Untitled - Rizzoli Libri

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FERRUCCIO PARAZZOLI
IL RITO DEL SALUTO
ROMANZO
BOMPIANI
© 2016 Bompiani / Rizzoli Libri S.p.A., Milano
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
ISBN 978-88-452-8154-9
Prima edizione Bompiani settembre 2016
Quando giungono davanti al palco del presidente
i matadores s’inchinano profondamente...
C’è un grande silenzio e tutti guardano la porta di legno.
Il presidente fa un segnale col fazzoletto,
la tromba suona e il vecchio austero dai capelli bianchi
apre la porta del toril.
Ernest Hemingway, Morte nel pomeriggio
ERA UNA NOTTE FREDDA E BUIA
Faceva freddo e fuori ancor cadea la neve
nella soffitta ancora a scrivere ei sostò
Era una notte fredda e buia, oltre i vetri della finestra all’ottavo piano non cadeva la neve, come diceva la vecchia canzone,
ma una pioggia sottile e penetrante. Quanto a scrivere era vero,
teneva una penna in mano e un quaderno aperto sul tavolo
senza riuscire ad aggiungere una sola parola a quanto fino a
quel momento aveva scritto – che non era poco – ma ancora
mancante del finale. L’idea, in verità, gli era venuta: quel finale
doveva essere turbinoso come una danza, ma la scena era rimasta vuota, nessun personaggio era entrato ad animarla, tanto
meno disposto a lanciarsi in una scandalosa sarabanda. Forse
le storie che aveva messo nel quaderno non avevano un possibile finale, pensò.
Sotto la luce della lampada, fissava la pagina bianca. Improvvisamente sentì un soffio di aria gelida che lo fece rabbrividire, come se qualcuno avesse spalancato una porta o una
finestra alle sue spalle.
Si alzò e abbandonò il tavolo.
“Domani. Domani, zia. Adesso, lo vedi, non ho tempo per
venire a cena con te. Devo trovare un finale alle mie storie.”
Indossò cappotto e cappello, si ficcò in tasca il quaderno
arrotolato, entrò nella cassa di zinco dell’ascensore e scese in
strada.
Battuta dalla pioggia, la piazza era deserta, soltanto poche
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macchine passavano a grande velocità, i minacciosi fari lacrimanti, schizzando sul marciapiede l’acqua dalle pozzanghere.
Non doveva andare lontano. Da piazzale Loreto ai primi
isolati di via Padova, sono pochi passi.
Erano tutti lì, come ogni sera, al Nilo Blu di Agfa e Arafat,
marocchini del Maghreb, kebab e altri servizi, danza del ventre
il sabato sera.
Entrò nel fumo e nell’odore accorante di montone arrostito.
C’erano tutti i personaggi delle sue storie passate, senza più differenze tra i vivi e i morti. Fecero festa al povero scrittore che
sgocciava pioggia sulle assi consunte del pavimento. Nonostante
tutto quello che a ognuno di loro aveva fatto passare nei suoi
precedenti racconti, formavano sempre un’allegra compagnia.
“Bentornato al Nilo Blu, padrone. Festeggia con noi.”
“E cosa festeggiate stasera, amici miei?”
“Mariangela che ha perso il lavoro.”
“Un’altra volta? Non lavoravi in quella libreria sul Corso?”
“Chiusa. Troppo grande, locali troppo cari. Entreranno i cinesi di Aumai. Clientela extracomunitaria, ideale per i cinesi.”
“E allora, cosa festeggi stasera?”
“La mia libertà. Torno sul Corso a fare propaganda alla maionese Mayor: la comprano i vecchi e gli sposini.”
“Lunga vita alla maionese Mayor.”
“E tu, e il tuo cuore? Come batte il tuo cuore?”
“Non perde un colpo. Prendo otto pasticche ogni giorno
e non mangio carne rossa. Nessuno dovrebbe mangiare carne
rossa.”
“E scrivere? Non potresti farci entrare in altre nuove storie?
Come vedi, siamo disoccupati.”
“Un intero quaderno di storie vi ho portato. Quella faccenda dell’infarto non ha mai finito di incuriosirmi. Non si arriva
al saluto finale senza sapere se si è in grado di prendere decorosamente congedo. Quando ero sul confine ho fatto un sogno,
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oppure era un incubo: ci sono anche incubi divertenti ma solo
quando li ricordi da sveglio. È l’ultimo racconto in questo quaderno: A cena con la zia. Potete immaginare di che zia parlo. È
in prima persona, naturalmente. La zia è sempre in giro a fare
inviti, figuratevi che io l’ho incontrata al Vivà, la tavola calda
di via Tadino. Si dice che preferisca i vecchi, ma non è vero, i
vecchi le tengono testa più dei giovani, la vecchiaia è selvaggia.
