IL RUOLO DEI SOGGETTI NELLA RELAZIONE TERAPEUTICA

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IL RUOLO DEI SOGGETTI NELLA RELAZIONE TERAPEUTICA
DECIDERE SULLE CURE:
IL RUOLO DEI SOGGETTI NELLA RELAZIONE TERAPEUTICA
RELATORI e MODERATORI
Agostini Moreno, Anestesia P.O. Montebelluna Comitato per la Bioetica Ulss 8,
Bianchin Gianluigi, Direttore Servizi Sociali, Ulss 8
Casotto Sergio, Magistrato Treviso, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Cavalli Nadia, Presidente Comitato per la Bioetica Ulss 8
Comacchio Anna, Comitato dei diritti del malato, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Dell’Antonia Fabio, Pediatra di libera scelta Montebelluna, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Gonzalo Miranda, Decano Facoltà di Bioetica Ateneo Pontificio Regina Apostolorum Roma
Manente Paolo, Direttore U.O. Oncologia Ulss 8, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Moretto Giuseppe, Direttore U.O. neurologia Azienda Ospedaliera Verona
Orsi Luciano, Responsabile U.O. Cure Palliative Azienda Ospedaliera n. 24 Crema
Pavanello Luigi, Direttore Dipartimento Area materno-infantile, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Piva Lucia, Inf. Coord. Anestesia/Rianimazione P.O. Montebelluna, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Spaliviero Stefano, Inf. Coord. Distretto 1, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Tagliapietra Mauro, Ass. Domiciliare P.O. Castelfranco Veneto, Comitato per la Bioetica Ulss 8
Tessaro Leopoldo, Responsabile Struttura Semplice Terapia del dolore e Cure Palliative, Comitato
per la Bioetica Ulss 8
Viafora Corrado, Università degli Studi di Padova
Visentin Angelo, Medico di Medicina Generale Montebelluna, Comitato per la Bioetica Ulss 8
LETTURA INTRODUTTIVA
Anna Comacchio
“Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera”.
Poche volte i versi di un poeta hanno tratteggiato in modo tanto significativo, nella loro
brevità, la condizione umana, e dell’uomo d’oggi in particolare: la solitudine e il fuggire del
tempo, meglio il suo dissolversi. Già gli antichi l’avevano rappresentato come Crono che
divora i suoi figli.
E il salmista più poeticamente dice: “L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra
che passa”.
Quella del tempo non è questione peregrina: oggi infatti sembra che il tempo non basti
mai, che non ce ne sia a sufficienza per dar risposta adeguata a tutti i nostri impegni.
Ma che cos’è in sostanza il tempo?
Mi piace, e ritengo utile, riprendere qui l’esame che ne fa Agostino, in una celebre pagina
delle “Confessioni”, è di facile comprensione e sempre di attualità:
“Se nessuno me lo chiede so cos’è; ma se devo spiegarlo non lo so più…eppure quale
parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Questo però
posso dire: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che
venga, non esisterebbe un tempo futura; senza nulla che esista, non esisterebbe un
tempo presente. Dunque, due di questi tempi, il passato e il futuro, non esistono, dal
momento che il primo non è più e il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse
sempre presente senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo ma eternità…Passato,
presente e futuro esistono nell’anima…Memoria, visione, attesa”.
Il tempo, allora, come “distensivo animi”, come attualità che si identifica con la vita: nel suo
fluire inevitabilmente ingrossa il passato e assottiglia il futuro e ci lascia come reale da
vivere e in cui realizzare noi stessi, solo il presente. E così succede che spesso
“…vaghiamo nei tempi che non sono nostri e non pensiamo al solo che realmente ci
appartiene” (Pascal). Ed è subito sera!
Il tempo, la vita, si salva dalla frammentazione perché è il nostro continuo, la durata dell’io,
del pensiero che lo conserva e lo organizza.
Se la ragione presiede a questa organizzazione, il nostro diventa un vivere saggio.
Per questo Marcel parlava in un suo libro del “declino della saggezza”, perché l’immediato,
l’istintivo, l’impulso del momento prevale frequentemente sulla riflessione, sulla ragione
appunto. E presentando la pubblicazione del libro, Paul Valery osservava “poteri nuovi,
nuove difficoltà, il mondo non ha mai saputo meno dove andava”, ad accentuare lo
smarrimento dell’uomo ricco di scienza e di tecnica, che non sa però dove lo portino;
scienza e tecnica che non sanno e non possono dare risposta alle domande fondamentali
sul senso e il valore della vita, mia e degli altri.
Quante voci, quante suggestioni ci tentano! Quanti maestri, o sedicenti tali, si propongono
alla nostra attenzione! Dante ancor oggi ci direbbe “…non siate come penne ad ogni
vento” perché la vita è “res severa”, non si può disperderla: è senza ritorno, esattamente
come il tempo.
Come essere liberi da queste suggestioni, liberi nel profondo, per poter operare scelte
responsabili e poter stabilire con gli altri un rapporto di confronto e di crescita, nella
coerenza con noi stessi? Perché la persona è di sua natura relazione: dà e riceve.
Io sono convinta che si debba tornare a pensare, che perciò si debba ricavarsi tempi di
riflessione, di solitudine con se stessi, per costruire la propria identità e con essa andare a
vivere con gli altri.
Pensare! “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura ma una canna che pensa.
Non occorre che l’universo intero si armi per annientarla; un vapore, una goccia d’acqua
basta a ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre
più nobile di quel che l’uccide, perché sa di morire…mentre l’universo non ne sa nulla”.
“Nel pensiero sta la grandezza dell’uomo”, così insiste Pascal.
Ma altre voci possono risuonare e diventare pensiero diffuso o moda; qualcuno ricorderà
dalla sua esperienza scolastica Sartre, personaggio filosofico-letterario che poteva definire
l’uomo “una passione inutile” e sostenere che “gli altri sono l’inferno, indigesti e perciò da
rigettare” ma perché lui era indigesto a se stesso.
