso intravisto di questo padre simbolico,
vero possessore del pene in questione, sempre mancante.
Ancora una volta il padre simbolico, Freud nella circostanza, dopo essersi
manifestato come tale, si sottrae, rientra con troppa fretta nel cerchio delle
speranze immaginarie e, ormai, l'uomo dei lupi vivrà la sua relazione con
Freud nel modo familiare delle sue relazioni ossessive comuni. Questa relazione di stile ossessivo, l'abbiamo caratterizzata mediante la modalità immaginaria di scambio anale. Lungi dall'analizzarla, egli ora la vivrà analmente.
Si tratta pertanto, per l'uomo dei lupi, di sopravvivere in qualche modo
per mantenere questa simbiosi, di mantenere il presente al di là del termine, di
salvaguardare l'esperienza confusa ma privilegiata di una relazione verso
l'uomo, verso il padre simbolico.
Che questo termine fissato al tempo sia anche immagine della morte, non
c’è ossessivo che non lo senta nel modo più acuto; perpetuamente angosciato
da quel che potrà accadere al di là del limite – al punto da anticiparlo come se
l’avesse già raggiunto –, una simile presa di posizione da parte dell'analista
non può che raddoppiare in lui l'effetto di esperienze primitive di separazione,
di timore della morte, rafforzando allora il suo stile ossessivo.
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Così, a causa dell’atteggiamento non analitico di Freud, che si svolge su
un piano immaginario, si riattualizza la minaccia di castrazione e si riattiva il
timore della morte, che per un ossessivo costituiscono altrettanti rinnovati ostacoli, ostacoli che al paziente sembrano essere posti proprio da quello stesso
uomo che poteva aiutarlo a risolvere l'enigma della sua questione fondamentale.
È quindi chiaro che lungi dal sentire l'ultimatum di Freud come un incoraggiamento e una promessa di possibile salvezza, egli l'avverte come una minaccia di separazione, come se si trattasse di una minaccia di castrazione primaria; l'oggetto, l'uomo, Freud, è pertanto sperimentato solo come una parte
di se stesso; ma è anche, in certo qual modo, una minaccia rinnovata di castrazione alla quale il soggetto può rispondere solo nel suo proprio modo abituale: « Io manterrò »; cioè: « anche se tu mi abbandoni, anche se mi lasci cadere, io ti manterrò come una parte di me stesso, in questo legame immaginariamente indissolubile ».
Da questo momento, come abbiamo già osservato, tutto si concatena in
un mondo ossessivo di cui Freud accetta di diventare il padrone reale, e tutto
si svolge, perfettamente prevedibile, in un ordine inesorabile. Movimento ormai senza via d’uscita, poiché colui che doveva testimoniare dell'ordine simbolico, è entrato, agli occhi del suo paziente, nella catena senza fine
dell’inganno costituita dal mondo ossessivo.
Così, il paziente si dice: « Per conservarti come una parte di me, ti offro
una parte di me, quella stessa che puoi aspettarti e che certamente ti farà piacere. Te la offro, questa scena primaria, così bella, così rara, così appassionante, ma ti incateno attraverso questa favola (del resto forse vera, ma poco importa). Te la offro, ma ti conservo ».
Bisogna ben dirlo, Freud si lascia catturare: è appassionato, rapito, pubblica un saggio magnifico, che confonde i dissidenti. Il paziente si sente un po'
meglio e ci si lascia soddisfatti l'uno dell'altro, come degli allocchi.
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Freud tuttavia riferisce che, poco dopo questa separazione, il paziente era
stato colto da un violento desiderio di sottrarsi alla sua influenza, il che indica
per lo meno la sua persistenza. Non ci riuscì; e quando tornò a consultare
Freud, nel 1919, fu a causa, ci dice R. M. Brunswick, della sua costipazione isterica.
Freud si rende ben conto, e lo dice nella nota finale della sua osservazione, che si tratta di una manifestazione di transfert non analizzata. La costipazione cede e Freud pensa questa volta che il transfert sia liquidato ... E forse lo
sarebbe stato davvero, se l'uomo dei lupi avesse potuto pagare quella nuova
tranche di analisi; ma non poté.
Se allora riprendiamo il linguaggio familiare che nel suo foro interiore prestiamo al paziente, sembra che questa fase possa così riassumersi: « Vengo a
consultarti, dice istericamente a Freud col suo ventre, perché, questione di
scambio, non va affatto bene ». Bisogna riconoscere che la questione era posta
abilmente. Ma Freud non vi risponde che in parte: « Se per quanto riguarda il
ventre la cosa non va, cercherò d'aggiustare la faccenda »; cosa che fa. Ma aimè, suo malgrado forse, aggiunse subito dopo: « E gratis ...», misconoscendo
il senso profondo della questione dello scambio.
