Burning heart

Transcript

Burning heart
BURNING HEART
*
RACE WAR SAGA
racconto
*
Questa storia è completamente frutto di pura fantasia. Ogni
riferimento a cose e persone realmente esistenti è
puramente casuale.
*
Il titolo di questo racconto è tratto dal brano omonimo dei
Survivor (qui), colonna sonora di Rocky IV.
*
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Opera di Glauco Silvestri
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Burning Heart
Strinse i capelli raccolti in una coda, e sollevò con
forza il volto terrorizzato dell’uomo che
fronteggiava in modo che potesse guardarlo
negl’occhi. Il sorriso dipinto sul viso del
persecutore, un sorriso pazzo, disperato, forse
esasperato, si proiettava nel terrore della vittima
per disegnare una allegoria di lacrime e sudore.
La Beretta 92F era piantata con fermezza contro la
tempia dell’uomo. La sua bocca era serrata con
del nastro da imballaggio. Il corpo nudo era
costretto in ginocchio nel bel mezzo di un lago di
sangue. Non era il suo sangue, e neppure era il
sangue del persecutore. Era il sangue di Marta.
La ragazza giaceva poco distante, ancora sul letto,
a gambe divaricate, braccia legate alla spalliera,
capelli mori scarmigliati, l’espressione sorpresa,
e gli occhi spalancati. Il ventre di Marta era
martoriato da tagli profondi scavati con un rasoio.
Tagli che andavano dalle zone del piacere alle
curve sinuose dei suoi fianchi, e che risalivano le
dune del suo seno per giungere fino alla gola.
Il rasoio giaceva a terra, bagnato dal sangue
vermiglio, a pochi centimetri dalle ginocchia
sbucciate dell’uomo minacciato con una pistola.
Mugugnava, si agitata, ma la stretta sui capelli era
ferma e non avrebbe ceduto tanto facilmente. E poi
bastava un colpo di Beretta per terminare
quell’agonia appena cominciata.
Marta non aveva potuto esimersi dalle attenzioni
di Don Luciano. Ventidue anni, figlio di un Boss
della malavita, abituato ad avere tutto ciò che
voleva, e a eliminare tutto ciò che gli andava di
traverso. Marta ci aveva provato, a spiegare a Don
Luciano che lei era già promessa.
Don Luciano non accettava il rifiuto, anche se
gentile, anche se giustificato, anche se non aveva
alcuna intenzione di offendere, di mancare di
rispetto, mai. Il negozio del padre di Marta era
andato a fuoco dopo il rifiuto di lei. Avrebbe
potuto andare peggio, Marta ne era sicura, per
questo aveva accettato l’invito.
«Robé - aveva detto lei - cosa sarà mai... Una
cena, una palpatina, una scopata. Poi si
dimenticherà di me. In paese ce ne sono di belle
ragazze - aveva detto - Mi lascerà in pace, vedrai,
però Antonio non lo deve sapere, capito?».
Antonio era il fidanzato. Migrato al nord per
guadagnare i soldi necessari al loro matrimonio,
alla casa che avrebbero acquistato, alla famiglia
che avevano intenzione di costruire. Non poteva
fare nulla per scongiurare quella situazione
ignobile, ed era meglio che Antonio non sapesse.
Don Luciano, nonostante le occhiate sospettose di
padre, madre, e fratello di Marta, si era
comportato da gran signore. Aveva preso Marta a
casa, l’aveva portata al ristorante, aveva cenato, e
l’aveva riportata a casa.
La prima volta non era accaduto nulla. Il negozio
era stato sistemato senza che il padre dovesse
aprire il portafogli. Marta era uscita una seconda
volta con Don Luciano, e poi una terza, una quarta.
In ognuna di queste uscite lei tentava di allontanare
gli interessi del ragazzo, e puntualmente questi
faceva finta di nulla, oppure lanciava una velata
minaccia, cosicché Marta si trovasse comunque
costretta a ‘fare il proprio dovere di donna
piacente’.
La ritrosia della ragazza non passava comunque
inosservata. Tutti in paese sapevano che era
promessa, e tutti sapevano che Don Luciano la
importunava. Alla quinta sera in molti
cominciarono a bisbigliare, a commentare, ad
additare. E ciò non passò inosservato agl’occhi
del Don, tant’è che un mattino, arrivò la telefonata
dei carabinieri, questura di Milano.
