Dorje Shugden, la Cina e la successione del Dalai Lama

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Dorje Shugden, la Cina e la successione del Dalai Lama
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Dorje Shugden, la Cina e la successione del Dalai Lama
Lo scorso 6 dicembre, il quotidiano Libero ha pubblicato una lunga intervista alla cantante e
attrice Romina Power, in cui l’artista, tra le altre cose, parla della sua recente conversione
al buddismo. Da un po’ di tempo pratica quello legato al culto di Dorje Shugden. «Viene dal
Tibet», spiega, «ma non è associata al Dalai Lama. Anzi, il Dalai Lama sta causando gravi
problemi». Secondo Romina, la massima autorità spirituale tibetana sarebbe responsabile di
un’aggressiva campagna di persecuzione che colpisce milioni di seguaci di questo credo, fino
alla segregazione. Che cos’è Dorje Shugden? E perché il Dalai Lama l’ha messo al bando?
Dietro quella che sembra una mera disputa dottrinaria si staglia la complessa partita per la
successione del leader tibetano. Un intreccio che vede coinvolta anche la Cina.
La questione Dorje Shugden
Il 2014 è stato un anno di grandi proteste contro il Dalai Lama. Nei suoi ultimi viaggi in
Occidente, ha ricevuto ampie contestazioni da laici e monaci buddisti, che al grido di «False
Dalai Lama» e «Dalai Lama, stop lying» hanno tentato di far sentire la propria voce al leader
tibetano. Il fenomeno è stato ripreso dai media internazionali — e quasi ignorato da quelli italiani
—, smentendo quanti credevano che il Dalai Lama fosse un maestro stimato e benvoluto da tutti
i praticanti buddisti. Queste proteste sono essenzialmente opera dei seguaci di Dorje Shugden,
culto che lo stesso Dalai Lama considera ormai degenerato e settario.
Dorje Shugden è un’entità spirituale del buddismo tibetano. Il suo culto risale al XVII secolo,
all’epoca dell’investitura del V Dalai Lama, esponente della scuola Gelug, il primo a raccogliere
tra le proprie mani il potere politico e religioso. Tenzin Gyatso, Dalai Lama vivente, ha messo
definitivamente al bando la pratica nel 1975. La decisione, giunta dopo diversi sogni infausti
avuti su questo spirito, presto supportati da inquietanti presagi e profezie che preannunciavano
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gravi sciagure, non fu esente da conseguenze. Oltreché confusione e disorientamento (lo
stesso leader tibetano aveva praticato il Dorje Shugden per anni), la «scomunica» ha provocato
una dolorosa scissione nel lignaggio Gelug, poiché un circolo non ristretto di maestri Gelug ha
preferito la pratica in questione al proprio legame con l’«Oceano di saggezza». Nel corso degli
anni, svariati tentativi di mediazione sono falliti, e il Dalai Lama non è mai tornato sulla sua
decisione, attirando su di sé molte critiche: com’è possibile che egli parli di dialogo tra le
religioni, se non accetta di dialogare con un folto numero di membri della sua?
Il triplice delitto di Dharamsala
In realtà, la vicenda di Dorje Shugden presenta molti lati oscuri. Nel 1997, tre monaci di scuola
Gelug furono assassinati a poche centinaia di metri dalla residenza in esilio del Dalai Lama. Le
vittime furono geshe Lobsang Gyatso — a capo dell’Institute of Buddhist Dialectics,
consigliere del XIV Dalai Lama e strenuo oppositore della setta di Dorje Shugden — e due
monaci suoi collaboratori. La polizia indiana identificò gli assassini in alcuni tibetani seguaci di
Dorje Shugden, anche se i colpevoli erano già sfuggiti nella Regione Autonoma del Tibet, e i
giudici ritennero le prove accumulate insufficienti e puramente indiziarie. Pochi giorni dopo
l’eccidio, la polizia indiana del distretto di Kangra inviò all’intelligence di Delhi una nota
riservata che parlava di una lista d’altri 14 obiettivi da colpire, tutti alti dignitari del governo
tibetano in esilio. In testa all’elenco, ovviamente, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama.
