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Non
STEPHEN KING
DUMA KEY
(Duma Key, 2008)
A Barbara Ann e Jimmy
La memoria... è un mormorio interiore.
GEORGE SANTAYANA
La vita è più di amore e piacere,
Io son venuto a scavare un forziere.
Se vuoi giocare devi pagare
Questa è la regola da rispettare,
Tutti il tesoro vogliamo cercare.
SHARK PUPPY
Come fare un disegno (I)
Si comincia con uno spazio bianco. Non dev'essere necessariamente
carta o tela, ma secondo me dev'essere bianco. Noi diciamo bianco perché
abbiamo bisogno di una parola, ma la definizione giusta è «niente». Il nero è l'assenza della luce, ma il bianco è l'assenza della memoria, il colore
del non ricordo.
Come ricordiamo di ricordare? È una domanda che mi sono posto spesso dopo Duma Key, spesso nelle ore piccole della notte, perdendo lo
sguardo nell'assenza della luce, ricordando amici assenti. Certe volte in
quelle ore piccole penso all'orizzonte. Bisogna stabilire l'orizzonte. Bisogna segnare il bianco. Un atto abbastanza semplice, direte, ma ogni atto
che rifà il mondo è eroico. O così sono giunto a concludere.
Immaginate una bambina, poco più che infante. Quasi novant'anni fa è
caduta da un carretto giocattolo, ha battuto la testa su un sasso e ha dimenticato tutto. Non solo il suo nome; tutto! E poi un giorno ha ricordato
quel tanto da prendere una matita e tracciare quel primo segno titubante
sul bianco. Una linea di orizzonte, certo. Ma anche una fessura da cui dilaga il nero.
Immaginate comunque quella manina che solleva la matita... esita... e
poi segna il bianco. Immaginate il coraggio di quel primo sforzo di ristabilire il mondo disegnandolo. Amerò sempre quella bambina, a dispetto di
quanto mi sia costata. Devo. Non ho scelta.
Le immagini sono magiche, come sapete.
1
La mia altra vita
1
Mi chiamo Edgar Freemantle. Sono stato un nome grosso nel settore edilizio, mi assegnavano appalti importanti. Questo avveniva nel Minnesota,
nella mia altra vita. Ho imparato questa cosa della mia altra vita da Wireman. Voglio raccontarvi di Wireman, ma prima c'è il Minnesota.
Devo dirlo: lassù sono stato un vero eroe del sogno americano. Ho dato
la scalata alla ditta dove avevo cominciato e, quando sono rimasto senza
altri gradini da salire, me ne sono andato e ho avviato un'attività mia. Il
grande capo mi rise in faccia, disse che mi sarei trovato al verde in meno
di un anno. Credo che sia quello che dicono quasi tutti i grandi capi quando uno dei loro giovani rampanti li pianta per mettersi in proprio.
A me tutto è girato per il verso giusto. Il boom edilizio dell'area Minneapolis-St. Paul fu anche il boom della Freemantle Company. Nei momenti
di difficoltà non cercavo mai di forzare la situazione. Ma scommettevo sulle mie intuizioni e il più delle volte ci azzeccavo. Compiuti cinquant'anni,
con mia moglie Pam avevamo un patrimonio che si aggirava sui quaranta
milioni di dollari. E tra noi reggeva ancora. Avevamo due figlie e, alla fine
della nostra personale età dell'oro, Ilse era alla Brown e Melinda insegnava
in Francia in un programma di scambi internazionali. Quando è successo il
casino, io e mia moglie avevamo in programma di andarla a trovare.
Ho avuto un incidente in un cantiere. È molto semplice: quando un pickup, anche se è un Dodge Ram con tutti gli ammennicoli, litiga con una gru
alta dodici piani, a smenarci è sempre il pick-up. Il lato destro del cranio
mi si è solo crepato. Il lato sinistro mi è andato a sbattere duramente contro
il telaio della portiera e mi si è fratturato in tre punti. O forse erano cinque.
La mia memoria è migliorata, ma ancora non assomiglia neanche lontanamente a quella di prima.
I dottori definiscono quello che è successo alla mia testa un trauma da
contraccolpo, e spesso provoca più danni della botta originale. Ho avuto le
costole spezzate. L'anca destra sgretolata. E sebbene abbia conservato il
settanta per cento della vista dall'occhio destro (qualcosa di più nelle gior-
nate buone), da quella parte ho perso il braccio.
Avrei dovuto perdere la vita, ma non è andata così. A causa del contraccolpo sarei dovuto rimanere mentalmente menomato e all'inizio lo ero, ma
è passata. Su per giù. Quando ho ripreso le mie facoltà, mia moglie se ne
era andata e non solo su per giù. Eravamo sposati da venticinque anni, ma
sapete come si dice: il mondo gira. Ma non fa niente, credo, quel che è finito è finito. Alle volte è anche meglio così.
Quando parlo di menomazione, intendo che all'inizio non sapevo chi
fossero le persone, nemmeno mia moglie, o che cosa fosse accaduto. Non
capivo perché sentissi così male. Ora non ricordo la qualità di quel dolore,
passati quattro anni. So che era lancinante, che lo subivo, ma è tutto molto
accademico. Non era accademico allora. Allora era come essere all'inferno
e non sapere perché c'eri.
All'inizio avevi paura di morire, poi avevi paura di continuare a vivere.
È così che dice Wireman, e lui sa di cosa parla, ha passato la sua personale
stagione all'inferno.
Mi faceva male tutto, sempre. Ero torturato da un mal di testa costante.
Dietro la fronte, nel negozio di orologi più grande del mondo, era sempre
mezzanotte. Siccome l'occhio destro mi era andato alla malora, vedevo il
mondo attraverso una pellicola di sangue e nemmeno sapevo che cosa fosse il mondo. Niente che avesse un nome. Ricordo un giorno in cui Pam era
nella mia stanza - ero ancora in ospedale - ed era in piedi di fianco al letto.
Mi faceva girare tremendamente le palle che stesse in piedi quando c'era
quella cosa fatta apposta, laggiù nell'angolo.
«Prendi l'amica», le ho detto. «Porta l'amica.»
«Non capisco, Edgar», ha risposto lei.
«L'amica, la socia!» mi sono messo a gridare. «Porta qui quella serva
del cazzo, pazza di stronza!» La testa mi stava uccidendo e lei si stava mettendo a piangere. L'ho odiata per questo. Non aveva motivo di piangere,
perché non era lei quella nella gabbia a guardare tutto attraverso una foschia rossa. Non era lei la scimmia in gabbia. Poi mi è tornato alla mente.
«Porta qui quella serva e per l'amor del cielo mettiti a vedere!» È stato
quanto di più vicino il mio cervello sgangherato e incasinato riuscisse a
trovare per sedia.
Ero sempre arrabbiato. C'erano due infermiere più anziane che chiamavo
Fica Secca Uno e Fica Secca Due, come personaggi di un Dr. Seuss versione sporca. C'era una volontaria che chiamavo Cialdina Rivestita; non so
perché, ma anche quel soprannome aveva uno sfondo sessuale. Almeno
per me. Diventando più forte, ho cominciato a cercare di picchiare il prossimo. Due volte ho tentato di accoltellare Pam e la prima ci sono anche
riuscito, però solo con un coltello di plastica. Ha dovuto comunque farsi
mettere due punti al braccio. C'erano giorni in cui dovevano immobilizzarmi.
Ecco che cosa ricordo con maggiore chiarezza di quella parte della mia
altra vita: un caldo pomeriggio sul finire del mio soggiorno nel costoso
convalescenziario, l'impianto di condizionamento che non funziona, immobilizzato nel mio letto, una soap opera alla TV, mille campane che mi
suonano nella testa, dolore che mi brucia nel fianco destro come un attizzatoio, prurito al braccio destro che non ho più, movimenti convulsi delle dita della mano destra che non ho più, niente più OxyContin per un po' (non
so per quanto perché a calcolare il tempo non ce la faccio), e un'infermiera
che emerge dal rosso, una creatura che viene a guardare la scimmia in
gabbia, e l'infermiera dice: «È pronto a ricevere sua moglie?» E io dico:
«Solo se ha portato una pistola per ammazzarmi».
Uno pensa che un dolore come quello non possa passare, invece passa.
Poi ti spediscono a casa e te lo sostituiscono con le pene della riabilitazione. Il velo rosso davanti all'occhio ha cominciato a dissolversi. Uno psicologo specializzato in ipnoterapia mi ha insegnato qualche simpatico trucchetto con cui contrastare i dolori e i pruriti fantasma nel braccio mancante. Era Kamen. È stato Kamen a portarmi Reba: una delle poche cose che
ho portato con me quando sono passato zoppicando dalla mia altra vita in
quella che ho vissuto a Duma Key.
«Questa non è una terapia psicologica approvata per il trattamento
dell'aggressività», mi ha detto il dottor Kamen, ma è possibile che mi abbia
mentito per rendermi Reba più attraente. Mi ha esortato a darle un nome
odioso, anche se somigliava a Lucy di Lucy ed io, così io l'ho battezzata
con il nome di una zia che quand'ero piccolo mi pizzicava le dita se non
mangiavo tutte le mie carote. Poi, neanche due giorni da quando me l'aveva regalata, mi sono dimenticato come si chiamava. Mi venivano in mente
solo nomi maschili, ciascuno dei quali mi faceva arrabbiare di più: Randall, Russell, Rudolph, addirittura River 'fanculo Phoenix.
Ormai ero di nuovo a casa. È arrivata Pam con la colazione e deve aver
interpretato la mia faccia, perché ho visto subito che si preparava a subire
una crisi di collera. Ma io, anche se avevo dimenticato il nome della mia
soffice bambola rossa antirabbia, mi sono ricordato come dovevo usarla in
quella situazione.
«Pam», ho detto, «ho bisogno di cinque minuti per ritrovare la calma. Lo
posso fare.»
«Sei sicuro...»
«Sì, tu porta via il prosciutto e mettilo dove ti pare. Lo posso fare.»
Non sapevo se lo potevo fare o no, ma era quello che dovevo dire. Non
ricordavo il nome di quella bambola del cazzo, ma ricordavo lo posso fare.
Questo è chiaro del periodo finale della mia altra vita, come continuassi a
dire lo posso fare anche quando sapevo che non era così, anche quando sapevo che ero fottuto, ero doppiamente fottuto, anche se sapevo che ce l'avevo nel culo lungo e duro.
«Lo posso fare», ho detto e Dio sa che faccia avevo, perché lei è uscita
senza una parola, con il vassoio ancora in mano e la tazza che tintinnava
contro il piatto.
Dopo che se ne è andata, mi sono messo la bambola davanti alla faccia a
fissarla in quegli stupidi occhi blu mentre il mio pollice scompariva nel
suo stupido corpo cedevole. «Come ti chiami, brutto muso di troia?» mi
sono messo a gridare. Non ho pensato che Pam potesse ascoltare dall'interfono in cucina, lei e l'infermiera di giorno. Ma, parliamoci chiaro, se l'interfono fosse stato guasto avrebbero potuto sentirmi attraverso la porta.
Quanto a voce, quel giorno ero molto in forma.
Mi sono messo a scrollare la bambola. La testa ha preso a sbatacchiare
da una parte e dall'altra con quei capelli rossi da Lucy che svolazzavano di
qua e di là. I suoi occhioni blu da cartone animato sembravano dire: Uuuh,
cattivo!
«Come ti chiami, bastarda? Come ti chiami, troia? Come ti chiami,
squallido cencio plasticoso? Dimmi come ti chiami! Dimmi come ti chiami! Dimmi come ti chiami o ti strappo gli occhi e ti stacco il naso con un
morso e ti squarcio...»
In quel momento la mia mente ha cliccato, una cosa che succede ancora
adesso, a distanza di quattro anni, quaggiù a Tamazunchale, stato di San
Luis Potosí, nazione del Messico, luogo della terza vita di Edgar Freemantle. Per un momento mi sono trovato sul mio pick-up, con il blocco a molla
che urtava il mio vecchio portavivande d'acciaio sul fondo della macchina
dalla parte del passeggero (dubito che fossi l'unico milionario lavoratore
d'America a girare con un portavivande, ma è probabile che ci si possa
contare sulle dita di due mani), e il mio laptop sul sedile di fianco. E dalla
radio una voce femminile intonava «Era ROSSO!» con fervore evangelico.
Solo due parole, ma due bastavano. Era la canzone della povera donna che
manda la bella figlioletta a fare la prostituta. Era Fancy di Reba McEntire.
«Reba», ho sussurrato e mi sono stretto la bambola al petto. «Tu sei Reba. Reba-Reba-Reba. Non lo scorderò più.» Invece l'ho dimenticato, la settimana dopo, ma quando è successo non mi sono arrabbiato. No. L'ho tenuta contro di me come un amorino, ho chiuso gli occhi e ho evocato il
pick-up demolito nell'incidente. Ho visualizzato il mio portavivande d'acciaio che sbatteva contro il fermaglio d'acciaio del mio blocco a molla e ho
sentito la voce femminile che esultava dalla radio con quello stesso fervore
evangelico! «Era ROSSO!»
Il dottor Kamen ha detto che era una svolta promettente. Era entusiasta.
Mia moglie è sembrata assai meno entusiasta e il bacio che mi ha posato
sulla guancia era di quelli che si danno per diligenza. Credo che sia stato
due mesi dopo che è venuta a dirmi che voleva divorziare.
2
Intanto o le mie sofferenze fisiche erano considerevolmente diminuite, o
la mia mente aveva operato certi cruciali aggiustamenti nel gestirle. I mal
di testa tornavano ancora, ma meno sovente e raramente con uguale violenza; nella più grande orologeria del mondo che avevo tra le orecchie non
era più sempre mezzanotte. Ero sempre più che pronto per il mio Vicodin
alle cinque e il mio OxyContin alle otto - non me la sentivo di trascinarmi
con l'ausilio della mia bella stampella rosso vermiglio prima della mia dose - ma la mia anca ricostruita cominciava a guarire.
Kathi Green, la regina della riabilitazione, veniva a «casa Freemantle» il
lunedì, il mercoledì e il venerdì. Prima delle nostre sedute mi era concesso
un Vicodin supplementare e lo stesso, ancor prima che finissimo gli esercizi, urlavo già come un pazzo. Avevamo convertito la taverna nel seminterrato in centro terapeutico, con tanto di vasca da bagno per portatori di
handicap. Dopo due mesi di torture ho cominciato a scendere in taverna da
solo la sera per una seconda dose di esercizi con le gambe e iniziare a lavorare agli addominali. Kathi diceva che fare ginnastica prima di coricarmi
avrebbe rilasciato endorfine e avrei dormito meglio. È stato durante una di
queste sessioni serali -Edgar in cerca di evasive endorfine - che la donna
che per un quarto di secolo era stata mia moglie è scesa a dirmi che voleva
divorziare.
Ho interrotto quello che stavo facendo - piegamenti - e l'ho guardata.
Ero seduto su un materassino. Lei si era fermata ai piedi delle scale, a di-
stanza di sicurezza. Avrei potuto chiederle se diceva sul serio, ma le luci là
sotto erano molto forti, quelle dannate plafoniere al neon, e non ne avevo
bisogno. Non credo sia il genere di cose su cui le donne scherzerebbero sei
mesi dopo che il loro marito ha avuto un incidente in cui per poco non ci
ha rimesso le penne. Avrei potuto chiederle perché, ma lo sapevo. Vedevo
la piccola cicatrice bianca sul braccio dove l'avevo colpita con il coltello di
plastica preso dal vassoio dell'ospedale, ma quello era ancora il minimo.
Ho ripensato a quando, non molto tempo prima, le avevo detto di prendere
il prosciutto e ficcarlo dove voleva. Ho pensato di chiederle di riflettere,
ma ho sentito che la collera montava di nuovo. In quei giorni quella che il
dottor Kamen chiamava la collera indebita lo faceva spesso. E quello che
provavo in quel momento, diamine, non mi sembrava affatto indebito.
Ero a torso nudo. Il mio braccio destro finiva nove centimetri sotto la
spalla. L'ho fatto vibrare verso di lei: una vibrazione era il massimo che
riuscivo a ottenere da quel poco di muscolo che mi restava. «Quello che
non vedi», le ho detto, «è il mio dito medio. Vattene se è così che vuoi.
Vattene, trota traditrice.»
Sul viso avevano cominciato a scenderle le prime lacrime, ma ha cercato
lo stesso di sorridere. «Troia, Edgar», mi ha detto. «Volevi dire troia.»
«La parola che ho detto è quel che ho detto», le ho risposto e ho ripreso
le mie flessioni. È difficile da matti farle senza un braccio, il corpo che
tende a torcersi da quella parte. «Io non avrei lasciato te, questo è il punto.
Io non avrei lasciato te. Avrei sopportato tutta la merda e il sangue e la piscia e la birra versata.»
«È diverso», ha ribattuto lei. Senza preoccuparsi di asciugarsi il viso. «È
diverso e lo sai. Io non potrei spezzarti in due se mi prendesse una crisi di
collera.»
«Vorrei vedere come potrei spezzare io in due te, con un braccio solo»,
le ho detto io aumentando la velocità delle flessioni.
«Tu mi hai ferita con un coltello.» Come se fosse tutto lì. Non lo era e lo
sapevamo tutti e due.
«Un coltellino di plastica, niente di più, ero fuori di me, e saranno le tue
ultime parole sul tuo letto di morte del cazzo: 'Eddie mi ha pugnalato con
un coltellino di plastica, addio mondo crudele'.»
«Mi hai quasi strozzata», ha detto lei con un filo di voce.
Io ho smesso di fare flessioni e l'ho fissata a bocca aperta. «Strozzata?
Non ti ho mai strozzata!»
«So che non te lo ricordi, ma lo hai fatto.»
«Oh, piantala. Risparmiati le tue balle da New Age per quel tizio... quel
tuo...» Sapevo la parola e vedevo la persona davanti a me, ma non mi veniva. «Per quel cazzone calvo che vai a trovare nel suo studio.»
«Il mio terapeuta», ha detto lei e naturalmente questo mi ha fatto arrabbiare ancora di più: lei aveva trovato la parola e io no. Perché a lei non avevano sbattuto il cervello come un uovo per la maionese.
«Se vuoi divorziare, ti concedo il divorzio. Butta via tutto, perché no?
Solo vai a fare l'alligatore da qualche parte. E adesso fuori.»
Lei è tornata su e ha chiuso la porta senza guardare indietro. Ed è stato
solo dopo che se ne è andata che mi sono reso conto che intendevo lacrime
di coccodrillo. Vai a piangere le tue lacrime di coccodrillo da qualche altra
parte. Oh, be'. Ci avevo preso quanto basta. È così che dice Wireman.
E alla fine ad andarmene sono stato io.
3
A parte Pam, nella mia altra vita non ho mai avuto partner. Le «quattro
regole per il successo» di Edgar Freemantle (siete liberi di prendere appunti) erano: mai accettare prestiti superiori a cento volte il vostro QI; mai accettare prestiti da chi vi si rivolge fin da subito dandovi del tu; mai bere
prima del tramonto; e mai farvi un partner che non abbiate voglia di accarezzare su un materasso ad acqua.
Ho avuto però un commercialista del quale mi fidavo ed era Tom Riley,
che mi ha aiutato a trasferire le poche cose che mi servivano dalla casa di
Mendota Heights in quella più piccola sul lago Phalen. Tom, triste naufrago di due matrimoni andati a rotoli, mi ha oppresso per tutto il tempo con
le sue ansie. «Non si molla la casa in una situazione come questa», diceva.
«Solo se è un giudice a sbatterti fuori. È come rinunciare a giocare in casa
in una partita dei playoff.»
Il vantaggio di giocare in casa non mi interessava, a me importava solo
che stesse attento alla strada. Ogni volta che una macchina che arrivava
dalla direzione opposta mi sembrava un po' troppo vicina alla striscia mediana stringevo i denti. Ogni tanto mi irrigidivo tutto e schiacciavo l'invisibile freno sul lato del passeggero. Ma, si sa, a Dio piacciono le sorprese. È
così che dice Wireman.
Kathi Green, la regina della riabilitazione, aveva messo in cascina un solo divorzio, ma era sulla stessa lunghezza d'onda di Tom. Me la ricordo
seduta a gambe incrociate fasciata nel suo body a tenermi i piedi contem-
plandomi con un'aria cupa e indignata.
«Tu sei appena uscito dal Motel della Morte, con un braccio in meno, e
lei vuole piantarti. Solo perché l'hai punta con un coltello di plastica quando non ricordavi nemmeno come ti chiamavi? Che mi fotta un toro! Non
capisce che gli sbalzi di umore e i mancamenti di memoria dopo un incidente traumatico sono una cosa comune?»
«Capisce di avere paura di me», le ho risposto.
«Ah sì? Ascolta bene la mamma, bello mio: se ti trovi un buon avvocato,
puoi farti risarcire per un capriccio come questo.» Le era sfuggito qualche
capello dalla coda di cavallo da Gestapo e se lo era soffiato via dalla fronte. «È solo giusto che paghi. Leggimi il labiale: niente di tutto questo è
colpa tua.»
«Ha detto che ho cercato di strangolarla.»
«Certo che farsi strangolare da un uomo con un braccio solo dev'essere
stata un'esperienza traumatizzante. Avanti, Eddie, pretendi un risarcimento. Capisco che non ho il diritto di metterci il naso, ma non mi importa.
Quello che sta facendo non è accettabile.»
«Io credo che ci sia dietro qualcosa di più dello strangolamento e del
coltellino.»
«Cosa?»
«Non ricordo.»
«E lei cosa dice?»
«Non dice.» Ma io e Pam avevamo alle spalle una storia lunga e anche
se l'amore si era annacquato in un delta di accettazione passiva, ritenevo di
conoscerla ancora abbastanza bene da sapere che sì, c'era stato qualcos'altro, e quel qualcos'altro c'era ancora, ed era da quello che voleva allontanarsi.
4
Mi ero trasferito da poco sul lago, quando sono venute a trovarmi le ragazze. Le giovani donne. Hanno portato una cesta da picnic. Ci siamo seduti sulla veranda odorosa di legno di pino e abbiamo contemplato il lago
sgranocchiando i sandwich. Era già passato il Labor Day e i giochi galleggianti erano stati messi via quasi tutti per l'inverno. Nella cesta c'era anche
una bottiglia di vino, ma io ne ho bevuto solo qualche sorso. Con tutti gli
antidolorifici che prendevo, non reggevo l'alcol; un solo bicchiere poteva
ridurmi in un ubriaco farfugliante. Così la bottiglia se la sono spartita le
ragazze, le giovani donne, e il vino le ha incoraggiate. Melinda, di ritorno
malvolentieri dalla Francia per la seconda volta dopo il mio sfortunato alterco con la gru, mi ha chiesto se tutti gli ultracinquantenni cadono in queste spiacevoli regressioni e se doveva mettere in conto di fare la stessa fine
anche lei. Ilse, la più giovane, si è messa a piangere. Mi ha appoggiato la
testa alla spalla e mi ha chiesto perché non poteva tornare tutto come prima, perché non potevamo, sua madre e io, essere di nuovo come eravamo.
Lin le ha detto che proprio non era il momento per uno dei suoi classici attacchi di bambinismo e Illy le ha mostrato il dito medio. Io ho riso. Non ho
resistito. Poi abbiamo riso tutti e tre. L'amarezza di Lin e le lacrime di Ilse
non sono state molto rincuoranti, ma erano almeno sincere, reazioni che
conoscevo dai tanti anni che le ragazze avevano trascorso crescendo nella
casa in cui vivevamo insieme: mi erano familiari come il neo sul mento di
Ilse o la sottile ruga di cruccio tra gli occhi di Lin, che con il tempo si sarebbe accentuata per diventare un solco.
Linnie ha voluto sapere che intenzioni avevo e le ho risposto che non
avevo deciso niente. Avevo percorso parecchia strada verso la decisione di
togliermi la vita, ma sapevo che se lo avessi fatto doveva assolutamente
sembrare un incidente. Non avrei lasciato i residui di un senso di colpa per
il suicidio del padre sulle spalle di quelle due ragazze che cominciavano
appena ad affacciarsi alla vita. Né avrei caricato di rimorso le spalle della
donna con cui un giorno avevo diviso un frullato a letto, nudi entrambi, ridendo e ascoltando la Plastic Ono Band sullo stereo.
Dopo che si sono potute sfogare - dopo un completo e spassionato
scambio di vedute, nel linguaggio di Kamen - l'atmosfera si è rasserenata e
il ricordo che conservo è di un bel pomeriggio passato a sfogliare un vecchio album di fotografie e a resuscitare reminescenze del passato. Credo
che abbiamo anche riso una o due volte, ma non tutti i ricordi della mia altra vita sono da ritenersi affidabili. Wireman dice che quando attingiamo al
passato le nostre scelte sono prevenute.
Ilse voleva che uscissimo tutti a cena, ma Lin doveva incontrare qualcuno alla biblioteca pubblica prima che chiudesse e io comunque non me la
sentivo di andare in giro trascinandomi dietro la gamba; avevo in animo di
leggermi qualche capitolo dell'ultimo John Sandford e poi andare a dormire. Mi hanno dato un bacio, tutti di nuovo amici, e se ne sono andate.
Due minuti dopo Ilse è rientrata. «Ho detto a Linnie di aver dimenticato
le chiavi», mi ha detto.
«Immagino che non sia vero», le ho risposto io.
«No. Papà, faresti mai del male alla mamma? Adesso, intendo. Di proposito.»
Ho scosso la testa ma lei non si è accontentata. Lo capivo da come se ne
restava lì a guardarmi negli occhi. «No», le ho risposto. «Mai. Mi...»
«Ti cosa, papà?»
«Stavo dicendo che piuttosto mi taglierei via il braccio, ma tutt'a un tratto non mi è sembrata un'idea geniale. No, Illy, non lo farei mai. Lasciamola così.»
«Allora perché ha ancora paura di te?»
«Credo... perché sono mutilato.»
Per poco non precipitammo insieme sul divano, per la violenza con cui
mi si è lanciata tra le braccia. «Oh, papà, mi spiace tanto. Tutto questo è
così schifoso.»
Io le ho accarezzato un po' i capelli. «Lo so, ma tu ricorda una cosa:
peggio di così non può andare.» Non era la verità, ma se fossi stato attento
Ilse non avrebbe mai saputo che la mia era stata una spudorata bugia.
Da fuori è giunto un colpo di clacson.
«Vai», le ho detto e le ho baciato la guancia bagnata. «Tua sorella è impaziente.»
Lei ha arricciato il naso. «Sai che novità. Non stai esagerando con le
medicine, vero?»
«No.»
«Chiamami se hai bisogno, papà. Prendo il primo aereo.»
E lo avrebbe anche fatto. Motivo per cui non l'avrei chiamata.
«Contaci.» Le ho posato un bacio anche sull'altra guancia. «Questo, portalo a tua sorella.»
E lei è uscita annuendo. Io mi sono seduto sul divano e ho chiuso gli occhi. Dietro di essi gli orologi battevano e battevano e battevano.
5
Poi è venuto a trovarmi il dottor Kamen, lo psicologo che mi aveva regalato Reba. Non ero stato io a invitarlo. Della sua visita dovevo ringraziare
Kathi, la mia Lady Riabilitazione.
Anche se sicuramente non era più che quarantenne, Kamen camminava
come un vecchio e ansimava anche da seduto, scrutando il mondo attraverso enormi occhiali con la montatura di corno e da sopra l'enorme pera del
ventre. Era un uomo molto alto e molto nero-nero, con tratti del volto così
profondamente marcati da sembrare irreali. Quelle palle penetranti che aveva per occhi, quella polena che aveva per naso e quelle labbra totemiche
incutevano soggezione. Kamen sembrava una divinità minore in un abito
comprato da Men's Warehouse. Sembrava anche un candidato in prima fila
a un infarto fatale prima dei cinquanta.
Ha rifiutato la mia offerta di qualcosa da bere, ha detto che non poteva
trattenersi e, contraddicendosi subito, ha posato la cartella sul divano. È
sprofondato nel cuscino di cinque braccia buone, continuando a inabissarsi
tanto da farmi temere per la salute delle molle e mi ha guardato ansimando
benevolmente.
«Come mai qui?» gli ho domandato.
«Oh, Kathi mi dice che hai in mente di toglierti la vita», mi ha risposto.
Nello stesso tono che avrebbe usato per dirmi: Kathi mi dice che dai una
festa in giardino e che ci saranno pasticcini freschi. «È vero?»
Io ho aperto la bocca e l'ho richiusa. Una volta, quando avevo dieci anni,
giù a Eau Claire, avevo preso un giornalino a fumetti da un espositore rotante, me lo ero infilato nei jeans e lo avevo nascosto sotto la maglietta.
Stavo uscendo dal drugstore molto fiero di me, quando fui afferrato per un
braccio da una commessa. Mi sollevò la maglietta con l'altra mano ed espose il mio illecito tesoro. «E quello come ci è finito lì?» mi chiese. In
quarant'anni dopo quella volta non mi ero mai sentito così totalmente
spiazzato da una domanda tanto semplice.
Finalmente, ma quando ormai era passato troppo tempo perché la mia risposta avesse qualche peso, ho detto: «Assurdo. Non so da dove le sia venuta questa idea».
«No?»
«No. Sicuro di non volere una Coca?»
«Grazie, ma passo.»
Così sono andato a prenderne una per me dal frigorifero in cucina. Ho
serrato saldamente la bottiglia tra il moncherino e il fianco del torace possibile ma doloroso; non so che cosa abbiate visto voi al cinema, ma le
costole fratturate fanno male per un bel pezzo - e ho fatto saltare il tappo
con la sinistra. Sono mancino. Sotto questo aspetto mi è andata di lusso,
muchacho, come dice Wireman.
«Mi meraviglia comunque che tu l'abbia presa sul serio», ho osservato
mentre tornavo in soggiorno. «Come fisioterapista Kathi è una bomba, ma
non è certo una strizzacervelli.» Mi sono fermato per un attimo prima di
sedermi. «Non lo sei nemmeno tu, tecnicamente parlando.»
Kamen si è portato la mano enorme dietro l'orecchio grande come un
cassetto da scrivania. «Sento forse... un rumore di ferraglie? Mi pare proprio di sì.»
«Di cosa stai parlando?»
«È quel simpatico rumore medievale che fanno le difese di una persona
quando s'innalzano.» Poi ha tentato una strizzata d'occhio ironica, ma con
un faccione come il suo l'ironia era impossibile; al massimo riusciva a essere burlesco. In ogni caso io avevo capito. «Quanto a Kathi Green hai ragione, che cosa ne sa lei? La sua modesta esperienza è limitata a paraplegici, quadriplegici, vittime di incidenti con arti amputati come te e gente
reduce da infortuni traumatici alla testa... di nuovo come te. È solo da
quindici anni che Kathi fa questo lavoro, ha avuto l'opportunità di vedere
mille pazienti menomati riflettere sul fatto che non un singolo secondo del
tempo passato può essere mai più recuperato, dunque come potrebbe mai
riconoscere i sintomi di una depressione presuicida?»
Mi sono seduto nella scomoda poltrona davanti al divano e l'ho guardato
torvo. Era un problema. Con l'aggravante di Kathi Green.
Kamen si è sporto in avanti... ma data la mole è riuscito ad allungarsi solo di pochi centimetri. «Devi aspettare», mi ha detto.
Sono rimasto a bocca aperta.
Lui ha annuito. «Sei sorpreso. Sì. Ma io non sono cristiano, meno che
mai cattolico, e sul suicidio ho una posizione molto aperta. Sono però un
credente nelle responsabilità e so che lo sei anche tu e ti dirò una cosa: se ti
uccidi ora... o anche tra sei mesi... tua moglie e le tue figlie capiranno. Per
quanta astuzia tu ci metta, capiranno.»