Antonio era stato aggredito mentre tornava dal
lavoro, ed era stato trovato morto, la mattina
successiva, dall’edicolante della zona.
Scese il silenzio più completo. Scese l’omertà. La
sesta notte Marta non fece ritorno a casa. La sesta
notte Marta era stata seviziata brutalmente da Don
Luciano.
Roberto, il fratello, non aveva potuto fare nulla
per evitarlo.
Era arrivato tardi per salvare la sorella.
L’aveva trovata nel letto, agonizzante, con
quell’insetto nudo ancora a cavalcioni su di lei, il
rasoio nella destra, il collo di lei nella sinistra. Si
muoveva a scatti grugnendo come un porco in
calore. Abusava del corpo in fin di vita di Marta e
ghignava come una iena sadica e perversa.
Il primo colpo della Beretta era stato per sua
sorella. Erano stati gli occhi di lei a chiederlo.
Quel bastardo aveva scavato tanto a fondo nel suo
corpo da strapparle lembi di carne dai fianchi, dai
glutei, dal ventre. Aveva sparato senza che lui si
accorgesse di nulla. Un colpo in fronte.
Marta era trasalita. Il suo corpo aveva sobbalzato
per la violenza dell’impatto, e poi si era rilassato.
L’aveva lasciata così.
Aveva preso per i capelli Don Luciano, lo aveva
sbattuto a terra. Appena lui aveva tentato di
parlare gli aveva ficcato un proiettile nella spalla.
Si concesse il tempo di farlo tacere con il nastro
da pacchi trovato su un mobile di quella camera
delle torture. E si concesse il tempo di dare un
ultimo saluto alla sorella. Stava per chiuderle gli
occhi quando si accorse che l’animale si era alzato
per tentare una fuga goffa, con quel suo corpo nudo
macchiato di sangue, verso chissà dove, visto che
si trovavano nel bel mezzo del nulla.
Fece fuoco. Don Luciano urlò e stramazzò al suolo
dopo che il proiettile si portò via metà del suo
ginocchio destro.
Roberto lasciò la sorella per recuperare il corpo
del suo aguzzino. Lo costrinse in ginocchio, gli
puntò la Beretta alla tempia, e tirandogli i capelli,
gli sollevò il volto per guardarlo direttamente in
quella fogna di occhi.
«Riconosci la tua pistola? - ringhiò a denti stretti
Roberto - La prossima volta non lasciarla sulla
sedia assieme ai tuoi luridi vestiti... », sorrise
«Sempre che ci sia una prossima volta».
Don Luciano tentò di parlare, inutilmente.
Roberto costrinse il ragazzo a guardare la ragazza
«Mia sorella non meritava tutto questo. Era pura,
innocente...».
Tirò i capelli fino a far urlare Don Luciano, lo
costrinse a sollevarsi in piedi, quindi puntò la
canna della Beretta direttamente sui testicoli di
quel corpo ormai privo di dignità «Dovrei farti
saltare le palle con un proiettile». Invece che fare
fuoco lasciò la presa di scatto. Don Luciano cadde
malamente sulle ginocchia, urlò disperato, e
scivolò al suolo immergendosi nel sangue di
Marta.
Roberto aggirò il letto dove ancora giaceva la
sorella e finalmente le chiuse gli occhi «Riposa in
pace, sorella mia», sussurrò.
Don Luciano aveva il respiro pesante. Il sangue
della donna ribolliva attorno alle sue labbra a ogni
espirazione. Gli occhi erano rivolti al soffitto.
Cercava di capire dove fosse Roberto. Sentiva i
suoi passi. Sentiva il frusciare dei suoi abiti.
Sentiva la sua voce «La mia famiglia è povera disse - ma comunque abbiamo una dignità da
difendere», Roberto rovistava tra gli abiti del
mafioso «Tuo padre è un uomo d’onore, lui
comprende il significato della parola ‘dignità’ aggiunse - Ma tu sei feccia, tu sei un animale, tu
non hai nulla di caldo che scorre nelle vene».
Trovò quello che cercava «Credi che tutto ti sia
dovuto perché sei ricco, sei potente, sei
intoccabile - sorrise - Solo che non è vero!».
