Genitori e figli, pensieri e riflessioni

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Genitori e figli, pensieri e riflessioni
SCUOLA GENITORI
(MALO)
«GENITORI E FIGLI: PENSIERI E RIFLESSIONI»
Prof. Paolo Crepet
Malo, 3 novembre 2010
Di anno in anno ci ritroviamo a parlare sempre di cose nuove: nuove speranze, fatti di
cronaca che inducono alla riflessione, ma anche nuove delusioni. In Italia pare che il problema
educativo fatichi a far breccia su chi deve prendere le decisioni e mi sembra che la famiglia sia
sempre più abbandonata a se stessa. Queste almeno sono le mie sensazioni, ma ho l’impressione che
anche i genitori si sentano lasciati soli ad affrontare i problemi che così appaiono montagne
insormontabili e che invece diventano più facili da scalare quando si è uniti. Ecco perché la Scuola
Genitori prosegue il suo cammino: insieme si possono affrontare meglio i problemi.
Ciò premesso, cosa possiamo fare? Dobbiamo tornare a progettare. Questa è la prima
necessità dopo aver preso coscienza dei problemi, testimoniata dalla vostra presenza. Individuare i
problemi, abbiamo visto che seppur è utile, non è più sufficiente. Lungi da me l’idea di fornire
“manualetti” su come risolvere seduta stante le questioni, la brutta notizia è infatti che i problemi
non si risolvono “qui e ora”, non basta una conferenza perché tutto si dipani immediatamente. Ma
discutere, riflettere, confrontarci, alimenta la speranza che il nostro lavoro porti a qualcosa di
buono.
Qualche giorno fa mi hanno chiamato da Genova per darmi la notizia che aprono due nuove
scuole montessoriane: non è una buona notizia. Non lo è se pensiamo che dopo 80 anni da quando
Maria Montessori ha elaborato il suo metodo non ci siamo più mossi! Questo immobilismo non
esiste in nessun campo: se il mondo è cambiato in pochi anni, pensate che a cosa è accaduto in 80 di
anni, eppure a livello educativo siamo ancora fermi là. Tutto ciò la dice lunga su come abbiamo
smesso di pensare, riflette e progettare l’educazione dei nostri figli, eppure in altri settori ci siamo
impegnati. Maria Montessori ha dato vita ad un metodo educativo negli anni Venti partendo dalla
constatazione di una situazione di emergenza, è stata una rivoluzionaria (per l’epoca) pioniera. E
poi? E poi ci siamo arenati, ci siamo fermati. Certo, c’è stato il movimento pedagogico che ha
investito la scuola materna nel dopo guerra, un momento importantissimo perché ha ribadito che il
mondo affettivo/emotivo dei bambini deve trovar posto anche in quelle aziende educative che sono
la scuola che non possono limitarsi alle pure nozioni. Anche in questo caso si è trattato di
un’intuizione molto forte, ma poi nulla più. E così negli ultimi 30 anni ci è mancata la capacità di
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leggere i cambiamenti che hanno mutato sin nelle radici quella colonna portante della società che è
la famiglia.
Quindi, non stupisce che il metodo montessoriano sia ancora visto come “rivoluzionario”.