Forse sarebbe tutto finito qui, se gli eventi non avessero completamente
rovinato il nostro paziente, privandolo così del suo abituale mediatore immaginario: il denaro.
Questa stessa circostanza che è il motivo della gratuità degli ultimi mesi
di analisi spinse Freud, come ci riferisce R. M. Brunswick, a « intraprendere
una colletta per il suo ex paziente ... che era stato così utile ai fini teorici
dell'analisi. Freud ripeté questa colletta ogni primavera, per sei anni ». 1
Poteva l'uomo dei lupi comprendere questo gesto altrimenti che come
una confessione di Freud? « Sì, mi hai incatenato e te lo confermo, se mai ne
dubitavi: ti ringrazio, per l'appunto con del denaro, per quel che hai voluto
darmi di te stesso ».
1
Op. cit., p. 235 (trad. rivista).
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Con questa confessione svanisce il testimone, il padre simbolico che per
un istante l'uomo dei lupi aveva intravvisto, se non ritrovato, nella sua prima,
lunga analisi. Con quest'offerta di denaro scompare la speranza di possedere
un giorno veramente un pene, come lo possiede un padre, come lo possiede
un uomo, un pene riconosciuto nel suo pieno valore simbolico.
A questo punto comincia virtualmente la psicosi.
Poiché, se il testimone si sottrae con la sua promessa, proprio quando
stava per mantenerla, la questione invece rimane, ma questa volta senza eco.
La psicosi ha inizio quando pretende lui stesso di aver risposto alla propria questione, vivendo immaginariamente il problema della castrazione.
La sua vita non è ormai più che una risposta illusoria, il ridicolo maneggio
dell'ipocondria, gli incessanti problemi al naso, che riguardano la madre, o ai
denti, che riguardano i lupi.
R. M. Brunswick attribuisce alla malattia di Freud, e al timore per la sua
possibile morte, lo scatenarsi dell'episodio propriamente psicotico. Indubbiamente, ma questo fatto può solo render conto di una riattivazione momentanea, secondo una modalità già psicotica, della questione di sempre.
È nell’osservazione di R. M. Brunswick che troviamo, con una precisione
ben maggiore, l'indicazione di ciò che precipitò effettivamente l'uomo dei lupi
nella psicosi.
Il 15 giugno 19261, ci dice, il nostro paziente decise d’un tratto di recarsi
ancora dal secondo dermatologo, che l'aveva in precedenza confortato. Questi
allora dichiarò che « la zona trattata con l'elettrolisi (gli aveva in precedenza
consigliato la diatermia) portava evidenti segni di cicatrici. Quando il paziente,
prosegue R. M. Brunswick, osservò che col tempo quelle cicatrici avrebbero
dovuto scomparire, il dermatologo ribatté che le cicatrici non scompaiono mai
e nessun trattamento può emendarle ».
Nella traduzione italiana, come nel testo originale inglese, il lettore troverà che l'uomo
dei lupi si recò dal dermatologo in questione il giorno 17 giugno 1926 (n.d.t.).
1
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« Alle parole “le cicatrici non scompaiono mai“, un'atroce sensazione s'impossessò del paziente. Si senti avvolto nelle spire di una disperazione nera, come
mai gli era accaduto in tutte le precedenti malattie. Non c'era via d'uscita, nessuna possibilità di evasione! Le parole del dermatologo gli risuonavano incessantemente all'orecchio: “le cicatrici non scompaiono mai!” ». 1
Il giorno seguente, « il 16 giugno 1926, scrive R. M. Brunswick , il paziente si recò da Freud per ricevere la somma annuale procurata della colletta ».
Ci piace immaginare che quel 16 giugno Freud, riacquistando la sua funzione d'analista, gli avesse seccamente rifiutato il dono in denaro; allora, avrebbe forse potuto ancora evitare di lasciarlo scivolare del tutto nel delirio;
Freud avrebbe potuto dirgli, dopo averlo interrogato:
« Prima di venirmi a trovare, ha ancora tentato di perseverare nel suo gioco quasi delirante; spostando sul naso la questione del possesso integrale
del pene, ha consultato, da buon ossessivo, il secondo dermatologo; ed è
perché quest'uomo, investito ai suoi occhi di alte funzioni simboliche, le
ha risposto in modo definitivo che non c'era più niente da fare per le sue
cicatrici, che ha capito che non c’era più speranza di acquistare la virilità e
diventare veramente uomo. A quel punto ha provato una disperazione
senza limiti, uno " sconforto assoluto ". Ma questo è successo ieri e oggi
viene da me, per ricevere il denaro ... Oggi non lo avrà, perché è importante che riconosca infine che io sono sempre libero, fuori dal gioco della
sua immaginazione oggi quasi delirante ».