Il senso degli altri, il loro valore passa certamente dal senso che noi abbiamo di noi stessi,
e lo ritroviamo essenzialmente rientrando nel nostro intimo, là dove, secondo Agostino,
“abita la verità”.
Così, costruiti interiormente è possibile dare spessore e ricchezza al rapporto con gli altri,
particolarmente nel vostro lavoro che tanto frequentemente richiederebbe tempo e
apertura umana per superare inevitabili solitudini che nell’approssimarsi della morte
diventano desolanti.
Non è facile accompagnare a morire e sostenere insieme chi se ne va e chi resta. E
neppure far sentire che si è accanto con comprensione e solidarietà. L’umanizzazione
della sanità lo richiede, se ne parla spesso, da più parti; sembra un problema, anzi
un’esigenza centrale nella pratica medica di oggi. E però resta sempre una grande fortuna
se in quei momenti solenni possiamo contare su una persona amica.
Intessere un rapporto di amicizia domanda ancora una volta tempo e disponibilità per
ascoltare, per stare insieme, per soffermarsi senza produrre alcunché se non serenità e
gioia. Non ci sono mai tanti amici; compagni di lavoro, di vacanza; colleghi più o meno
simpatici e in sintonia, ma amici? “L’amico, diceva già Aristotele, è un altro me stesso”:
posso aprirgli il cuore, manifestarmi con le mie miserie, confessargli gli errori e anche le
colpe senza essere giudicato. Certe scelte difficili nelle cure, certe decisioni determinanti
come avrebbero bisogno di una persona totalmente affidabile, di qualcuno che ci abbia
accompagnato in giorni lieti o dolorosi, conosce il nostro pensiero, le nostre convinzioni e
perciò può aiutarci a scegliere o farlo per noi quando ne fossimo impediti.
Si rende ancora più evidente quel che significa relazione tra persone: io con l’altro e l’altro
con me. Non esser in condizione di dover dire come il paralitico alla piscina di Betsaida
“hominem non habeo”: non ho nessuno!
La persona amica è come quel raggio di sole, di cui parla il poeta, che si posa su di noi e,
se anche trafigge, illumina l’esistenza.
Non è un trattato, ma potrebbe essere piacevole la lettura del capitolo 21 del Piccolo
Principe di Saint Exupery per cogliere di quanta delicata attenzione è fatta l’amicizia.
Ho voluto leggere alla fine dell’anno scorso un libro appena uscito di Ignazio Marino,
medico esperto nel trapianto di fegato e non so di che altro. Mi ha fatto bene trovarvi
alcune osservazioni sull’esercizio della medicina, sul suo alto sentire l’identità del medico
e il timore che essa vada perdendosi, annacquando l’ideale professionale tra le tante
difficoltà di vario tipo che sono normali oggi.
Tra l’altro ha annotato come “nessuno insegna ai medici a relazionarsi con i familiari dei
pazienti che chiedono notizie, ma soprattutto certezze, anche quando non c’è
praticamente nulla di certo da riferire” e magari nessun elemento per fondare la speranza.
Affrontare la sofferenza è certamente difficile e increscioso; ma personalmente penso che
solo l’esperienza possa attrezzare i medici a sostenere questa evenienza, inevitabile nella
loro professione. Tirocinio gravoso per loro e per chiunque. Con la speranza che esso
affini la sensibilità, non la chiuda mai in difesa.
Marino afferma anche, cosa del resto non nuova, la necessità di un’informazione al
paziente condotta con grande accuratezza, convinto che “in medicina il tempo non è
denaro, può essere anche una terapia”.
E poi un’osservazione che io non sono in grado di giudicare, perché è dal di dentro della
vostra dimensione professionale, dei vostri convincimenti su cui avete fondato l’esercizio
medico, in qualche modo la vostra vita, che è possibile considerare l’affermazione fondata
o meno. La riferisco:
“Incalzato dalla tecnologia, controllato dalle esigenze economiche e di bilancio, trattato
con sospetto dai pazienti, il medico appare oggi in balia di una crisi profonda e diffusa, la
missione perde terreno, gli ideali appassiscono” e così anche il medico può sentirsi solo.
Io spero che possa ancora trovare conforto e spinta a resistere nella convinzione che il
suo tempo è identicamente la sua vita, se dona un po’ del suo tempo dona un po’ della
sua vita, cioè di sè stesso.
Per questo vale la pena di fermarsi di tanto in tanto a chiedersi dove vada la nostra vita.
Pèguy mi ha insegnato a tenere accesa una luce su cui orientarmi; ve la trasmetto, se può
servirvi come punto di riferimento; è breve e molto facile da capire e da ricordare: “Il mio
tempo vale l’ideale per cui lo spendo”.
A tutti grazie e buon lavoro
SCENARIO E ATTORI NELLA RELAZIONE TERAPEUTICA
Relazione Nadia Cavalli
La relazione terapeutica si sviluppa in un contesto culturale, sociale e istituzionale preciso,
con proprie regole d’interazione che non dipendono del tutto dalla volontà dei singoli
individui.
La complessità dei fattori culturali e dei soggetti coinvolti, evidenzia la necessità di
considerare questa relazione, non in un’ottica solamente di dualità medico-paziente, ma in
una prospettiva più ampia, in quanto si viene a creare una rete di rapporti tra il soggetto
malato, i servizi e la comunità.
Il sistema di aziendalizzazione ha causato l’allontanamento dalla visione olistica del
malato, soprattutto per effetto di:
1 – una burocratizzazione che ha come esito l’inefficienza e la dilatazione della spesa
pubblica
2 – una frammentazione dell’atto medico, in una serie di incontri del malato con vari
operatori sanitari, spesso non coordinati tra di loro
3 – un’aspettativa di medicina miracolistica da parte del malato, che usufruisce del servizio
sanitario garantito in modo passivo, pensando di essere detentore solo di diritti e non di
doveri.