Quando si parla di cambiamenti tutti pensano subito al peggio, ma io non do un’accezione
così negativa al cambiamento anche perché è impossibile cambiarci così in peggio fino
all’autodistruzione, non siamo così autolesionisti da volerci fare del male a tutti i costi. E allora cosa
non siamo riusciti a “leggere” in questi anni? Qualcosa che ha a che fare con il nostro senso di
colpa, da lì sono partiti i primi scricchiolii. Veniamo da una condizione familiare che ha retto per
secoli, che ha saputo far fronte a guerre, carestie, disastri, malattie…, che è andata avanti nonostante
tutto. Poi, fortunatamente, guerre, carestie, disastri, malattie, sono cessate, o sono state debellate
con l’avanzare delle scoperte scientifiche, e tutto ciò ci ha dato un senso di onnipotenza mai
conosciuto prima, la stessa onnipotenza che hanno i ragazzi di oggi che non solo non hanno più
paura delle malattie, ma non ne hanno più la percezione. In fin dei conti, si chiedono, cosa ci può
portare alla morte? Non hanno più “qualcosa” che sentono più forte di loro. Questa sensazione di
onnipotenza si è a tal punto rafforzata nell’individuo che ha portato all’indebolimento della
struttura: un tempo la famiglia era tanto più forte quanto gli individui che la componevano erano
deboli perché la sua forza veniva dall’unione, dallo stare insieme. È come quando si dice che una
volta c’èra più rispetto e solidarietà: certo, erano obbligati! Per sopravvivenza tua e di chi ti era
vicino cercavi aiuto e aiutavi. Oggi non c’è necessità di chiedere perché si ha tutto, si arriva quasi a
una sorta di autarchia che di conseguenza scioglie i legami di dipendenza (e di solidarietà) grazie ai
quali vivevano invece i nostri nonni nelle corti (se io non avevo lo zucchero lo chiedevo alla vicina
alla quale poi prestavo la farina…). Perciò quando il nostro “patrimonio” personale è cresciuto,
quando siamo diventati progressivamente “autosufficienti”, la rete delle nostre relazioni non si è
rafforzata, anzi.
Oggi siamo molto più soli di cinquant’anni fa. Pensate solo al senso dell’amicizia che si
rafforza nei momenti di difficoltà. E’ infatti il momento difficile che ti dice della tenuta di quel
legame. Questo per dire cosa? Che su Face Book oggi si incontrano tante persone che vengono
definite “amici”, ai miei tempi invece l’amicizia era tempo consumato insieme a fare qualcosa.
Certo gli amici erano molti meno, ma c’erano, soprattutto nei momenti difficili. Anche oggi esiste
l’amico del cuore, o quello preferito, ma fa parte di un insieme. Allora, siamo più forti oggi o lo
eravamo di più ieri? Io sulla forza di oggi ho qualche dubbio perché un ragazzo che frequenta Face
Book quando sta male con chi ne parla? Tutto quel mondo spumeggiante altro non è che chiara
d’uovo montata.
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Tutto ciò cosa sta a significare? Che dobbiamo iniziare a mettere dei paletti, devo mettere
queste necessità in un progetto educativo. Ma qual è la necessità?
Beh, pensare, per prima cosa, che la solitudine non è una malattia perché in un mondo di “più soli”
bisogna saperci stare. Insegniamo quindi ai nostri figli anche a stare soli. Non si tratta di fare buon
viso a cattivo gioco: è un’esigenza di vita. In pratica, se il bimbo piccolo piange quando il genitore
si allontana, se butta le cose per vedere se la mamma torna da lui - perché sono piccoli ma
intelligenti e furbi e sanno valutare le persone-
in quei momenti bisogna capire una cosa
fondamentale: che il ricatto affettivo non è una regola a cui i genitori debbono sottostare. Mamma e
papà, anzi, debbono fare in modo che il bambino viva dei tempi di solitudine in maniera da
comprendere che non è un difetto, non è un male o una cattiveria che gli si vuole infliggere. Da solo
inizialmente il bambino percepirà un vuoto, ma imparerà presto a riempirlo: e questa è una lezione
importante. Un bambino che sa stare da solo è un bambino creativo, per esempio, che sa giocare e
inventare partendo da cose semplici, e questo è “tutto grasso che cola” per affrontare la vita. Al
contrario, se i genitori intervengono, soffocano quella creatività. E possono farlo in molti modi:
dalla semplice presenza alla reificazione, ovvero attraverso gli oggetti (il 90% dei quali inutili) che
non sono che dannosi visto che bloccano quella forza propulsiva che è la creatività, il saper
organizzare il proprio spazio e il proprio tempo. È importantissimo che un bambino sappia
trasformare i cuscini del salotto in altrettanti vagoni del treno, se non lo fa e pianta una grana fin
tanto che non lo raggiungete (a chiedere cosa c’è) ecco che quel bambino penserà “ho vinto io”. E
allora i genitori sono sulla cattiva strada.