Sarebbe indubbiamente bastato per calmare un po’ il paziente.
E invece Freud, dandogli il denaro, lo conferma nella sua alienazione.
Proprio come nel 1920, quando gli fece il primo dono in denaro, con quel gesto gli dice: « Mi hai incatenato »; proprio come allora questo dono o questa
confessione parla e dice: « Con me svanisce il testimone, il padre simbolico
che per un istante avevi intravvisto nella tua prima analisi ». Con questo dono
1
Op. cit., pp. 244-245.
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scompare la speranza di possedere un giorno un pene, senza timore di castrazione, in quanto riconosciuto nel suo pieno valore simbolico.
Il15 giugno, così come il 16 giugno 1926, l’uomo del lupi si sente ripetere: « Le cicatrici non scompaiono mai », « non c'è più via d'uscita possibile ».
Che questa cicatrice sia anche, in un certo senso, la traccia indelebile lasciata dal rigetto primordiale della questione della castrazione (come pure il
suo marchio immaginario), ci sembra verosimile, senza insistere di nuovo su
questo punto.
Descriveremo perciò il progresso di questa entrata nella psicosi, senza peraltro pretendere di avere esplorato in tutta la sua estensione il campo eccezionale che questa duplice osservazione ci rivela.
Tutto al contrario, tanto che molti di coloro che conoscono bene questo
testo potrebbero rimproverarci a buon diritto di non aver praticamente mai
preso in considerazione l'identificazione alla madre, che tutti gli osservatori
hanno messo in evidenza nella storia dell’uomo dei lupi. Il Dottor Wulff, un
amico di famiglia, aveva riassunto benissimo il problema nel momento della
psicosi: « Non recita più la parte della madre, è la madre sin nei minimi particolari
».1
Proprio come abbiamo scelto di imperniare la nostra riflessione sulla castrazione, avremmo anche potuto basarci sull'identificazione alla madre; ma
ciò non ci avrebbe tuttavia dispensato dallo studiare e dal collocare teoricamente e praticamente il posto e la funzione del pene, simbolico, reale e immaginario, fosse pure, in questo caso, sotto il segno della mancanza.
Avremmo ugualmente ritrovato, per questa via, la forma conclusiva della
questione nel suo assoluto sconforto, secondo le parole di R. M. Brunswick.
Ma l'avremmo allora scoperta nella sua forma primitiva, un poco interrogativa,
1
Op. cit., p. 263.
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già rassegnata, nei termini stessi formulati dalla madre: So Kam ich nicht mehr:
“Non posso più continuare a vivere così”.
La guarigione fu, afferma R. M. Brunswick, la sola caratteristica atipica di
questo caso; ce lo spiega in poche parole: « Ci siamo dovuti occupare di una
cosa soltanto, di un residuo del transfert verso Freud », e più oltre precisa:
« Nel corso della… analisi, il mio ruolo è stato quasi trascurabile, poiché ho agito unicamente come mediatore tra il paziente e Freud. » 1
Nella parola mediatore giace in effetti il germe dell'efficacia di quest'ultima cura. Con la sua testimonianza imperturbabile, l'analista, una donna, riesce a colmare quella funzione simbolica a cui Freud l'aveva designata, in qualche modo per procura. Ma il momento essenziale, non è forse il fatto che
Freud, riprendendo il dialogo, indirizza l’uomo dei lupi a R. M. Brunswick,
poiché egli non lo può pagare?
È quel che pensiamo, pur rendendo il dovuto omaggio alla straordinaria
abilità con cui R. M. Brunswick seppe resistere alle sollecitazioni del paziente,
per restare fermamente ciò che doveva essere, una donna mediatore, un simbolo vivente … e perché non dirlo, nell'animo del paziente una donna fallica:
non è così che gli appare in sogno, in pantaloni e stivali, precisamente dopo
avergli testimoniato vigorosamente il posto che occupava rispetto a lui, l’uomo
dei lupi, in relazione a Freud?