Finalmente Don Luciano riuscì a vedere Roberto;
gli voltava la schiena e si stava allontanando.
Forse si sarebbe salvato. Forse avrebbe avuto
modo di vendicarsi. L’avrebbe torturato come un
cane, l’avrebbe pregato di ucciderlo, gli avrebbe
estorto la richiesta di perdono, l’avrebbe umiliato
come e più di quanto lui stesso aveva subito, e alla
fine l’avrebbe ucciso ridendogli in faccia. Roberto
stava commettendo un grosso errore a lasciarlo
vivo. La vendetta sarebbe stata succosa da
assaggiare. Sorrise tirando le labbra costrette a
stare serrate dal nastro adesivo; poi vide Roberto
tornare con due taniche.
Spalancò gli occhi.
Il primo getto di benzina lo colpì in pieno volto.
Chiuse gli occhi appena in tempo. Ma la ferita alla
spalla, il ginocchio, e le parti intime cominciarono
a dolergli come se fossero state avvolte dalle
fiamme.
Il secondo getto di benzina avvolse il corpo della
sorella.
Il terzo getto irrorò l’intera stanza.
Le due Taniche furono svuotate completamente.
Don Luciano non riusciva a tenere aperti gli occhi,
ma sentiva il rumore di uno zippo che
ostinatamente rifiutava di accendere una fiamma.
Pregò che fosse scarico. Pregò che Roberto non
riuscisse a fare ciò che aveva in mente.
Le sue preghiere non furono accolte.
Lo zippo donò una calda e brillante fiamma che
riverberò intensa nel buio della stanza.
«Ci rivedremo all’inferno, Don Luciano», Roberto
lanciò lo zippo tra le gambe del ragazzo. La
benzina prese fuoco all’istante. Le fiamme
avvamparono attorno alle grida di Don Luciano.
Questi si rotolò al suolo, alimentò la benzina
sparsa per la stanza, appiccò il fuoco ai tendaggi,
al letto, agli abiti di Marta che ancora giacevano
sparsi sul pavimento.
Bastarono pochi istanti perché l’intera stanza si
trasformasse in un vero e proprio forno
crematorio. Roberto attese sulla soglia finché il
calore non fu insopportabile, quindi uscì dal
casolare.
A poca distanza, nel piazzale, era parcheggiata la
sua vecchia Ritmo bianca. Il portellone del
bagagliaio era ancora aperto. Si avvicinò all’auto
con passo claudicante. Si sentiva svuotato di ogni
energia. Tra le mani aveva ancora la Beretta di
Don Luciano. Sulla pelle aveva ancora il sangue di
sua sorella.
Roberto si appoggiò alla fiancata dell’auto.
Inspirò; alzò lo sguardo verso il cielo, osservò il
fumo proveniente dal casolare mentre si innalzava
pigramente macchiando di fuliggine la bella
giornata primaverile. Il vento ad alta quota
disturbava la colonna di fumo e la schiacciava
come se si stesse formando un’area di bassa
pressione. Si chiedeva se anche l’anima delle
persone volasse in cielo come fosse fumo. Si
chiedeva cosa avesse fatto Marta per meritare un
destino tanto ingrato.
Si puntò l’arma alla testa. Spinse con tutte le sue
forze contro la tempia. Grugnì di rabbia. Voleva
morire. Ma non voleva veramente morire.
Semplicemente non sopportava di vivere in un
mondo dove tutte le sue certezze erano crollate
tanto velocemente a causa di uno stronzo, e di una
lama di rasoio.
Roberto abbassò lentamente la canna dell’arma.
Inserì la sicura e la infilò tra la pelle e l’orlo dei
pantaloni, dietro la schiena.
Sputò a terra e maledì l’intera famiglia dei
Cattaneo. Soprattutto maledì Don Luciano
Cattaneo, uno stronzetto ventenne che credeva di
poter fare tutto ciò che voleva.
Si girò verso l’altra vettura parcheggiata nel
piazzale.
Sembrava un’astronave. Bassa sul terreno, con
forme sinuose e curve, nera, lucida, con finiture in
arancione che parevano disegnate da menti aliene.