Questa è una battaglia che una donna si trova quotidianamente a combattere e che inizia con
l’allattamento al seno. Il primo ricatto affettivo verso la madre è proprio il pianto del neonato
quando viene staccato dal seno, poi segue la lotta per dormire nel lettone, e avanti così con una serie
di tentativi furibondi non di fare quella cosa lì specifica, ma di conquistare il potere attraverso il
ricatto affettivo. Ora, per secoli le cose sono state più semplici: un tempo la donna aveva mille cose
da fare e non poteva stare sempre dietro a quel bimbetto, c’erano cose pratiche e vitali da sistemare,
e di certo non si sentiva in colpa perché era suo dovere assolvere anche ad altri compiti. Oggi certe
necessità materiali non ci sono più, certe incombenze sono sparite, ma è subentrato un altro
problema: «se non c’è la necessità di fare quella cosa e la faccio lo stesso sono una cattiva madre»,
«se stacco il bimbo dal seno, non perché ho la mucca da mungere ma perché non è possibile andare
avanti così, sono una cattiva madre». Allora, visto che mi sento in colpa, e siccome non mi devo
sentire in colpa, o il senso di colpa è troppo, al posto di staccarlo e farlo piangere un po’ quasi quasi
lo riattacco!, torno nella stanza da dove proviene il pianto, lo lascio stare nel lettone, eccetera
eccetera.
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Non sono qua a giudicare i comportamenti, anche perché sono tante e personali le ragioni
che portano a certe scelte, ma guardiamo alla realtà. Certo tutti abbiamo sbagliato, e per fortuna,
viva i genitori imperfetti, ma quel senso di colpa ci porta a fare cose che mai nella storia
dell’umanità si erano fatte e che hanno portato a una cultura della riparazione, delle tutela, quasi
vittime di questo senso di impreparazione e delle paure. Mai come oggi i genitori si sentono
impreparati a rispondere alle richieste dei neonati, dei bambini, dei preadolescenti, questo è ciò che
io vedo come costante.
Mia figlia 17enne viene lasciata dal moroso…cosa facciamo noi genitori? Niente! Non possiamo
sentirci in colpa perché non mangia ed è triste..i suoi problemi non devono diventare un nostro
peso. A mia nonna non sarebbe fregato niente di tutto ciò, ammesso che la nipote le avesse
confessato –pena la morte- di avere il moroso a 17 anni, perché c’erano la fame, i bombardamenti, i
campi da mandare avanti. Questo eccessivo investimento nei problemi dei figli che i genitori vivono
oggi vuol dire che si sentono, e patiscono, un senso di inadeguatezza che porta a fare cosa? I
pompieri, ma i genitori non devono essere lì a spegnere i fuochi dei problemi, a rispondere al
sintomo, mamma e papà devono essere dei soprintendenti, che è un compito molto più complicato.
Non essere pompieri significa non occuparsi dei dettagli, tralasciare le questioni spicce, ovvero non
mi occupo del fidanzatino perso, ma della generale felicità o infelicità di mia figlia che non è
determinata solo da sto benedetto morosetto. Ecco cosa significa sovrintendere: elevarsi al di sopra
del problema perché se ci si mette alla pari delle questioni contingenti non le si vedono più per
quello che sono: incidenti lungo il percorso di crescita. Sì, certi dolori sono dei veri e propri cazzotti
che fanno male, ma che è bene prenderli per imparare poi a schivarli o a renderli. Noi che siamo
supervisori abbiamo il dovere di avere questa visione globale dell’esistenza dei nostri figli.