«Io non...»
Lui ha alzato la mano. «E capiranno anche quelli che ti hanno assicurato
sulla vita, per una somma di tutto riguardo, non ne dubito. Può essere che
non sappiano dimostrarlo... ma ce la metteranno tutta. Le insinuazioni faranno male alle tue figlie, per quanto ben corazzate tu possa credere che
siano contro questo genere di malignità.»
Melinda era ben corazzata. Con Ilse però era tutt'altra storia. Quando
Melinda ce l'aveva con lei, diceva che era un caso di arresto dello sviluppo, ma non era vero. Illy era solo dolce.
«E alla fine potrebbero dimostrarlo.» Kamen ha scosso le spalle enormi.
«Quanto valga la tua morte in imposte di successione non saprei immaginare, ma so che potrebbe andare in fumo una bella fetta delle ricchezze che
hai accumulato.»
Io non pensavo neppure ai soldi. Stavo pensando a un plotone di investigatori della compagnia assicurativa che si aggiravano a fiutare l'odore di
bruciato. E tutt'a un tratto mi è venuto da ridere.
Seduto con le manone scure sui ginocchioni, Kamen mi guardava con
quel suo sorrisetto da le ho viste tutte. Solo che non c'era niente di «etto»
sulla sua faccia. Ha aspettato che finissi di ridere, poi mi ha chiesto che cosa trovavo di tanto divertente.
«Mi stai dicendo che sono troppo ricco per uccidermi», gli ho risposto.
«Ti sto dicendo non ora, Edgar, e non ti dico altro. E mi concederò anche un consiglio che contrasta abbastanza con la mia personale esperienza
pratica. Ma nel tuo caso ho un'intuizione molto precisa, la stessa intuizione
che mi ha spinto a regalarti la bambola. Di provare una rilocalizzazione.»
«Cosa?»
«È una tecnica di riabilitazione spesso tentata da alcolisti all'ultimo stadio. Sperano che un cambiamento d'aria li aiuti a ricostruirsi un'esistenza.
Un rimescolamento delle carte.»
Io ho sentito un palpito. Non dico che fosse speranza, ma era qualcosa.
«Raramente funziona», ha proseguito Kamen. «I veterani degli Alcolisti
Anonimi, quelli che hanno una risposta per ogni cosa - è la loro maledizione oltre che una virtù, anche se sono pochi quelli che se ne rendono conto dicono sempre: 'Metti un coglione su un aereo a Boston ed è un coglione
quello che scende a Seattle'.»
«E io dove sarei in tutto questo?» gli ho domandato.
«Ora come ora sei qui a St. Paul. Il mio suggerimento è di sceglierti un
posto lontano da qui e andarci. Date le tue condizioni economiche e la tua
situazione coniugale, sei nella posizione migliore per farlo.»
«Per quanto tempo?»
«Almeno un anno.» Mi ha fissato con un'espressione imperscrutabile.
S'adattava benissimo al suo faccione, scolpito sui lineamenti da faraone egizio; scommetto che ci avrebbe fatto un pensierino persino Howard Carter. «E se alla fine di quell'anno farai qualcosa, Edgar, per l'amor di Dio,
anzi, no, per l'amore delle tue figlie, fallo come si deve.»
Era quasi scomparso dentro il vecchio divano. A quel punto ha cominciato a issarsene fuori. Io mi sono fatto avanti per aiutarlo e lui mi ha respinto con un gesto della mano. Alla fine si è alzato in piedi, ansimando
più che mai, e ha recuperato la sua borsa. Mi ha guardato dall'alto dei suoi
due metri e spiccioli con quelle palle d'occhi con la cornea giallastra che
gli occhiali, con quelle lenti così spesse, facevano apparire ancora più
grandi.
«Edgar, c'è niente che ti faccia felice?»
Mi sono fermato alla superficie della sua domanda (la sola parte che mi
sembrava inoffensiva) e ho detto: «Disegnavo». Era stato qualcosa di più
che semplicemente disegnare, ma era passato molto tempo. Dopo erano intervenute altre cose. Matrimonio, carriera. Entrambi erano finiti o stavano
finendo.
«Quando?»
«Da ragazzo.»
Ho pensato di dirgli che una volta avevo persino sognato di iscrivermi
alla scuola d'arte - compravo persino qualche libro di riproduzioni quando
me lo potevo permettere - e poi ho lasciato perdere. Negli ultimi trent'anni
il mio contributo al mondo dell'arte si è praticamente limitato ai ghirigori
tracciati durante le telefonate ed erano trascorsi probabilmente dieci anni
da quando avevo comprato il libro illustrato che vive su un tavolino dove
può far colpo sugli amici.
«E poi?»
Mi è venuta voglia di mentire per non fare la figura dello stacanovista
senza altri interessi nella vita, ma poi gliel'ho confessato. Gli uomini con
un braccio solo dovrebbero dire la verità tutte le volte che possono. Non è
una battuta di Wireman, questa; è mia. «Mai più.»
«Ricomincia», mi ha consigliato. «Hai bisogno di siepi.»
«Siepi», ho ripetuto io perplesso.
«Sì, Edgar.» Era sorpreso e un po' deluso, come se non avessi colto un
concetto banale. «Siepi contro la notte.»
6
Poi è stata la volta di Tom Riley, forse una settimana dopo. Le foglie avevano cominciato a cambiare colore e ricordo i commessi che affiggevano manifesti di Halloween al Wal-Mart dove ero andato a comprare i miei
primi album da disegno dai tempi del college... Diamine, forse fin dai tempi del liceo.
Ciò che ricordo con maggior chiarezza di quella visita sono l'imbarazzo
e il disagio di Tom.
Gli ho offerto una birra e lui ha accettato. Quando sono tornato dalla cucina stava guardando il mio lavoro a inchiostro, le silhouette di tre palme
davanti a uno specchio d'acqua con uno spigolo di veranda che spuntava
dal lato sinistro. «Bello», ha commentato. «Roba tua?»
«No, degli elfi. Vengono di notte. Mi risuolano le scarpe e ogni tanto mi
lasciano un disegnino.»
Lui ha riso troppo forte posando il disegno sul tavolo. «Non somiglia
molto al Minnesota», ha detto calcando un accento svedese.
«L'ho copiato da un libro», gli ho confessato. In realtà mi ero servito di
una foto presa da un dépliant di un'immobiliare. Era stata scattata dalla veranda - la cosiddetta «Florida room» - di Salmon Point, così si chiamava la
casa che avevo appena preso in affitto per un anno. Non ero mai stato in
Florida, nemmeno in vacanza, ma quell'immagine aveva evocato qualcosa
dentro di me e per la prima volta dall'incidente provavo un vero senso di
anticipazione. Era sottile, ma c'era. «Che cosa posso fare per te, Tom? Se è
una questione d'affari...»
«Per la verità è stata Pam a chiedermi di venire.» Ha chinato la testa.
«Non che ne avessi una gran voglia, ma non me la sono sentita di dirle di
no. Ci conosciamo da tanti anni.»
«Come no.» Tom risaliva ai tempi in cui la Freemantle Company non
era altro che tre pick-up, un caterpillar D9 e un mucchio di sogni grandiosi. «Coraggio, sputa il rospo, che non mordo.»
«Si è trovata un avvocato. Sta andando avanti con il divorzio.»
«Non ho mai pensato diversamente.» Era la verità. Ancora non mi ricordavo di aver tentato di strangolarla, ma ricordavo l'espressione dei suoi occhi quando mi aveva detto che lo avevo fatto. E c'era un altro fatto: quando
si metteva in testa una cosa raramente Pam non andava fino in fondo.
«Vuole sapere se hai intenzione di usare Bozie.»
Non ho potuto fare a meno di sorridere. William Bozeman III era il mastino dello studio legale di Minneapolis che si occupava della mia ditta, un
sessantacinquenne azzimato e manicurato con un immancabile papillon,
che se avesse saputo che da vent'anni io e Tom lo chiamavamo Bozie avrebbe probabilmente avuto un embolo.
«Non ci avevo pensato. Di che si tratta, Tom? Che cosa vuole di preciso?»
Ha scolato metà della sua birra, poi ha posato il bicchiere su uno scaffale
della libreria di fianco al mio patetico disegno. Le guance gli erano diventate color rosso mattone. «Ha detto che spera non debba risolversi in modo
meschino. Ha detto: 'Non voglio essere ricca e non voglio che ci accapigliamo. Voglio solo che sia giusto con me e le ragazze come è sempre stato. Vuoi dirglielo tu?' Così sono qui.» Si è stretto nelle spalle.
Io sono andato al finestrone tra il soggiorno e la veranda a guardare il
lago. Presto sarei potuto entrare nella mia personale «Florida room», dovunque fosse, a contemplare il Golfo del Messico. Mi sono chiesto se sarebbe stato meglio, in qualche modo diverso, che contemplare il lago Phalen. E ho concluso che mi sarei accontentato di diverso, almeno al principio. Diverso sarebbe stato un inizio. Quando mi sono girato, Tom Riley
non era più lo stesso. Lì per lì ho pensato che avesse mal di pancia, poi ho
capito che cercava di non piangere.
«Che cosa c'è, Tom?» gli ho chiesto.
Lui ha tentato di parlare e ha emesso solo un singulto gutturale. Si è
schiarito la voce e ha provato di nuovo. «Non riesco ad abituarmi a vederti
con un braccio solo. Mi spiace.»
È stato spontaneo, diretto e dolce. Un colpo dritto al cuore. Credo che ci
sia stato un momento in cui ci siamo trovati entrambi sull'orlo delle lacrime, come una coppia di Uomini Sensibili all'Oprah Winfrey Show.
Quell'immagine mi aiutò a ritrovare il controllo di me stesso. «Spiace
anche a me», gli ho detto, «ma me la sto cavando. Davvero. Ora bevi la tua
dannata birra prima che si sgasi.»
Lui ha riso e si è versato nel bicchiere il resto della sua Grain Belt.
«Ho un'offerta da darti per lei. Se le piace, possiamo mettere giù i dettagli. Senza avvocati. Una cosuccia fai-da-te.»
«Parli seriamente, Eddie?»
«Sì. Tu mi prepari un consuntivo globale, così abbiamo un punto di riferimento su cui lavorare. Dividiamo quello che c'è in quattro parti. Lei ne
prende tre, il settantacinque per cento, per sé e le ragazze. Io tengo il resto.
Quanto al divorzio... be', nel Minnesota c'è la clausola del divorzio consensuale. Dopo pranzo possiamo fare un salto da Borders a comprarci Divorzio per principianti.»
L'ho visto stupefatto. «Esiste davvero?»
«Non ho fatto ricerche, ma se non c'è mi mangio i capelli.»
«Credo che si dica mangiarsi il cappello.»
«Non è quello che ho detto io?»
«Lascia stare. Eddie, un frazionamento di questo genere ridurrà di molto
il valore del patrimonio.»
«Chiedimi se me ne frega un cazzo. O un razzo, se è per questo. A me
sta ancora a cuore l'azienda e l'azienda sta bene, è integra ed è gestita da
persone che sanno il fatto loro. Quanto al patrimonio, io propongo solo di
mettere da parte l'amor proprio su cui di solito speculano gli avvocati per
portarsi via la crema sulla torta. Se siamo ragionevoli, ce n'è abbastanza
per tutti.»
Tom ha finito la birra senza mai staccarmi gli occhi di dosso. «Alle volte
mi chiedo se sei lo stesso uomo per cui lavoravo», ha commentato.
«Quell'uomo è morto nel suo pick-up.»
7
Pam ha accettato l'offerta e credo che avrebbe accettato anche di riprendermi con sé se glielo avessi proposto - era un'espressione che le appariva
e scompariva negli occhi, quando ci siamo visti a pranzo per discutere i
dettagli, come un raggio di sole tra le nuvole - ma io non l'ho fatto. Avevo
in mente la Florida, quel rifugio per chi ha un anello al dito e un piede nella fossa. E credo che nel cuore del suo cuore, anche Pam sapesse che era
meglio così, che sapesse che l'uomo che era stato estratto dalle lamiere del
Dodge Ram con l'elmetto d'acciaio schiacciato intorno alle orecchie come
un barattolo compresso di alimenti per cani non era lo stesso uomo che ci
era salito in cabina. La vita con Pam e le ragazze e la ditta di costruzioni
era finita; là dentro non c'erano altre stanze da esplorare. C'erano però delle porte. Quella con la scritta SUICIDIO era allo stato attuale una cattiva
idea, come mi aveva fatto notare il dottor Kamen. Rimaneva quella con
scritto DUMA KEY.
Un'altra cosa è successa nella mia altra vita prima che uscissi da quella
porta, però. È quello che capitò a Gandalf, il Jack Russell terrier di Monica
Goldstein.
8
Se vi siete immaginati il mio ritiro convalescenziale come un cottage lacustre in splendido isolamento all'estremità di una remota sterrata nei boschi del Nord, vi conviene ripensarci. Qui si sta parlando di sobborgo classico. La nostra casa al lago è in fondo ad Aster Lane, una strada asfaltata
che si stacca dalla East Hoyt Avenue per scendere all'acqua. I nostri vicini
più prossimi erano i Goldstein.
Verso la metà di ottobre ho finalmente messo in pratica il consiglio di
Kathi Green e ho cominciato a fare camminate. Non sto parlando delle
Grandi Camminate in Spiaggia che avrei fatto in seguito, ma tornavo da
queste pur brevi escursioni con l'anca martoriata che implorava pietà e
spesso con le lacrime agli occhi. Erano comunque passi nella direzione
giusta. Stavo tornando da una di queste sgambate quando la signora Fevereau ha investito il cane di Monica.
Io ero a tre quarti della mia via del ritorno quando la Fevereau mi ha
sorpassato sul suo ridicolo Hummer color senape. Come sempre aveva il
cellulare in una mano e la sigaretta nell'altra; come sempre correva troppo.
Non ci ho fatto caso e certamente non ho visto Gandalf attraversare di corsa la strada per raggiungere Monica Goldstein, che sopraggiungeva sull'altro lato in completa tenuta da Girl Scout. Io ero concentrato sulla mia anca
ricostruita. Come sempre, alla fine di queste brevi camminate, quella presunta meraviglia ortopedica si era riempita di qualcosa come diecimila
frammenti appuntiti di vetro.
Poi ci fu lo stridere dei copertoni e uno strillo di bambina: «GANDALF,
NO!»
Per un momento mi è apparsa la nitida visione della gru assassina e di un
giallo molto più brillante di quello dell'Hummer della Fevereau che divorava il mondo in cui ero sempre vissuto e di lettere nere che ci nuotavano
dentro diventando sempre più grandi: LINK-BELT.
Poi si è messo a gridare anche Gandalf e il flashback - quello che il dottor Kamen avrebbe senza dubbio chiamato un ricordo recuperato - svanì.
Fino a quel pomeriggio d'ottobre di quattro anni fa non avevo saputo che i
cani potessero gridare.
Sono partito in una pencolante corsa da granchio picchiando sul marciapiede la mia gruccia rossa. Sono sicuro che chiunque mi avesse visto avrebbe trovato lo spettacolo comico, ma nessuno si stava curando di me,
Monica Goldstein era inginocchiata in mezzo alla strada accanto al suo cane, che giaceva davanti all'alta griglia squadrata dell'Hummer. Sopra la divisa verde bosco ornata da una fascia carica di distintivi e medaglie, la sua
faccia era più bianca che mai. L'estremità della fascia si stava inzuppando
nella pozza sempre più grande del sangue di Gandalf.
La Fevereau per metà saltò giù e per metà cadde da quella specie di ridicolo trespolo che è il sedile di guida dell'Hummer. Dalla porta di casa sua
uscì Ava Goldstein correndo e invocando il nome della figlia. Aveva la
camicetta abbottonata solo in parte ed era a piedi nudi.
«Non toccarlo, cara, non lo toccare», ha raccomandato la Fevereau. Aveva ancora la sua sigaretta da cui tirava boccate nervose.
Monica non le ha dato retta. Ha toccato il fianco di Gandalf. Il terrier ha
gridato di nuovo - era proprio un grido - e Monica si è premuta la base dei
palmi sugli occhi. Ha cominciato a scuotere la testa. Non potevo non comprenderla.
La Fevereau ha allungato la mano verso la bambina, poi ha cambiato idea. È indietreggiata di due passi, si è appoggiata all'alta fiancata del suo
Hummer e si è messa a guardare il cielo.
La signora Goldstein si è inginocchiata di fianco alla figlia. «Tesoro, oh
tesoro, ti prego, non farlo.»
Gandalf giaceva in mezzo alla strada in quella pozza di sangue sempre
più larga e ululava. E a quel punto ho ricordato anche il rumore della gru.
Non quel miip-miip-miip che avrebbe dovuto fare (il segnale acustico di allarme era guasto), ma le rombanti percussioni del motore diesel e il fragore
dei cingoli che mordono la terra.
«Portala dentro, Ava», ho detto. «Portala a casa.»
La signora Goldstein ha cinto le spalle della figlia esortandola a rialzarsi.
«Vieni, tesoro, vieni dentro.»
«Non senza Gandalf.» strillò Monica. Aveva undici anni e per la sua età
era matura, ma in quei momenti era regredita a tre. «Non senza il mio cagnolino!» La fascia, che ora era intrisa di sangue per una spanna, le è strisciata sulla gonna scaricandole una pennellata di sangue sul polpaccio.
«Monica, vai a casa e chiama il veterinario», l'ho sollecitata. «Digli che
Gandalf è stato investito da una macchina, digli che deve venire subito.
Resto io con lui.»
Monica mi ha guardato con occhi che erano peggio che scioccati, erano
occhi di follia. Un'espressione che conoscevo bene. L'avevo vista spesso
nello specchio di casa mia. «Prometti? Giuri giuri? Sulla testa di mamma?»
«Giuro giuro. Sulla testa di mamma. Vai ora.»
E lei è andata lanciando un'ultima occhiata all'indietro e mandando un
ultimo gemito disperato mentre saliva i gradini dell'ingresso. Io mi sono
inginocchiato su Gandalf appoggiandomi al parafango dell'Hummer e calandomi come sempre facevo, con dolore e parecchio inclinato a sinistra,
cercando di flettere il ginocchio destro il minimo indispensabile. Ciononostante mi sono lasciato scappare il mio personale gridolino di dolore chiedendomi se sarei stato in grado di rialzarmi senza aiuto. Difficile che mi
venisse offerto dalla Fevereau; l'ho vista spostarsi sul bordo sinistro camminando sulle gambe rigide e divaricate, piegarsi in due come inchinandosi davanti a sua altezza reale e vomitare sul ciglio della strada. Mentre si
svuotava lo stomaco teneva lontano dal corpo la mano in cui reggeva la si-
garetta.
Io mi sono occupato di Gandalf. Era stato colpito alle vertebre posteriori. Aveva la spina dorsale spezzata. Tra le zampe fratturate gli colava una
poltiglia di sangue e feci. Ha girato gli occhi su di me e in essi ho visto
un'orribile espressione di speranza. Poi mi ha leccato l'interno del polso sinistro. La sua lingua era asciutta come un tappeto e fredda. Gandalf stava
morendo, ma forse non abbastanza in fretta. Presto sarebbe tornata Monica
e io non volevo che fosse ancora vivo e leccasse il polso anche a lei.
Ho capito che cosa dovevo fare. Non mi guardava nessuno. Monica e
sua madre erano in casa. La Fevereau mi volgeva ancora la schiena. Se
qualcuno su quel breve tratto di strada si fosse affacciato alla finestra o
fosse uscito sul prato di casa, c'era l'Hummer a nascondermi là dov'ero seduto accanto al cane con la gamba destra infortunata distesa sull'asfalto.
Ho avuto a disposizione pochi istanti, ma proprio pochi, e se avessi sprecato tempo a riflettere, avrei buttato la mia occasione.
Così ho sollevato con il braccio sano la parte superiore di Gandalf e senza soluzione di continuità sono al cantiere di Sutton Avenue, dove la Freemantle Company si accinge a erigere un palazzo di quaranta piani che sarà sede di una banca. Sono sul mio pick-up. Alla radio c'è Reba McEntire
che canta Fancy. Mi rendo improvvisamente conto che il rumore della gru
è troppo forte anche se non ho sentito l'allarme acustico e quando guardo a
destra, in quel finestrino il mondo è sparito. Da quella parte il mondo è stato sostituito dal giallo. Con dentro lettere nere: LINK-BELT. Si stanno dilatando. Ruoto il volante del pick-up tutto a sinistra, fino al blocco, sapendo che è già troppo tardi. Comincia il cigolio dei metalli che si accartocciano sovrastando la canzone alla radio e stritolando la cabina da destra a
sinistra, perché la gru sta invadendo il mio spazio, sta rubando il mio spazio, e il pick-up si sta rovesciando. Tento la maniglia del mio sportello ma
non serve. Avrei dovuto pensarci subito, ma si è fatto tardi così velocemente. Il mondo davanti a me scompare dietro il parabrezza che diventa
una lastra lattiginosa attraversata da un milione di crepe. Poi ricompare il
cantiere e ancora sta ruotando davanti a me mentre il parabrezza salta via.
Salta via? Vola, via, piegato come una carta da gioco, e io pianto entrambi
i gomiti sul clacson e il mio braccio destro compie la sua ultima operazione. Non sento il clacson perché il rumore della gru lo soffoca. LINKBELT si muove ancora, spinge la portiera destra, chiude il vano del sedile
di fianco a me e riduce il cruscotto in falde sovrapposte di plastica. Il contenuto del portaoggetti schizza in giro nell'abitacolo, la radio muore, il mio
portavivande tintinna contro il blocco a molla, ed ecco che arriva LINKBELT, LINK-BELT è sopra di me, potrei leccare con la punta della lingua
il trattino di congiunzione. Comincio a gridare perché è in questo momento
che comincia la pressione. La pressione è il mio braccio destro schiacciato
contro il fianco, che prima si dilata e poi si squarcia. Il sangue mi inonda il
grembo come una secchiata di acqua calda. Sento qualcosa che si rompe.
Le costole probabilmente. Lo stesso rumore di ossicini sotto un tacco di
scarpa.
Ho tenuto Gandalf contro di me e ho pensato: Prendi l'amica, porta l'amica, porta qui quella serva del cazzo, pazza di stronza!
Ora ci sto io sull'amica, su quella cazzo di serva, è a casa ma non sembra
casa mia con tutte le sveglie del mondo che mi trillano nella testa spaccata
e non ricordo il nome della bambola che mi ha regalato Kamen, mi vengono in mente solo nomi maschili, Randall, Russell, Rudolph, finanche River
'fanculo Phoenix. Quando entra con la frutta e quella formaggella del cazzo, le dico di lasciarmi solo, le dico che ho bisogno di cinque minuti. Lo
posso fare, dico, perché è la formula che mi ha dato Kamen, è il mio chiamarmi fuori, è il mio miip-miip-miip che dice di stare attenta, Pamela, Edgar sta facendo marcia indietro. Ma lei, invece di andarsene, prende il tovagliolo dal vassoio per asciugarmi il sudore dalla fronte e quando lo fa io
l'afferro per il collo perché in quel momento mi sembra che sia colpa sua
se non ricordo il nome della mia bambola, tutto è colpa sua, anche LINKBELT. La uncino con la sinistra. Per qualche istante ho voglia di ucciderla
e, chi lo sa, forse quasi ci riesco. Quello che so io è che preferirei ricordare
tutti gli incidenti del mondo invece dell'espressione dei suoi occhi mentre
si dibatte nella mia stretta. Poi penso: Era ROSSO! E lascio andare.
Ho tenuto Gandalf contro il petto come una volta tenevo le mie figlie infanti e ho pensato: Lo posso fare. Lo posso fare. Lo posso fare. Ho sentito
il sangue di Gandalf passarmi attraverso il tessuto dei calzoni come acqua
calda e ho pensato: Avanti, povera bestia, tiratene fuori.
Ho tenuto Gandalf e ho pensato all'effetto che fa essere schiacciati vivi
nella cabina del tuo pick-up dove l'aria intorno a te si esaurisce e il fiato lascia il tuo corpo e il sangue ti sprizza da naso e bocca e tutti quegli schiocchi mentre la coscienza ti abbandona, quelle erano le ossa che si spezzavano dentro il tuo corpo: costole, braccio, anca, gamba, guancia, il tuo cranio
dannato.
Ho sorretto nel braccio sinistro il cane di Monica e, con un senso di scorato trionfo, ho pensato: Era ROSSO!
Per qualche istante mi sono trovato in un'oscurità invasa da quel rosso;
poi ho aperto gli occhi. Mi stringevo Gandalf al petto con il braccio sinistro e i suoi occhi erano fissi su di me...
No, oltre me. E oltre il cielo.
«Signor Freemantle?» Era John Hastings, il vecchietto che abitava poco
più su dei Goldstein. Con il suo britannico berretto di tweed e il suo gilet,
sembrava pronto per una passeggiata sui moor scozzesi. Salvo che per l'espressione di sgomento che aveva negli occhi. «Edgar? Può lasciarlo andare ora. Il cane è morto.»
«Sì», gli ho risposto allentando la stretta. «Mi aiuta a rialzarmi?»
«Non so se ci riesco», ha detto lui. «Più facile che finisca per terra
anch'io.»
«Allora vada dai Goldstein a vedere come stanno.»
«È il suo cane», ha replicato lui. «Speravo che...» Scosse la testa.
«È il suo. E non voglio che esca e lo veda così.»
«Certo che no, ma...»
«L'aiuto io», si è fatta viva la Fevereau. Sembrava che stesse un po' meglio e aveva buttato la sigaretta. Ha allungato la mano verso la mia ascella
destra, poi ha esitato. «Le farà male?»
Sì, ma meno che rimanendo nella posizione in cui ero. Così le ho risposto di no. Mentre John si avviava alla casa dei Goldstein, io mi sono aggrappato al paraurti dell'Hummer. Insieme siamo riusciti a rimettermi in
piedi.
«Immagino che non abbia niente con cui coprire quel cane, vero?» ho
chiesto.
«Per la verità ho un ritaglio di tappeto nel bagagliaio.»
«Bene. Ottimo.»
Ha fatto qualche passo - sarebbe stato un bel viaggetto, date le dimensioni dell'Hummer - poi si è girata. «Grazie a Dio è morto prima che sia
tornata quella bambina.»
«Già», ho risposto. «Grazie a Dio.»
9
Non mi restava molta strada per arrivare al mio cottage in fondo alla via,
ma è stata comunque un'impresa faticosa e lenta. Giunto a destinazione mi
si era sviluppato nella mano quel dolore particolare che avevo battezzato
Pugno da Gruccia e il sangue di Gandalf mi si era rappreso sulla camicia.
Tra battente e stipite della porta d'ingresso era infilata una cartolina. L'ho
estratta. Sotto il volto sorridente di una bambina nel saluto delle Girl Scout
c'era questo messaggio:
UNA TUA AMICA E VICINA DI CASA È VENUTA A TROVARTI
CON LA NOTIZIA DI SQUISITI BISCOTTI DELLE GIRL SCOUT!
ANCHE SE NON TI HA TROVATO OGGI,
Monica
TORNERÀ A CERCARTI!
A PRESTO!
Per il puntino sulla i del suo nome, Monica aveva usato uno smiley.
Mentre avanzavo zoppicando verso il bagno per andare a fare una doccia,
ho accartocciato la cartolina e l'ho gettata nel cestino. Camicia, jeans e
biancheria intima sporca di sangue li ho buttati nella pattumiera. Non avevo intenzione di rivederli mai più.
10
Davanti a casa c'era la mia Lexus di due anni, ma non mi ero seduto al
volante di un veicolo dal giorno del mio incidente. C'era un ragazzo del
centro sportivo della mia zona che faceva commissioni per me tre volte alla settimana. C'era anche Kathi Green, disposta a fare tappa al supermercato più vicino se glielo chiedevo, o ad accompagnarmi al Blockbuster prima
di una delle nostre piccole sessioni di tortura (dopo ero sempre troppo distrutto). Se qualcuno mi avesse detto che quell'autunno avrei guidato di
nuovo, mi sarei messo a ridere. Non era la gamba azzoppata, era l'idea
stessa di guidare a farmi venire i sudori freddi.
Eppure, poco dopo la doccia è quel che mi sono ritrovato a fare: sedermi
al volante, girare la chiave nell'accensione e guardare dietro la spalla destra
mentre uscivo a marcia indietro dal vialetto. Avevo preso quattro piccole
pillole di OxyContin invece delle solite due e confidavo che mi avrebbero
assistito nell'andata e ritorno allo Stop and Shop vicino all'incrocio di East
Hoyt e Eastshore Drive senza che mi prendesse il panico o che ammazzassi qualcuno.
Non mi sono attardato in negozio. Non ci ero andato per fare provviste
nel senso comune del termine, era solo una toccata e fuga, la mia, una fermata al reparto carni seguita da un passaggio zoppicante alla cassa veloce,
niente buoni sconto, niente da dichiarare. Sono comunque arrivato in Aster
Lane che ero ufficialmente fatto. Se fossi stato fermato da un poliziotto,
non avrei mai passato il test antidroga.
Non mi ha fermato nessuno. Sono passato davanti alla casa dei Goldstein, dove c'erano quattro automobili nel vialetto e almeno un'altra mezza dozzina parcheggiate lungo il marciapiede, e le finestre erano tutte illuminate. La mamma di Monica aveva suonato il tamtam di famiglia e a
quanto pareva un buon numero di parenti aveva risposto all'appello. Buon
per loro e buon per Monica.
Meno di un minuto dopo entravo nel vialetto di casa mia. Nonostante la
medicazione, avvertivo un dolore pulsante alla gamba destra, per il continuo spostamento tra pedale dell'acceleratore e del freno. In più avevo mal
di testa, un vecchio banale mal di testa da tensione. Il mio problema principale però era la fame. Era stata la fame a spingermi a uscire. Solo che
fame è un vocabolo troppo blando per descrivere la mia sensazione. Ero
famelico e l'avanzo di lasagne in frigorifero non mi avrebbe mai saziato.
C'era dentro della carne, ma non bastava.
Mi sono precipitato in casa spingendomi sulla mia stampella, rintronato
dall'OxyContin, da uno dei cassetti bassi ho preso una padella e l'ho schiaffata su uno dei fornelli. Ho girato la manopola al massimo, senza nemmeno sentire lo sbuffo del gas che prendeva fuoco. Ero troppo occupato a
strappare l'involto di plastica di una confezione di carne trita di prima scelta. L'ho buttata nella padella e l'ho schiacciata con il palmo della mano
prima di scegliere una spatola dal cassetto sotto i fornelli.
Quand'ero tornato a casa e mi ero sbarazzato dei vestiti per infilarmi sotto il getto della doccia avevo potuto scambiare per nausea le palpitazioni
che sentivo nello stomaco, lì per lì mi era sembrata una spiegazione ragionevole. Ma già quando mi stavo sciacquando le palpitazioni si erano stabilizzate in un brontolio sommesso e costante come quello di un motore potente lasciato al minimo. I farmaci avevano sedato la sensazione per un po',
ma ora rispuntava, più forte che mai. Se mai ero stato così affamato in vita
mia, certo non lo ricordavo.
Ho girato quella grottesca pizza fatta di carne e ho cercato di contare fino a trenta. Pensavo che con il fuoco al massimo trenta secondi mi avrebbero almeno avvicinato a quello che intende la gente quando dice «cuocere». Se mi fosse venuto in mente di accendere la cappa perché si portasse
via l'aroma, forse ce l'avrei fatta. Fatto sta che non sono arrivato nemmeno
a venti. A diciassette ho preso un piatto di carta, vi ho trasferito sopra
l'hamburger e ho sbranato la carne semicruda appoggiato a un mobiletto.