Vi fece un giro intorno. Il muso era strafottente
come la faccia da culo di Don Luciano. Quella
presa d’aria ovale che andava contro a ogni regola
aerodinamica, quei fanali stretti e avvolgenti come
bende, il cofano bombato come il ventre flaccido
di un grassone. Sprigionava cattiveria. Sembrava
un Rottweiler pronto ad azzannare qualcuno. Il
posteriore era frutto di un romanzo di fantascienza.
Niente di ciò che aveva visto fino a quell’istante
somigliava al posteriore di quell’auto. Con una
mano accarezzò le linee feline di quella vettura.
Sapeva che cos’era. L’aveva vista in televisione.
La conosceva di fama. Aveva guidato
sufficientemente a lungo per sapere che quella era
una Bugatti Veyron, ma non una Veyron qualunque.
Don Luciano non si sarebbe mai accontentato di
una Bugatti ‘qualunque’. Lui si era preso una
Veyron Super Sport, l’auto di serie più veloce al
mondo.
Si vantava ovunque per quell’auto. Tutti in paese
sapevano che la sua Bugatti faceva i 430
chilometri all’ora, che era persino più veloce di
un elicottero della polizia.
Roberto ebbe l’istinto di bruciarla assieme al
casolare. Aveva preso le chiavi della Bugatti dai
pantaloni di Don Luciano. Sorrideva all’idea di
metterla in moto, inserire la prima, e mandarla a
bruciare assieme al corpo del suo proprietario.
Entrò nell’abitacolo che pareva essere un mix
perfetto tra la cabina di una astronave e un salotto
di lusso. Pelle, finiture sportive, dettagli eleganti,
una plancia avveniristica, la leva del cambio
piccola, ergonomica, comoda, soprattutto il
volante che, sfrontato, mostrava a Roberto il logo
della Bugatti come fosse uno schiaffo in piena
faccia.
Inserì la chiave nell’apposito vano e spinse il tasto
start. Il rombo del motore lo fece trasalire. Un
vero e proprio ruggito, seguito da un borbottio
sommesso che ispirava potenza allo stato brado.
Sfiorò il pedale dell'acceleratore. Il contagiri
schizzò come un pazzo. Il motore aggredì l’aria
gridando la propria forza.
Roberto sentì crescere sui suoi avambracci la
pelle d’oca. Non aveva più voglia di scagliare
quella creatura tra le fiamme.
Guardò la sua Fiat Ritmo bianca, vent’anni e passa
di vita, oltre trecentomila chilometri, la portiera
del passeggero bloccata da ormai cinque anni
senza possibilità di riuscire ad aprirla se non con
un apriscatole. Tornò a guardare ciò che lo
avvolgeva.
«Rifletti Roberto - si disse - Non agire
d’impulso».
Innestò la prima e toccò nuovamente
l'acceleratore. La Bugatti scattò in avanti come se
dovesse scappare da quel luogo il più lontano
possibile.
Roberto aveva letto qualcosa sulla Veyron Super
Sport. Bastavano due secondi per portare quella
vettura a cento chilometri all’ora. Doveva stare
attento. Di sicuro non poteva paragonarla alla
scassata Ritmo di famiglia.
Davanti ai suoi occhi il casolare continuava ad
ardere rabbiosamente. Parti del tetto crollavano
nel crogiolo delle fiamme mentre le mura si
sgretolavano a poco a poco.
Roberto decise di tenere l’auto. Gli sarebbe stata
utile, visto che non poteva certo tornare a casa
come niente fosse. La sua vita era appesa a un filo.
I Cattaneo non avrebbero lasciato correre
l’uccisione del proprio figlio, unico ed erede
dell’intero impero di famiglia, anche se avvenuto
per motivi più che legittimi. Era una questione di
onore, probabilmente, anche se non capiva bene
come venissero attribuiti i valori relativi all’onore
di famiglia. Un ventenne stupratore e usurpatore
dei diritti altrui non era forse portatore di disonore
alla famiglia?
Roberto non si lasciò travolgere dai pensieri che
torturavano la sua mente, e si concentrò su un
piano di fuga. La Bugatti gli sarebbe venuta utile.
Nessuno poteva starle dietro.
Aveva bisogno di lei. Per salvarsi... Roberto
doveva correre, e tra le mani aveva un’auto nata
per farlo.
Pubblicato a Dicembre 2013
Prima Edizione
Opera di Glauco Silvestri
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