Quindi, ripristinare il “valore” della solitudine. Il che significa anche fai quel che sei,
rispondi tu in prima persona ai tuoi problemi senza attenderti sempre che ci sia qualcuno che lo fa al
posto tuo. È questo il vero problema oggi: se i genitori iniziano ad aiutare i figli sin da piccoli questi
poi davanti a cosa avranno la forza per crescere? Si alleveranno degli irresponsabili, persone che
sanno che tanto ci penserà sempre qualcun altro, e gli anticorpi emotivi per affrontare la vita quando
se li faranno? Se a 17 anni sono mamma e papà a preoccuparsi che la fidanzatina non ti molli,
quando a 35 anni sarai lasciato cosa accade?
E poi: per educare bisogna sempre pensare al futuro. Cosa vuol dire? Mettiamo che il
genitore si ponga il problema di una semplice regola: la televisione non più di un’ora al giorno. Ma
se il figlio chiede un’altra mezz’ora…«beh posso dire di sì così intanto io sistemo la biancheria,
tanto per una volta che male può fare»? La questione centrale in tutto ciò, e sulla quale i figli
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mettono alla prova, è «Chi comanda qui»? L’educazione è confrontarsi su banalità quotidiane che
non sono tali ma strategiche. E come si fa a sapere qual è la scelta giusta? Bene, si prenda quella
semplice regola e la si proietti da qui a dieci anni, grazie a quale risposta si può rendere un figlio più
forte nell’affrontare la vita? In quel momento si capisce cosa è giusto fare. Certo, anche le teorie
educative più scialbe hanno ragione: chi mette in croce i genitori perché una volta hanno capitolato?
Nessuno, però prima di farlo pensiamo al futuro. I genitori infatti non devono educare i figli qui e
ora, ma i figli che saranno tra 10/15 anni. È così che funziona anche se non è per nulla facile da
capire e da mettere in pratica. Se una mamma fa capire al bambino che può prendere qualsiasi
regola e adattarla alla situazione che gli fa più comodo senza per questo pagare pegno, prima o poi
le conseguenze dovrà pagarle e più tardi sarà più il conto sarà salato e con quale risultato finale?
Il saper vivere nasce oggi anche se è tra 10 anni, per questo i genitori devono essere anticipatori.
Indubbiamente tutto questo rende complicato il compito dell’educatore, ma educare non è una cura
sintomatologia, non si va a incidere sui sintomi, ma sulla vera natura della malattia per curare al
meglio.
E chi fa tutto questo? Una sola persona e non sette. Questo è un altro elemento
fondamentale: i figli hanno bisogno di un capitano, di un educatore.
Oggi, se va bene, un ragazzino di capitani ne ha minimo due (mamma e papà) quando non sono
quattro/cinque (nonni, zii…) e ognuno d’essi ha le proprie idee e convinzioni. E il ragazzino cosa fa
di fronte a questi diversi modi di porsi? Pensa con la sua testa, trova il suo “modo”, e i genitori
finiscono per non contare più nulla, perché non si può contare se ognuno ha voce in capitolo, se
ognuno dice la sua.
Quindi, l’invito che rivolgo a genitori e nonni è che i nonni, per esempio, si limitino a fare i
nonni e non gli educatori. Nulla da dire sull’importanza dei nonni nel sostegno delle nuove
famiglie, ma fornire aiuto non significa necessariamente avere il patentino di educatori, o sentirsi
autorizzati a svolgere questa funzione: le regole educative debbono essere quelle stabilite dai
genitori e vanno rispettate da tutti. Guai se una nonna interviene su una punizione che la mamma ha
stabilito per la figlia/il figlio, nelle regole i nonni non devono entrare in gioco altrimenti vuol dire
distruggere in pochi secondi quanto faticosamente i genitori tentano di costruire. Quei «Ma sì esci
pure tanto lo dico io alla mamma (o non lo diciamo)» non sono sciocchezze e non vanno
sottovalutate. Certo, anche i nonni, come i genitori, vogliono essere amati, ma conquistare questo
amore con i “permessi” è pericolosissimo perché vanificano qualsiasi principio educativo.