Per concludere, volevo, per amor di chiarezza, riassumere le idee che mi
ero proposto di mettere in evidenza. Le credevo semplici, poco numerose,
proprio mentre sviluppavo il mio schizzo attorno al testo dell'esergo.
Era chiaro che la psicosi sorgeva in modo naturale da una storia ben ordinata. Così, la questione delle relazioni verso l'uomo e dell’autentico possesso,
1
Op. cit., p. 268.
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soprattutto simbolico, del proprio pene, dominava l'osservazione dell'uomo
dei lupi; attraverso lo studio elettivo degli elementi del complesso di castrazione, che abbiamo scelto come approccio, abbiamo messo in rilievo la funzione
simbolica preminente del pene, che ci ha permesso di capire meglio in che senso si poteva dire che era stata primitivamente “rigettata”, prima di essere rimossa, la possibilità della castrazione per l'uomo dei lupi. Siamo così giunti a
concepire chiaramente anche il piano immaginario sul quale si situa lo scambio
nella prospettiva dello stadio anale, che ci ha permesso di reinterpretare nel
suo giusto valore la pressione esercitata da Freud fissando un termine all'analisi; il materiale della scena primitiva era diventato allora moneta di scambio per
conservare illusoriamente il possesso del terapeuta. Abbiamo anche visto chiaramente che il dono in denaro di Freud impegnava il malato verso una soluzione psicotica, in cui lo precipitava una quantità di avvenimenti convergenti
in un’articolazione che poteva essere spiegata attraverso la cicatrice sempre
presente, o addirittura beante, del rigetto primordiale della castrazione ...
Ma, a mano a mano che scrivevo, ho visto queste semplici idee moltiplicarsi; così che adesso sorgono, irrisolti ma insistenti, dei problemi fondamentali. Le questioni dell'identificazione alla madre, della natura del transfert, del
valore del tempo, del timore della morte, si rivelano come elementi tali, che solo una rigorosa conoscenza potrebbe sostenere un vero e proprio commento di
questa osservazione, come pure l’analisi completa di ciò che ci proponevamo:
l'improvvisa apparizione e l'originalità del fatto psicotico.
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Tendenza verso l’uomo o relazione verso l’uomo?
di Moreno Manghi
“Bisogna riconoscere chiaramente che non c’è scambio, rigorosamente parlando, a livello dell’analità, ma un semplice confronto
immaginario attraverso l’intermediario derisorio di quel terzo oggetto narcisistico che sono le feci, che non sono altre, se non in
quanto sono in realtà lo stesso.”
Serge Leclaire
Una prima traduzione italiana dello scritto di Serge Leclaire , À propos de l'épi-
sode psychotique que présenta "l'homme aux loups" (1958) è apparsa in un una raccolta di saggi di autori vari (Solomon Resnik e Piera Aulagnier, oltre allo stesso Leclaire) edita da Marsilio nel 1978 nella collana Psicologia analitica, col titolo Psicosi e lin-
guaggio, a cura di Pietro Bria, Sergio De Risio, Filippo Maria Ferro; libro, dobbiamo
come sempre aggiungere quando si tratta di psicoanalisi, oggi introvabile, fuori catalogo e molto difficilmente stimato dall’editore degno di una ristampa.
Una volta accordato ai curatori italiani l'indubbio merito di aver raccolto e tradotto articoli rari, preziosi e difficilmente reperibili, non possiamo tuttavia fare a meno
di rammaricarci per la traduzione del presente articolo di Leclaire 1, che, a causa della
sua astrusità e della sua incredibile negligenza è in gran parte illeggibile, salvo impegnarsi a tradurre la traduzione italiana. Ci chiediamo come sia possibile che in più di
trent’anni nessuno vi abbia mai fatto caso 2. Avendola letta per la prima volta
Gli altri due articoli di Leclaire compresi nella raccolta sono: “Alla ricerca dei principi di
una psicoterapia delle psicosi” (1958) e “Le parole dello psicotico” (1970).
2
Ragione per cui possiamo attribuirci il merito di aver individuato a posteriori, più che
una cattiva traduzione, un sintomo della situazione della psicoanalisi in Italia (e più generalmente della sua situazione culturale) di quell’epoca. Un sintomo non individuato, nella cultura non meno che in un soggetto, con quanto comporta di una questione rimossa e mai decifrata, non rimane statico ma fa il suo corso, e come minimo, a distanza di più di trent’anni dalla
sua irresoluzione, si cronicizza, diventando tratto permanente e immodificabile della persona
o della cultura, carattere ostile (nella fattispecie, verso la psicoanalisi).