Proprio così ho scritto in un altro racconto. L’età selvaggia è
quell’età che ride in faccia alla zia e la invita a ubriacarsi con
lei. Mi sono anche messo in caccia di altri casi, altri riti eseguiti
prima di sedersi al tavolo da gioco, dopo cena, per la partita
con la zia. La carta vincente, il Jolly, è sempre la zia ad averla,
ma il gioco non è per questo meno nobile e divertente. Così,
frugando tra le carte, ho scoperto la storia di un giovanotto,
pare fosse un mio antenato, nobile decaduto e senza un soldo,
che si mette a fare il garibaldino nella campagna del Tirolo,
anno 1866, per vedere come si fa a morire per niente e perché
si vada a morire per niente. Una corsa senza fiato, un vero esistenzialista, un precursore. Ho trovato lo scartafaccio del suo
diario infilato tra le Cronache del Cattaneo, quelle delle Cinque
Giornate, con Radetzky che scappa nelle campagne di Paullo:
ma questa è un’altra storia, è la storia di un tale che alla zia,
quando fa la puttana, ha il coraggio di sputarle in faccia. Ma
poi mi sono ricordato che non compie il rito del saluto soltanto
chi se ne va, ma c’è un rito anche per coloro che se ne sono
andati. Così vidi, infatti, brindare versando un calice sulla neve
davanti a una Baita senza pareti.”
“E a che conclusione sei arrivato? Quale è, dunque, il rito
migliore, il più appropriato per sedersi a cena con la zia senza
fare brutta figura?”
“Qui mi sono fermato, ma se mi date una mano, lo cercheremo insieme. Sarà il finale che ancora manca in questo quaderno. Per ora ho soltanto il titolo: Carnevale.”
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“Viva carnevale! Ecco intanto la nostra Agfa dal grande culo che ci porta il suo famoso agnello strinato. Ti piace l’agnello
strinato?”
“Vado pazzo per l’agnello strinato.”
“Ci sarà arrosto di agnello sulla tavola della zia?”
“Ne dubito. Ricordo le cene del sogno. La carne che la zia
faceva portare in tavola era sempre arrosto morto.”
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I CENTO METRI
Domani mi fucileranno. Ho ucciso un cavallo.
Se penserete a me, anche se ritengo la cosa assai improbabile, pensate a qualcuno senza alcun vincolo, un campione
di velocità su brevissima distanza.
Agosto 1866
A dare il via alla mia corsa fu un colpo di pistola, quello che
mio padre si sparò in testa.
I ricevimenti dei salotti mi annoiano. Ma la moda era frequentarli, specie in provincia e per chi, come me, avesse più di
un quarto di nobiltà nel sangue. Allora, vivevo anch’io secondo
le regole della buona società senza darmi pensiero di concepire
diversamente il mondo.
“Conte Marubi, l’attendiamo stasera alla festa di fidanzamento della nostra Evelina.” Conoscevo appena Evelina, una
fanciulla bruna, alta, secca, affatto bella, figlia del banchiere
Rispoli, persona eminente nella città di Lodi. Una famiglia riservata, perfino oscura, protetta da una tribù di servi i cui molteplici compiti non si sapeva in cosa consistessero.
In quel tempo mi facevo ancora obbligo di non rifiutare la
mia presenza. Il mio problema era un altro: sopravvivere nella
mansarda del palazzo che era stato proprietà dei conti Marubi,
venduto a ricchi borghesi, piano dopo piano, da mio padre,
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splendido e avventuroso giocatore, sovraccarico di debiti che
lasciò, in eredità, all’unico avanzo di famiglia, il giorno in cui
– fu anzi una notte – si fece saltare il cervello con la vecchia
pistola da duello che custodiva insieme con la gemella nel cassetto della scrivania in un astuccio rifinito in argento e foderato
in seta blu.
Andai alla festa di fidanzamento. Nonostante la nascosta ma
risaputa indigenza, quando indossavo l’usurata giacca a mezza
coda e annodavo al collo la cravatta molle, facevo la mia figura,
se non altro quella della gioventù. Ero alto, biondo, non portavo i baffi che ritenevo ridicolo simbolo di mascolinità e la cui
mancanza dal mio volto credo fosse erroneamente attribuita in
Lodi a mie inesistenti simpatie risorgimentali e in odio all’oppressore austriaco. Dati i tempi e le circostanze lasciavo che la
pensassero come meglio pareva loro.
Vado, e tutto in principio si svolge come previsto. Portieri in
livrea gallonata sul portone; scala con tappeto rosso e stecche
di ottone, lampadari a gocce di cristallo, poltrone, sofà, signore
attempate con giri di collane, signori rigidi che mi rivolgevano
sguardi professionali e condiscendenti, servitori attenti e premurosi. Una di quelle consuete messe in scena, insomma, che
conoscete dai pessimi romanzi dei nostri scrittori. Al centro la
festeggiata, Evelina, in abito scollato come doveva certamente
essere consono alla circostanza. Accanto, il fidanzato, uomo già
attempato, docente di dottrine economiche, futuro deputato,
del quale è inutile faccia qui il nome ché tanto non vi direbbe
nulla poiché di lui non è rimasta traccia di memoria.
Si conversa, ci si rigira, si accennano inchini, si sorride.
Nessuno ride. Non si ride in pubblico. Solo il popolo lo fa,
qualunque sia la sua condizione. Io mi comporto egregiamente: omaggio i padroni di casa, complimento la fidanzata che
a stento mi riconosce ma accoglie svagata le mie felicitazioni,
passeggio avanti e indietro per la lunga sala fingendo interesse
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