Verso la metà mi è sembrato di vedere del succo rosso spuntare dalla carne
rossa e per un momento mi è apparsa la nitida immagine di Gandalf che mi
guardava mentre dai resti maciullati della parte inferiore del suo corpo colavano sangue e feci a inzuppargli il pelo delle zampe posteriori spezzate.
Il mio stomaco non ha avuto alcuna esitazione, ha solo preteso con impazienza altro cibo. Avevo fame.
Fame.
11
Quella notte ho sognato di essere nella camera da letto che per tanti anni
avevo condiviso con Pam. Lei dormiva accanto a me e non poteva sentire
la voce roca che giungeva dal buio del piano inferiore: «Chi ha un anello
al dito e un piede nella fossa, chi ha un anello al dito e un piede nella fossa». Sembrava un disco rotto. Ho scrollato mia moglie ma lei si è semplicemente girata dall'altra parte. Dandomi la schiena. I sogni dicono sempre
la verità, vero?
Mi sono alzato e sono sceso da basso, reggendomi al corrimano per bilanciare la gamba infortunata. E c'era qualcosa di strano nel modo in cui
stringevo quel lungo e lucido profilo che pur conoscevo così bene. Mentre
arrivavo in fondo alle scale, ho capito che cos'era. Giusto o no, il nostro è
un mondo fatto per i destrimani: le chitarre e le maniglie e i cruscotti. Il
corrimano della casa dove vivevo con la mia famiglia non faceva eccezione; era sulla destra perché, sebbene la mia ditta avesse costruito la casa su
un progetto mio, mia moglie ed entrambe le mie figlie erano destrorse e la
maggioranza vince.
Eppure la mia mano stava scorrendo sul legno.
Naturale, ho pensato. Perché è un sogno. Come oggi pomeriggio. Giusto?
Gandalf non era un sogno, ho risposto a me stesso mentre la voce dello
sconosciuto in casa mia, ora più vicina che mai, ripeteva incessantemente:
«Chi ha un anello al dito e un piede nella fossa». Chiunque fosse, era in
soggiorno. Io non volevo andarci.
No, Gandalf non era un sogno, ho pensato. Forse era la mia mano destra
fantasma a fare questi pensieri. Il sogno era quello di ucciderlo.
Allora era morto per conto suo? Era questo che stava cercando di dirmi
la voce? Perché io non pensavo che Gandalf fosse morto per conto suo.
Pensavo che avesse avuto bisogno di aiuto.
Sono entrato nel mio vecchio soggiorno. Non ero cosciente di muovere i
piedi; ci sono entrato nel modo in cui ci si muove in sogno, come se in realtà fosse il mondo a muoversi intorno a te, scorrendo all'indietro come in
un bizzarro trucco di proiezione. E là, sulla vecchia sedia a dondolo di
Pam, c'era Reba, la bambola anticollera, ora cresciuta alle dimensioni di
una vera bambina. I piedi, infilati in un paio di scarpette nere con la fibbia,
dondolavano appena sopra il pavimento all'estremità di orribili e flosce
gambe rosa. Mi ha guardato con i suoi occhi piatti. Le saltellavano avanti e
indietro gli inanimati riccioli rossicci. Aveva la bocca sporca di sangue e
nel sogno sapevo che non era sangue umano o sangue di cane bensì il liquido che era colato dal mio hamburger semicrudo, la sostanza che avevo
leccato dal piatto di carta dopo che avevo finito la carne.
La rana cattiva ci è corsa dietro! ha strillato Reba. Aveva IENTI!
12
Quella parola, IENTI!, mi riverberava ancora nella testa quando mi sono
alzato a sedere con in grembo una fredda pozza di luce della luna d'ottobre.
Stavo cercando di gridare ed emettevo solo una serie di afoni singulti. Avevo il cuore in tumulto. Ho cercato con la mano la lampada e per fortuna
ho evitato di farla cadere, anche se, una volta accesa, ho visto che ne avevo
spinto la base per una buona metà oltre il bordo del comodino. La radiosveglia sosteneva che erano le 03.19.
Ho posato i piedi a terra e ho cercato il telefono. Se hai veramente bisogno di me, chiamami, aveva detto Kamen. In qualsiasi momento, giorno o
notte. E se avessi avuto il suo numero nella memoria del telefono in camera da letto, probabilmente l'avrei fatto. Ma quando la realtà tornò nelle sue
giuste dimensioni - ero al cottage sul lago Phalen, non nella casa di Mendota Heights, e non c'era nessuna voce roca al piano di sotto - l'ansia mi
passò.
Reba, la bambola anticollera, sulla sedia a dondolo, ora grande come una
bambina in carne e ossa. Perché no? Ero stato in collera, anche se con la
signora Fevereau piuttosto che con il povero Gandalf, e non avevo idea da
dove fossero sbucate fuori le rane con i denti. L'interrogativo sostanziale,
mi sembrava, riguardava il cane di Monica. Ero stato io a uccidere Gandalf
o la bestiola era semplicemente spirata?
O forse l'interrogativo era come mai dopo mi era venuta quella fame
tremenda. Forse questa era la domanda.
Fame di carne.
«L'ho preso tra le braccia», ho mormorato.
Nel braccio, vorrai dire, perché ora te ne è rimasto uno solo. Quello
buono, il sinistro.
Ma la mia memoria mi vedeva prenderlo tra le braccia, al plurale. Allontanando la mia collera
(era ROSSO)
via da quella stupida donna con la sua sigaretta e il suo cellulare per dirigerla invece dentro me stesso, incanalarla in una sorta di circuito chiuso...
prendendolo tra le braccia... sì, era sicuramente un'allucinazione, eppure
così voleva la mia memoria.
Prendendolo tra le braccia.
Reggendogli il collo nell'incavo del gomito sinistro per strangolarlo con
la mano destra.
Strangolarlo per liberarlo dalle sue pene.
Dormivo a torso nudo, così era facile vedere il moncherino. Mi bastava
girare la testa. Potevo agitarlo, ma non molto di più. L'ho fatto un paio di
volte, poi ho guardato il soffitto. Il mio battito cardiaco stava rallentando
un po'.
«Il cane è morto in seguito alle ferite», ho detto. «E per lo choc. Un'autopsia lo confermerebbe.»
Solo che nessuno faceva autopsie a cani morti dopo essere stati ridotti a
marmellata da Hummer guidati da donne sbadate e distratte.
Ho guardato il soffitto e ho desiderato che quella vita finisse. Quella vita
infelice che era cominciata con tanto ottimismo. Pensavo che per quella
notte non avrei dormito più, invece dopo qualche tempo mi sono assopito
di nuovo. Finiamo sempre per consumare i nostri crucci.
È così che dice Wireman.
Come fare un disegno (II)
Ricordate che la verità è nei particolari, comunque vediate il mondo o
quale che sia lo stile che esso impone sul vostro lavoro artistico, la verità
è nei particolari. Naturalmente lì c'è anche il diavolo, lo dicono tutti, ma
forse verità e diavolo sono definizioni della stessa cosa. Può essere, sapete.
Immaginate di nuovo quella bambina, quella caduta dal carretto. Ha
battuto il lato destro della testa, ma è stato il lato sinistro del suo cervello
a subire il danno più grave. Per il contraccolpo, ricordate? Il lato sinistro
è dove è situata l'area di Broca, cosa che negli anni Venti non sapeva nessuno. L'area di Broca presiede al linguaggio. Colpitela abbastanza forte e
perderete la parola, alle volte per qualche tempo, alle volte per sempre.
Ma, nonostante la stretta correlazione tra le due attività, parlare non è vedere.
La bambina vede ancora.
Vede le sue cinque sorelle. Come sono vestite. Come il vento ha strapazzato loro i capelli quando rientrano in casa. Vede i baffi di suo padre, ora
trapuntati di grigio. Vede Tata Melda, non solo la governante, ma quanto
di più simile a una madre abbia conosciuto. Vede il foulard che Tata si lega intorno alla testa quando fa le pulizie; vede il nodo che c'è davanti,
all'apice della sua fronte spaziosa e dalla pelle scura; vede i braccialetti
d'argento di Tata Melda e come lanciano lampi in tutte le direzioni nella
luce che entra dalle finestre.
Particolari, particolari, la verità è nei particolari.
E vedere promuove il desiderio di parlare, anche in una mente danneggiata? Un cervello ferito? Oh, per forza, per forza.
Pensa: Mi fa male la testa.
Pensa: È successo qualcosa di brutto e non so chi sono. O dove sono. O
cosa sono tutte queste immagini luminose che mi circondano.
Pensa: Libbit? Mi chiamo Libbit? Una volta lo sapevo. Nell'una-voltalo-sapevo parlavo, ma ora le mie parole sono come pesci nell'acqua. Voglio l'uomo con i peli sul labbro.
Pensa: Quello è il mio papà, ma quando cerco di pronunciare il suo
nome grido invece «Rotto! Rotto!» perché ne è passato uno davanti alla
mia finestra. Vedo ogni singola piuma. Vedo il suo occhio come vetro. Vedo la sua zampa, come si piega come rotta, e la parola è storta. Mi fa male
la testa.
Le ragazze tornano a casa. Entrano Maria e Hannah. Non le sono simpatiche quanto le gemelle. Le gemelle sono piccole come lei.
Pensa: Nell'una-volta-lo-sapevo chiamavo Maria e Hannah le Grandi
Cattive. E si rende conto di sapere di nuovo. È un altro ricordo riaffiorato.
Il nome di un altro particolare. Dimenticherà di nuovo, ma la prossima
volta che ricorderà, lo farà per un tempo più lungo. Ne è quasi certa.
Pensa: Quando cerco di dire Hannah dico «Rotto! Rotto!» Quando cerco di dire Maria dico «Pii! Pii!» E loro ridono, quelle cattive. Io piango.
Voglio il mio papà e non mi ricordo come dirlo; ho perso di nuovo la parola. Parole come passerotti, che volano e volano e volano via. Le mie sorelle parlano. Parlano, parlano, parlano. Io ho la gola secca. Cerco di dire sete. Dico «Ete! Ete!» Ma loro ridono e basta, quelle cattive. Io sono
sotto le bende, nell'odore di iodio, l'odore di sudore, le ascolto ridere.
Grido contro di loro, grido forte, e loro scappano. Arriva Tata Melda, con
la testa tutta rossa perché ha i capelli avvolti nel foulard. I suoi cerchi
mandano lampi lampi lampi nel sole e voi chiamate quei cerchi braccialetti. Dico «Ete, ete!» e Tata Melda non capisce. Allora io dico «Acca! Acca!» e Tata mi mette a sedere sul vasino. Anche se non ne ho bisogno. Sono sul vasino e vedo e punto il dito. «Acca! Acca!» Entra papà. «Cos'è tutto questo chiasso?» con tutte quelle bolle bianche sulla faccia eccetto che
per una striscia. Lì è dove mette il coso con cui fa andar via i peli. Vede
dove sto indicando. Lui capisce. «Vuole l'acqua», riempie il bicchiere. La
stanza è piena di solare. C'è della polvere che galleggia nel solare e la sua
mano passa attraverso il solare con il bicchiere e voi questo lo chiamate
bello. Io bevo fino all'ultimo sorso. Poi piango ancora un po', ma perché
sto meglio. Lui mi bacia mi bacia mi bacia, mi stringe mi stringe mi stringe, e io cerco di dirgli «Papà!» e ancora non ci riesco. Poi ci giro intorno
per arrivare al suo nome e ci trovo John, così penso a quello nella mente e
mentre penso John la mia bocca fa «Papà!» e lui mi stringe mi stringe di
più.
Pensa: Papà è la mia prima parola su questo lato della cosa brutta.
La verità è nei particolari.
2
Big Pink
1
La rilocalizzazione suggeritami da Kamen funzionò, ma quanto a mettere riparo a quel che non andava bene nella mia testa, credo che la Florida
sia stata una mera coincidenza. È vero che ci abitavo, ma non ci ho mai
vissuto veramente. No, la rilocalizzazione di Kamen funzionò per via di
Duma Key e di Big Pink. Per me quei luoghi hanno finito per costituire un
mondo a sé.
Partii da St. Paul il 10 novembre avendo nel cuore una speranza ma nessuna vera aspettativa. Kathi Green, la regina della riabilitazione, venne a
salutarmi. Mi diede un bacio sulla bocca, mi abbracciò stringendomi forte
e mi bisbigliò: «Che tutti i tuoi sogni si avverino, Eddie».
«Grazie, Kathi», le risposi. Ero commosso anche se il sogno su cui mi
ero fissato era quello di Reba, la bambola anticollera, cresciuta alle dimensioni di una bambina in carne e ossa e seduta nel soggiorno illuminato dalla luna della casa in cui ero vissuto con Pam. Che quel sogno si avverasse
potevo risparmiarmelo.
«E mandami una cartolina da Disney World. Muoio dalla voglia di vederti con le orecchione da topo.»
«Lo farò», promisi, ma a Disney World non ci andai mai. Nemmeno a
Sea World, ai Busch Gardens o a Daytona.
Quando decollai da St. Paul su un Lear 55 (la pensione di lusso ha i suoi
privilegi) c'erano quattro gradi sotto zero e cominciavano a volteggiare i
primi fiocchi di neve dell'ennesimo inverno settentrionale. Atterrai a Sarasota in una giornata di sole con una temperatura di trenta gradi. Già attraversando la pista diretto al terminal dei voli privati, sempre arrancando sulla mia fedele gruccia rossa, mi sembrava di sentire l'anca ringraziarmi.
Quando ripenso a quei tempi, è sempre con uno sconcertante turbinio di
emozioni: affetto, nostalgia, terrore, orrore, rimpianto, e quella dolcezza
profonda che possono conoscere solo coloro che sono stati a tu per tu con
la morte. Credo che debbano essersi sentiti così anche Adamo ed Eva. Si
saranno girati a guardare l'Eden, non vi pare, avviandosi a piedi scalzi per
il sentiero che porta a dove siamo noi ora, nel nostro tetro mondo politico
di pallottole e bombe e TV satellitare. Avranno guardato alle spalle
dell'angelo a guardia del cancello chiuso armato della sua spada fiammeggiante? Certamente. Io credo che non abbiano potuto non desiderare un'ultima occhiata al mondo verde che avevano perduto, con le sue acque dolci
e i suoi animali di buon cuore. E il suo serpente, naturalmente.
2
Le key della Florida sono isolette che formano un braccialetto di ciondoli al largo della costa occidentale. Se calzaste gli stivali delle sette leghe,
potreste fare un passo da Longboat a Lido, uno da Lido a Siesta, uno da
Siesta a Casey. Il passo successivo vi porta a Duma Key, lunga quindici
chilometri e larga uno nel punto di maggior ampiezza, tra Casey Key e
Don Pedro Island. Per la maggior parte è disabitata, un groviglio di banyan, palme e pini australiani, con una spiaggia irregolare e disseminata di
dune sul lato verso il Golfo. La spiaggia è cinta da una striscia di uniola alta fino alla vita. «L'uniola è erba locale», mi disse Wireman, «ma tutto il
resto di quella merda non è naturale che cresca senza irrigazione.» Per la
maggior parte del tempo che vi passai, a Duma Key non ci fummo che io,
Wireman e la Sposa del Padrino.
La mia agente immobiliare di riferimento a St. Paul era Sandy Smith. Le
avevo chiesto di trovarmi un posto che fosse tranquillo - non sono sicuro
di aver usato il termine isolato, ma può essere - ma comunque sufficientemente servito. Ricordando il consiglio di Kamen, spiegai a Sandy che desideravo affittarlo per un anno e che non ne facevo una questione di prezzo, posto che non avessero cercato di scorticarmi vivo. Anche se depresso
e colpito da sofferenze fisiche più o meno costanti, non ero disposto a
permettere che ci si approfittasse di me. Sandy inserì i dati nel suo computer e saltò fuori Big Pink. Come pescare un jolly.
Solo che io non ne sono poi tanto convinto. Perché già nei miei primi disegni mi sembra che, non so, ci fosse qualcosa.
Qualcosa.
3
Il giorno che arrivai a destinazione sulla mia auto a noleggio (guidata da
Jack Cantori, il giovane che Sandy Smith aveva assunto tramite un'agenzia
di Sarasota), non sapevo niente della storia di Duma Key. Sapevo solo che
la si raggiungeva da Casey Key tramite un ponte levatoio anteguerra. Superato il ponte, notai che l'estremità settentrionale dell'isola era priva della
vegetazione che ne riempiva disordinatamente il resto. C'erano invece autentici scorci paesaggistici (in Florida questo significa palme sotto le quali
l'erba cresce grazie a un'irrigazione quasi costante). Vidi una manciata di
case lungo la striscia stretta e rappezzata di una strada in direzione sud,
una delle quali era un'hacienda di grandi dimensioni e indiscutibilmente
elegante.
E poco distante, a circa un centinaio di metri dal ponte levatoio, c'era
una casa rosa affacciata sul Golfo.
«È quella?» chiesi, pensando: Ti prego, fai che lo sia. È quella che voglio. «Vero che è quella?»
«Non lo so, signor Freemantle», mi rispose Jack. «Conosco Sarasota, ma
è la prima volta che vedo Duma. Non ho mai avuto motivo di venirci.» Si
fermò davanti a una cassetta per la corrispondenza su cui campeggiava un
grande 13 rosso. Lanciò un'occhiata alla cartelletta posata sul sedile tra noi
due. «Sì, è proprio questa. Salmon Point, numero tredici. Spero che non sia
superstizioso.»
Scossi la testa senza staccare gli occhi dalla casa. Non ero di quelli che
si preoccupano degli specchi rotti e dei gatti neri, ma ero un credente convinto in... be', forse non proprio nell'amore a prima vista, suonerebbe un
po' troppo Rhett e Rossella alle mie orecchie, ma vogliamo dire nell'attrazione istantanea? Sì. È quello che avevo provato con Pam la prima volta
che l'avevo vista, a un appuntamento a quattro (lei era con un altro). Ed è
quello che provai appena vidi Big Pink.
Sorgeva su palafitte con il mento proteso appena oltre la linea dell'alta
marea. Accanto al vialetto c'era un cartello di VIETATO L'ACCESSO inchiodato sghembo a un vecchio paletto grigio, ma non pensai che riguardasse me. «Appena avrai firmato il contratto, sarà tua per un anno», mi aveva detto Sandy. «Anche se la vendono, il proprietario non potrà buttarti
fuori prima di quel termine.»
Jack risalì lentamente il vialetto fino alla porta di servizio... solo che con
la faccia girata verso il Golfo del Messico, quello era anche l'unico accesso
alla casa. «Mi meraviglia che abbiano ottenuto l'autorizzazione a costruire
così fuori», commentò. «Ma si vede che a quei tempi le cose funzionavano
diversamente.» Per lui quei tempi erano probabilmente gli anni Ottanta.
«Quella è la sua macchina. Spero che vada bene.»
Il veicolo parcheggiato sulla pavimentazione dissestata a destra della casa era quella sorta di anonima autovettura americana di medie dimensioni
che viene normalmente elargita dagli autonoleggi. Io, che non avevo più
guidato dal giorno in cui la Fevereau aveva investito Gandalf, mi limitai a
un'occhiata. M'interessava molto di più l'elefante rosa che avevo preso in
affitto. «Non ci sono norme che impediscono di costruire troppo vicino
all'acqua?»
«Ora sì, ma non quando hanno costruito questa casa. Sul piano pratico, è
un problema di erosione. Dubito che fosse così fuori quando fu costruita.»
Aveva senza dubbio ragione. Calcolai che le palafitte che sostenevano la
veranda chiusa, la cosiddetta Florida room, emergevano dalla spiaggia per
almeno un paio di metri. Se quei pali non erano stati conficcati per una
ventina di metri nello strato roccioso sottostante, prima o poi la casa sarebbe finita nel Golfo del Messico. Era solo questione di tempo.
Mentre così riflettevo, Jack Cantori lo stava dicendo. Poi sorrise. «Lei
non si preoccupi, però. Avrà tutto il preavviso necessario. La sentirà geme-
re.»
«Come Casa Usher», dissi.
Il suo sorriso si fece più divertito. «Ma probabilmente reggerà per altri
cinque anni almeno. Altrimenti sarebbe stata dichiarata inagibile.»
«Non ne sarei tanto sicuro», obiettai. Jack aveva manovrato per girare il
bagagliaio dalla parte della porta, perché fosse più facile scaricare. Non
avevo molto: tre valigie, un borsone, una valigetta metallica con il laptop e
una sacca con alcuni primitivi articoli da disegno, soprattutto album e matite colorate. Avevo lasciato la mia altra vita con un bagaglio leggero. Ritenevo che in quella nuova avrei avuto bisogno soprattutto del libretto degli assegni e della mia American Express.
«Cioè?» chiese lui.
«Uno che ha potuto permettersi di costruire qui saprà probabilmente
come tenere a bada un paio di funzionari dell'ULC.»
«ULC? Cosa sarebbe?»
Sulle prime non riuscii a dirglielo. Vedevo che cos'era: uomini in camicia bianca e cravatta, con elmetti gialli di plastica in testa e una cartelletta
tra le mani. Vedevo persino le penne spuntare dal loro taschino e i pocket
protector di plastica a cui erano agganciate. Il diavolo si annida nei particolari, giusto? Ma non mi veniva in mente per che cosa stava ULC, anche se
lo sapevo benissimo. E all'improvviso mi infuriai. All'improvviso mi sembrò che chiudere il pugno destro e affondarlo nell'indifeso pomo d'Adamo
del giovane seduto accanto a me fosse la cosa più ragionevole di questo
mondo. Quasi un imperativo. Perché era stata la sua domanda a incastrarmi.
«Signor Freemantle?»
«Un secondo», dissi e pensai: Lo posso fare.
Pensai a Don Field, il funzionario che negli anni Novanta aveva ispezionato almeno una metà degli edifici da me costruiti, e la mia mente partì nei
suoi riscontri incrociati. Mi resi conto d'essermi irrigidito, con la mano serrata in grembo. Capii perché il tono del ragazzo era così preoccupato. Avevo la faccia di un uomo con un attacco di gastrite. O di cuore.
«Scusi», dissi. «Ho avuto un incidente. Ho battuto la testa. Ogni tanto il
cervello mi fa cilecca.»
«Nessun problema», rispose Jack. «Niente di grave.»
«ULC sta per Ufficio licenze di costruzione. È quello che si occupa delle
ispezioni agli edifici per stabilire se cadranno o no.»
«Sta parlando di mazzette?» Il mio nuovo giovane dipendente si era in-
cupito. «Be', sono sicuro che siano cose che succedono, specialmente da
queste parti. Il denaro è un buon lubrificante.»
«Non sia così cinico. Alle volte è solo questione di amicizia. Costruttori,
appaltatori, ispettori, persino quelli della locale agenzia per la sicurezza e
la salute sul lavoro... è tutta gente che di solito va a bere negli stessi bar e
sono stati tutti a scuola insieme.» Risi. «Riformatori, in certi casi.»
«Quando il processo di erosione ha accelerato», ribatté Jack, «all'estremità nord di Casey Key hanno chiuso un paio di case sulla spiaggia. Una è
poi veramente crollata nell'acqua.»
«Be', come ha detto lei, probabilmente la sentirò gemere e al momento
mi sembra abbastanza solida. Portiamo dentro la roba.»
Aprii lo sportello, scesi, poi barcollai per un improvviso blocco all'articolazione dell'anca. Se non avessi piantato in tempo la mia stampella, avrei
salutato Big Pink prostrandomi lungo e disteso davanti al gradino di pietra
del suo ingresso.
«La porto dentro io, la roba», disse Jack. «Lei è meglio che vada a sedersi, signor Freemantle. E qualcosa di fresco da bere non le farebbe male.
Ha l'aria molto stanca.»
4
Mi era piombata addosso la fatica del viaggio ed ero peggio che stanco.
Sedendomi in una delle poltrone in soggiorno (pendendo come sempre a
sinistra e cercando di tenere più distesa che potevo la gamba destra), ero
disposto ad ammettere che mi sentivo sfinito.
Ma niente nostalgia di casa, almeno al momento. Mentre Jack andava
avanti e indietro per trasferire i miei bagagli nella più grande delle due camere da letto e sistemare il laptop sulla scrivania di quella più piccola, il
mio sguardo era costantemente attirato dalla parete ovest del soggiorno,
che era un'unica, ampia vetrata, e dalla Florida room oltre di essa, e dal
Golfo del Messico che vi si apriva davanti. In quel caldo pomeriggio di
novembre era una vasta e piatta distesa di azzurro, di cui mi giungeva il
ritmico sospiro sommesso anche attraverso le porte a vetri chiuse. Non ha
memoria, pensai. Era una considerazione bizzarra e stranamente ottimistica. Quando si trattava di memoria - e collera - avevo argomenti e argomentazioni.
Jack rientrò dalla stanza degli ospiti e si sedette sul bracciolo del divano,
il trespolo, pensai, di un uomo che desidera involarsi. «Ha scorte di tutte le
provviste essenziali», mi informò, «più insalate pronte, hamburger, e uno
di quei polli precotti in una capsula di plastica, quelli che a casa mia chiamiamo polli dell'astronauta. Spero che le possa andare.»
«Ottimo.»
«Latte al due per cento...»
«Ottimo anche questo.»
«... e panna ipocalorica. La prossima volta posso procurargliene di vera,
se desidera.»
«Vuole che mi si ostruisca l'unica arteria che mi rimane?»
Lui rise. «C'è una piccola dispensa con ogni genere di mer... cibo in scatola. La televisione via cavo è attivata e il collegamento Internet anche. Le
ho preso un WiFi, costa un po' di più ma è una bomba. Se vuole, posso farle installare la trasmissione satellitare.»
Scossi la testa. Era un bravo ragazzo, ma io volevo ascoltare il Golfo, le
sue dolci parole che non avrei dimenticato un minuto dopo. E volevo ascoltare la casa, sapere se aveva qualcosa da raccontare. Avevo una mezza
idea che ce l'avesse.
«Le chiavi sono in una busta sul tavolo della cucina, anche quelle della
macchina, e sul frigo c'è una lista di numeri che potrebbero servirle. Io ho
delle lezioni da seguire in università a Sarasota, tutti i giorni eccetto il lunedì, ma ho sempre con me il cellulare, e verrò giù il martedì e il giovedì
alle cinque a meno che ci accordiamo diversamente. Va bene?»
«Sì.» Estrassi di tasca il mio fermaglio da banconote. «Voglio darle una
piccola mancia. È stato molto servizievole.»
Lui alzò la mano. «No. È una cosuccia che mi va di lusso, signor Freemantle. Paga buona e orari perfetti. A prendere altri soldi, mi sentirei un
bastardo.»
Mi fece ridere e riposi il fermaglio in tasca. «Va bene.»
«Farebbe bene a dormire un po'», mi consigliò lui alzandosi.
«Forse lo farò.» Mi faceva un effetto strano sentirmi trattare come un
nonnetto, ma era bene che mi ci abituassi. «Cos'è successo all'altra casa in
fondo a Casey Key?»
«Come?»
«Ha detto che una è finita sott'acqua. Che fine ha fatto l'altra?»
«Per quel che ne so c'è ancora. Ma se quel tratto di costa venisse investito da un uragano di quelli forti come Charley farebbe la fine di una quelle
svendite totali per cessione di attività.» Venne da me porgendomi la mano.
«Comunque, signor Freemantle, benvenuto in Florida. Spero che la tratti
bene.»
Scambiai una stretta. «Grazie...» Esitai, probabilmente non tanto perché
lui se ne accorgesse, e non mi adirai. Non con lui, comunque. «Grazie di
tutto.»
«Prego.» C'era un'ombra di perplessità nei suoi occhi mentre usciva, così
può essere che avesse notato. Pazienza, anche fosse. Finalmente ero solo.
Ascoltai le conchiglie e la ghiaia crepitare sotto i copertoni della sua macchina. Ascoltai il rumore del motore che si affievoliva. Sempre più tenue,
fino a sparire. Poi rimase solo il lieve e costante sospiro del Golfo. E il battito del mio cuore, delicato e sommesso. Niente orologi. Niente squilli, rintocchi, nemmeno un ticchettio. Respirai a fondo e odorai l'aria muffosa e
un po' umida di un luogo che è rimasto chiuso per un periodo di tempo abbastanza lungo, salvo per il rituale cambio d'aria settimanale (o bisettimanale). Mi parve di sentire anche l'odore del mare e delle erbe subtropicali
per le quali ancora non avevo un nome.
Soprattutto ascoltai il sospiro delle onde, così simile al respiro di una
grossa creatura addormentata, contemplando il panorama attraverso la parete di vetro affacciata sull'acqua. A causa dell'elevazione di Big Pink, da
dove sedevo, abbastanza all'indietro nel soggiorno, non vedevo per nulla la
spiaggia; su quella poltrona era come se mi trovassi a bordo di una di quelle grandi petroliere che percorrevano le loro rotte dal Venezuela a Galveston. Una foschia aveva invaso ad alta quota la cupola del cielo velando i
punticini di luce disseminati sull'acqua. A sinistra, dove le palme facevano
da schermo al cielo, una brezza leggerissima ne spettinava le fronde: i soggetti dei miei primi tentativi di disegnare dopo l'incidente. Non somiglia
molto al Minnesota, aveva commentato Tom Riley.
Guardare le palme mi fece tornare la voglia di disegnare, era qualcosa
come una sensazione di appetito, ma non situata nella pancia; mi dava prurito alla mente. E, stranamente, al moncherino del braccio amputato. «Non
ora», dissi. «Più tardi. Sono stracco.»
Mi issai dalla poltrona al secondo tentativo, contento che non ci fosse il
ragazzo ad assistere alla mia prima ricaduta all'indietro e a udire il mio infantile («mavaffanbagno!») grido di esasperazione. Finalmente in piedi,
sono rimasto dov'ero per un momento reggendomi alla gruccia e meravigliandomi di quanto mi sentissi stanco. Di solito stracco è un modo di dire,
ma mi sentivo proprio così.
Lentamente - non avevo intenzione di cadere in quella casa già il primo
giorno - andai nella camera da letto padronale. Il letto era un matrimoniale
grande e più che mai avevo voglia di arrivare fino a esso, sedermici sopra,
far cadere per terra con la mia gruccia gli stupidi cuscini decorativi (su uno
dei quali saltellavano due cocker sopra la sconcertante massima secondo
cui FORSE I CANI SONO SOLO PERSONE AL LORO MEGLIO),
sdraiarmi e dormire due ore. Magari tre. Ma prima sono andato al panchetto ai piedi del letto, sempre muovendomi con molta cautela, consapevole
della facilità con cui avrei potuto inciampare nei miei stessi piedi, spossato
com'ero, dove il ragazzo aveva sistemato due delle mie tre valigie. Io volevo quella di sotto, naturalmente. Feci cascare in terra quella superiore senza tanti complimenti e aprii la lampo della tasca anteriore di quella sottostante.
Due vitrei occhi blu mi guardarono con la loro eterna espressione di sorpresa e disapprovazione: Uuuh, cattivo! M'hai lasciato qui dentro per tutto
questo tempo! Dalla tasca saltò fuori un ciuffo di inerti capelli rossoarancio. Reba la bambola anticollera nel suo più bel vestitino blu e scarpette nere con la fibbia.
Mi stesi sul letto con la bambola sotto l'ascella del moncherino. Quando
mi fui aperto uno spazio adeguato tra i cuscini ornamentali (era soprattutto
quello con i cani saltellanti che volevo buttare via), la adagiai accanto a
me.