D’altra parte i servizi fanno parte di un sistema che si trova a dover soddisfare i bisogni
espressi da un tipo particolare di malato, che da un lato è cittadino emancipato, dall’altro
soggetto fragile.
Cittadino emancipato perchè uscito dallo stato di minorità che Kant percepiva come
l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro, non per un difetto
dell’intelletto stesso, ma per mancanza di decisione e coraggio di servirsene come guida.
Soggetto fragile perché portatore di pluripatologie, di patologie cronico-degenerative, o
perché malato incompetent essendo bambino, in coma, o disabile psichico.
I soggetti che ruotano attorno al malato, oltre che gli operatori sanitari di varie tipologie e i
volontari, sono i familiari, il tutore e l’amministratore di sostegno, il cui ruolo sarà
approfondito nei prossimi interventi.
A fronte di questo nuovo scenario, i soggetti sono chiamati non più all’adeguamento del
paternalismo benevolo imperante ancora nel nostro paese, ma all’assunzione di
responsabilità, che pone attenzione ai compiti, alle cure e alle persone che si affidano e
vengono affidati all’operatore sanitario.
Benciolini distingue tra responsabilità vista seconda un’ottica negativa e una positiva.
Nella visione negativa il sanitario opera le scelte preoccupato di essere in grado di
giustificarle ai suoi superiori.
La responsabilità intesa in senso positivo, invece, implica la volontà di agire nel miglior
interesse degli interlocutori coinvolti, assumendo fino in fondo il proprio ruolo.
Secondo questa prospettiva l’operatore, nei confronti della scienza, non può più solo
limitarsi ad offrire tutto ciò che è scientificamente corretto, ma deve ricercare soluzioni
diagnostiche e terapeutiche innovative più adeguate.
Nel rapporto col malato non deve solo rispettarne l’autonomia, nel senso di coinvolgerlo
nelle decisioni che lo riguardano, ma deve ricercare quell’alleanza che implichi il rispetto
dei ruoli.
In rapporto alla società è opportuno non solo che combatta gli sprechi, ma che offra la
migliore tutela possibile al malato, nel senso di offrirgli il miglior servizio possibile.
E, infine, in riferimento all’amministrazione della giustizia, l’operatore sanitario non è
chiamato a giustificare il proprio operato ma a fornire profonde ragioni delle proprie scelte.
Due attori di questo scenario, malato e operatore sanitario, detengono certe conoscenze
ed esperienze sociali, le quali fanno si che il momento dell’incontro costituisca una tappa
intermedia di un processo che comincia molto prima della relazione vera e propria, proprio
perché al momento del primo contatto i due protagonisti non sono mai “neutri”.
E’, precisamente, il sistema di aspettative reciproche che determinerà il tipo di rapporto
che si stabilirà tra i due attori, ed è per questo che il racconto di un malato non è mai un
semplice riflesso della sua vita, ma una costruzione fatta per qualcuno, in un determinato
contesto.
Pertanto la relazione terapeutica può essere considerata una conversazione che si svolge
tra due attori in uno spazio specifico e che dà un certo significato alla situazione.
I due soggetti sono implicitamente chiamati a confrontare le loro aspettative e la loro
visione del mondo, in un’interazione nella quale negoziano i significati da dare alla
situazione e al discorso, e dove, a poco a poco, emerge il significato del contesto
relazionale. Ma spesso non è così.
Oggi la scarsità di risorse materiali, umane e di tempo ha profondamente modificato il
modo di svolgere la nostra professione, ma il disagio sentito dai malati e dagli stessi
operatori sul versante della relazione, genera anche dalla nostra difficoltà ad entrare nel
mondo dell’altro.
Questa difficoltà, che a volte diventa incapacità, si è venuta acuendo di pari passo con il
progresso del sapere scientifico e tecnologico che reclama sempre più spazio e impegno
ma, inevitabilmente, sottrae attenzione all’anima e allo spirito, sottrae tempo e spazio di
umanità, alla relazione.
Ci ricorda Eraclito che sapere scientifico e umanistico non sono in competizione tra loro.
Tuttavia senza un’adeguata educazione alla cura di sé è difficile imparare a trasformare gli
avvenimenti esterni in esperienze interiori, e iscrivere le conoscenze tecniche e
scientifiche in una cornice densa di significati e di senso.
Solo coltivando entrambi gli ambiti di sapere è possibile lo sviluppo della persona.
E’ necessaria, allora, la cura dell’anima, per imparare a creare momenti di silenzio, per
imparare a distinguere le voci, per imparare a scegliere attraverso l’ascolto di sé.
Scriveva Jaspers: “In tutto il mondo vengono educate persone che sanno moltissimo, che
hanno acquisito particolare destrezza, ma la cui autonomia di giudizio, la cui capacità di
indagare e sondare i propri malati è minima”.
Questo ci riporta alla relazione, più precisamente alla comunicazione nella relazione.
La comunicazione efficace è quella che viene compresa dall’altro, non la più affascinante
o la più raffinata, ma quella che viene costruita su misura per l’altro, e ciò richiede la
conoscenza del proprio interlocutore.
Nella comunicazione esistono poche ma severe regole.
Basti ricordare due assiomi fondamentali di Watzlavwich.
Il primo dice che non si può non comunicare.
Questo significa che la comunicazione comincia appena siamo percepiti dall’altro; perciò
più che il nostro comportamento tangibile, conta ciò che l’altro intuisce di noi.
Il secondo afferma che ogni atto comunicativo ha un aspetto di contenuto, cioè di
informazione, e un aspetto di relazione, che riguarda lo stato emotivo e l’intenzione di ciò
che si vuole comunicare.
Ciò vuol dire che sono gli aspetti relazionali, su cui si basa l’altro per comprendere il
messaggio, che chiariscono, confermano o disconfermano quanto espresso verbalmente.