1
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all’incirca negli anni in cui è stata pubblicata, non avevamo conservato del saggio di
Leclaire se non un vago ricordo, senza profitto. Ma leggendo di recente il testo in
francese (nella raccolta Écrits pour la psychanalyse, tome 2, “Diableries”, 1955-1994,
Seuil, Arcanes, 1998, pp. 123-146) l’abbiamo trovato uno dei saggi più chiari e più
importanti che conosciamo su questioni cliniche fondamentali per la psicoanalisi,
quali l’evitamento immaginario della castrazione (mediante la “fissazione”
all’analità), il passaggio dalla nevrosi alla psicosi, la denuncia della pesante responsabilità di Freud nella direzione della cura, quando decide di porre un termine all’analisi
e viene accecato dalla bramosia di mettere le mani sulla "scena primaria", nel caso
dell' "uomo dei lupi". Si tratta veramente di un piccolo "classico" della psicoanalisi,
che abbiamo voluto riproporre in una nuova traduzione, che, per quanto ci consentono
le nostre capacità, gli renda giustizia.
La critica che muoviamo alla traduzione di Marsilio (di cui, peraltro, non abbiamo esitato ad adottare, quando esistono, le buone soluzioni che offre), proprio per
l'eminenza dei curatori va al di là di questioni meramente tecniche1, per cogliere le
ragioni teoriche (e in definitiva ideologiche e politiche) che la sostengono.
Ci riferiamo alla scelta inflessibile di tradurre “relation/s” (“relazione/i” o “rapporto/i”) con “tendenza/e”, nonostante ogni evidenzia contraria, e per quanto il concetto di “relazione” costituisca indubbiamente il nucleo centrale, centrifugo, irradiante, continuamente riaffermato, di tutto il saggio di Leclaire. Non a caso, proprio perché non vi siano dubbi, l'autore riproduce tra parentesi, accanto al lemma “relation”,
quello tedesco di Verhältnis, il cui significato è inconfutabile, e, citando Freud, lo pone addirittura in epigrafe: "... und alle Arbeit richtete sich darauf, sein ihm unbewusCi sarà perdonato se tuttavia saliamo per un istante in cattedra: copiosi calchi della traduzione italiana sulla sintassi francese, che rendono il significato della frase farraginoso,
quando non incomprensibile; refusi, errori e disattenzioni ben oltre l'accettabile, fino a frasi
che s'interrompono prima del punto, per poi continuare, senza soluzione di continuità, con la
frase successiva; pleonasmi e locuzioni francesi tipiche tradotti alla lettera (“dont le … que” =
“di cui il ... che”; “sous le mode de” = “sotto il modo di”) che rendono la frase italiana in parte o in tutto innaturale; traduzione sistematica del congiuntivo “car” (“poiché”) con
l’avverbio “perché”; sviste (del tipo “pérséveration/préservation”) aggravate dalla conseguente
necessità di far “tornare” il senso; continui adescamenti dei cosiddetti “faux amis”, o false
concordanze basate sull’omofonia tra le lingue (dérisoire = derisorio, noeud = nodo, séquelles = sequele, coeur = cuore, ecc.); conferimento di un senso immaginario, a volte addirittura opposto a
quello effettivo, agli enunciati o alle locuzioni rimaste incomprese, ecc.
1
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stes Verhältnis zum Manne aufzudecken" (“…e lo scopo di tutto il nostro lavoro fu di
rivelargli la sua relazione inconscia verso l’uomo”) 1.
I curatori aderiscono qui interamente al pregiudizio scientista che grava come
una pesantissima ipoteca sulle Opere di Sigmund Freud (OSF) curate da Musatti, devoto all’apparato concettuale approntato da J. Strachey per la Standard Edition 2.
Nella Standard Edition, Verhältnis è tradotto generalmente con "inclination",
"tendency" o “attitude”, tendenza, propensione, atteggiamento, inclinazione, disposizione (con quel che implica di obbligo, necessità, coazione), ma, eccezionalmente,
il passo di Freud in questione viene tradotto rispettando l’originale tedesco: “…and all
our labours were directed towards disclosing to him his unconscious relation to
men.” 3
Ma la traduzione delle OSF, “più papista del Papa”, traduce: “…e tutto il nostro
lavoro fu orientato a fargli scoprire la sua tendenza inconscia verso l’uomo.” 4
Ora, se relazione viene “tradotto” con tendenza , si può essere certi che se tale
tendenza ha per “oggetto” l’uomo, la “tendenza verso l’uomo” non potrà che essere
la tendenza omosessuale. Il fatto poi che la tendenza sia inconscia (unbewusstes
Verhältnis), la fa “inclinare” irresistibilmente verso l’istinto – quell’istinct che nella
Standard Edition traduce il Trieb, la pulsione freudiana –, e “naturalmente” verso un
istinto omosessuale inconscio. E così il cerchio si chiude: dalla rivelazione della rela“Certamente, osserva Leclaire, l'espressione relazione verso l'uomo, “Verhältnis zum
Manne”, sorprende in primo luogo per il suo carattere impreciso e per le sue troppo vaste im1
plicazioni. È tuttavia quella scelta da Freud, senza dubbio perché era la sola che potesse giustamente abbracciare il problema in tutta la sua ampiezza”; [cfr. infra , p. 9].