«Ho dimenticato come si chiama», dissi. «Ho ricordato il nome fin qui,
poi l'ho dimenticato.» Reba guardava il soffitto, dove le pale del ventilatore erano ferme e mute. Mi ero scordato di accenderlo. A Reba importava
poco se il mio nuovo assistente part-time fosse Ike, Mike, o Andy Van
Slyke. Per lei era tutto lo stesso, era solo una matassa di stracci infilati in
un involucro rosa, probabilmente da qualche infelice bambino operaio in
Cambogia o in Uruguay.
«Come si chiama?» le domandai. Stanco com'ero sentivo lo stesso i primi sintomi del vecchio panico da inadeguatezza. L'antica collera da inadeguatezza. Il timore che sarebbe stato così per il resto della mia vita. O peggio. Sì, era possibile! Mi avrebbero riportato al convalescenziario, che era
solo l'inferno con una mano di vernice fresca.
Reba non rispose, quella stronza invertebrata.
«Lo posso fare», dissi anche se non ci credevo. E pensai: Jerry. No, Jeff.
Poi: Stai pensando a Jerry Jeff Walker, coglione. Johnson? Gerald? Giosafatte Salterino?
Cominciando ad assopirmi. Cominciando ad addormentarmi nonostante
collera e panico. Entrando in sintonia con la dolce respirazione del Golfo.
Lo posso fare, pensai. Ricerca incrociata. Come quando hai ricordato
che cosa voleva dire ULC.
Ho pensato al ragazzo che diceva: All'estremità nord di Casey Key hanno chiuso un paio di case sulla spiaggia e c'era qualcos'altro ancora. Il
moncherino prudeva da farmi impazzire. Ma tu fingi che sia il moncherino
di qualcun altro in qualche altro universo, e intanto dai la caccia a quella
cosa, quello straccio, quell'osso, quel nesso...
... assopendomi...
Ma se quel tratto di costa fosse investito da un uragano di quelli forti
come Charley.
E tombola!
Charley era un uragano e quando arrivano gli uragani io guardo The
Weather Channel, come tutti gli americani, e il loro esperto di uragani era...
Presi Reba. Nel mio stato nebbioso da semiaddormentato mi parve che
pesasse venti chili. «Quello degli uragani è Jim Cantore», dissi. «Il mio aiutante è Jack Cantori. Caso chiuso.» Lasciai ricadere la testa di Reba e
chiusi gli occhi. Avrò sentito il lieve sospiro del Golfo per altri dieci o
quindici secondi. Poi mi addormentai.
Dormii fino al tramonto. Fu il sonno più profondo e più soddisfacente da
otto mesi a quella parte.
5
In aereo avevo solo piluccato, di conseguenza mi svegliai con una fame
da lupo. Invece delle solite venticinque flessioni della gamba per il recupero della mobilità dell'anca mi limitai a dodici, feci una scappatina in bagno
e finalmente arrancai verso la cucina. Mi appoggiavo alla stampella, ma
non quanto mi sarei aspettato, considerato che ero reduce da un lungo sonno. L'idea era di prepararmi un sandwich, forse due. Speravo di trovare
qualche fetta di mortadella, ma mi sarei accontentato di qualunque tipo di
carne avessi trovato in frigorifero. Dopo mangiato avrei chiamato Ilse per
informarla che ero arrivato sano e salvo. Potevo contare su di lei perché diramasse un'e-mail a tutte le altre persone interessate alla salute di Edgar
Freemantle. Poi avrei preso la mia dose serale di antidolorifici e avrei esplorato il resto del mio nuovo ambiente. Mi attendeva l'intero primo piano.
Quello di cui non avevo tenuto conto nei miei progetti era quanto fosse
mutata la vista a ovest.
Il sole era scomparso, ma sopra la linea piatta del Golfo brillava ancora
una striscia arancione. Era interrotta in un solo punto dalla silhouette di
una nave di grandi dimensioni. La sua sagoma era semplice come il disegno di un bambino di prima elementare. Un cavo teso dalla prua a quella
che presumevo fosse un'antenna radio creava un triangolo di luce. Seguendo la linea della luce si vedeva l'arancione spegnersi in un verde-azzurro
alla Maxfield Parrish da togliere il fiato, una sfumatura che non avevo mai
visto in vita mia... e che mi diede lo stesso una sensazione di déjà vu, come
se forse l'avessi vista, invece, nei miei sogni. Forse tutti vediamo cieli come quello nei nostri sogni e la nostra mente da sveglia non è mai in grado
di tradurli in colori che abbiano un nome.
Più su ancora, nel nero che si andava infittendo, le prime stelle.
Non avevo più fame e non avevo più voglia di chiamare Ilse. Avevo solo
voglia di disegnare quello che stavo guardando. Sapevo di non poterlo catturare fino in fondo, ma non mi importava, era questo il bello. Non mi importava un Bel Cazzo di Niente.
Il mio nuovo dipendente (per un momento persi di nuovo il suo nome,
poi pensai a Weather Channel, poi pensai Jack: caso chiuso) aveva riposto
la mia sacca di articoli da disegno nella seconda camera da letto. Caracollai fino alla Florida room con la sacca, trasportandola come meglio potevo
dovendo tentare di usare contemporaneamente anche la stampella. Un alito
di brezza un po' insolita mi sollevò i capelli. L'idea che un venticello come
quello potesse coesistere in contemporanea alla neve di St. Paul, nello
stesso mondo, mi sembrava assurda, fantascientifica.
Posai la sacca sul lungo tavolo di legno, fui sul punto di accendere una
luce e vi rinunciai. Avrei disegnato finché fossi stato in grado di vedere
quello che facevo e a quel punto avrei smesso. Mi sedetti alla mia goffa
maniera, aprii la sacca, estrassi l'album. ARTISAN, c'era scritto. Considerato il livello attuale della mia destrezza, era una presa in giro. Rovistai più
a fondo e pescai la mia scatola di matite colorate.
Disegnai e colorai velocemente, quasi senza guardare quel che facevo.
Ombreggiai a partire da una linea dell'orizzonte arbitraria, sfregando la
mia Venus gialla da una parte all'altra con appassionato abbandono, sbordando ogni tanto sulla nave (la prima petroliera al mondo malata di itterizia, pensai) senza darmene cura. Quando ebbi ottenuto quella che mi sembrava la giusta saturazione della fascia del tramonto - si stava spegnendo in
fretta ormai - presi l'arancione e ombreggiai di nuovo, calcando di più. Poi
tornai alla nave, senza pensare, tracciando sulla carta una serie di rigide linee nere. Era quello che vedevo.
Quand'ebbi finito, era quasi buio completo.
A sinistra le tre palme cicalavano.
Sotto e oltre me - ma non tanto lontano ora che la marea saliva - sospirava il Golfo del Messico, come se, al termine di una lunga giornata di lavoro, si dispiacesse di avere da sgobbare ancora.
In cielo ora le stelle erano migliaia e nuove ne apparivano mentre guardavo.
Tutto questo è sempre stato qui, pensai e ricordai una cosa che soleva dire Melinda quando sentiva alla radio una canzone che le piaceva molto: Mi
ha preso dal primo ciao. Sotto la mia rudimentale petroliera scrissi in piccolo la parola CIAO. Per quel che ricordo (sono migliorato adesso), fu la
prima volta in vita mia che battezzavo un disegno. E quanto a nomi, direi
che questo è buono, vero? A dispetto di tutti gli accidenti successivi, credo
ancora che sia il nome perfetto per il disegno di un uomo che stava facendo del suo meglio per non essere più triste, un uomo che cercava di ricordare che effetto fa sentirsi felici.
Il disegno era completo. Posai la matita e fu quello il momento in cui
Big Pink mi parlò per la prima volta. La sua voce era più sottile del respiro
del Golfo, ma io la sentii benissimo lo stesso.
Ti stavo aspettando, disse.
6
Quello fu il mio anno delle conversazioni solitarie, parlavo a me stesso e
mi rispondevo. Qualche volta mi rispondevano anche altre voci, ma quella
sera c'eravamo solo io, me stesso e me medesimo.
«Houston, qui è Freemantle, mi sentite, Houston?» Appoggiato al frigorifero. Pensando: Cristo, se queste sono le scorte essenziali, mi viene male
a pensare che cosa sarebbero se il ragazzo avesse deciso di rifornirmi a dovere. Avrei potuto starmene qui ad aspettare la terza guerra mondiale.
«Ah, Roger, Freemantle, ti sentiamo.»
«Ah, abbiamo della mortadella, Houston, puntiamo sulla mortadella, mi
ricevete?»
«Roger, Freemantle, ti riceviamo forte e chiaro. Com'è la situazione maio?»
Affare fatto anche per la maionese. Preparai due sandwich di mortadella
con pane bianco - dove sono nato io, i bambini crescono nella convinzione
che maionese, mortadella e pane bianco siano il cibo degli dei - e li consumai al tavolo della cucina. In dispensa trovai una scorta di tortini, alle
mele e ai mirtilli. Cominciai a pensare di cambiare il mio testamento a favore di Jack Cantori.
Quasi traboccante di cibo, tornai in soggiorno, accesi tutte le luci e guardai Ciao. Non era un granché. Ma era interessante. Mi colpì l'effetto che
avevo ottenuto per il riverbero del tramonto, una tonalità arcigna da fornace. La nave non era quella che avevo visto, ma la mia era interessante per
l'effetto un po' inquietante che trasmetteva. Era poco più di uno scheletro
di scafo e le sbordature di giallo e arancione l'avevano trasformata anche in
una nave fantasma, quasi che quel peculiare tramonto vi splendesse attraverso.
La collocai sopra il televisore, contro l'avviso con la scritta LA PROPRIETÀ RICHIEDE CHE VOI E I VOSTRI OSPITI NON FUMIATE IN
CASA. Lo guardai ancora per un momento pensando che aveva bisogno di
qualcosa in primo piano, un'imbarcazione più piccola, forse, tanto per dare
un senso prospettico a quella all'orizzonte, ma di disegnare non avevo più
voglia. E poi aggiungendo qualcosa c'era il rischio di guastarne il tenue fascino. Cercai invece il telefono pensando che, se ancora non funzionava,
avrei potuto chiamare Ilse con il cellulare, ma Jack aveva attivato anche
quello.
Credevo di dover parlare a una segreteria telefonica, si sa che le studentesse universitarie sono molto indaffarate, invece mi rispose al primo
squillo. «Papà?» Rimasi così di sasso che lì per lì non riuscii a parlare e
dovette ripeterlo: «Papà?»
«Sì», risposi. «Come facevi a saperlo?»
«Il numero sul display ha un prefisso nove quattro uno. Che è l'area di
Duma. Ho controllato.»
«Miracoli della tecnologia moderna. Non riesco a starci dietro. Come va,
figliola?»
«Bene. Ma la domanda è, come vai tu?»
«Io sto bene. Meglio che bene, per la verità.»
«Quel tizio che hai assunto?...»
«È in gamba. Il letto è fatto e il frigorifero è pieno. Come sono arrivato
ho dormito per cinque ore.»
Ci fu una pausa e quando parlò di nuovo era più preoccupata che mai.
«Non starai esagerando con quegli antidolorifici, vero? Perché quell'O-
xyContin è una specie di cavallo di Troia. Non che ti stia dicendo nulla che
tu non sappia già.»
«No, rispetto scrupolosamente i dosaggi prescritti. Anzi...» M'interruppi.
«Cosa, papà? Cosa?» Ora sembrava pronta a fermare un taxi e prendere
un aereo.
«Mi sono appena reso conto di aver saltato il Vicodin delle cinque...»
Consultai l'orologio. «E anche l'OxyContin delle otto. Cavoli.»
«Quanto ti fa male?»
«Non tanto da non poterlo tenere a bada con un paio di Tylenol. Almeno
fino a mezzanotte.»
«Sarà il cambio di clima», commentò lei. «E la dormita.»
Non avevo dubbio che c'entrassero, ma non pensavo nemmeno che ne
fossero una spiegazione esaustiva. Sarà stata una follia, ma pensavo che
disegnare avesse avuto la sua parte. Anzi, era qualcosa che sentivo di sapere.
Chiacchierammo per un po' e a poco a poco sentii la preoccupazione
svanire nella sua voce. Fu sostituita dalla tristezza. Stava prendendo coscienza, immagino, che stava succedendo davvero, che non ci sarebbe stata
una mattina in cui papà e mamma si sarebbero svegliati per rimangiarsi
tutto. Ma promise di chiamare Pam e spedire un'e-mail a Melinda per far
loro sapere che ero ancora nel mondo dei vivi.
«Non hai un'e-mail lì, papà?»
«Sì, ma questa sera la mia e-mail sei tu, biscottino.»
Rise, tirò su con il naso, rise di nuovo. Pensai di domandarle se stesse
piangendo, poi ci ripensai. Meglio di no, forse.
«Ilse? Ora è meglio che ti lasci andare, cara. Voglio smaltire la giornata
sotto la doccia.»
«Okay, ma...» Una pausa. Poi tutto d'un fiato: «Non sopporto di pensarti
così lontano, laggiù in Florida tutto solo! Che magari mi caschi per terra
nella doccia! Non è giusto!»
«È tutto sotto controllo, biscottino. Credimi. Il ragazzo, quel...» Uragani,
pensai. Weather Channel. «Quel Jim Cantori.» Ma questo era un caso di
chiesa giusta, inginocchiatoio sbagliato. «Jack, voglio dire.»
«Non è la stessa cosa e lo sai. Vuoi che venga giù?»
«No, a meno di farci scotennare tutti e due da tua madre», risposi.
«Quello che voglio è che te ne stia buona dove sei e faccia la tua vita, cara.
Mi terrò in contatto.»
«Va bene. Ma riguardati. Niente cazzate.»
«Niente cazzate. Roger, Houston.»
«Eh?»
«Non ci pensare.»
«Voglio lo stesso sentirti promettere, papà.»
Per un momento ebbi l'indicibile e terribile immagine di Ilse a undici
anni, Ilse con l'uniforme delle Girl Scout a guardarmi con gli occhi sgomenti di Monica Goldstein. Prima di poter trattenere le parole, sentii la mia
voce dire: «Prometto. Giuro giuro. Sul nome di mamma».
Ridacchiò. «Questa non l'avevo mai sentita.»
«Ci sono molte cose di me che non conosci. Sono un individuo profondo.»
«Se lo dici tu.» Una pausa. Poi: «Ti voglio bene».
«Anch'io.»
Posai dolcemente il ricevitore e restai a fissarlo a lungo.
7
Invece di fare la doccia scesi in spiaggia fino all'acqua. Scoprii subito
che la stampella non mi era di alcun aiuto sulla sabbia, era al contrario un
impiccio, ma appena svoltato l'angolo della casa vidi che l'acqua era a non
più di una ventina di passi. Mi sarebbe bastato procedere lentamente. Il
moto ondoso era minimo, le onde che giungevano a riva erano solo increspature. Era difficile immaginare quell'acqua montare nell'impeto distruttivo di un uragano. Impossibile, per la verità. Più tardi Wireman mi avrebbe
detto che Dio ci punisce sempre per quello che non sappiamo immaginare.
Questa era una delle sue migliori.
Mi girai per tornare a casa e mi fermai. C'era giusto luce a sufficienza
perché potessi scorgere un fitto tappeto di conchiglie, un ammasso di conchiglie, sotto la sporgenza della Florida room. Con l'alta marea, mi resi
conto, la metà anteriore della mia nuova casa sarebbe stata quasi come il
ponte di prua di una nave. Ricordai le parole di Jack, quando mi aveva detto che se il Golfo del Messico avesse deciso di mangiarsi quel pezzo di
isola avrei avuto ampio preavviso, avrei sentito la casa gemere. Probabilmente aveva ragione... ma è anche vero che avrei dovuto avere ampio preavviso quando in un cantiere un macchinario pesante fa retromarcia.
Tornai zoppicando alla stampella che avevo lasciato appoggiata al muro
e ripercorsi il breve vialetto di legno fino alla porta di casa. Pensai alla
doccia e feci invece un bagno, entrando e uscendo dalla vasca con l'accorta
manovra laterale che Kathi Green mi aveva mostrato nella mia altra vita,
tutti e due in costume da bagno, io con la gamba destra che sembrava un
taglio di carne mal macellato. Ora la macelleria apparteneva al passato; il
mio corpo stava procedendo nel suo lavoro miracoloso. Le cicatrici sarebbero durate una vita, ma anch'esse stavano sbiadendo. Di già.
Asciugato e con i denti lavati, entrai nella camera da letto padronale e mi
fermai sorretto dalla stampella a contemplare il grande letto, ora spogliato
dai cuscini decorativi. «Houston», dissi, «abbiamo un letto.»
«Roger, Freemantle», risposi. «Hai un letto.»
Già, perché no? Certo non avrei dormito, non dopo quel sonnellone pomeridiano, ma avrei potuto starmene disteso per un po'. La gamba funzionava ancora piuttosto bene, anche dopo la mia spedizione fino all'acqua,
ma avevo un nodo all'estremità della schiena e un altro alla base del collo.
Mi sdraiai. No, dormire era fuori discussione, ma spensi lo stesso la lampada. Giusto per riposare gli occhi. Me ne sarei rimasto così ad aspettare
che schiena e collo migliorassero, poi avrei recuperato un tascabile dalla
valigia e mi sarei messo a leggere.
Giusto sdraiato così per un po', era quello che...
Arrivai fin lì e basta. Non ci furono sogni.
8
Risalii a uno stato di quasi coscienza in piena notte con il braccio destro
che mi prudeva e la mano destra che mi formicolava e non capii dove mi
trovassi, ma sentivo sotto di me qualcosa di enorme che macinava e macinava e macinava. Lì per lì pensai che fosse un macchinario, ma il rumore
era troppo irregolare. E troppo organico, in un certo senso. Poi pensai ai
denti, ma non esiste nulla con denti così enormi. Nulla nel mondo conosciuto, quanto meno.
Respirava, pensai, e mi sembrò giusto così, ma che razza di animale
produceva un così potente rumore di macinazione quando traeva un respiro? E, Dio, quel prurito mi stava facendo impazzire, su su per l'avambraccio fino all'incavo del gomito. Allungai la mano sinistra per grattarmi e naturalmente non c'era gomito, non c'era avambraccio, e non grattai altro che
il lenzuolo.
Questo mi svegliò del tutto e mi alzai a sedere. Anche se il buio era ancora fitto, la luce delle stelle che entrava dalla finestra rivolta a ovest mi
permise di vedere i piedi del letto, dove c'era una delle mie valigie sul pan-
chetto. Questo mi aiutò a orientarmi. Ero a Duma Key, davanti alla costa
occidentale della Florida, dimora di chi ha un anello al dito e un piede nella fossa. Ero nella casa che dentro di me avevo già battezzato Big Pink, e
quel rumore di macina...
«Sono le conchiglie», mormorai tornando a sdraiarmi. «Conchiglie sotto
la casa. La marea si è alzata.»
Amai quel suono fin da subito, quando lo udii destandomi nel cuore della notte, quando non sapevo dov'ero, chi ero, o quali parti fossero ancora
attaccate. Era mio.
Mi aveva preso dal primo ciao.
3
Attingendo a risorse nuove
1
Quello che seguì fu un periodo di ripresa e transizione dalla mia altra vita a quella che conducevo a Duma Key. Il dottor Kamen sapeva probabilmente che in momenti come questi la gran parte dei mutamenti più profondi avvengono all'interno: disagio sociale, rivolta, rivoluzione e, finalmente, esecuzioni di massa con le teste dei dignitari del vecchio regime
che rotolano nella cesta sotto la ghigliottina. Sono certo che il grand'uomo
aveva visto rivoluzioni come queste realizzarsi e ne aveva viste altre fallire. Perché non tutti ce la fanno ad arrivare alla vita successiva, sapete? E
coloro che ci riescono non sempre scoprono la spiaggia dorata del paradiso.
Nella mia transizione mi aiutò il mio nuovo hobby e mi fu d'aiuto anche
Ilse. Di questo le sarò sempre grato. Ma mi vergogno di aver frugato nella
sua borsetta mentre dormiva. Tutto quello che posso dire è che al momento
mi sembrava di non avere alternative.
2
La mattina dopo il mio arrivo mi svegliai sentendomi bene come ancora
non mi era mai accaduto dopo l'incidente; ma non così bene da saltare il
mio cocktail mattutino di antidolorifici. Presi le pillole con della spremuta
d'arancia, poi uscii. Erano le sette. A St. Paul l'aria doveva essere tanto
fredda da morsicarmi la punta del naso, ma a Duma era come sentirsi ba-
ciare.
Appoggiai la gruccia dove l'avevo lasciata la sera prima e scesi nuovamente a quelle onde così docili. Alla mia destra la casa mi impediva di vedere il ponte levatoio e Casey Key. A sinistra invece...
In quella direzione pareva che la spiaggia non finisse mai, un abbagliante margine bianco tra il blu-grigio del Golfo e i ciuffi di uniola. In lontananza scorgevo un punticino o forse due. Per il resto quel fantastico lido da
cartolina era deserto. Nessuna delle altre case era vicina all'oceano e guardando verso sud vedevo un solo tetto: qualcosa come mezzo ettaro di tegole arancione quasi del tutto nascoste dalle palme. Era l'hacienda che avevo
notato il giorno prima. Potevo eliminarla con il palmo della mano e sentirmi come Robinson Crusoe.
M'incamminai da quella parte, anche perché, come mancino, mi era da
sempre naturale girarmi a sinistra, ma soprattutto perché quella era la direzione in cui il mio sguardo spaziava. E non andai lontano, niente Grande
Camminata in Spiaggia quel giorno, volevo essere sicuro di poter tornare
alla mia stampella, ma quella fu comunque la mia prima escursione. Ricordo d'essermi voltato e meravigliato delle impronte che lasciavo nella
sabbia. Nella luce del mattino quelle del piede sinistro erano ben delineate
e profonde come se marcate da una timbratrice. Quasi tutte quelle del destro erano più confuse perché avevo la tendenza a trascinare il piede, ma
all'inizio anche su quel lato erano nitide. Contai i passi del ritorno. In totale
erano trentotto. A quel punto l'anca mi faceva male. Ero più che pronto a
rientrare, prendermi uno yogurt dal frigo e vedere se la televisione via cavo
funzionava bene come sosteneva Jack Cantori.
Funzionava.
3
E quella diventò l'abitudine di tutte le mie mattine: succo d'arancia,
camminata, yogurt, attualità. Sviluppai una forma di rapporto cameratesco
con Robin Meade, la giovane donna che conduceva il notiziario dalle sei
alle dieci. Routine noiosa, vero? Ma anche gli avvenimenti esteriori di un
paese che si muove sotto una dittatura possono apparire noiosi - ai dittatori
piacciono le cose noiose, i dittatori amano le cose noiose - mentre sotto la
superficie si vanno preparando grandi cambiamenti.
Un corpo e una mente feriti non sono solo come una dittatura; si identificano in una dittatura. Non c'è tiranno impietoso come il dolore, non c'è
despota crudele come la confusione. Che il danno subito dalla mia mente
fosse pari a quello che mi aveva colpito nel corpo era una cosa di cui mi
rendevo conto solo quando ero solo e tutte le altre voci tacevano. Il fatto
che avessi cercato di strangolare la donna che mi era stata compagna per
venticinque anni solo per aver cercato di detergermi il sudore dalla fronte
dopo che le avevo detto di lasciare la stanza era marginale. Nemmeno il
fatto che non avessimo fatto l'amore una sola volta nei mesi tra l'incidente
e la separazione, che non ci avessimo nemmeno provato, era al cuore del
problema, anche se secondo me ne era un buon sintomo. Neppure le improvvise e angoscianti esplosioni di collera ne erano al cuore.
Quel cuore era una sorta di distacco. Non saprei come altro descriverlo.
Mia moglie aveva cominciato ad apparirmi come un... altro. Quasi tutte le
persone che popolavano la mia vita mi sembravano altre e il lato sconcertante era che non me ne importava molto. All'inizio avevo cercato di convincermi che l'estraneità che provavo quando pensavo a mia moglie e alla
mia vita fosse probabilmente un fatto naturale per un uomo che ogni tanto
non ricordava nemmeno come si chiamava quel coso che si tira per chiudersi i calzoni, la zac, la zuum, la zippity-dadum. Mi dicevo che sarebbe
passata e quando non avvenne e Pam mi disse che voleva divorziare, ciò
che seguì alla mia collera fu sollievo. Perché ora quella sensazione di
un'altra aveva una sua logica, almeno nei suoi confronti. Ora era diventata
veramente un'altra. Si era tolta la divisa dei Freemantle e aveva lasciato la
squadra.
Nella mia prima settimana a Duma quella sensazione di estraneità mi
consentì di abbandonarmi alla prevaricazione in agio perfetto. Risposi a
lettere ed e-mail di persone come Tom Riley, Kathi Green e William Bozeman III, l'immortale Bozie, con messaggi stringatissimi (sto bene, il
tempo è bello, le ossa guariscono) che somigliavano assai poco alla vita
che conducevo in realtà. E quando le loro comunicazioni prima si diradarono e finalmente cessarono, non ne soffrii.
In squadra con me sembrava ci fosse rimasta solo Ilse. Solo lei si rifiutava di togliersi la divisa. Con lei non ho mai avuto la sensazione di un'altra.
Ilse era ancora sul mio lato della vetrata, sempre disponibile, e se non le
mandavo un'e-mail tutti i giorni, mi telefonava. Se non la chiamavo una
volta ogni tre giorni, era lei a chiamare me. E per lei non mentivo sui miei
progetti di pescare nel Golfo o di andare in gita alle Everglades. Con Ilse
ero sincero, almeno per quanto mi fosse possibile senza dare l'impressione
di essere svitato.
Le raccontai, per esempio, delle mie passeggiate mattutine sulla spiaggia
e che ogni giorno mi spingevo un po' più lontano, ma non le parlai del
Gioco dei Numeri, perché mi sembrava troppo stupido... no, il termine che
volevo esprimere era ossessivo-compulsivo.
Solo trentotto passi da Big Pink quella prima mattina. Il giorno dopo
bevvi un altro bicchierone di spremuta d'arancia e ripartii sulla spiaggia in
direzione sud. Quella volta feci quarantacinque passi, un bel po' di strada
per uno come me, a quei tempi, senza l'aiuto della stampella. Ci riuscii dicendomi che in realtà erano solo nove. Quel giochetto di prestigio è il succo del Gioco dei Numeri. Si compie un passo, poi due, poi tre, poi quattro,
riportando la conta mentale a zero ogni volta che si arriva a nove. E quando sommi i numeri da uno a nove, si ottiene per risultato quarantacinque.
Se vi sembra da svitati, non obietterò.
La terza mattina mi costrinsi a fare dieci passi da Big Pink sans gruccia,
che sarebbero in realtà cinquantacinque, o una novantina di metri, andata e
ritorno. Passata una settimana ero arrivato a diciassette... e quando sommi
tutti quei numeri, arrivi a centocinquantatré. Giunsi alla fine di quella
camminata, mi girai a guardare la casa e mi meravigliai di vederla così
lontana. Mi prese anche un filo di angoscia al pensiero di doverla ripetere
tutta al contrario.
Lo puoi fare, mi dicevo. È facile. Solo diciassette passi.
Così dicevo a me stesso, ma non lo dicevo a Ilse.
Un po' di più ogni giorno, imprimendo dietro di me la mia serie di orme.
Quando al Beneva Road Mall, dove Jack Cantori mi accompagnava talvolta a fare la spesa, comparve Babbo Natale, mi accorsi di una circostanza
sorprendente: tutte le mie impronte verso sud erano nitide. Quelle della
scarpa destra non cominciavano a perdere i contorni se non durante il tragitto di ritorno.
L'attività fisica dà dipendenza e i giorni di pioggia non fermarono la
mia. Il primo piano di Big Pink era una grande unica stanza. Il pavimento
era coperto da una moquette rosa particolarmente resistente e un'ampia finestra si affacciava sul Golfo del Messico. Non c'era altro. Jack mi aveva
suggerito di stilare una lista di mobili che si sarebbe procurato dallo stesso
magazzino dove aveva noleggiato quelli del pianterreno... posto che quelli
da basso mi andassero bene. Lo rassicurai al riguardo, ma dissi anche che
per il primo piano non avevo bisogno di molto. Quello spazio vuoto mi
andava com'era. Sollecitava la mia immaginazione. Ciò che desideravo, gli
spiegai, erano tre cose: una comune seggiola con lo schienale dritto, un ca-
valletto da pittura e un tapis roulant Cybex. Era in grado di procurarmi
questi oggetti? Disse di sì e lo fece. In tre giorni. Da allora fino alla fine
frequentai il primo piano tutte le volte che volevo disegnare o dipingere e
di nuovo tutte le volte che il cattivo tempo mi impediva di svolgere all'esterno la mia attività fisica. La seggiola dura fu l'unico vero mobile che
visse lassù durante il mio soggiorno a Big Pink.
In tutti i casi i giorni di pioggia non furono molti, ci sarà una ragione se
la Florida è lo stato del sole. Con l'allungarsi delle mie passeggiate verso
sud, il puntino o i puntini che avevo scorto la prima mattina presero infine
le sembianze di due persone: o almeno erano due il più delle volte. Una era
su una sedia a rotelle e portava quello che mi sembrava un cappello di paglia. L'altra la spingeva, poi si sedeva accanto a lei. Comparivano in spiaggia verso le sette del mattino. Alle volte quella che camminava abbandonava per qualche tempo quella sulla sedia a rotelle, solo per tornare con
qualcosa che luccicava nel sole del primo mattino. Sospettavo una caffettiera, un vassoio con la prima colazione, o tutti e due. Sospettavo inoltre
che provenissero dalla grande hacienda con quel mezzo ettaro di tegole arancione. Era l'ultima casa visibile a Duma Key prima che la strada s'insinuasse nella strabordante vegetazione che copriva la maggior parte dell'isola.
4
Non riuscivo ad abituarmi a quella sensazione di vuotezza. «Dovrebbe
essere molto tranquillo», mi aveva preannunciato Sandy Smith, ma io mi
ero immaginato lo stesso una spiaggia che si popolava verso mezzogiorno:
coppie a prendere il sole su coperte stese e a ungersi l'un l'altro con creme
abbronzanti, studenti a giocare a pallavolo con gli iPod legati ai bicipiti,
bambini nei loro costumini penzoloni a sguazzare nella risacca a qualche
decina di metri dallo sfrecciare dei Jet-Ski.
Jack mi rammentò che era solo dicembre. «Quanto al turismo», mi disse,
«in Florida il mese tra il Ringraziamento e Natale è un obitorio. Non è
morte assoluta come in agosto, ma ci va vicino. E poi...» Fece un gesto con
il braccio. Sostavamo davanti alla cassetta per la corrispondenza con il 13
rosso, io appoggiato alla mia gruccia, Jack aitante e sportivo in calzoncini
di jeans e maglia dei Tampa Devil Rays elegantemente sgualcita. «Questa
non è propriamente una meta turistica. Ha visto delfini ammaestrati? Qui
abbiamo solo sette case, contando quella grande che c'è laggiù... e la giun-
gla. Dove, a proposito, c'è un'altra casa che sta andando a pezzi. Così ho
sentito dire a Casey Key.»
«Cos'ha che non va Duma, Jack? Quindici miglia di allettante area edificabile in Florida, una spiaggia splendida ed è rimasta allo stato brado? Cosa c'è sotto?»
Si strinse nelle spalle. «Per quel che ne so, sarebbe colpa di un'annosa
disputa legale. Vuole che m'informi?»
Ci pensai su, poi scossi la testa.