Inoltre riveste grande importanza la comunicazione non verbale, cioè tutto ciò che, nella
comunicazione, non passa dalle parole e i loro significati.
Ma il non verbale è un ambito difficoltoso perché la nostra formazione si concentra sulle
parole e nessuno ci insegna a fare attenzione al non verbale; perché i segnali non verbali
sono difficili da tradurre in parole e perché le differenze culturali investono alcuni di questi
comportamenti, soprattutto la gestualità.
Come il non verbale anche l’ascolto non ci viene insegnato.
Pur essendo un’attività della mente, e riconoscendole generalmente grande importanza, è
delle quattro funzioni del processo comunicativo: parlare, leggere, scrivere e ascoltare,
quella meno esercitata.
La Montessori distingueva tra “esercizi del silenzio” ed “esercizi dell’ascolto”.
Per Rogers ascoltare “equivale a percepire non solo le parole ma anche i pensieri, lo stato
d’animo, il significato personale, esplorando il significato più riposto e inconscio del
messaggio che viene trasmesso dall’interlocutore”.
L’ascolto non è un’attività passiva, ma richiede un’intensa partecipazione e un profondo
rispetto per rintracciare, oltre le parole, il pensiero e i sentimenti dell’altro.
Nell’ascolto l’attenzione è vitale, perché, a volte, sono proprio le ultime parole di un
discorso che chiariscono le preoccupazioni, le paure, le emozioni di chi ci parla.
E questa attenzione è tanto più difficile quanto già dalle prime parole si sente crescere
dentro di sé il dissenso per ciò che ci viene detto.
E’ raro che riusciamo ad ascoltare senza giudicare, criticare o persuadere, sospendendo
giudizi e pregiudizi.
Un ascolto efficace è faticoso, occorre esercizio e volontà, silenzio interiore e disponibilità.
Ascoltando attentamente, usiamo i nostri sensi, la nostra mente e il nostro cuore per
percepire, capire e apprezzare l’esperienza dell’altro.
Ci sintonizziamo sui suoi timori, sulle sue speranze, sulle sue ansie.
La relazione non si inventa nel momento del bisogno, non si apprende sui manuali, ma ci
si forma e ci si educa durante tutta la vita.
Credo che il problema della comunicazione origini da due diverse dimensioni.
Parlo di problema essenzialmente per due motivi.
Il primo, è che tutti siamo convinti di sapere comunicare bene, ma è sufficiente partecipare
ad un corso di formazione sulla comunicazione per renderci conto che non è così.
Il secondo è dovuto al fatto , come ho detto prima, che malati e sanitari manifestano
insoddisfazione sul versante comunicativo.
La prima dimensione è la diseducazione all’ascolto.
La società in cui viviamo è immersa in una cultura in cui i momenti di silenzio sono sempre
più rari.
Al venire meno del silenzio, anche la capacità di ascolto si atrofizza progressivamente.
Con l’esclusione del silenzio e l’affievolirsi della capacità di ascolto, anche il dialogo si è
opacizzato, e comunicare è diventato difficile anche nei rapporti intimi.
Il parlare sembra sempre più un monologo, al centro del quale c’è l’io, rispetto al tu e al
noi.
L’egocentrismo di molti processi comunicativi, fa sì che l’altro non sia veramente partner: il
suo schema di riferimento non viene colto, i feedback sono confusi e la comunicazione
risulta superficiale e inautentica.
Dialogare significa parlare e ascoltare dal punto di vista dell’altro, e il dialogo è una
conquista, che necessita di esercizio e di verifiche costanti.
La relazione è tale, solo se è relazione dialogica, in cui silenzio e ascolto hanno un ruolo
sostanziale.
Buber distingue tre tipi di dialogo:
- autentico, parlato o silenzioso, in cui ci si rivolge all’altro con l’intenzione di far
nascere una reciprocità, per arrivare ad una reale comprensione
- tecnico, che ricerca solo un’intesa oggettiva
- monologo travestito da dialogo, in cui gli interlocutori parlano con se stessi.
La relazione dialogica è avvicinarsi all’altro, abbattere le barriere, ed esporsi ad un
rapporto sincero.
La seconda dimensione del problema della comunicazione, è da ricercare nella nostra
cultura del come, della materializzazione, della quantità.
Questo ci fa tralasciare il perché, la qualità, che non è misurabile oggettivamente.
Il non occuparsi del perché ci può costare caro: più il come prende il sopravvento, più il
perchè sfuma, e più perdiamo la capacità di senso e di meraviglia.
Frankl dice: “Chi ha un perché, sopporta ogni come”.
La domanda sul senso va a colmare una mancanza, un’esigenza, un bisogno e quando
riteniamo che non ci sia risposta, non facciamo le domande.
Ma rinunciare alle domande, perché riteniamo che non ci sia risposta, ci impoverisce
molto, e così rimediamo alla sensazione di insicurezza, etichettando tutto.
“Cosa è questo?” si chiedeva Aristotele.
E come Aristotele dobbiamo partire dal guardare, togliendo le etichette, e cercando di
capire senza pretendere di dare risposte, muovendoci nelle domande.
Il protagonista in “Memorie di Adriano” della Yourcenar dice: “L’occhio del medico non
vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue”.
Dobbiamo arrivare a vedere di fronte a noi “l’uomo con il problema”, non il “problema”.
La considerazione che tutti i malati sono uguali, nel senso che non deve esistere un
malato più degno di cura di un altro, è uno dei cardini dell’etica professionale medica.
Ma non per tutti è chiaro che, per mettere in pratica questo principio, è necessario che gli
operatori sanitari si rivolgano al malato prendendo in considerazione le sue caratteristiche
individuali e quelle che derivano dal suo contesto socio-culturale.
Da un lato c’è l’operatore esperto di “disease”, della patologia, e dall’altro il malato,
esperto in “illness”, la sensazione e l’esperienza del proprio star male.