E non è giusto nemmeno sottoporre i bambini/ragazzi alla fatica, ammesso che vogliano farla, di
dover comprendere la differenza tra genitori e nonni. Illudersi di ciò significa imboccare la via
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meno faticosa, perché dire ai nonni certe cose è difficile in quanto i genitori si sentono ricattabili (in
fin dei conti i nonni danno una grossa mano)…ma non possono rimanere sempre sotto scacco
devono usare il buon senso. I figli hanno bisogno di coerenza e si cibano di cose semplici e chiare.
A fronte di certe situazioni devono vincere i papà e le mamme e non la nonna. Tempo fa c’era il
capostipite, spesso il nonno, c’era un’organizzazione verticale in cui era chiaro chi comandava. Se
si vuole che a comandare sia il nonno bene, altrimenti chiedetegli di non mettersi in mezzo. E se il
figlio sbaglia lasciatelo anche sbagliare: l’importante è che sappia, e impari, a reagire alla bastonata
senza che intervenga, di nuovo, la nonna.
E veniamo a papà e mamma. Anche qui c’è un problema perché seppur si dica mamma e
papà il figlio ha bisogno di un capitano…«eh ma mio marito sa»: no, bisogna mettersi d’accordo
stabilendo e condividendo due o tre regole principali perché il rischio che si corre altrimenti è
altissimo, se mamma dice una cosa e papà un’altra si vanifica ogni tentativo educativo e il figlio si
sente solo, abbandonato, sbandato, insomma non si sente bene. I figli hanno bisogno e vogliono un
capitano: non dobbiamo fare un referendum su ogni cosa.
Molte delle fragilità di cui sto parlando sono tipiche dei papà perché in questi anni sono cambiati.
Una volta per definire un papà si diceva “è un gran lavoratore”, ma non era certo un gran esempio
di genitore, oggi i papà sono più presenti nella cura e nella crescita dei figli. Tutto questo è molto
positivo, ma c’è un però: hanno l’ansia tipica del neofita e, contrariamente alle mamme che tali lo
sono da secoli, hanno scoperto di non saper fare bene questo mestiere.
Poi c’è un’altra complicazione: la coppia genitoriale si trova “contro” il resto del mondo.
Capita infatti che i genitori siano all’unisono sul progetto educativo, ma che siano circondati da
altre persone che la pensano in maniera diversa e sono gli amici di mamma e papà, le mamme e i
papà degli amici del figlio, i mass media…L’essere uniti in questo caso permette ai genitori di non
abdicare al loro ruolo, ma di tenere duro perché non conviene a nessuno, e men che meno a loro,
crescere i figli con le regole degli altri, anche se sono le migliori. Le regole che stabiliamo in
famiglia debbono essere le nostre anche a costo di sbagliare perché è meglio sbagliare con le nostre
regole piuttosto che far bene con le regole degli altri. Questo è un imperativo che permette ai figli di
capire chi sono e come la pensano mamma e papà i quali non possono pensarla in un modo e poi
agire in un altro (e cioè mostrarsi incoerenti e deboli).