«La disturba?» Jack sembrava sinceramente curioso. «Tutto questo silenzio? Perché, volendole parlare con il cuore in mano, a me darebbe un
po' sui nervi.»
«No», risposi. «Per nulla.» Ed era la verità. La guarigione è una forma di
rivolta e, come mi pare di aver spiegato, tutte le rivolte riuscite cominciano
in segreto.
«Che cosa fa? Se non sono troppo indiscreto.»
«La mattina attività fisica. Leggo. Di pomeriggio dormo. E disegno. Può
darsi che tenti di dipingere, ma non mi sento ancora pronto.»
«Alcuni dei suoi lavori non sono niente male per un dilettante.»
«Grazie, Jack, sei gentile.»
Chissà se era solamente gentile o se mi stava dicendo la sua versione di
verità. Forse non aveva importanza. Trattandosi di arte figurativa, ogni
giudizio è sempre opinabile, giusto? Io sapevo solo che a me stava succedendo qualcosa. Dentro me. In certi momenti mi facevo un po' paura. Per
lo più era una sensazione maledettamente bella.
Disegnavo soprattutto al piano di sopra, nello stanzone che avevo ribattezzato Little Pink. Da lì si vedevano solo il Golfo e quella piatta linea
dell'orizzonte, ma avevo una fotocamera digitale e ogni tanto scattavo foto
di altre cose, le stampavo, le fissavo al mio cavalletto (che io e Jack avevamo montato in modo che la luce forte del pomeriggio arrivasse di sbieco
sulla carta) e riproducevo le immagini a mano. Non avevano né capo né
coda, le istantanee che scattavo io, anche se, quando ne parlai a Kamen in
un'e-mail, mi rispose che l'inconscio, se lasciato fare, scrive poesie.
Forse yes, forse no.
Disegnai la mia cassetta postale. Disegnai quello che cresceva intorno a
Big Pink, poi chiesi a Jack di comprarmi un libro, Vegetazione della Florida costiera, per poter apporre nomi ai miei disegni. I nomi erano d'aiuto,
mi sembrava che conferissero forza alle immagini. Ero ormai alla mia seconda scatola di matite colorate... e ne avevo una terza di riserva. C'era l'a-
loe vera; la lavanda marina con i suoi grappoli di minuscoli fiorellini gialli
(ciascuno con un minuscolo cuore di viola intenso); il cestro levigato con
le sue lunghe foglie a forma di spada; e la mia prediletta, la sophora, che
Vegetazione della Florida costiera identificava anche come «albero delle
collane», per via dei piccoli rosai di baccelli che crescevano sui suoi rami.
Disegnai anche conchiglie. È naturale. C'erano conchiglie dappertutto,
un'eternità di conchiglie già entro i confini limitati delle mie passeggiate.
Duma Key era fatta di conchiglie e cominciai da subito a raccoglierne a
decine.
E quasi ogni sera, quando il sole scendeva, disegnavo il tramonto. Sapevo che i tramonti sono un cliché ed è per questo che lo facevo. Mi sembrava che se fossi riuscito a far breccia nel muro del già-fatto-già-visto anche
una sola volta, da qualche parte sarei arrivato. Così ammonticchiai prove
su prove e nessuna era un granché. Cercai nuovamente di sovrapporre il
giallo all'arancione, ma i tentativi seguenti fallirono. Mancava sempre
quella particolare tonalità da accigliato bagliore di fornace. Ogni mio tramonto era solo uno scarabocchio in cui i colori dicevano sto cercando di
dirti che l'orizzonte è incendiato. Ne avresti facilmente potuti comprare di
migliori a decine alle bancarelle delle esposizioni ambulanti del sabato a
Sarasota o a Venice Beach. Ne ho conservato qualcuno, ma tutti gli altri
mi disgustavano troppo e li gettai via.
Una sera, dopo un'altra serie di insuccessi, mentre osservavo di nuovo lo
spicchio superiore del sole che scompariva dietro l'orizzonte lasciandosi
dietro quella scia di colore da Halloween, pensai: È stata la nave. Il tocco
di magia che c'era nel mio primo disegno era dovuto alla nave. All'effetto
del tramonto che sembrava rilucere attraverso lo scafo. Forse, ma al momento non c'erano navi a interrompere la linea dell'orizzonte; era precisa e
uniforme con un blu scurissimo di sotto e un brillante giallo-arancione di
sopra, che si stemperava in una delicata tonalità di verde che vedevo ma
non riuscivo a riprodurre, non con la mia modesta scatola di matite colorate.
Ai piedi del mio cavalletto c'erano una trentina di fotografie. Il mio
sguardo cadde casualmente sul primo piano di una collana di sophora.
Mentre la guardavo, il mio braccio destro fantasma cominciò a prudere.
Strinsi tra i denti la matita gialla, mi chinai, raccolsi la foto della sophora e
mi misi a studiarla. A quel punto la luce stava diminuendo, ma non di molto perché nella stanza al piano di sopra che chiamavo Little Pink durava a
lungo, così potei ammirare tranquillamente tutti i particolari; la mia mac-
china digitale riprendeva primi piani quasi perfetti.
Senza pensare a quel che facevo, fissai con un fermaglio la foto al bordo
del cavalletto e aggiunsi al mio tramonto la collana di sophora. Lavorai velocemente, dapprima schizzando una serie di archi (la sophora) e aggiungendo il colore: marrone che virava sul nero, poi una vivida macchia di
giallo, i resti di un fiore. Ricordo che la mia concentrazione era al massimo, come accadeva talvolta quando avevo da poco avviato l'azienda e ogni
costruzione (ogni scommessa, in realtà) era alla o la va o la spacca. Ricordo che a un certo punto strinsi di nuovo la matita tra i denti per potermi
grattare il braccio che non c'era; mi dimenticavo sempre della parte mancante. Quand'ero distratto e avevo qualcosa nella sinistra, allungavo talvolta la destra per aprire una porta. Gli amputati dimenticano, tutto qui. La loro mente dimentica e mentre guariscono il loro corpo glielo consente.
Ciò che ricordo meglio di quella sera è il meraviglioso senso di beatitudine che provai per aver catturato per tre o quattro minuti un autentico
lampo di luce in una bottiglia. Nella stanza cominciava ormai a entrare il
buio e le ombre avanzavano sulla moquette rosa verso il rettangolo della
finestra che si andava spegnendo. Nell'ultimo barlume che ancora raggiungeva il mio cavalletto non riuscii a vedere bene quel che avevo fatto. Mi
alzai e passai zoppicando intorno al tapis roulant per andare ad azionare
l'interruttore dell'illuminazione centrale. Poi tornai indietro, girai il cavalletto e trattenni il fiato.
La collana di sophora sembrava ergersi da dietro l'orizzonte come il tentacolo di una creatura marina tanto gigantesca da ingoiare una superpetroliera. Quel solitario fiore giallo sarebbe potuto essere un occhio alieno. Ma
l'aspetto per me più importante è che aveva restituito al tramonto la verità
della sua ordinaria bellezza: «È quello che faccio tutte le sere».
Misi da parte quel lavoro. Poi scesi in cucina, scaldai nel microonde una
porzione di pollo fritto e lo divorai fino a grattare il fondo del vassoio.
5
L'indomani tempestai il tramonto di mazzi di erba panica e l'arancione
brillante che filtrava dal verde trasformò l'orizzonte in un incendio forestale. La sera dopo ancora provai con le palme, ma non andava bene, era un
altro cliché, quasi mi sembrava di vedere le fanciulle ballare l'hula e di
sentir suonare gli ukulele. Quindi disegnai sull'orizzonte una grande, classica conchiglia di strombo con il tramonto che vi si propagava intorno a
raggiera come una corona e il risultato fu, almeno per me, quasi insopportabilmente inquietante. Quello, lo girai dalla parte del muro, pensando che
quando l'avessi riguardato l'indomani avrei trovato che aveva perso tutta la
sua magia. Ma non fu così. Non per me.
Ne scattai una foto con la mia digitale e l'allegai a un'e-mail. Diede origine a questo scambio, che stampai e riposi in una cartelletta:
EFree 19 a KamenDoc
10.14
9 dicembre
Kamen, ti avevo detto che mi sono rimesso a disegnare. È colpa
tua, perciò il minimo che puoi fare è dare un'occhiata all'allegato e
dirmi cosa ne pensi. È una veduta da casa mia. Non avere riguardi.
Edgar
KamenDoc a EFreel9
12.09
9 dicembre
Edgar, credo che tu stia migliorando. MOLTO.
Kamen
P.S. È un quadro veramente straordinario. Come un Dalí ignoto.
Hai chiaramente trovato Qualcosa. Quanto è grande?
EFree 19 a KamenDoc
13.13
9 dicembre
Non so. Grande, forse.
EF
KamenDoc a EFree 19
13.22
9 dicembre
Allora SCAVA!
Kamen
Due giorni dopo, quando Jack passò a chiedermi se volevo andare da
qualche parte, gli dissi che desideravo andare in una libreria a comprare un
libro sulle opere di Salman Dalí.
Jack rise. «Credo che intenda dire Salvador Dalí», mi corresse. «A meno
che lei abbia in mente quel tizio che ha scritto un libro che lo ha cacciato
in un mare di guai. Non ricordo come si chiama.»
«I versi satanici», ribattei all'istante. La mente è ben capricciosa, eh?
Tornato a casa con il mio libro d'arte - mi costò l'impressionante cifra di
centodiciannove dollari, nonostante lo sconto della mia tessera Barnes &
Noble, e meno male che dalla causa di divorzio avevo salvato qualche milioncino di dollari - trovai la spia dei messaggi in attesa che lampeggiava
sulla mia segreteria telefonica. Era Ilse e il messaggio era enigmatico solo
al primo ascolto.
«Ti telefonerà mamma», annunciò. «Ci ho messo tutta la mia eloquenza,
papà, ho messo all'incasso tutti i favori che mi doveva, ho aggiunto le mie
preghiere più convincenti e ho praticamente supplicato Lin, perciò di' di sì,
okay? Di' sì. Per me.»
Mi sedetti, mangiai un tortino che avevo pregustato fino a quel momento
e di cui non avevo più voglia, e mi misi a sfogliare il mio costoso libro illustrato pensando - e sono sicuro che questo non era originale - Hello, Dalí... Ciao a te! Non ne rimasi sempre colpito. In molti casi ebbi l'impressione di avere di fronte a me l'opera di un ruffiano talentuoso che disegnava più che altro per ammazzare il tempo. Alcuni dei quadri però mi emozionarono e alcuni altri mi impaurirono come mi era accaduto con la mia
imponente conchiglia. Tigri sospese sopra una donna nuda sdraiata. Una
rosa sospesa nell'aria. E uno in particolare, Cigni che riflettono elefanti, era
così strano che quasi non riuscivo a guardarlo... eppure continuai a tornare
indietro a studiarlo di nuovo.
E quello che stavo facendo in realtà era aspettare che la mia di-lì-a-pocoex-moglie mi chiamasse per invitarmi a tornare a St. Paul a celebrare il
Natale con le ragazze. Finalmente il telefono squillò e quando lei disse Ti
estendo questo invito contro il mio parere resistetti all'impulso di ribattere
all'esca perniciosa con E io accetto contro il mio. Ciò che dissi fu Capisco.
Ciò che dissi fu Facciamo il giorno della vigilia? E quando lei disse Facciamo, il tono da sono-armata-e-pronta-a-combattere si era parzialmente
addolcito. Il battibecco che avrebbe potuto troncare il Natale In Famiglia
sul nascere era stato evitato. Il che non trasformava quel breve ritorno a
casa in una buona idea.
SCAVA, aveva detto Kamen, e in lettere maiuscole. Il mio timore era che
lasciando ora avrei piuttosto seppellito la cosa. Sarei potuto tornare a Duma Key... ma ciò non significava che avrei ritrovato l'ispirazione. Le
camminate, i disegni. Le une alimentavano gli altri. Non sapevo bene come e non ne avevo bisogno.
Ma Illy: Di' sì. Per me. Sapeva che lo avrei fatto, non perché era la mia
prediletta (a sapere questo era Lin, credo), ma perché si era sempre accontentata di così poco e così raramente chiedeva qualcosa. E perché quando
avevo ascoltato il suo messaggio avevo ricordato come si era messa a
piangere il giorno in cui era venuta a trovarmi al lago Phalen con Melinda,
appoggiandosi a me e chiedendomi perché non poteva essere tutto come
prima. Perché le cose non lo sono mai, credo di aver risposto, ma forse per
un paio di giorni poteva essere come prima... o esserne un ragionevole facsimile. Ilse aveva diciannove anni, probabilmente troppo grande per un ultimo Natale infantile, ma certamente non troppo perché le fosse negato un
ultimo Natale con la famiglia in cui era cresciuta. E tanto valeva anche per
Lin. Nell'arte della sopravvivenza era meglio equipaggiata, ma stava tornando a casa dalla Francia e questo mi diceva qualcosa.
E va bene, ci sarei andato, avrei fatto il bravo, e non mi sarei scordato di
portare con me Reba, nel caso mi avesse preso uno dei miei cinque minuti.
Andavano diminuendo, ma è anche vero che a Duma Key non c'era in realtà nulla con cui arrabbiarsi per le mie periodiche amnesie e la mia zoppia
bastarda. Chiamai il servizio charter a cui mi appoggiavo da quindici anni
e prenotai un Learjet, Sarasota-MSP International, con partenza alle nove
del 24 dicembre. Telefonai a Jack, che disse che sarebbe stato felice di accompagnarmi alla Dolphin Aviation e di venirmi a prendere il giorno 28.
Alla fine, quando tutto era già sistemato per benino, Pam mi chiamò per
dirmi che non se ne faceva niente.
6
Il padre di Pam era un marine in pensione. Nell'ultimo anno del ventesimo secolo si era trasferito con la moglie a Palm Desert, in California, in
una di quelle enclave che annoverano una simbolica coppia afroamericana
e quattro simboliche coppie ebree. Non sono ammessi bambini e vegeta-
riani. I residenti devono votare repubblicano e possedere cani piccoli con
collari di Strass, occhi stupidi e nomi che finiscono per i. Taffi va bene,
Cassi è meglio e qualcosa come Rififi è la cacata definitiva. Al padre di
Pam avevano diagnosticato un cancro al retto. Non mi stupiva. Raggruppa
un branco di stronzi di razza bianca e vedi come si sviluppa.
Questo non lo dissi a mia moglie, che cominciò con animo intrepido e
finì in lacrime. «Ha cominciato la chemio, ma mamma dice che può essere
già andato in meta... mesta... oh, quella cazzo di cosa lì, adesso mi sono
messa a fare come te!» Poi, ancora tirando su con il naso ma in un tono
sgomento e umile: «Scusa, Eddie, ho detto una cosa terribile».
«No, non è affatto terribile», risposi. «E la parola è metastasi.»
«Sì. Grazie. Comunque, questa sera lo operano per asportare il tumore
principale.» Stava ricominciando a piangere. «Non riesco a darmi pace che
stia succedendo a mio padre.»
«Coraggio», la rincuorai. «Oggigiorno fanno miracoli. Io sono il reperto
A.»
O non mi considerava un miracolo o era un argomento in cui non desiderava entrare. «Comunque il Natale è saltato.»
«Naturalmente.» E la verità? Ero contento. Maledettamente contento.
«Domani corro a Palm. Ilse arriva venerdì, Melinda il venti. Immagino...
considerato che tu e mio padre non vi siete mai visti veramente di buon
occhio...»
Considerato il fatto che una volta siamo venuti quasi alle mani dopo che
mio suocero aveva fatto riferimento ai Democratici chiamandoli «Comucratici», pensai che mi stava usando un riguardo. «Se stai pensando che
non voglio raggiungere te e le ragazze a Palm Desert, è così», dissi. «Sicuramente darai ai tuoi assistenza economica e capiranno che in questo ho
dato il mio contributo...»
«Non mi sembra il momento di tirare in ballo il tuo dannato conto in
banca!»
E la collera riemerse, trac. Pentola scoperchiata. Avrei voluto dire ma
vattene a fare in culo, brutta stronza. Ma non lo dissi. Almeno in parte
perché mi sarebbe venuto fuori bulla stronza o forse brutta lonza. Non so
perché, ma me lo sentivo.
Però ci andai vicino.
«Eddie?» Era truce, pronta a dare battaglia se lo volevo.
«Non sto tirando in ballo il conto in banca», dissi, ascoltando con attenzione ogni singola parola. Mi uscivano di bocca giuste. Fu un sollievo.
«Sto solo dicendo che la mia faccia al capezzale di tuo padre non accelererà il suo recupero.» Per un momento la collera - la furia - rischiò di farmi
aggiungere che nemmeno io avevo visto la sua faccia al mio. Ancora una
volta riuscii a trattenere le parole, ma a quel punto stavo sudando.
«D'accordo, afferrato il concetto.» Fece una pausa. «Tu cosa farai a Natale, Eddie?»
Dipingerò il tramonto, pensai. Magari ci azzecco.
«Credo che, se farò il bravo bambino, potrei essere invitato al cenone a
casa di Jack Cantori e famiglia», risposi senza crederci molto. «Jack è il
ragazzo che lavora per me.»
«Dalla voce mi sembri migliorato. Più forte. Dimentichi ancora le cose?»
«Non so, non ricordo.»
«Molto divertente.»
«Il riso è la medicina migliore. L'ho letto su Reader's Digest.»
«Come va il braccio? Sempre quelle sensazioni fantasma?»
«No», mentii, «direi che sono passate.»
«Bene. Sono contenta per te.» Altra pausa. Poi: «Eddie?»
«Sono ancora qui», dissi. E con la base del palmo della mano livido per
la ferocia con cui stringevo le dita.
La pausa si prolungò. Le linee telefoniche non sibilano e gracchiano più
come quando ero bambino, ma sentii lo stesso il sospiro sommesso di tutti
i chilometri che c'erano tra noi. Era simile a quello del Golfo quando la
marea era bassa. Poi lei disse: «Mi spiace che sia andata così».
«Anche a me», risposi e, quando lei riattaccò, presi una delle mie conchiglie più grandi e non so come mi trattenni dallo scagliarla nello schermo del televisore. Attraversai invece zoppicando la stanza, aprii la porta e
la scaraventai nella strada deserta. Non odiavo Pam, questo no, ma a quanto pareva qualcosa odiavo ancora. Forse quell'altra vita.
Forse solo me stesso.
7
ifsogirl88 a EFreel9
09.05
23 dicembre
Caro papà, i dottori non dicono molto ma io non sento buoni pre-
sagi sull'operazione del nonno.
Naturalmente può esser solo per via di mamma.
Va a trovare il nonno tutti i giorni, porta la nonna e cerca di tenersi su ma non è una persona molto positiva.
Voglio venire a trovarti. Ho controllato i voli e ce n'è uno per Sarasota il 26. Arriva alle 18.15 ora locale.
Potrei restare due o tre giorni. Ti prego di' di sì!
Così i tuoi regali te li porto invece di spedirteli. Un bacio...
Ilse
P.S. Ho novità speciali
Ci pensai o consultai solo il richiamo dell'istinto? Non ricordo. Forse né
una né l'altra cosa. Forse avevo solo voglia di vederla e questo contava più
di tutto. Fatto sta che risposi quasi immediatamente.
EFreel9 a ifsogirl88
09.17
23 dicembre
Ilse: vieni! Fissa il volo e vengo a prenderti con Jack Cantori, il
mio personale elfo di Natale. Spero che ti piacerà la mia nuova
casa, che ho chiamato Big Pink.
Una cosa: non farlo senza l'approvazione di tua madre.
Abbiamo passato qualche brutto momento, come ben sai.
Voglio sperare che quei brutti momenti appartengano ormai al
passato.
Credo che tu capisca.
Papà
La sua controrisposta fu altrettanto rapida. Evidentemente era rimasta in
attesa.
ifsogirl88 a EFreel9
09.23
23 dicembre
Già sistemato con mamma, dice va bene.
Cercato convincere Lin, ma lei preferisce restare qui prima di tornare in Francia.
Non serbarle rancore.
Ilse
PS: Yippii! Sono felice!! ☺
Non serbarle rancore. Potrei dire che la mia If-So-Girl diceva così della
sorella maggiore fin da quando aveva cominciato a parlare. Lin non vuole
andare alla festa perché non le piacciono gli hot dog... ma non serbarle
rancore. Lin non può mettersi quel tipo di scarpe perché non c'è più nessuno nella sua classe che porta scarpe con la caviglia alta... perciò non serbarle rancore. Lin vuole che sia il papà di Ryan a portarli al ballo... ma non
serbarle rancore. E sapete qual è la parte peggiore? Non gliene ho mai serbato. Avrei potuto dire a Linnie che preferire Ilse era come essere mancini,
qualcosa su cui non avevo controllo, e questo avrebbe solo peggiorato le
cose, anche se era la verità. Forse proprio perché lo era.
8
Ilse che veniva a Duma Key, a Big Pink. Yippii, era felice, e yippii, lo
ero anch'io. Juanita, una nerboruta signora che mi aveva trovato Jack, veniva a fare le pulizie due volte alla settimana e chiesi a lei di preparare la
stanza per gli ospiti. Le chiesi anche di portare dei fiori freschi il giorno
dopo Natale. Sorridendo, propose qualcosa che suonava come caco di canale. Il mio cervello, ormai avvezzo all'arte raffinata dei collegamenti incrociati, non provò imbarazzo per più di cinque secondi; risposi a Juanita
che ero sicuro che Ilse avrebbe molto gradito un cactus di Natale.
Il giorno della vigilia mi trovai a rileggere l'e-mail originale di Ilse. Il sole scendeva proiettando una lunga striscia scintillante sull'acqua, ma mancavano ancora almeno due ore al tramonto e io ero nella Florida room. La
marea era alta. Sotto di me i mucchi di conchiglie frusciavano spostati dalle onde e producevano quel rumore così simile a un respiro o alla sussurrata confidenza di una voce roca. Passai il pollice sul post scriptum - ho novità speciali - e il braccio destro, quello che non c'era più, cominciò a formicolare. L'epicentro del formicolio era individuabile con una precisione
che potrei definire squisita. Cominciava nella piega del gomito e scendeva
a spirale fino al lato esterno del polso. S'intensificò in un prurito che mi fa-
ceva venir voglia di grattarmi.
Chiusi gli occhi e schioccai il pollice della destra contro il medio. Non ci
fu suono, ma io lo schiocco, lo percepii. Mi strofinai il braccio sul fianco e
percepii lo strofinio. Abbassai la mano destra, da tempo cremata nell'inceneritore dell'ospedale di St. Paul, sul bracciolo della mia sedia e tamburellai con le dita. Nessun suono, ma la sensazione c'era: polpastrelli su vimini. Lo avrei giurato davanti a Dio.
All'improvviso ebbi voglia di disegnare.
Pensai allo stanzone al piano di sopra, ma Little Pink mi sembrò troppo
lontana. Andai in soggiorno e presi uno degli album da disegno impilati
sul tavolino. Quasi tutto il mio materiale era al piano di sopra, ma in uno
dei cassetti della scrivania c'erano alcune scatole di matite colorate e presi
anche una di quelle.
Di nuovo nella Florida room (che per me sarebbe stata sempre solo una
veranda), tornai a sedermi e chiusi gli occhi. Ascoltai le onde fare il loro
lavoro sotto di me, sollevando le conchiglie e disponendole in composizioni nuove, ciascuna diversa da quella precedente. Con gli occhi chiusi
quel fruscio somigliava ancora di più a un chiacchiericcio: l'acqua che donava una lingua temporanea al labbro della terraferma. E la terra stessa era
temporanea, perché dal punto di vista geologico Duma non sarebbe durata
a lungo. Nessuna delle key sarebbe scampata: alla fine il Golfo se le sarebbe prese tutte e ne sarebbero affiorate di nuove in altri luoghi. Era probabilmente il destino della Florida tutta quanta. La terra era bassa e a prestito.
Ah, ma quel suono era rilassante. Ipnotico.
Senza aprire gli occhi cercai l'e-mail di Ilse e vi passai sopra la punta
delle dita. Lo feci con la destra. Poi aprii gli occhi, spostai il messaggio
con la mano che avevo e mi posai in grembo l'album. Rovesciai sul tavolo
tutte e dodici le matite già temperate e cominciai a disegnare. Avevo il sospetto che la mia intenzione fosse quella di disegnare Ilse: a chi altri avevo
pensato fino a quel momento, in fondo? Ed ero convinto che ne sarebbe
uscito un lavoro di una spettacolare bruttezza, perché da quando avevo ripreso a disegnare non avevo mai tentato una sola volta la figura umana.
Ma non era Ilse e non era male. Niente di grandioso, forse, ancora non un
Rembrandt (nemmeno un Norman Rockwell), ma non male.
Era un giovane in jeans, con una T-shirt dei Minnesota Twins. Il numero
sulla maglia era il 48, che a me non diceva nulla; nella mia altra vita andavo a vedere tutte le partite dei T-Wolves che potevo, ma non sono mai sta-
to un patito di baseball. Il giovane aveva i capelli biondi che sapevo di non
aver reso nel modo giusto; non avevo i colori che mi servivano per riprodurre l'esatta tonalità di biondo virato sul castano. Aveva in mano un libro.
Sorrideva. Sapevo chi era. Era la novità speciale di Ilse. Questo raccontavano le conchiglie mentre la marea le sollevava e rigirava e lasciava ricadere. Fidanzata, fidanzata. Aveva un anello, un diamante, glielo aveva
comprato a...
Stavo ombreggiando i jeans del ragazzo con il blu. Lasciai cadere la matita, presi quella nera e scrissi in un lampo la parola
ZALES
in calce al foglio. Era un'informazione; era anche il nome del disegno. Il
nome fa potere.
Poi, senza una pausa, ho abbandonato la matita nera, ho preso quella arancione e ho aggiunto scarpe da lavoro. L'arancione era troppo vivo, faceva sembrare gli scarponcini nuovi quando non lo erano, ma era giusta
l'idea.
Mi grattai il braccio destro, grattai attraverso il braccio destro, e trovai
invece le costole. Mormorai un «cazzo» sottovoce. Sotto di me mi sembrò
che le conchiglie frusciassero un nome. Era Connor? No. E lì c'era qualcosa di sbagliato. Non so da dove mi venisse quella sensazione, ma tutt'a un
tratto il prurito fantasma al braccio destro diventò un dolore freddo.
Rivoltai il foglio dell'album e disegnai un altro schizzo. Questa volta usando solo la matita rossa. Rosso, rosso, era ROSSO! La matita sfrecciò
rovesciando sulla carta una figura umana come sangue da un taglio. Era di
schiena e indossava una vestaglia rossa con un colletto smerlato. Colorai di
rosso anche i capelli perché sembravano sangue e la sua persona intera mi
trasmetteva una sensazione di sangue. Di pericolo. Non per me ma...
«Per Ilse», mormorai. «Pericolo per Ilse. Sarebbe questo? L'uomo della
novità speciale?»
C'era qualcosa che non andava in quella novità speciale, ma non credo
fosse quello a riempirmi di ansia. Tanto per cominciare la figura in vestaglia rossa non aveva molto di maschile. Non potevo esserne certo, però sì,
il mio pensiero era... femmina. Allora forse non era una vestaglia. Forse un
vestito. Un vestito lungo di colore rosso?
Tornai a guardare la prima figura e osservai il libro che la novità speciale teneva in mano. Lasciai cadere per terra la matita rossa e colorai il libro
di nero. Poi osservai di nuovo la figura e all'improvviso scrissi
COLIBRÌ
in lettere calligrafiche in testa al foglio. Poi gettai in terra la matita nera.
Alzai le mani tremanti e mi coprii la faccia. Invocai il nome di mia figlia
come si fa quando vedi qualcuno troppo vicino al ciglio di uno strapiombo
o a una via piena di traffico.
Forse ero solo pazzo. Probabilmente ero pazzo.
Dopo un po' mi resi conto che, naturalmente, avevo una sola mano sugli
occhi. Il dolore e il prurito fantasma erano spariti. Il timore che stessi impazzendo - diamine, che fossi già impazzito - rimase. Una cosa era fuor di
dubbio: avevo fame. Una fame da morire.
9
L'aereo di Ilse atterrò con dieci minuti d'anticipo. Radiosa com'era, in jeans scoloriti e T-shirt della Brown University, mi parve impossibile che
Jack non si innamorasse di lei al primo sguardo, lì al Terminal B. Mi abbracciò di slancio, mi coprì il volto di baci, poi, quando io cominciai a inclinarmi sulla mia gruccia, rise e mi sorresse. La presentai a Jack e finsi di
non vedere il piccolo diamante (acquistato su Zales.com, non avevo dubbi)
che, quando si strinsero la mano, le vidi brillare all'anulare della sinistra.
«Ti trovo in forma smagliante, papà», mi disse mentre uscivamo nella
mite serata dicembrina. «E sei abbronzato. È la prima volta da quando costruivi quel centro di ricreazione al Lilydale Park. E hai messo su qualche
chiletto. Tu non trovi, Jack?»
«Credo che tu possa giudicare meglio di me», rispose lui sorridendo.
«Ce la fai, boss? Potrei tardare.»
«Fai pure con comodo.»
Aspettammo sul ciglio del marciapiede con le sue due borse e il suo
computer. Mi guardò dritto negli occhi sorridendo.
«L'hai visto, vero?» mi chiese. «Non fingere.»
«Se alludi all'anello, l'ho visto. Se non l'hai vinto a una di quelle macchinette con il gancio, direi che le mie felicitazioni sono doverose. Lin lo
sa?»
«Sì.»
«Tua madre?»
«Tu cosa pensi, papà? Indovina.»
«Allora dico di no. Perché in questo momento è troppo preoccupata per
il nonno.»
«Il nonno non è stata la sola ragione per cui per tutto il tempo che sono
stata in California ho tenuto l'anello nella borsetta. Eccetto che per mostrarlo a Lin, si capisce. Più di tutto volevo che fossi tu il primo a saperlo.
È un male?»
«No, tesoro. Sono commosso.»
E lo ero. Ma ero anche in ansia per lei e non solo perché le mancavano
ancora tre mesi per compiere solo vent'anni.
«Si chiama Carson Jones e, ti sembrerà folle, studia teologia. Da non
crederci, vero? Lo amo, papà, lo adoro.»
«Fantastico, tesoro», dissi, mentre sentivo il terrore che mi si arrampicava per le gambe. Solo non adorarlo troppo, stavo pensando. Non troppo.
Perché...
Lei mi stava guardando con molta attenzione e intanto il sorriso le si
spegneva sulle labbra. «Cosa c'è? Cosa non va?»
Mi ero dimenticato quanto fosse svelta e quanto bene sapesse leggere nei
miei pensieri. L'amore è carico di poteri extrasensoriali propri, non è vero?
«Niente, cara. Be'... ho un po' male all'anca.»
«Hai preso le tue pillole?»
«Per la verità... sto continuando a diminuire le dosi. L'idea è di smettere
del tutto in gennaio. È il mio fioretto di Capodanno.»
«Ma è meraviglioso, papà!»
«Solo che i fioretti di Capodanno sono fatti per essere smentiti.»
«Non da te. Tu fai quello che dici.» Corrugò la fronte. «È una delle cose
di te che a mamma non sono mai piaciute. Credo che ne fosse invidiosa.»
«Tesoro, il divorzio è solo una di quelle cose che accadono. Non metterti
a parteggiare, va bene?»