Il concetto di illness racchiude tutto il mondo intimo di chi soffre, le sue paure, le sue ansie,
le sue speranze, che lo accompagnano nel disagio della malattia.
E’ fondamentale lasciare al malato il proprio posto di soggetto, per permettergli anche di
esprimere la propria pena, la propria sofferenza fisica e psichica.
Vorrei concludere proponendovi un passo dell’ultimo libro di Piero Ferrucci: “La forza della
gentilezza”.
“La vecchietta non mangiava più.
Era sola al mondo, e dimenticata da tutti.
Era così avvilita che non riusciva più a deglutire.
L’idea di mandare giù un solo boccone era troppo.
Se ne stava silenziosa e triste, aspettando la morte.
Entra in scena Millina…
Millina…le parla e la fa parlare, per quel poco che può.
Con un filo di voce la vecchietta spiega di avere dei figli, troppo indaffarati, però, per
occuparsi di lei.
Così non c’è più nessuno che venga a trovarla.
Non ha una vera e propria malattia: è deperita perché non riesce più a mangiare, e non
mangia più perché è deperita.
Allora Millina le propone: le andrebbe un bel gelato?
Strana idea quella di offrire un gelato a una persona in fin di vita.
Ma funziona.
A ogni cucchiaino, adagio adagio, alla vecchietta ritornano il colorito, la voce, la vita.
E’ un’idea geniale, dirà qualcuno, quella di dare un cibo facilmente assimilabile a chi non
riesce più a mangiare.
Ma questa spiegazione, pur vera, è contenuta in un’altra spiegazione più vasta.
L’idea di dare il gelato alla vecchietta è venuta a Millina perché se l’era presa a cuore.
Perché ha visto che questa vecchietta era bisognosa non solo di cibo, ma soprattutto di
cure, di amore, di attenzione: di ciò di cui ognuno di noi ha bisogno, come dell’ossigeno.
La vecchietta ha ricevuto, prima ancora che il gelato, il calore della solidarietà.
E ciò che ha portato di nuovo il colorito sul suo viso è stato, più ancora del cibo, un
semplice atto di gentilezza.
In un modo o nell’altro capita a tutti…
Ricevere gentilezza ci fa bene.
Per noi tutti è un sollievo essere aiutati nel momento in cui ne abbiamo bisogno.
E a tutti fa piacere essere ascoltati, trattati con calore e simpatia, sentirsi capiti, sentirsi
nutriti.
La gentilezza ci salva la vita”.
BIBLIOGRAFIA
P. Ferrucci, La forza della gentilezza”,
D. Freshwater, Le abilità di counselling, McGraw Hill, Milano, 2004.
S. Kanizsa, L’ascolto del malato, Guerini e associati, Milano, 1988.
C. Iandolo, Parlare col malato, Armando, Roma, 1983.
L. Sesino, Counseling filosofico, in “Corso di Perfezionamento in Medical Humanities”,
Accademia Alfonsiana, Roma, 2006.
M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, 1988.
P. Watzlavwick, J.H. Beavin, O. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana,
Astrolabio, Roma, 1971.
L’ESPRESSIONE DELLE VOLONTÀ DEL PAZIENTE:
ASPETTI GIURIDICI
Sergio Casotto
Il rapporto medico paziente si sviluppa nell’ambito di un contratto d’opera intellettuale (
art. 2230 c.c. ), nel quale il primo si obbliga ad esercitare la propria attività professionale in
relazione al caso prospettatogli dal secondo. Si tratta di un’obbligazione di mezzi, il cui
adempimento si articola in due momenti: la diagnosi e la proposta di una terapia, medica
o chirurgica. Della complessa prestazione è parte fondamentale il dovere di una
completa, precisa e comprensibile informazione sulla natura della malattia , sui rischi
eventuali degli interventi proposti e sulle possibili alternative, al fine di porre il paziente in
condizione di dare un consapevole consenso alla prosecuzione dell’attività professionale.
La necessità di acquisire il consenso ad intervenire sull’integrità delle persone e sulla loro
salute deriva, sul piano normativo, dal principio costituzionale dell’inviolabilità della libertà
personale ( art 13 ) e dal diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost., che al secondo
comma prevede: “ Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario
se non per disposizione di legge”. Il paziente maggiorenne capace di intendere e di volere
è il solo che può dare, anche attraverso un suo procuratore, il consenso al trattamento
terapeutico sul proprio corpo. Naturalmente, in base al principio di autodeterminazione, il
paziente può anche negare il consenso. Ed il medico può e deve astenersi dall’intervento
ancorchè lo ritenga utile e necessario a salvaguardare la vita del paziente.
Per il paziente minore degli anni diciotto il consenso è dato dai genitori o dal tutore..
Tuttavia , essendo comunque preminente l’interesse del minore, si va affermando il
principio che “col crescere dell’età e del grado di maturità del minore, il parere di questi
viene a essere preso in considerazione come un elemento sempre più determinante” (
art.6 Convenzione di Oviedo). Anche il codice di deontologia medica stabilisce all’art 34
che “il medico ha l’obbligo di dare informazioni al minore e di tenere conto della sua
volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di comprensione, fermo restando il
rispetto dei diritti del legale rappresentante”. La legge 194/78 disciplina diversamente
l’accesso del minore alla somministrazione di contraccettivi e il diritto della donna
minorenne di chiedere l’interruzione della gravidanza anche senza l’assenso degli
esercenti la potestà o la tutela. In presenza di malattia mentale, la quale implichi un
trattamento sanitario obbligatorio ai sensi della legge n. 180/78, il medico deve svolgere
“iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato” (
art. 1,comma 5) e quindi acquisire, ove sia già nominato, il consenso del tutore, attuando
comunque la terapia necessaria. La regola rimane quella della volontarietà del
trattamento, mentre l’intervento obbligatorio e coattivo deve considerarsi l’eccezione
disciplinata dalla legge.