2
Come osserva giustamente (e ironicamente) Antonello Sciacchitano, in
Salviamo la lingua di Freud, p. 2: “Le OSF sfuggono al destino delle traduzioni dal tedesco. La ragione è semplice. Le OSF non traducono Freud dal tedesco ma dall’inglese. (…) Insomma, il testo di riferimento della traduzione italiana non sono le Gesammelte Werke ma è la
Standard Edition. Per i passaggi chiave la traduzione italiana è ricalcata sull’inglese. Il tedesco
passa in italiano di seconda mano. La Standard Edition, questo è il problema. Il problema di
essere più standard che edition.”
3
Cfr. p. 3593 della versione internet della Standard Edition, “Freud - Complete Works.
Ivan Smith 2000, 2007, 2010”; questa versione si può scaricare in formato PDF; per maggiori
informazioni cfr. http://www.lacan-con-freud.it/Inglese.html .
4
S. Freud, Dalla storia di una nevrosi infantile (caso clinico dell’uomo dei lupi) [1914],
traduzione di Mario Lucentini e Renata Colorni, in Opere di Sigmund Freud, volume 7, Boringhieri, Torino 1975, p. 589. Ma non crediamo che i traduttori siano imputabili.
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zione inconscia verso l’uomo – dall’inconscio in quanto costituzione di una legge, di
un legame, di una relazione verso l’altro uomo che permetta di “imbrigliare”, di “impastare” la pulsione “perversa polimorfa”, Kulturarbeit, lavoro di civilizzazione dice
Freud rimarcando qui l’etica della psicoanalisi –, arriviamo alla rivelazione dell’istinto
omosessuale inconscio.
Questo partito preso 1 non ferma il traduttore nemmeno davanti all’insostenibile,
per cui anche il transfert (che è appunto la relazione verso l’uomo) non è più concepito classicamente come relazione attuale del paziente verso l’analista, ma come ten-
denza attuale verso quest’ultimo 2, lasciando intuire quale possa essere il destino di
un’analisi così orientata.
In questa concezione, pertanto, non ci si può porre nemmeno per un istante la
questione di tutta la problematica tragica immanente alla Verhähltnis zum Manne,
nella misura in cui essa va alla ricerca di soluzioni, di leggi per costituire delle relazioni, “zum”, verso, l’altro uomo, il mio prossimo, inteso come un Altro completamente
differente da me. Leggi che non sono affatto già date, e meno che mai per l’uomo dei
lupi – che non faceva altro che ricercarle disperatamente, perché non era ancora un
uomo, e nulla sapeva della paternità –, ma sono da trovare, da elaborare. D’altronde, è
proprio per questo che egli aveva chiesto l’aiuto di Freud, cercato, invocato come un
nuovo padre da cui poter ereditare “un pene riconosciuto nel suo pieno valore simbolico”, ossia un padre che gli avrebbe trasmesso quel debito simbolico, quella legge,
quel desiderio che lo avrebbe finalmente fatto diventare un figlio, un uomo, capace a
propria volta di generare in quanto padre.
Così, la "relazione inconscia verso l'uomo", che nell'uomo dei lupi prende le
mosse da quella verso il padre, invece di porsi come la questione fondamentale per
cui tutti gli uomini devono passare per diventare pienamente umani – e cioè che la
Nella lotta riguardo all’etica della psicoanalisi, a questo partito preso, Leclaire, come
vedremo, ne contrappone un altro radicalmente avverso, quello della castrazione: “Il partito
(“le parti ”) che pertanto abbiamo scelto è di esaminare la storia dell'uomo dei lupi dal punto
di vista del problema della castrazione”; [cfr. infra , p. 9].