«Intanto ti dirò qualcos'altro che è successo», ribatté Ilse. Le si erano assottigliate le labbra. «Da quando è a Palm Desert si vede in continuazione
con questo tizio che abita vicino a lei. Lei dice che sono solo caffè e sostegno morale, perché anche Max ha perso suo padre, solo l'anno scorso, e a
Max il nonno è tanto simpatico e bla bla bla... ma io ho visto come lo
guarda e... e... non mi piace!» Ora le sue labbra erano quasi scomparse e la
trovai somigliante a sua madre in un modo da far quasi paura. Il pensiero
che accompagnò questa considerazione mi fu di inaspettato conforto: Credo che sia al sicuro. Credo che se questo pio Jones la molla non avrà a sof-
frirne.
Vedevo la mia macchina a nolo, ma Jack avrebbe impiegato ancora un
po'. La fila delle vetture che prelevavano i viaggiatori appena sbarcati procedeva a rilento. Mi appoggiai la stampella al ventre e abbracciai mia figlia, che era venuta fin dalla California per stare con me. «Sii buona con
tua madre, intesi?»
«Non ti importa nemmeno che...»
«Quello che mi importa di più oggi come oggi è che tu e Melinda siate
felici.»
Aveva le occhiaie e mi rendevo conto che, giovane o no, il lungo viaggio l'aveva stancata. Pensai che l'indomani avrebbe dormito fino a tardi e
andava bene così. Se le mie sensazioni sul suo fidanzato erano fondate speravo di no, ma pensavo di sì -nell'anno a venire l'attendevano parecchie
notti insonni.
Jack era arrivato all'altezza del terminal dell'Air Florida, per cui avevamo ancora un po' di tempo. «Hai una foto del tuo ragazzo? I padri curiosi
vogliono sapere.»
Il viso di Ilse s'illuminò. «Certo che ce l'ho.» La foto che estrasse dal suo
portafogli rosso di pelle era protetta da una busta di plastica trasparente. Ilse la sfilò e me la porse. Evidentemente questa volta non tradii la mia reazione, perché il suo sorriso da innamorata (e anche un po' da babbea) non
cambiò. E io? Io mi sentivo come se avessi mandato giù qualcosa che mai
avrebbe dovuto toccare gola umana. Pallini di piombo, per esempio.
Non fu la somiglianza di Carson Jones con l'uomo che avevo disegnato
la vigilia di Natale. A quello ero preparato, lo ero già da quando avevo visto l'anellino ammiccare al dito di Ilse. A lasciarmi di stucco fu la quasi
completa corrispondenza della foto con il mio disegno. Era come se, invece di appuntare al mio cavalletto una foto di sophora, lavanda marina o cestro, vi avessi appeso proprio quella. Indossava i jeans e i logori scarponcini gialli che non ero riuscito a rendere al meglio; i capelli biondo scuro
gli coprivano parzialmente le orecchie e la fronte; aveva un libro in mano e
sapevo che era una Bibbia. Più eloquente di tutto era la T-shirt dei Minnesota Twins con il numero 48 sul petto, a sinistra.
«Chi è il 48 e come hai fatto a conoscere un tifoso dei Twins alla
Brown? Credevo che quella fosse zona da Red Sox.»
«Il numero 48 è Torii Hunter», rispose lei guardandomi come se fossi
l'ebete più patetico del mondo. «Nella sala studenti principale c'è un megaschermo e in luglio ci sono andata un giorno quando stavano giocando i
Sox contro i Twins. La sala era piena zeppa anche se era estate, ma io e
Carson eravamo i soli con addosso i nostri Twins, lui la sua maglia, io il
berretto. Così naturalmente ci siamo seduti vicini e...» Alzò le spalle per
riassumere il resto della storia.
«Di che parrocchia è?»
«Battista.» Mi guardò con una cert'aria di sfida, quasi avesse detto Cannibale. Ma in qualità di membro emerito della Prima Chiesa di Niente in
Particolare, non avevo nulla contro i battisti. Le sole religioni che non mi
andavano a genio erano quelle che pretendevano che il loro Dio fosse più
grande del tuo. «Sono quattro mesi che andiamo alle funzioni insieme tre
volte alla settimana.»
Jack accostò e Ilse si chinò ad afferrare le maniglie delle sue varie borse.
«Salterà il semestre di primavera per andare in tournée con un gruppo gospel davvero straordinario. È un tour di quelli veri, con tanto di prenotazioni e tutto quanto. Si chiamano i Colibrì. Dovresti sentirlo, canta come
un angelo.»
«Ne sono certo.»
Mi baciò di nuovo, delicatamente, sulla guancia. «Sono felice di essere
venuta, papà. E tu?»
«Più di quanto potresti mai immaginare», le risposi e mi ritrovai a sperare che s'innamorasse pazzamente di Jack. Avrebbe risolto tutto... o così mi
sembrava.
10
Di cenone di Natale proprio non si può parlare, ma ce la cavammo lo
stesso con uno dei polli dell'astronauta comprati da Jack, salsa di mirtilli,
insalata pronta e budino di riso. Ilse si servì due volte di ogni pietanza.
Dopo lo scambio dei regali e le rituali esclamazioni di giubilo - tutto era
esattamente ciò che desideravamo! - portai Ilse di sopra, nella Little Pink,
e le mostrai quasi tutta la mia produzione artistica. Il disegno che avevo
fatto del suo ragazzo e il quadro della donna in rosso (se era poi davvero
una donna) li avevo nascosti su un ripiano alto dell'armadio a muro nella
mia camera e lì sarebbero rimasti fin dopo la partenza di mia figlia.
Una decina degli altri, quasi tutti tramonti, li avevo fissati a rettangoli di
cartone che avevo disposto in giro per la stanza, appoggiati alle pareti. Ilse
li visionò una volta. Si fermò e rifece il giro. Ormai era buio, la mia grande
vetrata al primo piano era piena di oscurità. La marea era al minimo e il
solo modo di sapere che là fuori c'era il Golfo era ascoltando il lieve e costante sospiro delle onde che salivano a morire sulla sabbia.
«Li hai fatti davvero tu?» chiese alla fine. Si girò e mi guardò in un modo che mi mise a disagio. È il modo in cui si guarda una persona quando è
in corso una seria riconsiderazione.
«Li ho fatti io», annuii. «Che ne pensi?»
«Sono belli. Forse più che belli. Questo...» Si chinò e con molta attenzione sollevò da terra quello della conchiglia sulla linea dell'orizzonte, circondata dal riverbero giallo-arancione del tramonto. «Questa è fott... scusami, davvero impressionante.»
«È quello che penso anch'io», convenni. «Ma non è niente di originale.
È un qualsiasi tramonto con un tocco di surrealismo.» Poi mi venne da esclamare: «Hello, Dalí!»
Posò Tramonto con conchiglia e prese Tramonto con sophora.
«Chi li ha visti?»
«Solo tu e Jack. Ah, anche Juanita. Lei li definisce asustadores. Qualcosa di simile. Jack dice che vuol dire che fanno paura.»
«Non ha neanche tutti i torti», ammise lei. «Però papà... queste matite
che usi sbaveranno. E credo che se non fai qualcosa i disegni si scoloriranno.»
«Cosa?»
«Non lo so. Comunque credo che dovresti mostrarli a qualcuno che ci
capisce. Qualcuno che possa dirti quanto sono veramente belli.»
Mi sentivo lusingato ma anche in imbarazzo. Quasi disorientato. «Non
saprei a chi o dove...»
«Chiedi a Jack. Forse conosce una galleria d'arte dove andare a farli vedere.»
«Questa è bella. Mi presento e dico: 'Salve, io vivo a Duma Key e ho qui
qualche disegno a matita, soprattutto tramonti, un soggetto molto insolito
sulle coste della Florida, che secondo la mia governante sono muy asustadores'.»
Lei si piazzò le mani sui fianchi e inclinò la testa su un lato. Era la posa
che assumeva Pam quando non aveva intenzione di soprassedere. Quando
la sua intenzione al contrario era di lanciarsi nella discussione a testa bassa.
«Papà...»
«Ohi ohi, me la sono cercata.»
Lei non mi ascoltò. «Tu hai trasformato due pick-up, un vecchio bulldo-
zer della guerra in Corea e un prestito bancario di ventimila dollari in
un'attività milionaria. Adesso vorresti venirmi a raccontare che non saresti
capace di convincere un paio di galleristi a guardare i tuoi disegni?»
Il suo tono si raddolcì.
«Sono belli, papà. Belli. Ho frequentato un solo misero corso di critica
artistica al liceo e già mi basta per saperlo.»
Io dissi qualcosa, ma non so bene cosa. Pensavo al mio frenetico schizzo
di Carson Jones, alias il Colibrì Battista. Se lo avesse visto, avrebbe trovato bello anche quello?
Ma non sarebbe accaduto. Quello no e nemmeno quello della persona in
tunica rossa. Nessuno li avrebbe visti. Così pensavo in quel momento.
«Papà, ma se hai sempre avuto questo talento, dove l'avevi messo?»
«Non lo so», dissi. «E di quanto talento stiamo parlando è ancora tutto
da valutare.»
«Allora trovati qualcuno che te lo dica, giusto? Qualcuno che se ne intende.» Prese il disegno della cassetta postale. «Persino questo... non è
niente di speciale, eppure c'è qualcosa. Per via...» Toccò il foglio. «Il cavallo a dondolo. Perché hai messo un cavallo a dondolo in questo disegno,
papà?»
«Non lo so», risposi. «Volevo che ci fosse.»
«L'hai disegnato a memoria?»
«No. Sembra che non ne sia capace. O a causa dell'incidente o perché
non ho mai avuto questa particolare abilità fin dal principio.» Invece qualche volta lo facevo. Nel caso di ragazzi con la maglia dei Twins, per esempio. «Ho trovato quest'immagine in Internet, l'ho stampata...»
«Oh, merda, l'ho sbavato!» esclamò. «Oh, merda!»
«Non è niente, Ilse. Tranquilla.»
«È qualcosa, invece, e non posso stare tranquilla! Devi assolutamente
procurarti dei colori solidi, cazzo!» Ripensò a quel che aveva appena detto
e si premette la mano sulla bocca.
«Probabilmente non ci crederai», dissi, «ma quella parola, l'ho già sentita una o due volte. Mentre mi sa che forse il tuo ragazzo non la conosca
più che tanto...»
«Su questo hai ragione», rispose. Con una punta di rammarico. Poi sorrise. «Ma se qualcuno gli taglia la strada in macchina sa spararne qualcuna
di potente. Papà, questi tuoi disegni...»
«Sono felice che ti piacciano.»
«Altro che piacermi. Mi hai lasciata di stucco.» Sbadigliò. «Sto dormen-
do in piedi.»
«Ti propongo una tazza di cioccolata calda e poi un bel letto.»
«Grandioso.»
«Quale dei due?»
Rise. Era un piacere sentirla ridere. Riempiva la casa. «Tutti e due.»
11
L'indomani mattina scendemmo in spiaggia con le nostre tazze di caffè a
immergere i piedi nelle onde. Il sole si era appena issato oltre la bassa
schiena della key dietro di noi e sembrava che le nostre ombre si allungassero per chilometri sulle acque tranquille.
Ilse mi guardò con un'espressione solenne. «Questo è il posto più bello
del mondo, papà?»
«No, ma tu sei giovane ed è giusto che pensi che possa esserlo. Per la
verità è al quarto posto nella lista dei posti più belli, ma i primi tre hanno
nomi impossibili.»
Sorrise da sopra la sua tazza. «Ma dai.»
«Se insisti... Il numero uno è il Machu Picchu. Al secondo posto c'è
Marrakech. Al terzo, c'è Twyfelfontein, monumento nazionale dei Petroglifi. Poi, al quarto posto, c'è Duma Key, davanti alla costa occidentale
della Florida.»
Il suo sorriso si ampliò per un secondo o due. Poi si spense e mi guardò
di nuovo con quell'aria solenne. Ricordai quella stessa espressione quando
aveva quattro anni, nel chiedermi se esisteva davvero la magia come nelle
fiabe. Le avevo risposto di sì, naturalmente, pensando che fosse una bugia.
Ora non ne sono più tanto sicuro. Ma l'aria era tiepida, avevo i piedi nudi a
mollo nel Golfo e non volevo che Ilse dovesse soffrire. Pensavo che sarebbe successo. Ma a ciascuno spetta la sua razione, giusto? Eh sì. Bam, nel
naso, bam, in un occhio, bam, sotto la cintura, e tu vai giù e l'arbitro si era
assentato un momento per andare a farsi un hot dog. Le persone che ami
invece possono veramente moltiplicare quel dolore e trasmetterlo. Il dolore
è la forza più potente dell'amore. Così dice Wireman.
«Qualcosa che non va, tesoro?» le chiesi.
«No, pensavo solo a quanto sono contenta di esser venuta. Mi ti immaginavo a marcire tra un ospizio per vecchietti e qualche orribile tiki bar con
concorsi di maglietta bagnata tutti i giovedì. Mi sa che ho letto troppo Carl
Hiaasen.»
«Ci sono un sacco di posti così quaggiù», confermai.
«E ci sono altri posti come Duma?»
«Questo non lo so. Forse sì.» Ma a giudicare da quanto mi aveva raccontato Jack, probabilmente non ce n'erano.
«Comunque tu te lo meriti», aggiunse lei. «Un po' di tempo per riposare
e guarire. E se tutto questo...» Comprese il Golfo in un gesto del braccio.
«...non ti guarisce, proprio non saprei che cos'altro si potrebbe inventare.
L'unica cosa...»
S'interruppe e io disegnai nell'aria un circoletto di evidenziazione con la
punta del dito. Ogni famiglia ha un proprio lessico personale, che include
il linguaggio dei segni. Il mio gesto non avrebbe avuto nessun significato
per un estraneo, ma Ilse lo conosceva e rise.
«Lo so, furbacchione. La sola mosca nella minestra è il rumore che fa la
marea quando sale. Io mi sono svegliata in piena notte e per poco non mi
sono messa a gridare prima di capire che erano le conchiglie spostate
dall'acqua. Perché è quello il rumore, vero? Dimmi che è quello, ti prego.»
«È quello. Che cos'altro pensavi che fosse?»
Rabbrividì letteralmente. «La mia prima idea... non ridere... è stata scheletri in marcia. Un corteo di centinaia in giro per la casa.»
Io non l'avevo mai vista così, ma capivo che cosa intendeva. «Io lo trovo
rilassante.»
Lei si strinse nelle spalle, dubbiosa. «Be'... meglio così, allora. A ciascuno il suo. Ti va di rientrare? Potrei strapazzare un paio d'uova. Magari aggiungendoci dei peperoni e dei funghi.»
«Ci sto.»
«Non ti avevo mai visto camminare per tanto tempo senza stampella.»
«Spero di percorrere mezzo chilometro in spiaggia per la metà di gennaio.»
Fece un fischio. «Mezzo chilometro di andata e mezzo di ritorno?»
Scossi la testa. «No, no. Mezzo in tutto. Torno indietro volando.» Aprii
il braccio per darle una dimostrazione.
Lei mi rispose con un grugnito e si avviò di nuovo verso casa, ma si
fermò subito dopo, attratta da un puntici no di luce che proveniva da sud.
Uno, poi due. I due puntini di tutti i giorni.
«Gente», commentò facendosi scudo agli occhi.
«I miei vicini. Allo stato attuale, i miei soli vicini. Almeno così credo.»
«Li hai conosciuti?»
«No. So solo che sono un uomo con una donna su una sedia a rotelle.
Credo che scenda quasi tutti i giorni in spiaggia a fare colazione. Credo
che quello che vedi luccicare sia un vassoio.»
«Dovresti procurarti un golf-cart. Così potresti fare un salto fin laggiù a
presentarti.»
«Un giorno o l'altro andrò fin laggiù a piedi a presentarmi», risposi.
«Niente golf-cart per il sottoscritto. Il dottor Kamen ha detto di impormi
degli obiettivi ed è quello che sto facendo.»
«Non avevi bisogno che fosse uno strizzacervelli a dirtelo, papà», ribatté
lei continuando a scrutare verso sud. «Da quale casa vengono? Quella
grande che sembra un ranch di un film western?»
«Sono sicuro di sì.»
«E qui non ci vive nessun altro?»
«Non ora. Jack dice che in gennaio e febbraio arriva gente che prende in
affitto alcune delle altre case, ma credo che per il momento siamo solo io e
loro. Il resto dell'isola è pura pornografia botanica. Tutto fuori, fuori tutta.»
«Mio Dio, ma perché?»
«Non ne ho la più pallida idea. Ho intenzione di scoprirlo, di provarci
almeno, ma ora come ora sto ancora cercando di rimettermi in piedi. Nel
senso letterale del termine.»
Ora stavamo tornando verso casa. «Un'isola quasi vuota nel sole», commentò Ilse. «Dovrebbe esserci dietro una storia. È praticamente doveroso,
non credi?»
«Sì», risposi. «Jack Cantori si è offerto di indagare, ma io non ho voluto,
ho pensato che preferirei farlo di persona.» Piantai la gruccia nella sabbia,
infilai il braccio tra i due tubolari d'acciaio - con la sensazione di conforto
che sempre provavo dopo aver trascorso del tempo in spiaggia senza il suo
supporto - e mi avviai per il vialetto. Ma Ilse non era con me. Mi girai a
guardare. Era ferma, rivolta a sud, con la mano di nuovo a proteggersi gli
occhi. «Vieni, cara?»
«Sì.» In fondo alla spiaggia balenò un altro lampo, il vassoio della prima
colazione. Oppure una caffettiera. «Forse loro la conoscono», disse Ilse
raggiungendomi.
«Forse.»
Puntò il dito verso la strada. «E quella? Fin dove va?»
«Non lo so.»
«Vuoi che oggi pomeriggio andiamo a vedere?»
«Te la senti di pilotare una Chevy Malibu della Hertz?»
«Certamente», rispose lei. Si portò le mani ai fianchi snelli, finse di spu-
tare e mimò la cadenza strascicata di un texano. «Fin oltre l'ultima collina.»
12
Ma non arrivammo nemmeno vicino alla fine di Duma Road. Non quel
giorno. La nostra esplorazione cominciò bene e finì male.
Al momento di partire eravamo tutti e due di ottimo umore. Io avevo riposato per un'ora e avevo preso il mio OxyContin del mezzogiorno. Mia
figlia, in calzoncini e canotta, rise quando pretesi di spalmarle dell'ossido
di zinco sul naso. «Bobo il clown», commentò rimirandosi allo specchio.
Lei era su di giri, io ero felice come non ero stato dal giorno dell'incidente,
di conseguenza quello che ci accadde quel pomeriggio ci colse totalmente
alla sprovvista. Ilse incolpò il pranzo, forse maionese andata a male
nell'insalata di tonno, e io glielo lasciai credere, ma non pensavo affatto
che fosse maio cattiva. Mojo cattivo, caso mai.
La strada era stretta, dissestata e rappezzata alla meglio. Fino al punto in
cui entrava nella densa vegetazione che copriva la maggior parte della key,
era anche increspata da cumuli di sabbia color ossa che il vento aveva soffiato dalla spiaggia nell'entroterra. Per un lungo tratto la Chevy a nolo vi
passò sopra con sportiva baldanza, ma quando la strada piegò un po' più
vicino all'acqua - fu poco prima che arrivassimo all'hacienda che Wireman
chiamava El Palacio de Asesinos - i cumuli diventarono più alti e, invece
di scavalcarli sobbalzando, la macchina cominciò a ondeggiare. Ilse, che
aveva imparato a guidare in una regione di nevi, la condusse senza batter
ciglio.
Le case che c'erano tra Big Pink ed El Palacio erano tutte nello stile che
avevo personalmente soprannominato Brutto Pastello della Florida. Erano
quasi tutte sprangate e, tranne che in un caso, i cancelli dei vialetti erano
chiusi. L'unica eccezione era rappresentata da un vialetto sbarrato da due
transenne su cui era stato stampigliato questo scolorito avviso: CANI
CATTIVI - CANI CATTIVI. Al di là della casa dei Cani Cattivi, cominciava il terreno di proprietà dell'hacienda. Era protetto da un solido muro
alto tre metri, in falso stucco con copertura di tegole. Altre tegole arancione - il tetto della villa - disegnavano angoli e piani inclinati contro l'immacolato cielo blu.
«Capitomboli!» esclamò Ilse - questa doveva averla presa dal fidanzato
battista. «Ma è roba da Beverly Hills.»
Il muro costeggiava il lato est della brutta strada per almeno un'ottantina
di metri. Non c'erano cartelli di VIETATO L'ACCESSO; visto il muro,
quale fosse la filosofia del proprietario nei confronti di venditori porta a
porta e predicatori mormoni era più che chiaro. Al centro c'era un cancello
di ferro a due battenti, socchiuso. E seduta subito dietro...
«Eccola», mormorai. «La signora della spiaggia. Porca merda, è la Sposa del Padrino.»
«Papà!» protestò Ilse ridendo ma scioccata allo stesso tempo.
Era davvero anziana, sugli ottantacinque anni almeno. Era sulla sua carrozzella. I poggiapiedi cromati erano occupati da un paio di enormi scarponcini blu. Nonostante la temperatura, indossava una tuta grigia di felpa.
Tra le dita nodose di una mano si andava consumando una sigaretta. In testa aveva il cappello di paglia che avevo visto durante le mie passeggiate,
ma senza accorgermi allora di quanto fosse enorme, non solo un cappello
ma un vecchio sombrero un po' sgualcito. La sua somiglianza con Marion
Brando nel finale di Il padrino, quando gioca con il nipote in giardino, era
indiscutibile. In grembo aveva qualcosa che non sembrava propriamente
una pistola ma quasi.
Io e Ilse salutammo con la mano. Sulle prime lei non reagì. Poi ne alzò
una con il palmo in avanti in un gesto che aveva dell'indiano, e distese le
labbra in un sorriso solare e quasi totalmente sdentato. Le mille e una ruga
che le incresparono il viso trasformavano il suo volto in quello di una strega benevola. Non guardai nemmeno la casa dietro di lei; stavo ancora cercando di assorbire l'impressione di quell'apparizione improvvisa, le enormi
scarpe blu, il reticolo di rughe, la sua...
«Papà, quella era una pistola?» Ilse guardava con gli occhi sgranati nello
specchietto retrovisore. «Quella donna aveva una pistola?»
L'auto stava sbandando e considerai la concreta possibilità di strusciare
l'angolo in fondo al muro dell'hacienda. Diedi un colpetto al volante per
correggere la rotta. «Credo di sì. Più o meno. Tu sta' attenta alla strada, tesoro. Posto che si possa chiamare strada.»
Lei tornò a guardare avanti. Fino a quel momento avevamo guidato in
pieno sole, ma la luce finì in fondo al muro dell'hacienda. «Come sarebbe
a dire più o meno?»
«Sembrava... non so, una pistola balestra. O qualcosa del genere. Forse
la usa per tirare ai serpenti.»
«Meno male che ha sorriso», commentò Ilse. «Ed era un fior di sorriso,
no?»
Annuii. «Sì.»
L'hacienda era l'ultima casa della zona praticabile sul versante nord di
Duma Key. Più avanti la strada girava verso l'interno e la vegetazione l'assediava su entrambi i lati in un modo che trovai dapprima interessante, poi
sorprendente, infine claustrofobico. L'ammasso giganteggiava fin oltre i
quattro metri di altezza e le foglie arrotondate erano venate di un rosso
scuro che sembrava sangue rappreso.
«Che roba è questa, papà?»
«Si chiama coccoloba uvifera, uva di mare. La pianta verde con i fiori
gialli si chiama wedelia. Cresce dappertutto. Ci sono anche dei rododendri.
Gli alberi sono per lo più comune pino dei Caraibi, penso, anche se...»
Rallentò a passo d'uomo e puntò il dito a sinistra, torcendo il collo per
guardare dall'angolo del parabrezza. «Quello è un tipo di palma. E guarda... laggiù...»
La strada girava di nuovo puntando ancor più verso l'interno e lì i tronchi che la fiancheggiavano sembravano masse nodose di corda grigia. Le
radici avevano sollevato l'asfalto. Giudicai che saremmo potuti passare, ma
di lì a pochi anni?... Impossibile.
«Ficus strangolatori», dissi.
«Bel nome, sembra preso da Alfred Hitchcock. E crescono selvatici?»
«Non lo so», confessai.
Superò lentamente il tratto accidentato dalle radici sotterranee e proseguì. Procedevamo a meno di dieci chilometri all'ora. Tra rododendri e uva
di mare vedemmo altri ficus strangolatori. La vegetazione alta e compatta
immergeva la strada in un'ombra profonda. Da una parte e dall'altra era
impossibile vedere qualcosa. Eccetto che per qualche sporadico spicchio di
blu o di qualche raggio di sole errante, anche il cielo era scomparso. A
quel punto cominciammo a vedere ciuffi di cladium giamaicano e cerosi
arbusti di fiddlewood crescere dalle crepe nell'asfalto.
Cominciò a prudermi il braccio. Quello che non c'era. Senza pensare allungai la mano per grattarmi e trovai solo le costole ancora indolenzite,
come sempre. Contemporaneamente cominciò a prudermi anche il lato sinistro della testa. Quello, potevo grattarlo e così feci.
«Papà?»
«Tutto bene. Perché ti fermi?»
«Perché... io invece non mi sento un granché.»
E glielo si leggeva in faccia. Era diventata bianca quasi quanto la pomata
che aveva sul naso. «Ilse? Cosa c'è?»
«La pancia. Comincio ad avere seri dubbi su quell'insalata di tonno che
ho preparato per pranzo.» Mi rivolse il sorriso sbilenco di chi avverte i
primi sintomi di un'influenza. «Mi chiedo anche come ci tirerò fuori da
qui.»
Non aveva tutti i torti. Sembrava che all'improvviso le piante di uva di
mare stessero scendendo nella strada e che sopra di noi le fronde intrecciate delle palme fossero più fitte. Mi accorsi dell'odore che ci circondava, un
odore cattivo di vegetazione che sembrava ammarinisi in fondo alla gola.
E perché no? Giungeva da esseri viventi, del resto, quelli che si assiepavano ai nostri fianchi. E sopra di noi.
«Papà?»
Il prurito peggiorava. Era rosso, quel prurito, come verde era il puzzo
che avevo nel naso e in gola. Era il prurito che ti assale quando ti ritrovi
incastrato in una macabra, incastrato in una monaca.
«Papà, scusa ma credo che sto per vomitare.»
Non una macabra, non una monaca, era una macchina. Ilse aprì la portiera della macchina e si sporse tenendosi aggrappata al badante con una
mano e poco dopo la sentii riflettere.
Una pellicola rossa mi velò l'occhio destro e pensai: Lo posso fare. Lo
posso fare. Devo far funzionare questo vecchio catorcio d'uomo.
Aprii lo sportello e scesi. Mi catapultai fuori, reggendomi allo sportello
per non finire a capofitto in un groviglio di uva di mare e nei rami intrecciati di un banyan mezzo strangolato. Mi prudeva dalla testa ai piedi. Lo
spazio tra la macchina e la vegetazione era così angusto che, quando m'incamminai per girare intorno al veicolo, rami e cespugli mi si strusciarono
addosso. Metà del mio campo di visuale
(ROSSO)
sembrava inondato di sangue, sentii la punta di un ramo di pino grattarmi il polso - avrei potuto giurarlo - del braccio destro e pensai lo posso fare, lo DEVO fare, mentre sentivo Ilse che vomitava di nuovo. Mi rendevo
conto che in quel budello così stretto faceva molto più caldo di quanto avrebbe dovuto, nonostante la volta di vegetazione che ci copriva. E avevo
abbastanza grani di sale in zucca da chiedermi che cosa ci fosse saltato in
mente di voler venire a perlustrare quella strada. Ma naturalmente in quel
momento ci era sembrata una gitarella qualsiasi.
Ilse si sporgeva dalla macchina, appesa al volante con la mano destra. Le
spiccavano sulla fronte le gocce di sudore. Alzò gli occhi su di me. «Dio
mio...»
«Mettiti di là. Ilse.»
«Papà, cosa vuoi fare?»
Come se non lo avesse visto. E all'improvviso mi vennero a mancare le
parole portarci e via. In quel momento sarei riuscito ad articolare al massimo da qui, che, privo di contesto, non avrebbe avuto alcun significato.
Sentii la collera che mi risaliva per la gola come acqua calda. O sangue. Sì,
è più giusto, perché la collera era naturalmente rossa.
«Portarci via da qui. Spostati.» Pensando: Non t'arrabbiare con lei. Guai
se alzi la voce. Oh, per l'amor di Dio, non lo fare.
«Ma papà, tu non...»
«Sì. Lo posso fare. Spostati.»
L'abitudine all'ubbidienza è dura a morire, specialmente forse tra padri e
figlie. E poi stava male. Si spostò e io mi sedetti al volante nella mia maniera goffa e stupida e usando la mano per sollevare la gamba destra malandata. Mi formicolava tutto il fianco, da quella parte, come se fosse percorso da energia elettrica a bassa potenza.
Chiusi con forza gli occhi e pensai: Lo POSSO fare, dannazione, e anche
senza l'aiuto di una stronzetta rossa piena di stracci.
Quando rivolsi di nuovo lo sguardo al mondo, parte di quel rosso, e anche parte di quella collera grazie al cielo, si era dissolta. Ingranai la marcia
indietro e cominciai a retrocedere lentamente. Non potevo sporgermi come
aveva fatto Ilse perché non avevo una mano destra con cui manovrare il
volante. Usai invece lo specchietto retrovisore. Nella testa udivo un segnale fantasma: miip-miip-miip.
«Ti prego, non farci finire fuori strada», gemette Ilse. «Possiamo andare
a piedi. Io sto troppo male e tu sei troppo menomato.»
«Tranquilla, Monica», risposi, ma in quel momento lei aveva di nuovo la
testa fuori del finestrino per vomitare e non credo che mi udì.
13
Piano piano mi allontanai dal punto in cui si era fermata Ilse ripetendo a
me stesso: La pazienza è la prima delle virtù e Chi va piano va sano e va
lontano. Quando sobbalzammo nuovamente sulle radici del ficus diramate
sotto l'asfalto dall'anca mi partirono ringhi dolorosi. In un paio di occasioni
sentii stridere lungo le fiancate i rami dell'uva di mare. Quelli della Hertz
non sarebbero stati contenti, ma in quel momento erano l'ultimo dei miei
crucci.
A poco a poco, con il diradarsi del fogliame che ci sovrastava, la luce
diventò più forte. Bene. Mi si andava schiarendo anche la vista, il prurito
diminuiva. E questo era anche meglio.
«Vedo la casa grande con il muro», annunciò Ilse guardando dietro di sé.
«Ti senti meglio?»
«Forse un po', ma sento lo stomaco che mi balla ancora come il cestello
di una lavatrice.» Sussultò in un conato. «Oddio, non avrei mai dovuto dirlo.» Si sporse dal finestrino, vomitò di nuovo, poi crollò contro lo schienale ridendo e gemendo. Le si erano appiccicati i capelli alla fronte. «Ti ho
appena laccato la fiancata. Ti prego, dimmi che a casa hai una canna per
innaffiare.»
«Ora non ci pensare. Stattene lì buona e fai dei respiri lunghi e lenti.»
Mi rivolse un debole saluto militaresco e chiuse gli occhi.
La vecchia con il grande cappello di paglia non era nei paraggi, ma i battenti del cancello di ferro erano ora spalancati, come se aspettasse visite. O
sapesse che noi avevamo bisogno di un posto dove fare manovra.
Non persi tempo a riflettere su questa circostanza ed entrai senz'altro
nella proprietà a marcia indietro. Per un momento vidi un ampio spiazzo di
piastrelle blu, un campo da tennis e un enorme portone a due battenti con
inseriti degli anelli di ferro. Poi partii verso casa. Ci arrivammo in cinque
minuti. Vedevo di nuovo chiaramente come quando mi ero svegliato quella mattina, forse anche meglio. A parte un formicolio sommesso su e giù
per il fianco destro, mi sentivo bene.