A proposito, negli ultimi anni abbiamo avuto l’illusione che tutti possano fare tutto, che certi
“passaggi” che determinano la crescita di una persona, ormai non servano più. In ciò aiuta Internet
che è uno strumento uguale per tutti (dai zero ai 90 anni tutti possono accedervi e vedere le stesse
cose), ma che ha prodotto una sorta di “pianura”, di abbassamento delle differenze, portando a
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credere che si possa fare tutto nello stesso momento senza alcun processo di crescita: ma a 10 anni
non si può fare quello che si fa a 20, e viceversa. Su questa progressiva crescita si basa la storia
dell’umanità. Oggi invece si crede che dalla pubertà fino al 90 anni si possano fare le stesse cose,
così abbiamo ragazzine che si comportano da donne mature e i vecchi ever green che si mettono,
drammaticamente, in competizione con i 20enni!! E’ una sorta di grande minestrone dove c’è tutto
tranne il senso di responsabilità. A 59 anni non si può andare in discoteca con i 18enni perché è un
“reato morale”, perché nei giovani si crea confusione e indebolimento perché non capiscono più chi
sei: papà, un amico o che? Il comandante non si mette a livello dei marinai semplicemente perché il
suo compito è comandare e farlo fino a una certa età per poi lasciarli liberi, invece oggi si tende a
non comandare pretendendo di farlo dopo quando questi ragazzi sono cresciuti (oramai 20enni,
30enni). Non si può fare con un figlio 40enne quello che andava fatto quando aveva 17 anni!
Si parla di ragazzine che hanno rapporti sessuali a 15/17 anni, è vero che c’è
un’anticipazione della maturazione sessuale, ma questo non vuol dire granché perché c’è bisogno
anche di un’altra maturità per fare certe scelte: un’identità psicologica forte. A 16 anni non si ha la
capacità di far fronte a certi eventi e a certe situazioni, che si ha invece a 20/30 anni, e questa
“forza” non la può dare Internet o certe trasmissioni televisive, la dà l’esperienza che per forza deve
essere graduale, raggiunta passo dopo passo. Sebbene li abbiamo cancellati i gradini che segnano la
scala della crescita esistono ancora ed è dovere di tutti ripristinarli.
Poi ci sono le mamme che a 42 anni si autodefiniscono “ragazze”! La figlia di 15 anni ha bisogno di
avere accanto una donna di 42 anni perché di amiche ragazzine ne ha già tante accanto, ha già
quindi le risposte banali alle sue domande e ha bisogno di qualcosa di più e di diverso…come è
possibile non capirlo?
Allora, perché i genitori fanno diventare padroni del vapore i figli di 7/8 anni? Se non sto
dicendo delle sciocchezze, perché poi i genitori si comportano proprio cosi? Per il gusto di dare ai
figli un potere che non possono e non devono avere e che non amano nemmeno ricevere perché ne
avranno una soddisfazione temporanea ed effimera? Attenzione, perché quel che non è effimero e
temporaneo è l’idea peregrina che più anticipi il potere più cresceranno, invece quando arriverà per
i figli il tempo di avere il potere non saranno in grado di gestirlo perché si sono stufati e non hanno
mai dovuto lottare per conquistare qualcosa. Il bello, a una certa età, è anche essere trasportati,
guidati. Dov’è il piacere del “tirarsi su” se non si è mai caduti?
Pensiamo a quante cose in questi anni i genitori si son messi in testa di fare: il pompiere,
l’infermiere, il cameriere. Provate a non fare niente di tutto ciò, provate ad aver fiducia nei vostri
figli e a non sentirvi in colpa. Ciò che può sembrare generosità, il costante aiuto, diventa invece per
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i figli la perniciosa idea che tanto ci sarà sempre qualcuno pronto ad aiutarli e che non sia richiesto
loro nemmeno tanto sforzo, ma il mondo che poi dovranno affrontare non farà sconti perché è molto
più complicato di quello che la mia, e la vostra, generazione ha trovato. Ai figli oggi serve molta
più capacità di autonomia di quanto chiesto a noi ieri. Il nostro mondo aveva una mobilità modesta,
il mondo di oggi obbliga a una mobilità simile a quella di inizio ‘900 con la differenza che non sarà
la fame la molla per partire, ma la realizzazione dei propri sogni: se i figli restano qui immobili
dovranno accettare una certa mediocrità di vita, al contrario per avere soddisfazioni dovranno
percorrere chilometri, essere preparati, possedere certe informazioni.