2
“Mais changer, c’était précisement ‘prendre conscience’ du transfert présent, réaliser la
véritable nature de cette relation actuelle à l’homme Freud” (p. 140, op. cit.) viene tradotto :
“Ma cambiare significava appunto ’prender coscienza’ del transfert presente, realizzare la vera
natura della tendenza attuale verso l'uomo Freud” (op. cit., p. 99, corsivi nostri).
1
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condizione per costituire delle vere relazioni con l'Uomo, con l'altro essere umano
prossimo, col Nebenmensch, è la castrazione 1 (che l'uomo dei lupi ha rimosso e rigettato) –, questa questione viene invece ridotta a una faccenda di inclinazioni omosessuali.
Il che sarebbe forse ancora accettabile, se si precisasse che lo scopo dell'omosessualità, in quanto puro amore narcisistico del fallo attraverso l'altro come simile,
come riflesso speculare di sé, è appunto costituito dal rifiuto di creare vere relazioni
con l'uomo (con la precisazione, a costo di fare dell’umorismo (nero): "donne comprese").
In altri termini, per poter amare umanamente è necessario desiderare, ossia passare per il riconoscimento della castrazione del fallo: non solo come rinuncia al legame con l’oggetto incestuoso (la Madre), ma come rinuncia a tutto ciò che possiamo
classificare come un “godimento autoerotico” che non supera mai i limiti del proprio
corpo, anche quando utilizza un altro soggetto come strumento o come “oggetto”
orale, anale, fallico.
Le feci, il pene, il bambino, formano di certo “un’equivalenza simbolica”, come
dice Freud, ma sulla base di un presupposto immaginario: “quella piccola cosa separabile dal corpo” a cui il soggetto si può sempre riunire attraverso l’altro, mediante un
commercio che non gli riconosce alcuna vera alterità o differenza da sé, e che sicuramente non arriverà mai a costituire una Verhältnis, poiché l’altro è preso o lasciato a
piacimento, secondo il proprio capriccio: è proprio questo il significato di “tendenza
verso l’uomo”. Nella misura in cui non c’è stato il sacrificio del fallo, il soggetto “tende” a riaffermare il legame con gli “oggetti parziali” orali, anali, fallici – ma non arriva
a costituire una relazione con un altro soggetto, realmente differente da se stesso.
Come scrive Leclaire, in pagine di grande finezza clinica riguardo alla nevrosi ossessiva: “Qualunque sia il rivestimento simbolico secondario con cui si possa adornare l’oggetto escremenziale, questo altro, parte di sé, resterà fondamentalmente ciò che
è, il cattivo stesso per così dire”.
“Abbiamo preferito, afferma Leclaire, come d'altronde ci spinge a fare l'insieme delle
osservazioni, affrontare l'argomento delle relazioni del paziente verso l'uomo secondo
l’angolatura particolare del complesso di castrazione”; [cfr. infra , p. 9]. Proprio per questo, ci
siamo permessi di aggiungere tra parentesi al titolo originale del saggio di Leclaire il sottotitolo “[Il
concetto di “castrazione” in psicoanalisi]”.
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Quando si parla di “tendenza verso l’uomo”, invece di “relazione verso
l’uomo”, non si tratta dunque di una semplice scelta di traduzione, ma di Kultur , di
civiltà-cultura, di partito preso (ecco cosa c’è in gioco nella traduzione di Freud, e forse in ogni traduzione).
È ciò che constatiamo perfino nella scelta di tradurre il titolo del saggio di Leclaire, À propos de l'épisode psychotique que présenta "l'homme aux loups" (“A proposito dell'episodio psicotico che presentò l' « uomo dei lupi»”), con: “A proposito
dell’episodio psicotico presentato dall’«uomo dei lupi»”; dove la scelta di volgere il
verbo “presentare” dal passato remoto (“presentò”) al participio passato (“presentato”), se inserisce l'episodio psicotico nel linguaggio formalmente "serio" della psichiatria e della nosologia psicopatologica, ne espelle, per contro, tutta l'equivocità significante (su cui Leclaire, da buon seguace di Lacan, non cessa di insistere).
Equivoco del significante, gioco di parole per cui non è l'uomo dei lupi a presentare l'episodio psicotico, ma è l'episodio psicotico, di cui Leclaire sottolinea la
funzione irridente nei confronti della castrazione (che si riduce all’allucinazione di un
dito tagliato), a presentare l'uomo dei lupi, proprio come un certo significante, non a
caso chiamato da Lacan "maître", il significante-padrone, rappresenta il soggetto
presso il "sapere" di tutti gli altri significanti.