Avevo anche un forte desiderio di disegnare. Non sapevo che cosa, ma
lo avrei saputo quando mi fossi seduto nella Little Pink con uno dei miei
fogli sul cavalletto. Ne ero certo.
«Lascia che ti pulisca la macchina», si offrì Ilse.
«Tu ora vai a sdraiarti. Hai l'aria di una mezza morta.»
Fece un sorriso stentato. «Quella è la metà migliore. Ricordi che la
mamma lo diceva sempre?»
Annuii. «Fila ora. A sciacquare la macchina, ci penso io.» indicai il tubo
flessibile arrotolato contro la parete nord di Big Pink. «È già collegato al
rubinetto e pronto all'uso.»
«Tu sei sicuro di star bene?»
«Più che bene. Credo che tu abbia mangiato più tonno di me.»
Riuscì a sorridere di nuovo. «Sono sempre stata una grande fan della
mia cucina. E tu sei stato grandioso a riportarci indietro, papà. Ti bacerei,
ma con quest'alito...»
Baciai io lei. Sulla fronte. La sua pelle era fresca e umida. «Va' a
sdraiarti, Miss Biscottino, ordini dal quartier generale.»
Andò. Io aprii il rubinetto e sciacquai la fiancata della Malibu, impiegandoci più del necessario perché volevo essere sicuro che si fosse addormentata. E così fu. Quando spiai dalla porta socchiusa della seconda camera da letto, la vidi distesa su un fianco che dormiva come da bambina: una
mano sotto la guancia e un ginocchio levato fin quasi al petto. Noi crediamo di cambiare, ma non va proprio così. Come dice Wireman.
Forse yes, forse no. Come dice Freemantle.
14
Qualcosa mi stava attirando, forse qualcosa che era dentro di me fin
dall'incidente, ma sicuramente qualcosa che era tornato a casa con me da
Duma Key Road. Mi lasciai attirare. Non sono sicuro che avrei potuto oppormi, ma non ci provai nemmeno; ero curioso.
La borsetta di mia figlia era sul tavolino in soggiorno. L'aprii, presi il
portafogli e cercai tra le foto. Mi sentivo un po' sporco, ma non troppo.
Non è che stai rubando qualcosa, mi dicevo, ma naturalmente ci sono molti
modi di rubare, giusto?
Trovai la foto di Carson Jones che mi aveva mostrato all'aeroporto, ma
non volevo quella. Non lo volevo da solo. Lo volevo con lei. Volevo
un'immagine che li ritraesse come coppia. E ne trovai una. Sembrava scattata a una bancarella, dietro di loro c'erano ceste di cetrioli e pannocchie.
Sorridevano, giovani e belli. Si tenevano abbracciati e mi sembrava che
Carson Jones tenesse un palmo appoggiato alla curva del sedere di mia figlia fasciato dai blue jeans. Oh, cristianaccio. Il braccio destro mi prudeva
ancora, un brulichio costante, sottopelle, come spilli di calore. Me lo grattai, mi grattai attraverso, e per la millesima volta trovai invece le costole.
Anche quella foto era protetta da una busta trasparente. La sfilai, lanciandomi un'occhiata alle spalle, nervoso come un topo d'appartamento al suo
primo colpo, controllai attraverso la porta parzialmente aperta Ilse che
dormiva, poi girai la foto.
TI AMO, ZUCCHETTA!
«SMILEY»
Potevo fidarmi di un corteggiatore che chiamava mia figlia Zucchetta e
si firmava Smiley? Non mi sembrava. Forse non era giusto, ma no, a me
non sembrava proprio. In ogni caso avevo trovato quello che cercavo.
Un'immagine che li ritraeva insieme. La girai di nuovo, chiusi gli occhi e
finsi di toccare le loro figure in Kodachrome con la mano destra. Sebbene
fingere non fosse la sensazione che provavo; credo che ormai non ci sia
più bisogno che ve lo dica.
Dopo un periodo di tempo, non saprei dire quanto, riposi la foto nella
sua bustina di plastica e inabissai il portafogli sotto i fazzoletti di carta e i
cosmetici più o meno alla stessa profondità a cui lo avevo trovato. Infine
riportai la borsetta sul tavolino e andai nella mia stanza a prendere Reba la
bambola anticollera. Salii zoppicando nella Little Pink tenendola schiacciata sotto il moncherino. Posando Reba davanti alla finestra, mi sembra di
ricordare d'aver detto: «Ti faccio diventare Monica Seles», ma poteva facilmente essere stato Monica Goldstein; quando attingiamo al passato le
nostre scelte sono prevenute. Il vangelo secondo Wireman.
Ho ricordi più chiari di quanto desidererei su quasi tutto ciò che avvenne
a Duma, ma quel particolare pomeriggio mi appare molto nebuloso. So che
mi prese la frenesia di disegnare e che, mentre ero all'opera, quell'esasperante formicolio nel braccio destro che non c'era più scomparve; non so ma
sono quasi sicuro che per qualche tempo si diradò la foschia rossastra che
in quei giorni mi velava sempre la vista, diventando più densa quand'ero
stanco.
Non so per quanto tempo fui in quello stato. Credo parecchio. Abbastanza perché, quand'ebbi finito, mi sentissi stanco morto e affamato.
Ridiscesi a ingollare affettati nel bagliore gelido della luce del frigorifero. Non volevo prepararmi un vero sandwich perché non volevo che Ilse
sapesse che mi sentivo abbastanza bene da aver voglia di mangiare. Meglio che continuasse a credere che i nostri problemi fossero stati provocati
dalla maionese guasta. In quel modo non saremmo dovuti andare a caccia
di altre spiegazioni.
Nessuna delle altre spiegazioni che mi venivano in mente era razionale.
Dopo aver fatto fuori mezza confezione di fette di salame e aver trangugiato una pinta di tè dolce, mi ritirai in camera, mi sdraiai e piombai in un
sonno idiota.
15
Tramonti.
Certe volte mi sembra che i miei ricordi più vividi di Duma Key siano di
cieli serali arancione che sanguinano verso il basso e si dissipano verso
l'alto, dal verde al nero. Quella sera, quando mi svegliai, un altro giorno
cedeva gloriosamente il passo alla notte. Entrai in soggiorno manovrando
rumorosamente la mia stampella, anchilosato e a denti stretti (i primi dieci
minuti erano sempre i peggiori). La porta della camera di Ilse era aperta e
il suo letto era vuoto.
«Ilse?» chiamai.
Sulle prime non ebbi risposta. Poi mi giunse la sua voce da sopra. «Papà? Santa Pacina, ma l'hai fatto tu questo? Quando lo hai fatto?»
Persi immediatamente ogni cognizione di dolori e acciacchi. Salii nella
Little Pink arrancando più veloce che potevo, cercando di ricordare che
cosa avessi disegnato. Qualunque cosa fosse, non mi ero preso il disturbo
di nasconderlo. E se fosse stato qualcosa di veramente orrendo? Se, mettiamo, mi fosse venuta la brillante idea di disegnare una caricatura della
crocifissione, mettendo in croce il Colibrì canterino?
C'era Ilse davanti al cavalletto e non potei vedere che cosa guardava. Il
suo corpo me lo impediva. Anche se fosse stata più distante, la sola luce
era quella sanguigna del tramonto e, in quel riverbero, avrei visto solo un
rettangolo nero.
Accesi le luci pregando di non aver combinato qualcosa che potesse gettare nell'angoscia la figlia che aveva fatto tanta strada per venire ad assicurarsi che stessi bene. Dalla sua voce non ero in grado di capire. «Ilse?»
Si girò verso di me con un'espressione più perplessa che adirata. «Quando hai fatto questo?»
«Be'...» cominciai. «Spostati un po', vuoi?»
«È la tua memoria che ti gioca qualche brutto scherzo di nuovo? È così,
vero?»
«No», dissi. «Be', si.» Era la spiaggia fuori della finestra, quello ero riuscito a stabilire, ma niente di più. «Appena lo vedo, sono sicuro che potrò... spostati, tesoro, che non sei trasparente.»
«Trasparente no ma ingombrante sì, eh?» E rise. Raramente una risata
mi aveva trasmesso un sollievo così grande. Qualunque cosa avesse trovato sul cavalletto, non l'aveva fatta infuriare, e il mio stomaco ridiscese al
suo posto. Se non era in collera, rientrava il rischio che potessi arrabbiarmi
io guastando quella che era stata in certa misura una gran bella visita.
Si spostò sulla sinistra e io vidi che cosa avevo disegnato mentre ero nel
mio stato di stordimento presonnellino. Tecnicamente era probabilmente la
cosa migliore che avevo partorito dal mio primo tentativo con penna e inchiostro al lago Phalen, ma non c'era da meravigliarsi se era rimasta perplessa. Ero perplesso anch'io.
Era il tratto di spiaggia che vedevo attraverso la grande vetrata della Little Pink. I fregi scomposti sul pelo dell'acqua, ottenuti con una tonalità di
colore che la Venus Company chiamava Cromo, indicavano una delle prime ore del mattino. Al centro c'era una bambina in tenuta da tennis. Era girata dall'altra parte, ma la tradivano i capelli rossi: era Reba, il mio amorino, la mia amica dell'altra vita. La figura era resa in maniera alquanto approssimativa, ma si capiva che era voluto, che non era per nulla una bambina vera, ma solo una figura di sogno in un paesaggio di sogno.
Tutt'intorno ai suoi piedi, nella sabbia, c'erano palline da tennis color
verde vivo.
Altre galleggiavano spinte verso la riva da piccole onde.
«Quando lo hai fatto?» Ilse sorrideva ancora, quasi rideva. «E cosa diavolo vorrebbe dire?»
«Ti piace?» le domandai. Perché a me non piaceva. Le palle da tennis
erano del colore sbagliato perché non avevo la tonalità di verde giusta, ma
non era quello il motivo; lo odiavo perché era tutto sbagliato. Mi dava una
sensazione di crepacuore.
«È bellissimo!» esclamò e questa volta rise davvero. «Dai, quando lo hai
fatto? Dimmelo.»
«Mentre riposavi. Sono andato a sdraiarmi, ma avevo di nuovo la nausea, così ho pensato che fosse meglio restare ancora un po' in piedi. Ho deciso di scarabocchiare qualcosa, vedere se intanto mi passava. Mi sono accorto di avere quella in mano solo quando sono salito quassù.» Indicai Reba, seduta contro il vetro con le gambette di pezza all'infuori.
«Quella è la bambola che devi strapazzare quando ti dimentichi le cose,
vero?»
«Qualcosa del genere. Comunque mi sono messo a fare quel disegno. Ci
avrò impiegato un'oretta. E dopo stavo meglio.» Anche se ricordavo molto
poco del disegno, ricordavo abbastanza da sapere che la mia storiella era
una bugia. «Allora mi sono sdraiato e ho schiacciato un pisolino. Fine della storia.»
«Me lo dai?»
Fui colto da un'ondata di sgomento, ma non mi venne in mente un modo
per dirle di no senza deluderla o fare la figura del matto. «Se davvero lo
vuoi. Ma non è questa gran cosa. Non preferiresti avere uno dei Famosi
Tramonti di Freemantle? Oppure la cassetta con il cavallo a dondolo! Potrei...»
«Io voglio questo», m'interruppe. «È buffo e dolce e anche un po'... non
so... sinistro. La guardi in un certo modo e dici 'Una bambola'. La guardi
per un altro verso e dici: 'No, una bambina, in fondo si regge in piedi, no?'
È incredibile come hai imparato bene a usare le matite colorate.» Annuì
con decisione. «Sì, voglio questo. Solo che devi dargli un nome. Gli artisti
devono dare un nome ai loro quadri.»
«Sono d'accordo, ma non mi viene in mente niente che...»
«Dai, dai, non svicolare. La prima cosa che ti viene in mente.»
«Va bene», dissi. «La fine della partita.»
Lei batté le mani. «Perfetto. Perfetto! E devi anche firmarlo. Che rompiscatole, eh?»
«Da sempre», risposi. «Très rompiscatole. Si vede che ti senti meglio.»
«Infatti. E tu?»
«Anch'io», confermai, ma non era vero. A un tratto mi prese un attacco
di nero depressione. La Venus non produce quel colore, ma nel portamatite
del cavalletto ce n'era una di nero normale, appena temperata. La usai per
autografare il disegno di fianco a una delle gambette rosa della bambola. In
secondo piano un'onda leggera trasportava verso riva una decina di palle
da tennis del verde sbagliato. Non sapevo che cosa significassero quelle
antipatiche palline, ma di certo non mi piacevano. Non mi piaceva nemmeno apporre il mio nome a quel disegno, ma, dopo averlo fatto, aggiunsi
su un lato LA FINE DELLA PARTITA. E mi venne da pensare a quello che
Pam aveva insegnato a dire alle nostre figlie quando erano piccole e avevano portato a termine un'incombenza sgradevole.
Via il dente, via il dolore.
16
Restò altri due giorni e furono giorni belli. Quando la riaccompagnammo all'aeroporto, il sole le aveva colorito viso e braccia e sembrava diffondere le proprie radiazioni positive: gioventù, salute, benessere.
Jack le aveva trovato un contenitore cilindrico per il suo disegno.
«Papà, promettimi di riguardarti e di telefonarmi se hai bisogno di me»,
disse.
«Roger», risposi sorridendo.
«E promettimi di cercare qualcuno che ti dia un'opinione sui tuoi dise-
gni. Qualcuno che ci capisca.»
«Be'...»
Abbassò il mento e mi guardò accigliata. Quando faceva così era di nuovo come vedere Pam il giorno in cui l'avevo conosciuta. «Meglio che prometti, altrimenti...»
E siccome faceva sul serio, così mi diceva il solco verticale tra le sopracciglia, promisi.
Il solco si spianò. «Bene, allora siamo intesi, meriti di guarire, sai? Alle
volte mi viene da chiedermi se ne sei convinto anche tu.»
«Ma certo che lo sono.»
Ilse continuò come se non avesse sentito. «Perché quello che è successo
non è stata colpa tua.»
Sentii affiorare le lacrime a quelle parole. Sì, probabilmente lo sapevo,
ma era bello sentire qualcun altro che lo diceva a voce alta. Qualcuno oltre
Kamen, il cui mestiere era grattar via gli avanzi rappresi da quelle brutte
stoviglie sporche nel lavandino dell'inconscio.
Ilse mi guardò annuendo. «E guarirai. Te lo impongo perché sono très
rompiscatole.»
La voce nasale dell'altoparlante annunciò: volo Delta 559, scalo a Cincinnati e Cleveland. La prima tappa del viaggio di ritorno a casa di Ilse.
«Vai, tesoro, è ora che tu ti faccia scannerizzare e guardare nelle scarpe.»
«Prima ho un'ultima cosa da dire.»
Alzai l'unica mano che mi restava. «Cosa ancora, preziosa fanciulla?»
Sorrise: era così che chiamavo le ragazze quando la mia pazienza era finalmente in via di esaurimento.
«Grazie per non avermi detto che io e Carson siamo troppo giovani per
fidanzarci.»
«Sarebbe servito a qualcosa?»
«No.»
«No. E poi ci penserà tua madre a compensare per entrambi.»
Ilse atteggiò prima una smorfia di dolore, poi rise. «E anche Linny... ma
solo perché una volta sono arrivata prima di lei.»
Mi abbracciò per un'ultima volta, con impeto. Io respirai con il naso affondato nei suoi capelli, in quel profumo dolce e buono di shampoo e giovane donna in salute. Si ritrasse e guardò il mio tuttofare che si teneva
considerevolmente in disparte. «Abbi cura di lui, Jack. È merce speciale.»
Non si erano innamorati - nessuno spiraglio lì, muchacho - ma lui le ri-
volse un sorriso caloroso. «Farò del mio meglio.»
«E mi ha promesso di farsi dare un'opinione sui suoi disegni. Mi sei testimone.»
Jack sorrise di nuovo annuendo.
«Bene.» Mi baciò ancora una volta, sulla punta del naso. «Fa' il bravo,
papà. Guarisci te stesso.» Poi si avviò, camminando svelta nonostante l'ingombro dei bagagli. Si girò prima che le porte sì chiudessero dietro di lei.
«E procurati dei colori resistenti!»
«Lo farò!» gridai, ma non so se mi udì. In Florida le porte pneumatiche
si richiudono immediatamente a protezione dell'aria condizionata. Per un
momento o due il mondo intero si annebbiò e la luce diventò più intensa.
Mi pulsavano le tempie e sentivo un pizzicore umido nel naso. Chinai la
testa e lavorai in fretta agli occhi con due dita mentre ancora una volta
Jack fingeva d'aver trovato qualcosa d'interessante in cielo. C'era una parola che non mi veniva. Pensai contorto, poi riporto.
Dagli tempo, non t'arrabbiare, di' a te stesso che lo puoi fare, e di solito
le parole ritornano. Qualche volta non le vuoi, ma loro arrivano lo stesso.
Questa era sconforto.
«Vuoi aspettare qui che vada a prendere la macchina o...» chiese Jack.
«No, mi sento in forze, posso camminare.» Strinsi le dita sulla mia gruccia. «Aiutami solo a tener d'occhio il traffico. Non vorrei finire investito
mentre attraverso la strada. Ci sono già passato, già fatto.»
17
Sulla via del ritorno ci fermammo all'Art & Artifacts di Sarasota e, mentre eravamo lì, domandai a Jack se sapeva niente delle gallerie d'arte locali.
«Piove sul bagnato, capo. Mia madre lavorava in una galleria chiamata
Scoto. È in Palm Avenue.»
«Dovrebbe dirmi qualcosa?»
«Stiamo parlando della crème de la merd delle gallerie d'arte di qui», rispose, poi ci ripensò. «Intendevo in senso positivo. E i proprietari sono
gente come si deve... almeno si sono sempre comportati bene con mia madre, però... sai...»
«È comunque la crème.»
«Già.»
«Nel senso di prezzi da capogiro?»
«È il ritrovo dell'élite.» Lo disse con solennità, ma quando io scoppiai a
ridere mi tenne compagnia. Credo che quello fu il giorno in cui da mio aiutante part-time Jack Cantori diventò mio amico.
«Allora è fatta», conclusi, «perché io decisamente sono élite. Dai qui, figliolo.»
Levai la mano e Jack me la schiaffeggiò.
18
A Big Pink mi aiutò a portare dentro il mio bottino: cinque sacchetti, due
scatole e nove tele montate. Quasi mille dollari di merce. Gli dissi che ci
saremmo preoccupati di portare tutto di sopra l'indomani. L'ultima cosa al
mondo che desideravo fare quella sera era mettermi a dipingere.
Attraversai zoppicando il soggiorno diretto in cucina con l'intenzione di
prepararmi un sandwich, ma vidi lampeggiare la spia della segreteria telefonica. Pensai che potesse essere Ilse che mi diceva che il suo volo era stato annullato per problemi atmosferici o tecnici.
Non era lei. La voce era piacevole ma arrochita dall'età e indovinai subito chi fosse. Mi parve quasi di vedere le scarpone blu sui luccicanti poggiapiedi della sua sedia a rotelle.
«Salve, signor Freemantle, benvenuto a Duma Key. È stato un piacere
vederla l'altro giorno, seppure per pochi attimi. Uno presume che la giovane signora che era con lei sia sua figlia, vista la somiglianza. L'ha riportata
all'aeroporto? Uno vuole sperarlo.»
Ci fu una pausa. Sentii il suo respiro, quello rumoroso e quasi enfisemico di una persona che probabilmente ha passato gran parte della propria vita con una sigaretta in mano. Poi parlò di nuovo.
«Tutto considerato Duma Key non è mai stato un luogo fortunato per le
figlie.»
Mi ritrovai a pensare a Reba in un molto improbabile vestitino da tennis,
circondata da palline pelose che andavano aumentando al sopraggiungere
di ogni nuova onda.
«Uno spera che ci si incontri, nel corso del tempo. Addio, signor Freemantle.»
Ci fu un clic. Poi ci fummo solo io e l'instancabile frusciare delle conchiglie sotto la casa.
C'era l'alta marea.
Come fare un disegno (III)
Fame. Ha funzionato per Michelangelo, ha funzionato per Picasso, e
funziona per centomila artisti che non lo fanno per amore (anche se può
darsi che abbia la sua parte) ma per mettere il pane in tavola. Se vuoi tradurre il mondo, devi usare i tuoi appetiti. Vi stupisce? Non dovrebbe. Non
c'è niente di più umano della fame. Non c'è creazione senza talento, ve lo
concedo, ma il talento è gramo. Il talento mendica. La fame è la spinta
dell'arte. Quella bambina di cui vi dicevo? Lei trovò la sua e la usò.
Pensa: Niente più letto tutto il giorno ora. Io vado stanza papà, studio di
papà. Certe volte dico studio, certe volte dico grudio. C'è una bella finestra grande. Mi mettono a sedere. Vedo su giù. Gli uccelli belli. Troppo
belli per me, mi fanno diventare viste. Certe nuvole hanno le ali. Certe
hanno gli occhi blu. Quando il sole va giù piango perché sono viste. Fa
male vedere. Fa male il su giù dentro me. Non posso mai dire quello che
vedo e questo mi fa viste.
Pensa: TRISTE, la parola è TRISTE. Viste è per quello che c'è fuori della finestra.
Pensa: Se potessi fermare il male. Se potessi farlo uscire come piipii.
Piango e prego prego prego di dire quello che voglio. Tata non può aiutarmi. Quando dico «colore!» lei si tocca la faccia e sorride e dice: «Sempre è stato, sempre sarà». Nemmeno le sorelle grandi mi aiutano. Sono
così arrabbiata con loro, perché non mi ascoltate, GRANDI CATTIVE!
Poi un giorno vengono le gemelle, Tessie e Lo-Lo. Parlano speciale tra loro, mi ascoltano speciale. All'inizio non mi capiscono, ma poi. Tessie mi
porta carta. Lo-Lo mi porta matita e io «patita!» dalla bocca e le faccio
didere e mattere le mani.
Pensa: RIESCO QUASI A DIRE IL NOME DI MATITA!
Pensa: Posso fare il mondo sulla carta. Posso disegnare quello che vogliono dire le parole. Vedo albero, faccio albero. Vedo uccello, faccio uccello. È bello, come acqua da un bicchiere.
Questa è una bambina con una benda intorno alla testa, indossa un vestitino rosa e siede alla finestra nello studio di suo padre. Accanto a lei,
per terra, c'è Noveen, la sua bambola. La bambina ha una tavola e sulla
tavola c'è un foglio di carta. È appena riuscita a disegnare un artiglio che
somiglia veramente un po' al pino che c'è fuori della finestra.
Pensa: Datemi altra carta per piacere.
Pensa: Io sono ELIZABETH.
Dev'essere stato come vedersi restituire la lingua dopo aver pensato di
dover rimanere in silenzio per sempre. E di più. Meglio. Era un dono di se
stessa, di ELIZABETH. Già da quei primi disegni così incredibilmente coraggiosi deve aver capito che cosa stava accadendo. E deve aver desiderato di più.
Il suo dono aveva fame. I doni migliori - e i peggiori - ce l'hanno sempre.
4
Amici dispensatori
1
Nel pomeriggio di Capodanno mi svegliai da un sonno breve ma ristoratore pensando a un certo tipo di conchiglia, quella un po' arancione con le
macchioline bianche. Non so se l'avessi sognata, ma ne volevo una. Mi
sentivo pronto a cominciare a sperimentare i colori a olio e pensavo che
una di quelle conchiglie arancione fosse l'elemento giusto da incastonare in
un tramonto sul Golfo del Messico.
Cominciai a perlustrare la spiaggia spingendomi a sud, accompagnato
solo dalla mia ombra e da due o tre decine di minuscoli uccellini, quelli
che Ilse chiamava peep, eternamente a caccia di cibo sul bagnasciuga. Al
largo, in cielo, incrociavano i pellicani, che poi ripiegavano le ali e precipitavano come sassi. Non pensavo alle mie sessioni di attività fisica, quel
pomeriggio, e non controllavo il dolore all'anca e non contavo i passi. In
realtà non pensavo a niente, la mia mente veleggiava come i pellicani prima che scorgessero un boccone nell'oceano sottostante... o nel caldo largo.
Di conseguenza, quando finalmente vidi il tipo di conchiglia che volevo e
mi girai a guardare, constatai con stupore quanto fosse diventata piccola
Big Pink.
Sostai giocherellando con la conchiglia arancione nella mano mentre
all'improvviso sentivo pulsare nell'anca dei cocci di vetro. Il dolore cominciava lì e scendeva pulsando lungo tutta la gamba. Eppure le impronte che
avevo lasciato dietro di me non erano affatto confuse. Mi venne il sospetto
di aver trattato me stesso con infantile indulgenza, forse solo un po', forse
molto. Io e il mio stupido Gioco dei Numeri. Quel giorno mi ero dimenticato di sottopormi ogni cinque minuti a un ansioso mini-checkup. Avevo
semplicemente... fatto una passeggiata. Come una qualsiasi persona normale.
Dunque potevo scegliere. Sarei potuto tornare indietro coccolandomi,
fermandomi ogni tanto a fare uno di quegli esercizi di stretching di Kathi
Green, che mi procuravano un male del diavolo e apparentemente non
molto di più, oppure avrei potuto semplicemente camminare. Come una
qualsiasi persona normale e integra.
Fu questa la decisione che presi. Ma prima di cominciare lanciai un'ultima occhiata alle mie spalle e vidi in lontananza una sedia da spiaggia a
strisce. Accanto a essa c'era un tavolo, protetto da un ombrellone a strisce
come la sedia. Sulla quale sedeva un uomo. Quello che era stato un punticino visto da Big Pink era diventato un uomo alto e massiccio in jeans e
camicia bianca con le maniche arrotolate ai gomiti. Aveva i capelli lunghi
che ondeggiavano nella brezza. Non potei vedere che faccia aveva perché
eravamo ancora troppo lontani. Si accorse che guardavo e alzò la mano per
salutare. Ricambiai, poi mi girai dall'altra parte e m'incamminai sulle mie
orme. Quello fu il mio primo incontro con Wireman.
2
Quella sera il mio ultimo pensiero prima di coricarmi fu che probabilmente avrei trascorso il secondo giorno del nuovo anno tra fitte e scricchiolii, troppo dolorante per poter camminare. Scoprii con gioia che non
era così, un bagno caldo disciolse ogni rigidità residua.
Così naturalmente quel pomeriggio ripartii. Senza un intento preciso,
nessun buon proposito per l'anno nuovo, nessun Gioco dei Numeri. Solo
un tizio che fa una passeggiata in spiaggia, scendendo talvolta abbastanza
vicino al mite sciacquio delle onde per far spiccare il volo ai peep in una
nuvoletta scura. Ogni tanto raccoglievo una conchiglia e me la mettevo in
tasca (di lì a una settimana sarei uscito munito di un sacchetto di plastica
dove riporre i miei tesori). Quando arrivai così vicino al corpulento sconosciuto da poterlo distinguere sufficientemente bene - quel giorno indossava
una camicia blu su calzoni beige, quasi certamente a piedi scalzi - mi girai
nuovamente e tornai indietro. Ma non prima di avergli rivolto un saluto al
quale rispose.
Questo fu l'inizio delle mie Grandi Camminate in Spiaggia. Ogni pomeriggio diventavano un po' più lunghe e vedevo l'omone nella sua sedia a
strisce un po' più chiaramente. Mi parve evidente che anche lui avesse le
sue abitudini; di mattina usciva con la vecchia spingendola per una lingua
pavimentata in legno che da Big Pink non ero riuscito a scorgere. Il pome-
riggio usciva per conto proprio. Non si toglieva mai la camicia, ma aveva
braccia e viso scuri come la mobilia antica di un arredamento formale. Accanto a sé, sul tavolo, c'erano un bicchiere alto e una caraffa che poteva
contenere acqua ghiacciata, o limonata o gin and tonic. Salutava sempre; io
ricambiavo sempre.
Sul finire di gennaio, un giorno in cui mi ero spinto a non più di duecento metri da lui, apparve in spiaggia una seconda sedia a strisce. Sul tavolo
apparve un secondo bicchiere, vuoto (ma alto e terribilmente invitante).
Quando salutai, lui prima rispose alzando la mano e poi mi indicò la sedia
vacante.
«Grazie, ma non ancora!» gridai.
«Venga quaggiù, diavolo!» ribatté lui. «La riaccompagno io con il golfcart!»
Mi venne da sorridere. Era sempre stata un'idea di Ilse, quella del golfcart, perché potessi correre su e giù per la spiaggia spaventando i peep.
«Non è previsto!» gli gridai. «Ma a tempo debito arriverò fin lì! Qualunque cosa ci sia in quella caraffa... me la tenga in ghiaccio!»
«Come vuoi, muchacho!» Abbozzò un saluto militaresco. «Fino ad allora fatti il giorno e che il giorno faccia te!»
Conservo nella memoria frasi e battute di ogni genere, di quelle proferite
da Wireman, ma credo che questa sia la battuta che soprattutto associo alla
sua persona, forse perché gliela sentii pronunciare prima di sapere come si
chiamava o di avergli anche solo stretto la mano: fatti il giorno e che il
giorno faccia te.
3
Quell'inverno Freemantle non fu solo sinonimo di camminate; Freemantle cominciò anche a essere sinonimo di rivivere. E, cazzo, che bella sensazione. In una sera ventosa con le onde che battevano e le conchiglie che litigavano invece di chiacchierare presi una decisione: quando mi fossi convinto che questa nuova sensazione era reale, sarei sceso in spiaggia con
Reba la bambola anticollera, l'avrei innaffiata di accelerante per carbonella
e le avrei dato fuoco. Un autentico funerale vichingo per la mia altra vita.
Perché no, perdio?
Intanto c'era la pittura, nella quale mi tuffai come i peep e i pellicani
nell'acqua. Dopo una settimana rimpiansi di aver sprecato tanto tempo a
baloccarmi con le matite colorate. Inviai a Ilse un'e-mail per ringraziarla di
avermi tanto tormentato e lei mi rispose che in quel settore non aveva certo
bisogno di incoraggiamenti. Aggiunse anche che i Colibrì avevano suonato
in una grande chiesa di Pawtucket, nel Rhode Island, un'anteprima che doveva fare più o meno da preriscaldamento per la tournée, e che la congrega
era impazzita di giubilo, battendo le mani e urlando alleluia. «C'era un
gran dondolio in sala», scrisse. «È il sostituto battista del ballo.»
Quell'inverno accolsi anche tra i miei amici personali più intimi Internet
in generale e Google in particolare, digitando con una mano sola. Quando
fu la volta di Duma Key, trovai poco più che una cartina geografica. Avrei
potuto scavare più a fondo e con maggior impegno, ma qualcosa mi disse
che per il momento era meglio lasciar stare. Il mio interesse specifico era
su avvenimenti peculiari in seguito alla perdita di arti e trovai un'autentica
miniera.
Tengo a precisare che, per quanto prendessi tutto quello che mi offriva
Google con un grano di sale, non scartavo nemmeno la storia più bizzarra,
perché non avevo mai dubitato che le mie strane esperienze fossero collegate alle conseguenze che avevo patito dall'incidente: il danno all'area di
Broca, il braccio amputato, o entrambi. Mi bastava dare in qualsiasi momento un'occhiata al mio schizzo di Carson Jones nella sua maglia di Torii
Hunter e ne ero più che certo. Il signor Jones aveva acquistato l'anello di
fidanzamento di Ilse su Zales.com. Prove meno concrete, ma per me non
meno convincenti, erano i miei disegni sempre più surreali. Gli scarabocchi sul taccuino di fianco al telefono della mia vita precedente non presagivano minimamente gli inquietanti tramonti che disegnavo adesso.