Cosa si vuole per i propri figli? Di sicuro il meglio, la loro felicità, e come si fa ad arrivare a 24/25
anni preparati a compiere anche queste scelte se necessarie? È evidente che la preparazione inizia
prima, all’inizio della vita. Maria Montessori aveva intuito tutto ciò, a noi oggi il compito di
implementare le sue idee sperimentando cose nuove e diverse, lottando anche contro una burocrazia
che pare remare contro. La vera sfida è gridare parole nuove che garantiscano ai nostri figli un
futuro diverso, e migliore.
Tra le forze che “lavorano contro” c’è la nostra cultura, i mass media….ma davvero pensiamo che
certe trasmissioni siano fucine di talenti piuttosto che “fiere della mediocrità”? Ma davvero
possiamo lasciare passare il messaggio che il talento non vada conquistato con sacrifici e impegno
che richiedono tempo? Il compito dei genitori è svelare questi inganni e per fare ciò serve sudore,
disciplina, impegno, anche quando si è stanchi e non se ne ha voglia. Oggi il mondo della
comunicazione è talmente rapido che porta a credere che anche la costruzione del mondo sia
altrettanto rapida, ma non è così. E lo debbono dire i genitori, gli insegnanti, gli adulti in generale.
Questo nostro ruolo di dissuasori richiede tempo e coerenza: bisogna battere il chiodo con
l’esempio giorno dopo giorno.
Faccio una domanda: di chi sono contenti i genitori? Del figlio che è attaccato a loro, ma
non ha prospettive, o di chi magari si è allontanato, ma si impegna a costruire, con fatica e gioia, il
proprio futuro avendo così anche qualcosa da dire a mamma e papà? É una scommessa: e qualche
volta si deve avere il coraggio di puntare. I soldi oggi non mancano, tanti o pochi che siano li
investiamo nel migliore dei modi per trarne il massimo vantaggio: fatelo anche con i figli. Il che
significa da un lato, metaforicamente, che i nostri ragazzi
devono essere il nostro miglior
investimento per il futuro, dall’altro, materialmente, che se spendiamo soldi per loro lo si faccia in
maniera lungimirante. Un esempio: perché pagare una vacanza ad Ibiza dove il figlio farà le stesse
cose che fa nel lido a due passi da casa con gli stessi amici? Meglio dare i soldi per andare a trovare
un amico che magari sta facendo l’università all’estero offrendo così l’opportunità di conoscere
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realtà nuove, di fare nuove esperienze, di conoscere gente nuova, di vedere che nel mondo sono
tanti i modi di pensare. Per esempio che in alcuni paesi vivere da soli a 20 anni non è scandaloso,
ma favorisce l’autonomia e l’organizzazione del tempo, per non parlare della responsabilità. I
genitori dovrebbero vivere tutto ciò con gioia non come un lutto, e non è vero che non ci sono i
soldi: per educare così di denaro ne basta poco, ma serve tanto coraggio. Che paure muovono
mamma e papà? Perché devono trasformarsi nella banca d’Italia? Manca la fiducia nei propri figli?
Non si cada nell’errore di credere che da soli, autonomi, si perdono: al contrario si ritrovano.
Poi, scusate, meno prosopopea italiana: se il mondo funziona in un modo diverso dal nostro ci sarà
pure un motivo, o pensiamo di essere così intelligenti?
Infine, vorrei riportare un dato, per me, terrificante: il 25% dei giovani cerca lavoro, ovvero
sono inoccupati e non disoccupati. Di fatto non sono giovani che soffrono la fame, ma giovani ai
quali un 25% di famiglie eroga la pensione intervenendo al posto di un salario. Non possiamo
permetterci che questa diventi la regola di un paese perché quel 25% diventerà poi il 33, il 50 e
allora non ci muoveremo più. Pensiamo davvero che a creare nuove professionalità, lavori
innovativi, valore aggiunto sia il pensionato di 25 anni pagato per uscire con la fidanzata e andare in
giro in auto, e che tutto a un tratto a 37 anni si svegli e diventi maturo?
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