Nel caso di paziente maggiorenne privo, anche temporaneamente, di capacità
decisionale, perché in istato d’incoscienza o di coma, può farsi ricorso alla nomina di un
amministratore di sostegno, che presti il consenso in sua vece. Peraltro, nelle situazioni di
emergenza ove l’intervento si prospetti come indilazionabile il medico deve comunque
necessariamente intervenire con le cure adeguate. E ciò indipendentemente dalla volontà
di eventuali prossimi congiunti, i quali, se non formalmente investiti dei poteri del tutore o
dell’amministratore di sostegno, non hanno, come tali , allo stato della legislazione, alcuna
legittimazione a prestare consenso o dissenso al trattamento terapeutico cui deve essere
sottoposto il paziente maggiorenne non “compos sui”. Potranno, invece, valere eventuali
direttive anticipate consapevolmente espresse dal paziente in ordine al rifiuto di particolari
trattamenti, sulle quali potranno riferire i parenti e ogni altra persona informata. Per il
principio della libertà delle forme, il consenso informato non richiede ad substantiam
alcuna forma. Mentre è evidente che la previsione della forma scritta, indicata come
opportuna nel codice deontologico, è utile solo ad probationem, a tutela del medico.
L’ESPRESSIONE DELLE VOLONTÀ DEL PAZIENTE:
ASPETTI ETICI
Abstract Gonzalo Miranda
Disponibilità e indisponibilità del proprio corpo e della propria vita. I principi di riferimento e
le apparenti “deroghe” a questi: come mai è possibile donare la propria vita per un altro
ma non è lecito il suicidio?
Liceità di questo atto umano.
L’atto umano: breve analisi. Quando la volontà è veramente libera e non condizionata, ad
esempio, da pressioni esterne (medici, parenti) o interne (situazione di sofferenza
difficilmente sopportabile)?
Conclusioni: il paziente non può lecitamente disporre del suo corpo e della sua vita in tutto
e per tutto. Ogni eventuale disposizione in tal senso deve essere valutata alla luce di
ulteriori orizzonti di riferimento, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo.
L’ESPRESSIONE DELLE VOLONTÀ DEL PAZIENTE:
ASPETTI CLINICI
Abstract Luciano Orsi
Gli aspetti clinici dell’espressione di volontà del malato possono essere esplorati
rispondendo alle domande “Quando, come, dove e perchè le esprime?”, e “Quali tipologie
di malati e di trattamenti hanno a che fare con l’espressione di volontà?”. Alla domanda
“Quando?” si può rispondere che nella storia di una malattia cronico-degenerativa vi sono
alcuni momenti particolarmente significativi in cui, soprattutto se vi è un atteggiamenti
“attivo” del sanitario, è alto il bisogno d’espressione di volontà del malato; questi momenti
sono: l’effettuazione di visite specialistiche, la consegna del referto d’accertamenti
diagnostici o di controlli strumentali, le fasi d’aggravamento della malattia, la gestione del
consenso informato, ecc.. Alla domanda “Come?” la risposta fa riferimento ad
un’attenzione da porre verso la comunicazione non verbale in un’ottica d’ascolto attivo.
Alla domanda “Dove?” l’analisi dei possibili “settings” che sono o possono essere
espressione di volontà rivela che molti ambienti, ospedalieri e non, diventano, otre che
teatro di manifestazione di volontà, anche luogo di un processo decisionale rivolto
all’attualità o a scenari futuri (decisioni anticipate). Fra questi si devono citare lo “spazio
familiare” del medico di medicina generale (intimità ambulatoriale e delle visite domiciliari),
il “monitoraggio” ambulatoriale specialistico, la degenza “frequente”, la degenza subintensiva, quella intensiva. L’esplorazione del “Perché vi sono espressioni di volontà?”
attiene alla sfera psicologica (vissuto di malattia e suoi bisogni) e a quella etica (principio
di autonomia). Le questioni “Quali malati e quali trattamenti sono correlati all’espressione
di volontà?” sono forse le più semplici cui rispondere, poiché è ormai evidente che molti
malati affetti da patologie cronico-degenerative (neurologiche, cardiologiche, respiratorie,
nefrologiche, ecc.) e non solo da quelle tumorali, possono e devono poter esprimere delle
volontà in merito alla prosecuzione d’accertamenti diagnostici e di trattamenti, siano questi
ultimi invasivi o non, di sostegno vitale o non.
IMPLICAZIONI ETICHE NEL TRATTAMENTO DEL DOLORE
Abstract Leopoldo Tessaro
Anche se trovare un definizione esaustiva di dolore è difficile, tuttavia in campo bioetico ci
si occupa di quel dolore per il quale la medicina può efficacemente intervenire per
controllarlo; in altre parole ci si occupa del “dolore evitabile” o, ancora meglio, della
“sofferenza evitabile”.
Infatti il problema dolore non si discosta dalle altre tematiche della bioetica: ogni qual volta
il progresso ci mette a disposizione mezzi efficaci per combattere la malattia e le sue
manifestazioni, scegliere o non scegliere di utilizzarli è un problema etico.
E’ proprio nell’analizzare lo stato dell’arte del trattamento del dolore che vengono a galla le
difficoltà, gli ostacoli e le discriminanti che ne esce un quadro poco confortante: la
presenza del dolore è spesso sottostimato, il suo trattamento insufficiente, permangono
aree disomogenee per motivi geografici, etnici, sociali e culturali.
Quali gli ostacoli?
Non ostacoli tecnici, vista la vasta gamma di mezzi terapeutici, farmacologici e non, a
disposizione.
Non ostacoli deontologici, visto che da sempre vige l’antico precetto Ippocratico “divinum
est sedare dolorem”.