E questa è anche la ragione per cui l'uomo dei lupi ha sempre voluto essere rappresentato come "l’Uomo dei Lupi" – il significante-padrone con cui Freud lo ha immortalato, o, come dice Lacan, “mummificato”1 –, cullandosi nelle illusioni che si faceva a proposito dell'amore che Freud avrebbe nutrito per lui, per il grande contributo
da lui recato alla Causa psicoanalitica (e qui Leclaire, dopo Lacan, denuncia il dolo di
Freud per aver contribuito a radicarlo in questa convinzione, con il dono della “colletta” annuale raccolta tra gli analisti). Illusioni che a un certo punto Ruth Mack Brunswick, che in esse aveva giustamente individuato il nucleo patogeno della psicosi
dell’uomo dei lupi, smentisce brutalmente, tanto quanto (almeno per un certo tempo)
efficacemente.
Proprio per non avere mai voluto rinunciare a essere il Prediletto del Padre, proprio per non avere mai saputo rinunciare alla sua irrisoria laurea "honoris causa" in
1
Cfr. J. Lacan, Seminario sull’Uomo dei lupi (1952), traduzione integrale disponibile sul sito
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psicoanalisi, proprio per non avere mai saputo rinunciare a essere “l’Uomo dei Lupi”,
e nonostante la sua “intelligenza psicoanalitica”, la sua simpatia e la sua indubbia
sofferenza, di cui testimoniano sia Ruth Mack Brunswick che Muriel Gardiner, Sergei
Constantinovich Pankejeff sembra non essere mai realmente riuscito ad accedere
all’autentica Verhältnis zum Manne, alla vera e propria “relazione verso l'uomo”,
smarrendosi nelle inclinazioni del “cattivo se stesso” verso tutto l’immaginifico armamentario dell'analità, che non conosce Altro se non sotto la specie del doppio fecale di sé da trattenere o espellere, da amare o da odiare, secondo il proprio capriccio1.
Rachel Fajersztajn, in Un moment de parcours de deux rêves freudiens chez lacan (Actes de l'École de la Cause freudienne, Volume X, 1986), dopo aver messo a confronto il sogno
dell’uomo dei lupi (su cui è incentrata tutta l’analisi di Freud) col famoso sogno che apre inesplicabilmente, come un vaticinio, il capitolo VII dell’Interpretazione dei sogni – dove a un padre, stremato dalla veglia sul figlio appena morto, appare in sogno l’immagine atroce del figlio
che lo apostrofa: “Padre, non vedi che brucio? ” –, osserva: “Di cosa si tratta se non del desiderio, del debito che un padre deve trasmettere al figlio? L’anello della catena attraverso cui
doveva trasmettersi il debito del padre, la sua iscrizione nella legge, viene a mancare. Ma lascia
una voce: “Io brucio”… dei peccati del padre, dice Lacan. Cioè della faglia aperta rispetto al
godimento.” Entrambi i sogni mettono in scena la ricerca del desiderio del padre, la ricerca
dell’eredità che non è stata trasmessa, quella del desiderio, del debito, della castrazione, di ciò
che può riparare il soggetto dalla faglia aperta verso il godimento, per non bruciare, per tutta la
vita, dei peccati del padre. Amleto, che non manca di essere chiamato in causa, ne sapeva
qualcosa. Ma ciò che è in gioco per i due figli – l’uomo dei lupi, di cui conosciamo il fallimento del padre per quanto riguarda la trasmissione del suo desiderio, e il “bambino che brucia” –
in questa ricerca si accompagna a una differenza di stile. “La frase concisa del bambino morto,
conclude Rachel Fajersztajn, custodisce nella sua struttura stessa il vuoto che fa risuonare
l’Altro per ognuno di noi, interrogando il nostro desiderio. Il sogno dell’uomo dei lupi si trasmette in una forma narrativa offerta all’interpretazione, accompagnata da un disegno. Il legame tra questi due sogni e il seminario (di Lacan) sui Nomi del padre si può fare a partire dalla dimensione del sacrificio. Ma l’uomo dei lupi offre in sacrificio una piccola merda alla ricerca
del desiderio del padre; il bambino che brucia, lui, gli ha immolato la propria vita”.
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Sommario
Nota del traduttore................................................................................................. 2
I ............................................................................................................................ 5
II ........................................................................................................................... 9
III ........................................................................................................................ 16
IV ........................................................................................................................ 23
Tendenza verso l’uomo o relazione verso l’uomo?
di Moreno Manghi................................................................................................ 36
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