I legami con Pechino
Contro la messa al bando di Dorje Shugden negli anni Settanta si levarono le proteste della
Cina, secondo cui il proclama del Dalai Lama rappresentava una grave violazione dei diritti
umani, vista la diffusione del culto in Tibet. Da quel momento, le autorità cinesi e i seguaci della
controversa setta sembrano avere stretto una solida alleanza. In Tibet e nelle province cinesi
confinanti è in corso un ingente finanziamento del culto vòlto all’edificazione di templi e alla
realizzazione di statue per favorirne il proselitismo sia tra i monaci sia tra la popolazione. Non
essendo mai riuscita a ingraziarsi il Dalai Lama, la Cina ha cercato di reprimere
l’indipendentismo tibetano creando una comunità lamaista «patriottica» puntando sul Panchen
Lama, la seconda carica lamaista del buddismo tibetano. Il X Panchen Lama appoggiava
l’occupazione cinese; l’XI è stato sequestrato dal governo cinese nel 1995 all’età di sei anni —
e nessuno l’ha più visto — e sostituito nello stesso anno da un altro bambino estratto a sorte da
monaci leali al Partito Comunista Cinese.
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Il sostegno a Dorje Shugden è funzionale a quest’obiettivo. Oggi le nuove generazioni di tulku,
lama, geshe e monaci viventi nella Regione Autonoma del Tibet ricevono un’educazione
sempre più regolarmente improntata sulla tradizione di Dorje Shugden nell’intento d’edificare
una società tibetana che faccia capo al Panchen Lama, in cui il Dalai Lama abbia un ruolo
sempre più marginale. Inoltre, secondo i servizi segreti indiani, tra gli aderenti alla pratica vi
sono numerosi simpatizzanti col Partito Comunista Cinese e addirittura alcuni agenti segreti di
Pechino. L’intento delle autorità cinesi è chiaro: contrastare la sua figura di leader spirituale — e
politico — nonché il suo lignaggio di reincarnazione.
Il prossimo Dalai Lama sarà seguace di Dorje Shugden?
In un’intervista al quotidiano tedesco Welt am Sonntag di settembre, il Dalai Lama ha dichiarato
che «le persone che pensano politicamente devono rendersi conto che l’istituzione del Dalai
Lama, dopo quasi 450 anni, dovrebbe aver fatto il suo tempo», lasciando intendere che dopo la
sua morte potrebbe non essercene un XV. A queste dichiarazioni il Ministero degli Esteri cinese
ha replicato con una nota in cui afferma che la successione del Dalai Lama non può essere
decisa da un solo individuo, ma deve «seguire un insieme di procedure religiose e di costumi
storici». In altre parole, come ha titolato l’agenzia Reuters, «Pechino ordina al Dalai Lama di
reincarnarsi».
La vicenda dei due Panchen Lama è paradigmatica per capire le ultime dichiarazioni del Dalai
Lama, che vanno tuttavia collegate ad altre rilasciate in precedenza. In alcune occasioni ha
dichiarato che, qualora decidesse di reincarnarsi, probabilmente lo farebbe in un neonato
occidentale, non tibetano. Alla morte dell’attuale Dalai Lama, è certo che i cinesi affermeranno
che spetta al «loro» Panchen Lama, considerato fasullo dai monaci fedeli a Tenzin Gyatso,
identificare il nuovo Dalai Lama — scegliendo così un neonato che sarà educato a loro uso e
consumo, naturalmente secondo i dettami del culto di Dorje Shugden.
Il XIV Dalai Lama non può impedire che questo accada. Ma dichiarando che forse non si
reincarnerà, o magari si reincarnerà in un neonato dai tratti americani o europei, prepara la
strada perché i suoi seguaci possano dichiarare ad alta voce che il XV Dalai Lama che sarà
presentato al mondo dai cinesi sarà un impostore.
La questione della successione del Dalai Lama, dunque, non riguarda solo l’eredità
della leadership politica, ma, per la prima volta nella storia di questa figura, anche quella
spirituale. Per Pechino, avere un Dalai Lama «amico» significherebbe smorzare il sentimento
autonomista dei tibetani. E Dorje Shugden, setta controversa già macchiatasi di delitti di sangue
in palese contrasto con quel principio di nonviolenza proprio della religione buddista, può
essere la pedina per chiudere la partita in proprio favore.
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