Non ostacoli di dottrina cattolica, rimossi, se ce ne fosse stato bisogno, già da Pio XII: il
dolore non fa più del cristiano un eroe della rassegnazione o della redenzione
Non contrasti in bioetica. Il concetto di beneficenza e non maleficenza, che talora può
essere entrato in conflitto con il principio di autonomia, nel dolore non trova ostacoli.
E allora dove sta l’ostacolo maggiore?
Il problema principale sta in un fatto culturale: il medico è stato educato e si è coltivato in
una dimensione oggettiva della medicina, la malattia ha una sua oggettività fatta di segni
e sintomi obbiettivamente riscontrabili e parametrabili. Il dolore ha in vece una
dimensione soggettiva i cui parametri appartengono al singolo paziente e sono la sintesi
della fisicità e del suo vissuto.
E’ proprio questa unicità che ci porta a considerare un altro fatto culturale fonte di
ostacolo: la preparazione clinica del medico è principalmente rivolta alla cura della
malattia mentre un adeguato intervento sul dolore, soprattutto se cronico o connesso a
malattie in fase finale, presuppone un approccio alla cura della persona. Tutto questo
necessita di una formazione del personale sanitario basato sull’ascolto e da questo
giungere alla negoziazione degli interventi.
L’ESPRESSIONE DELLE VOLONTÀ NEL PAZIENTE
Abstract Gianluigi Bianchin
Il problema della motivazione alle cure assume particolare importanza nel paziente
psichiatrico grave, perché da un lato il consenso alla terapia è condizione imprescindibile
per l’efficacia di trattamenti spesso complessi e protratti e perché dall’altro la possibilità di
esprimere un consenso adeguato frequentemente si scontra con una scarsa o assente
coscienza di malattia o addirittura con una radicale e tenace opposizione all’intervento
terapeutico. Si propongono riflessioni tratte dall’esperienza clinica in ordine al consenso
alle cure del paziente psichiatrico grave, alle strategie per promuoverlo, alla difficile
applicazione del principio di autonomia in pazienti che non sono in grado di decidere
adeguatamente del proprio bene, al problema del ricorso estremo ai trattamenti coatti.
LE DECISIONI TERAPEUTICHE NEL MALATO NEUROLOGICO
Abstract Giuseppe Moretto
La disponibilità di metodiche diagnostiche ad alta tecnologia e di presidi terapeutici
sempre più sofisticati permettono oggigiorno ai professionisti della salute di prolungare la
vita del paziente anche in condizioni molto critiche.
Un atteggiamento di questo tipo, che possiamo definire di tipo “interventista”, cresciuto nel
corso delle ultime decadi e alimentato dalla fiducia in un potere illimitato della scienza sul
controllo e la sconfitta della malattia, viene ora messo in crisi da considerazioni etiche,
filosofiche ed economiche. Infatti i costi proibitivi di questo modello di approccio e la sua
pratica inaccessibilità ai più, in un’epoca di contrazione delle risorse disponibili per i
Sistemi Sanitari, inducono gli operatori sanitari a rivedere i propri modi di affrontare il
soggetto con malattia. Essi sono sempre più frequentemente chiamati ad interrogarsi se il
loro intervento terapeutico produrrà un allungamento della vita, un miglioramento della
qualità della vita o invece un indebito prolungamento del processo del morire.
Ne consegue una crescente consapevolezza che il percorso diagnostico-terapeutico
debba vedere il paziente come principale protagonista nelle decisioni operative, incluse
quelle del limite alle cure. In questo scenario di mutamenti radicali gli operatori della salute
si trovano spesso incerti e soli in quanto privi di riferimenti normativi adeguati e condivisi.
La maggior parte delle malattie neurologiche ha un decorso cronico con periodiche
riacutizzazioni che portano il paziente all’osservazione dello specialista neurologo e della
sua equipe ospedaliera. Il neurologo e la sua equipe sono per questo tra le figure sanitarie
che oggi sentono di più l’urgenza di operare nel rispetto del codice deontologico, dei propri
principi etico-religiosi, della libertà del paziente, del buon uso delle risorse disponibili.
Vengono portati alla discussione i seguenti casi di malattie neurologiche in cui l’equipe è
chiamata a scegliere tra diverse opzioni terapeutiche:
a) malattia cerebrovascolare
b) demenza
c) sclerosi laterale amiotrofica
d) tumore cerebrale maligno.
ASSISTENZA AL MALATO ONCOLOGICO con dolore”.
Abstract Paolo Manente
La terapia del dolore da cancro ha subito negli ultimi 10 anni delle novità importanti.
Innanzittutto si è assistito ad una presa di coscienza da parte delle Istituzioni mondiali,
della enorme valenza socio-sanitaria del problema che riguarda l’80-90% dei pazienti con
tumore avanzato. Nel nostro Paese si è iniziato a rimuovere gli ostacoli all’impiego
sistematico degli oppioidi: ostacoli di tipo burocratico, modificando la vecchia legge 309 di
tipo proibizionistico; ostacoli di tipo culturale, con programmi di informazione e formazione
mirati, supportati dall’Industria che tardivamente ha intravisto un interesse specifico in
questo campo. D’altra parte, l’incrementato impiego degli oppioidi ha messo in luce
problematiche poco evidenti quando il loro uso era limitato: situazioni di sofferenza
iatrogena, sia per uso incongruo che per maggior valorizzazione degli effetti collaterali.
L’aspetto culturale ha fatto si che al vecchio dogma di dolore-cancro correlato, stia
subentrando l’interpretazione dei meccanismi molecolari complessi alla base di
interferenze tra farmaci della terapia del dolore ed il tumore. Un elemento basilare è la
valutazione quantitativa del sintomo dolore in Oncologia.
Ci sono metodi semplici come la scala visuo-analogica (VAS: visual analogic scale di
Huskisson) molto utile nel monitoraggio delle modificazioni del dolore in corso di terapia.
Esistono poi dei questionari più o meno complessi che arrivano a esplorare le fluttuazioni
temporali del dolore e l’influenza sulla sfera affettiva, emozionale, fisica, razionale, con
ricaduta sulle principali attività (sonno, movimento, socialità, sessualità…). Il più usato
(diario autocompilato) è il Brief Pain Inventory. Esiste una stadiazione del dolore
oncologico: Edmonton staging system-Eduardo Bruera, 1980. Uno dei criteri più
importanti è la distinzione fra dolore nocicettivo (a partenza da cute, muscoli, ossa),
responsivo ai farmaci oppioidi, e dolore neuropatico, non responsivo ai farmaci oppioidi,
da invasione dei plessi nervosi o da cause non chiare.
Il dolore neuropatico, scarsamente responsivo agli oppiacei, è quello più difficile da trattare
e che può indurre il clinico a interpretare in modo errato il quadro doloroso, come abnorme
sensibilità al dolore (iperalgesia), con alto indice di escalation agli oppiacei (tolleranza).
Questa triade (dolore neuropatico, iperalgesia, tolleranza) può essere fuorviante. Va
ricercato perciò una sintesi corretta nell’interpretazione e nei successivi provvedimenti
terapeutici, tra componente nocicettiva e componente neuropatica.
La risposta agli oppioidi può variare notevolmente in rapporto a pattern neurochimici indotti
dall’evoluzione del timore e verosimilmente da interazioni tra oppioidi esogeni, cellule
tumorali, cellule infiammatorie che infiltrano in varia misura (fino al 30%) il tumore.
Un cambiamento importante nella gestione del paziente oncologico con intensa
sintomatologia dolorosa è derivato dalla nascita dello Specialista in Analgesia, con il
quale si valuta in modo preciso l’approccio terapeutico. Il trattamento deve essere sempre
rispettoso della volontà dell’ammalato, che spesso preferisce un po’ di dolore alle
modifiche della cenestesi, che di fatto lo spersonalizzano.
Terapia del dolore e cure palliative:
E’noto che nelle fasi molto avanzate della malattia, al dolore fisico si affiancano tutta una
serie di sintomi che delineano una sofferenza globale dell’individuo e della famiglia.
E’ ormai scontato che, con il progredire della malattia, la terapia del dolore, primo pilastro
terapeutico, diventi il fulcro di tutta una serie di interventi sugli altri sintomi (psicologici,
spirituali e sociali) che nel loro complesso costituiscono le cure palliative.
Avulsa da tali cure, la terapia del dolore incide in modo molto meno sostanziale sulla
qualità dell’ultimo periodo di vita dei pazienti neoplastici.
Sedazione terminale:
Sono dei provvedimenti che il Clinico deve adottare negli ultimi giorni o ore di vita di un
paziente oncologico.
Devono mirare a togliere non solo il dolore, ma anche l’angoscia che l’ammalato vive (la
maggior parte dei pazienti oncologici ha una agonia “lucida”).
La sedazione terminale pone spesso dei problemi etici, in quanto il confine tra
accanimento terapeutico, eutanasia in senso generico, buona pratica clinica, può
essere labile.
Solo l’approccio umile e multidisciplinare, con coinvolgimento attivo delle varie figure
specialistiche e del personale infermieristico, che di più vive a contatto queste situazioni
con ammalato e famigliari, possono aiutare ad una gestione indirizzata all’”eubiosia” (vita
buona) anche in questi momenti drammatici.
ASPETTI ETICI NEL PAZIENTE ANZIANO
Abstract Mauro Tagliapietra e Stefano Spaliviero
Il paziente "competente" è una persona capace di comprendere ed esprimere un parere,
ma tale capacità può essere inficiata da situazioni diverse. Nel paziente anziano, tutto ciò
può amplificarsi in rapporto a processi patologici, situazioni familiari o di solitudine, etc.
Tutto ciò condizionando, a sua volta, la possibilità di un consenso informato, che esprima
una scelta di valore nel concepire il rapporto medico-paziente.
A CHI DIRE LA VERITA’?
Caso etico dell’intervento di Luigi Pavanello e Fabio Dell’Antonia
Carlo, ragazzino di 14 anni, 10 anni prima à stato trapiantato di cuore ed attualmente
presenta sintomi gravi di rigetto delle coronarie con devastanti arresti cardiaci, uno dei
quali ha determinato una lesione cerebrale, e crisi epilettiche frequenti provocate
dall’assunzione di ciclosporina.
Per questi motivi non può essere iscritto nelle liste per un nuovo trapianto.
La situazione familiare à particolare. Il padre è fuggito al momento della diagnosi che ha
reso necessario il trapianto e la madre ha trovato un nuovo compagno che non ha legato
con Carlo il quale si è chiuso in se stesso, quasi a simulare un comportamento autistico.
La madre presenta atteggiamenti provocatori che hanno incrinato il rapporto con lo staff
medico ed infermieristico.
Dopo dieci anni di vita, gravata da tutti questi problemi, le cose però sono cambiate. La
madre, Roberta, ha cambiato atteggiamento nei confronti del personale medico e
infermieristico, ha trovato un nuovo compagno, il rapporto con Carlo è migliorato Chiede
allo staff medico di inserire Carlo in un nuovo programma di trapianto. Carlo va senz’altro
meglio da un punto di vista relazionale, ha atteggiamenti affettuosi nei confronti della
madre, saltuariamente frequenta la scuola ospedaliera, gioca con i coetanei. Tuttavia, nei
momenti critici di mancanza di respiro e di arresto cardiaco, è consapevole della gravità
della situazione e urla che non vuole morire.
Quesito etico: con chi comunicare?
1. Non comunicare né alla madre né a Carlo la gravità della situazione
2. Dire solo alla madre la reale situazione: l’impossibilità di un nuovo trapianto e
l’inevitabilità della morte, aggiungendo un nuova sofferenza, forse inutile, perché
nulla cambierebbe
3. Comunicare anche a Carlo la verità.