Non ero la prima persona ad aver perso parte del corpo solo per acquisire qualcos'altro. A Fredonia, New York, un taglialegna si era tranciato una
mano nel bosco e si era salvato la vita da sé cauterizzandosi il polso da cui
sgorgava il sangue. Tornò a casa con la mano, la mise in un vaso pieno di
alcol e la ripose in cantina. Tre anni dopo, nonostante non avesse più la
mano attaccata al polso, cominciò a sentirsela gelare. Scese in cantina e
scoprì che una delle finestrelle era rotta e che il vento invernale investiva il
vaso in cui era sospesa la mano conservata. Quand'ebbe spostato il vaso
vicino alla caldaia, la sensazione di congelamento scomparve.
Un contadino russo di Tura, nel cuore della Siberia, perse l'avambraccio
sinistro stritolato da una macchina agricola e trascorse il resto della vita a
fare il rabdomante. Quando si veniva a trovare vicino a un pozzo dove c'era l'acqua, la mano e il braccio sinistro che non c'erano più diventavano
freddi, con una contemporanea sensazione di umido. Secondo gli articoli
che lessi (ce n'erano tre), era infallibile.
In Nebraska c'era un tizio che prediceva l'arrivo dei tornado dai calli sul
piede mancante. In Inghilterra un marinaio privo di una gamba veniva usato dai compagni per individuare la presenza di banchi di pesci. Un giapponese con entrambe le braccia amputate era diventato un poeta di discreta
fama: non male per una persona che al momento dell'incidente ferroviario
che gli era costato le braccia era analfabeta.
Fra tutte le storie la più strana era forse quella di Kearney Jaffords del
New Jersey, un bambino nato senza braccia. Compiuti i tredici anni, questo ragazzino, che fino a quel momento si era perfettamente adattato alla
sua menomazione, diventò isterico sostenendo che le sue braccia «facevano male ed erano sepolte in una fattoria». Disse ai genitori che poteva mostrare loro dove. Viaggiarono per due giorni, finendo su una sterrata
dell'Iowa, in un posto imprecisato tra il Nulla e il Niente. Il ragazzo li guidò a un campo di granturco, puntò diritto a un pittoresco fienile con la
pubblicità di MAIL POUCH TOBACCO sul tetto e disse loro che dovevano scavare lì. I genitori lo accontentarono, non perché si aspettassero di
trovare qualcosa, ma perché speravano di restituire pace alla mente e al
corpo del figlio. Un metro sotto terra trovarono due scheletri. Uno era di
una bambina tra i dodici e i quindici anni. L'altro era di un uomo di età indeterminata. Il medico legale della contea di Adair stimò che i corpi erano
stati seppelliti più o meno dodici anni prima... ma naturalmente sarebbero
potuti essere tredici, cioè l'età di Kearney Jaffords. Nessuno dei due corpi
fu mai identificato. Le braccia dello scheletro femminile erano state rimosse: le ossa erano mescolate a quelle dell'uomo.
Per quanto affascinante fosse questa storia, altre due colpirono ancor più
il mio interesse, specialmente pensando a come ero andato a rovistare nella
borsa di mia figlia.
Le trovai in un articolo intitolato «Vedono con quello che non hanno
più», tratto da The North American Journal of Parapsychology. Riferivano
i casi di due sensitivi, una donna di Phoenix e un uomo di Río Gallegos,
Argentina. Alla donna mancava la mano destra e all'uomo il braccio intero
sullo stesso lato. Entrambi avevano ripetutamente avuto successo nell'aiutare la polizia a trovare persone scomparse (forse in certi casi avevano anche fallito, ma nell'articolo gli insuccessi non erano riportati).
Secondo l'autore, la tecnica usata dai due sensitivi era la stessa. Veniva
fornito loro un indumento della persona scomparsa o un campione della
sua scrittura. Chiudevano gli occhi e si concentravano toccando l'oggetto
con la mano mancante (c'era una fosca nota a piè di pagina su qualcosa che
veniva chiamato la Mano della Gloria, o Mano Mojo). Allora la donna di
Phoenix otteneva «un'immagine», che riferiva ai suoi interlocutori. L'argentino invece dava seguito alle sue «visioni» con brevi e concitati attacchi di scrittura automatica con la mano restante, un processo in cui vedevo
un'analogia con la mia pittura.
E, come ho detto, avrei potuto dubitare della veridicità di alcuni degli
aneddoti più strampalati in cui mi imbattei nelle mie esplorazioni internettiane, ma mai ebbi dubbi sul fatto che a me stesse succedendo qualcosa.
Penso che lo avrei creduto anche senza il disegno di Carson Jones. Per via
del silenzio, soprattutto. A parte quando passava da me Jack o quando Wireman - sempre più vicino - mi salutava con la mano gridandomi «Buenos
días, muchacho!» io non vedevo nessuno e non parlavo che a me stesso.
L'estraneo recede quasi del tutto e quando questo avviene cominci a sentire
te stesso con chiarezza. E la comunicazione chiara tra i sé - il sé superficiale e il sé recondito, intendo - è nemica dell'autocritica. Sbaraglia la confusione.
Ma per sicurezza decisi di fare quello che definii un esperimento.
4
EFree19 a Pamorama667
09.15
24 gennaio
Cara Pam, ho una rivista insolita per te. Mi sono messo a dipingere e i soggetti sono strani ma abbastanza interessanti (almeno così
penso io). Più facile mostrarti cosa intendo che descrivertelo, così
allego a questa e-mail un paio di jpg. Ripensavo a quei guanti da
giardino che avevi, quelli con scritto MANI su uno e GIÙ LE
sull'altro. Mi piacerebbe metterli in un tramonto. Non chiedermi
perché, sono idee che mi vengono così. Li hai ancora? Se sì, me li
spediresti? Sarò lieto di restituirteli se lo vuoi. Ti prego decisamente di non mostrare le foto a nessuno dei "vecchi amici". Bozie
in particolare riderebbe come un gatto se vedesse QUESTE cose.
Eddie
PS: Se non ti va di mandarmi i guanti, nessun problema.
È solo un pasticcio.
E.
La riposta giunse quella sera da una Pam che era ormai tornata a casa a
St. Paul:
Pamorama667 a EFree 19
17.00
24 gennaio
Ciao Edgar, Ilse mi ha detto dei tuoi quadri naturalmente.
Sono certamente diversi. Speriamo che questo hobby duri più a
lungo del tuo restauro di automobili.
Se non fosse per eBay credo che quella vecchia Mustang sarebbe
ancora dietro casa. Hai ragione a dire che è una richiesta strana
ma dopo aver visto le tue foto credo di capire cosa hai in mente
(mettere insieme cose diverse così la gente le vede da una prospettiva nuova) ed è comunque ora che ne compri un paio nuovo
perciò "mettiti sotto".
Te li mando UPS solo chiedo che mi mandi un jpg del "Disdegno
finito" ☺ se mai ce ne sarà uno.
Ilse ha detto che si è trovata benissimo.
Spero che ti abbia mandato un biglietto di ringraziamento e non
solo un'e-mail, ma la conosco.
Un'altra cosa, Eddie, anche se non so se ti piacerà molto.
Ho mandato una copia della tua e-mail e del jpg a Zander Kamen,
ti ricordi sicuramente di lui.
Ho pensato che gli avrebbe fatto piacere vedere le foto, ma soprattutto volevo che vedesse l'e-mail nel caso ci sia motivo di
preoccuparsi, perché adesso fai scrivendo quello che facevi parlando: "rivista" per "richiesta", "come un gatto" invece di "come
un matto". E in fondo hai scritto "È solo un pasticcio" e non capisco che cosa vuol dire ma il dottor Kamen dice probabile "capriccio".
Penso a te.
Pam
PS: Mio padre sta un po' meglio e l'operazione ha avuto successo
(i medici dicono che forse "gli hanno asportato tutto" ma scommetto che lo dicono sempre).
Sembra che regga bene la chemio ed è a casa.
Già in piedi.
Grazie dell'interessamento.
La sua stoccatina nel PS era un preciso esempio del lato meno amabile
della mia ex: scodinzoli... scodinzoli... scodinzoli... poi mordi e «fuggi».
Però aveva ragione. Avrei dovuto chiederle di trasmettere i miei migliori
auguri da parte del Comucratico quando avesse sentito il suo vecchio per
telefono. Quel cancro al culo è una troia.
L'intera e-mail era una sinfonia di irritazioni, dall'accenno alla Mustang
che non avevo mai avuto il tempo di finire alle sue preoccupazioni per i
miei errori nello scegliere i vocaboli. Tali preoccupazioni espresse da una
donna che pensava che per scrivere Xander ci volesse la Z.
E toltomi questo bisbetico sassolino dalla scarpa (esternato alla casa
vuota, e a voce alta, se è proprio necessario che lo sappiate), riesaminai l'email che le avevo spedito e, sì, c'era da preoccuparsi. Un po', almeno.
D'altra parte forse era solo un pasticcio.
5
Al tavolo dell'omone la seconda sedia a strisce era ormai un elemento
fisso e più mi avvicinavo più accadeva che ci scambiassimo qualche parola
gridando. Era un modo strano di fare conoscenza, ma piacevole. Il giorno
dopo l'e-mail di Pam, con le sue apprensioni superficiali e il suo messaggio
sotterraneo (Potresti essere malato quanto mio padre, Eddie, forse persino
peggio), il tizio della spiaggia gridò: «Quanto ancora prima che arrivi fin
qui, pensi?»
«Quattro giorni!» gli risposi. «Forse tre.»
«Cocciutamente deciso a tornare indietro sulle tue gambe?»
«Assolutamente sì! Come ti chiami?»
Aveva una fisionomia piacente, sebbene il volto gli si andasse appesantendo. Balenarono denti bianchi e, quando sorrise, il doppio mento incipiente scomparve. «Te lo dico quando arriverai fin qui! E tu?»
«È sulla cassetta delle lettere!» gridai.
«Il giorno che mi chinerò a leggere una cassetta per le lettere è il giorno
in cui comincerò ad ascoltare i notiziari radio!»
Lo salutai con la mano e lui mi rispose accompagnando il gesto con un
«hasta mañana!» e si girò tornando a guardare l'acqua e il volo degli uccelli.
Tornato a Big Pink, la bandierina sulla casella di posta del mio computer
era alzata e trovai questo:
KamenDoc a EFree 1 9
14.49
25 gennaio
Edgar, Pam mi ha mandato copie della tua ultima e-mail e dei tuoi
disegni. Lascia che ti dica prima di tutto che sono SBALORDITO
dalla rapidità dei tuoi miglioramenti artistici. Ti vedo prendere le
distanze da questa parola con quel tuo tipico cipiglio, ma non ce
n'è un'altra.
NON DEVI SMETTERE.
Quanto alle sue preoccupazioni: sono probabilmente immotivate.
Una risonanza magnetica comunque non sarebbe una cattiva idea.
Hai un dottore laggiù?
Sei maturo per una visitina, amico mio, dalla testa ai piedi.
Kamen
EFree 19 a KamenDoc
15.58
25 gennaio
Kamen, è un piacere risentirti. Se mi vuoi definire artista (o persino pittore), accomodati pure. Attualmente non ho un segaossi in
Florida. Puoi consigliarmene uno tu o preferisci che mi rivolga a
Todd Jamieson, l'ultimo dei dottori che mi hanno manipolato il
cervello?
Edgar
Pensavo che mi avrebbe indicato un nominativo e forse ci sarei anche
andato, ma al momento la mia priorità non erano le parole storpiate e le
bizzarrie linguistiche. La priorità per me era camminare, e raggiungere la
sedia a strisce che era stata collocata per me in spiaggia era anche una sorta di priorità, ma sopra ogni altra cosa, mentre gennaio finiva di consumar-
si, c'erano le mie ricerche in Internet e le mie tele. Solo la sera prima ero
arrivato a Tramonto con conchiglia no. 16.
Il 27 gennaio, dopo aver intrapreso la via del ritorno quand'ero a meno di
duecento metri dalla sedia che mi aspettava sulla spiaggia, rientrato a Big
Pink trovai un pacco consegnatomi dall'UPS. Conteneva due guanti da
giardinaggio, uno con la scolorita scritta MANI in rosso sul dorso e l'altro
con un analogo GIÙ LE. Erano consumati da molte stagioni in giardino,
ma puliti: li aveva lavati, come mi ero aspettato. Come avevo sperato, per
essere sincero. Non ero interessato alla Pam che li aveva indossati negli
anni del nostro matrimonio e nemmeno alla Pam che poteva averli usati
nel giardino di Mendota Heights l'autunno prima, quando io ero al lago
Phalen. Quella è una Pam che conoscevo. Ma... Ti dirò qualcos'altro che è
successo, mi aveva detto la mia If-So-Girl, e che brivido vederla assumere
una tipica espressione di sua madre mentre lo diceva. Si vede in continuazione con questo tizio che abita vicino a lei.
Quella era la Pam che mi interessava, quella che vedeva in continuazione un suo vicino di casa. Un tizio che si chiamava Max. Erano state le mani di quella Pam a lavare i guanti e depositarli nella scatola bianca dentro il
pacco dell'UPS.
Quella Pam era il mio esperimento... o così mi dicevo, ma inganniamo
noi stessi così spesso che potremmo farne la nostra professione quotidiana.
Così dice Wireman, che il più delle volte ha ragione. Forse anche troppo.
Persino ora.
6
Non aspettai il tramonto, perché non cercai nemmeno di fingere che mi
interessasse dipingere un quadro; a me interessava dipingere informazioni.
Salii naturalmente nella Little Pink con i guanti da giardinaggio di mia
moglie così assurdamente puliti (doveva averli inzuppati di candeggina) e
mi sedetti davanti al cavalletto. Davanti a me c'era una tela nuova, in attesa. A sinistra c'erano due ripiani rimediati alla bell'e meglio. Uno era per le
foto della mia macchina digitale e vari ritrovamenti. L'altro, lo avevo piazzato su una piccola incerata verde. Su di esso c'erano una ventina di scodelline con i colori, alcuni vasi parzialmente pieni di acquaragia e qualche
bottiglia di acqua minerale che mi serviva per sciacquare. Era un tipico,
caotico, angolo di bottega artigianale.
Mi sistemai i guanti in grembo, chiusi gli occhi e finsi di toccarli con la
mano destra. Non sentii niente. Nessun dolore o prurito, nessuna sensazione di dita fantasma che accarezzassero il vecchio tessuto ruvido di usura.
Mi sforzai di sentire, qualunque cosa fosse, ma continuò a non succedere
niente. Lo stesso che se avessi comandato a me stesso di andare di corpo
quando non ne avevo bisogno. Dopo cinque lunghi minuti riaprii gli occhi
e guardai i guanti posati sulle ginocchia: GIÙ LE... MANI.
Inutili. Assolutamente inutili.
Non ti arrabbiare, mantieni l'equilibrio, pensai. E poi pensai: Troppo tardi, sono arrabbiato. Con questi guanti e con la donna che li ha indossati. E
quanto a mantenere l'equilibrio?
«Troppo tardi anche per quello», dissi e guardai il moncherino. «Non sarò mai più equiparato.»
La parola sbagliata. Sempre la parola sbagliata, e così sarebbe stato per
sempre. Mi venne voglia di spazzar via da quel tavolino tutti i miei stupidi
giocattoli e farli volare per terra.
«Equilibrato», dissi, pronunciando volutamente le sillabe adagio e a voce bassa. «Non sarò mai più e-qui-li-bra-to. Non con un braccio solo.»
Non c'era molto da ridere (e non aveva nemmeno molto senso), però la
collera cominciò a defluire lo stesso. Sentirmi pronunciare la parola giusta
era d'aiuto. Di solito.
Trasferii i miei pensieri dal mio moncherino ai guanti di mia moglie.
GIÙ LE MANI, certo.
Con un sospiro - forse con una certa dose di sollievo, non lo ricordo con
sicurezza ma è probabile - li posai sul tavolo dei miei modelli, prelevai un
pennello da uno dei vasi di acquaragia, Io asciugai con uno straccio, lo
sciacquai e guardai la tela bianca. Avevo davvero avuto intenzione di dipingere i guanti? Perché, si può sapere? Perché?
All'improvviso mi apparve ridicola l'idea stessa d'aver dipinto. Maledettamente più plausibile mi sembrava l'idea che non sapessi come si fa. Se
avessi intinto quel pennello nel nero e lo avessi poi applicato a quello spaventoso spazio bianco, il meglio che sarei riuscito a combinare sarebbe stato una serie di figurine stilizzate: dieci piccoli indiani a comprar scarpe
nuove, uno è cascato e son rimasti in nove. Nove piccoli indiani fino a tardi in salotto...
Brutta storia. Mi alzai con una certa fretta. All'improvviso non volevo
trovarmi lì, né nella Little Pink né a Big Pink e neppure a Duma Key, non
nella mia stupida inutile claudicante vita da ritirato ritardato. Quante balle
andavo raccontando? Di essere un artista? Ridicolo. Kamen poteva escla-
mare SBALORDITO e NON DEVI SMETTERE nella sua e-mail a tutte
maiuscole secondo il suo stile riconosciuto, ma Kamen era specializzato
nei trucchi con cui si induce la vittima di un terribile incidente a credere
che la pallida imitazione di vita che conduce valga quanto quella vera.
Quanto a rafforzamento dell'ego, Kamen e Kathi Green la regina della riabilitazione formavano una squama imbattibile. Loro ci sapevano fare ALLA STRAGRANDE e la maggior parte dei loro pazienti, colmi di riconoscenza, gridavano NON DEVI SMETTERE. Stavo dicendo a me stesso di
essere un sensitivo? Di possedere un braccio fantasma capace di vedere
nell'ignoto? Questo non era ridicolo, era pietoso e da sbroccato.
A Nokomis c'era un 7-Eleven. Decisi di mettere alla prova la mia abilità
di guidatore, andare a prendermi una confezione da sei e ubriacarmi. Le
cose mi sarebbero apparse meno tetre, forse, attraverso il velo dei postumi
di una sbornia. Non vedevo come potessero sembrarmi molto peggiori. Mi
allungai per prendere la gruccia e il piede, quello sinistro, il piede buono,
Dio santo, mi si agganciò alla gamba della sedia. Inciampai. La mia gamba
destra non era abbastanza robusta da sostenermi e caddi lungo disteso,
proiettando in avanti il braccio destro per ammortizzare l'urto.
Semplice istinto, si capisce... eccetto che parò la botta. Lo fece. Io non lo
vidi, avevo gli occhi ben chiusi, stretti stretti come quando si sa che si sta
per prenderne uno di quelli tosti, ma se non avessi ammortizzato l'urto, mi
sarei quasi certamente procurato danni seri, con o senza moquette. Una distorsione all'osso del collo o persino una frattura.
Rimasi dov'ero per qualche istante a confermare a me stesso di essere
ancora vivo, poi mi alzai sulle ginocchia, aggredito da un feroce dolore
all'anca, e mi alzai davanti agli occhi il braccio destro dolorante. Non c'era
nessun braccio. Raddrizzai la seggiola, mi ci appoggiai con l'avambraccio
sinistro... poi allungai di scatto la testa e mi morsicai il braccio destro.
Sentii l'arco dei denti affondare nelle mie carni appena oltre il gomito. Il
dolore.
Sentii di più. Sentii la carne del mio avambraccio contro le labbra. Poi
ritrassi la testa ansimando. «Gesù! Gesù! Cosa succede? Cos'è questo?»
Quasi mi aspettai di vedere il braccio materializzarsi dal nulla. Non accadde, ma era lì lo stesso. Lo allungai al di sopra della sedia verso i miei
pennelli. Percepii le mie dita che cercavano di afferrarne uno, ma il pennello non si mosse. Dunque ora so cosa vuol dire essere un fantasma, pensai.
Mi arrampicai sulla mia sedia. L'anca ringhiava, ma il suo dolore sem-
brava avvenire lontano. Con la sinistra recuperai il pennello che avevo lavato e me lo incastrai dietro l'orecchio. Ne pulii un altro e lo posai nel portaoggetti del cavalletto. Ne preparai un terzo e lo aggiunsi al secondo. Meditai se pulirne un quarto e decisi di non voler perdere altro tempo. Mi aveva ripreso la febbre, la fame. Violenta e improvvisa come i miei attacchi
di collera. Se al piano di sotto fossero entrati in funzione i rilevatori di fumo per avvertirmi che la casa stava andando a fuoco, non vi avrei prestato
attenzione. Strappai il cellofan da un quarto pennello, lo intinsi nel nero e
cominciai a dipingere.
Come già era accaduto con il quadro che avevo intitolato La fine della
partita, non ricordo molto di come prese forma Amici dispensatori. So solo che avvenne in un'esplosione violenta e che i tramonti non c'entravano
in alcun modo. Era soprattutto nero e blu, i colori degli ematomi, e quando
fu finito mi faceva male il braccio sinistro per la fatica. Avevo la mano
imbrattata di pittura fino al polso.
La tela finita mi ricordava un po' le copertine di quei noir tascabili che
mi capitava di vedere da piccolo, quelli su cui c'era sempre una donnina di
dubbi costumi in viaggio per l'inferno. Solo che su quelle copertine la donnina era di solito bionda e sui ventidue. Nel mio quadro aveva i capelli
scuri e sembrava in vista dei cinquanta. La donnina in questione era la mia
ex moglie.
Sedeva su un letto sfatto vestita solo di un paio di slip blu. Su una coscia
le serpeggiava l'elastico di un reggiseno coordinato. Teneva la testa leggermente chinata, ma sarebbe stato impossibile non riconoscerla; l'avevo
ritratta con STRAORDINARIA precisione in pochi e veloci colpi di nero
che erano quasi ideogrammi cinesi. Sul pendio di un seno c'era l'unica
macchia chiara di tutto il quadro: il tatuaggio di una rosa. Mi chiesi da dove venisse e perché. Pam tatuata era per me un concetto improbabile quanto Pam che partecipava a una gara di motocross a Mission Hill, ma ero lo
stesso sicuro che fosse un dato reale; era un fatto come lo era stata la Tshirt di Torii Hunter indossata da Carson Jones.
Alla composizione partecipavano anche due uomini, entrambi nudi. Uno
era in piedi alla finestra, girato per metà. Aveva la corporatura tipica di un
cinquantenne bianco di ceto medio, uno di quelli che immaginavo si potessero vedere facilmente in un qualsiasi spogliatoio di palestra: pancetta, culetto piccolo e piatto, un principio di tette da maschio. Il volto era quello di
una persona istruita e ben educata. In quella circostanza era atteggiato a
un'espressione malinconica da è-quasi-finita. Un'espressione da niente-
può-cambiarlo. Quell'uomo era Max di Palm Desert. Quasi avesse il nome
portato appeso al collo. Max che aveva perso a sua volta il padre l'anno
prima, Max che aveva cominciato offrendo a Pam un caffè e aveva finito
offrendole di più. Lei aveva accettato il caffè e il di più, ma non tutto il di
più che lui avrebbe voluto darle. Questo raccontava il suo volto. Non si
riusciva a vedere tutto, ma quel che si vedeva era molto più nudo del suo
sedere.
L'altro uomo era appoggiato allo stipite nel riquadro della porta con le
caviglie incrociate, una posa che, in conseguenza delle cosce schiacciate
l'una contro l'altra, metteva in risalto il suo considerevole pacco. Aveva
forse una decina d'anni in più dell'uomo alla finestra ed era meglio tenuto.
Niente pancetta. Niente maniglie dell'amore. Muscoli lunghi nelle cosce.
Era a braccia conserte e contemplava Pam con un sorrisetto sulle labbra.
Conoscevo bene quel sorriso perché Tom Riley era stato il mio commercialista - e mio amico - per trentacinque anni. Se non fosse stato costume
nella nostra famiglia affidare il ruolo di primo testimone delle nozze al
proprio padre, lo avrei chiesto a Tom.
Lo guardai sostare nudo sulla soglia della stanza a guardare mia moglie
sul letto e ricordai quando mi aveva aiutato a trasferire la mia roba al lago.
Ricordai quando mi aveva detto non si molla la casa, è come rinunciare a
giocare in casa in una partita dei playoff.
Poi lo avevo sorpreso con le lacrime agli occhi. Non riesco ad abituarmi
a vederti con un braccio solo.
Se la scopava già allora? Pensavo di no. Ma...
Ho un'offerta da darti per lei, avevo detto. E lui gliel'aveva data. Solo
che forse le aveva dato qualcosa di più. Raggiunsi la grande finestra trascinando la gamba, senza usare la stampella. Mancavano ancora ore al tramonto, ma la luce intensa era ormai tutta raccolta a ovest e il suo riflesso
risplendeva sull'acqua. Mi costrinsi a guardare direttamente nel riverbero,
strofinandomi ripetutamente gli occhi.
Cercai di persuadere me stesso che quel quadro potesse essere solo la
creazione di una mente che ancora si sforzava di guarire. Non funzionò.
Tutte le mie voci si parlavano con chiarezza e coerenza l'una con l'altra e
io sapevo ciò che sapevo. Pam si era scopata Max, laggiù a Palm Desert, e
quando lui aveva proposto un impegno più duraturo e solido, aveva rifiutato. Pam si era anche scopata il mio vecchio amico e consulente e forse se
lo scopava ancora. L'unico interrogativo senza risposta era quale dei due
l'avesse convinta a farsi incidere la rosa sulla tetta.
«Devo uscire da questa cosa», dissi appoggiando la fronte pulsante contro il vetro. Davanti a me il sole ardeva sul Golfo del Messico. «Devo assolutamente uscirne.»
Allora schiocca le dita, pensai.
Schioccai le dita della destra e udii il suono, un piccolo clic secco. «A
posto, via il dente, via il dolore!» esclamai. Ma poi chiusi gli occhi e vidi
Pam seduta sul letto, un letto non meglio precisato, in mutande, con una
spallina di reggiseno sulla gamba come un serpente morto.
Amici dispensatori.
Amici del cazzo, dispensatori di cazzi.
7
Quella sera non guardai il tramonto dalla Little Pink. Abbandonai la mia
gruccia contro l'angolo della casa, scesi zoppicando in spiaggia e m'inoltrai
nell'acqua fino alle ginocchia. L'acqua era fredda, come diventa un paio di
mesi dopo la stagione degli uragani, ma io non ci feci caso. Ora la striscia
che l'attraversava in superficie era color arancio fosco ed era su di essa che
si concentrava il mio interesse.
«Esperimento un bel cazzo», dissi e l'acqua montò passandomi intorno.
Dondolai sui piedi, aprendo il braccio per mantenermi in equilibrio. «Un
gran bel cazzo.»
Sopra di me un airone attraversò il cielo scuro, un silenzioso proiettile
dal lungo collo.
«Sei andato a ficcanasare, non a fare esperimenti, e ti è costato caro.»
Vero. Se mi aveva preso una mezza voglia di strangolarla per la seconda
volta, la colpa era solo mia. Non sbirciare dal buco della serratura se non
vuoi starci male, soleva dire la mia cara vecchia mamma. Avevo sbirciato
e ci ero rimasto male, fine della storia. La vita era solo sua ora e che cosa
ne faceva erano affari suoi. Il mio affare era di lasciar perdere. La mia domanda era se ne sarei stato capace. Era più difficile che schioccare le dita;
persino schioccare le dita di una mano che non c'è.
Sopraggiunse un'altra onda grande abbastanza da buttarmi giù. Per un
momento fui sott'acqua e bevvi. Riemersi sputacchiando. Il riflusso cercò
di trascinarmi via con la sabbia e le conchiglie. Mi spinsi verso riva con il
piede buono, riuscendo persino a scalciare debolmente con quello malconcio, e guadagnai un po' di terreno e presa. Sarò anche stato confuso su certe questioni, ma non volevo finire annegato nel Golfo del Messico. Su que-
sto non avevo confusioni. Uscii dall'acqua carponi con i capelli negli occhi, sputando e tossendo, trascinando dietro di me la gamba destra come
un bagaglio infradiciato.
Quando riguadagnai finalmente la sabbia asciutta, mi girai sulla schiena
a guardare il cielo. Uno spicchione di luna presidiava la coltre di velluto
sempre più scuro sopra il tetto di Big Pink. Sembrava tutto molto sereno
lassù. Quaggiù c'era un uomo che si sentiva tutto l'opposto: tremante e triste e rabbioso. Girai la testa e guardai prima il mio moncherino e poi di
nuovo la luna.
«Basta ficcanasare», dissi. «Il nuovo corso comincia da stasera. Niente
più ficcanasare e niente più esperimenti.»
Ed ero sincero. Ma come ho detto (e Wireman ci era già passato prima di
me), inganniamo noi stessi così spesso che potremmo farne la nostra professione quotidiana.
5
Wireman
1
La prima volta che Wireman e io entrammo effettivamente in contatto,
lui rise tanto da sfasciare la sedia che occupava e io risi tanto che quasi
persi i sensi, e scivolai in uno stato di semideliquio. Fu l'ultima cosa che
mi sarei aspettato un giorno dopo aver scoperto che Tom Riley aveva una
relazione con la mia ex moglie (non che la mia prova potesse avere qualche peso in un'aula di tribunale), ma fu un presagio di quanto sarebbe seguito. Non fu la sola volta in cui ridemmo insieme. Wireman è stato molte
cose per me - non ultima dell'elenco il mio destino - ma sopra tutto il resto
è stato mio amico.
2
«Allora», esordì quando finalmente arrivai al suo tavolo con l'ombrello a
strisce che lo proteggeva dal sole e la sedia vacante di fronte alla sua.
«Giunge lo straniero zoppicante portando un sacchetto pieno di conchiglie.
Accomodati, straniero zoppicante. Bagnati il gargarozzo. Sono giorni ormai che quel bicchiere aspetta.»
Posai il mio sacchetto di plastica sul tavolo e gli porsi la mano. «Edgar
Freemantle.»
La sua era tozza, con le dita a martello, una stretta potente. «Jerome Wireman. Solo Wireman, per lo più.»
Guardai la sedia che mi era stata destinata. Era di quelle con lo schienale
alto e una seduta bassa di tela, come una piccola amaca, un po' come i sedili di una Porsche.
«Qualcosa che non va, muchacho?» chiese lui inarcando un sopracciglio.
Ne aveva parecchio da inarcare, folto e ingrigito.
«No se non ti metterai a ridere quando dovrò rialzarmi da là dentro», risposi.
Sorrise. «Amore, vivi come devi vivere. Chuck Berry, millenovecentosessantanove.»
Mi posizionai di fianco alla sedia, recitai una preghierina e mi lasciai cadere. M'inclinai come sempre a sinistra, per proteggere l'anca malandata.
Non atterrai nel centro preciso, ma m'aggrappai al bracciolo di legno, spinsi con il piede forte e la sedia barcollò senza rovesciarsi. Un mese prima
sarei ruzzolato sulla sabbia, ma ora ero più forte. Immaginai Kathi Green
che applaudiva.
«Bel lavoro, Edgar», si complimentò lui. «O sei un Eddie?»
«A te la scelta dell'arma, rispondo a entrambi. Che cosa avresti in quella
caraffa?»
«Tè verde ghiacciato», rispose. «Molto rinfrescante. Ti va di provarlo?»
«Più che volentieri.»
Me ne versò un bicchiere, poi rabboccò il proprio e lo alzò. Il tè era solo
vagamente verde. I suoi occhi, in una rete di rughe sottili, erano più verdi.
I capelli erano neri, con striature bianche alle tempie, e lunghi davvero.
Quando il vento glieli sollevava, vedevo una cicatrice all'attaccatura dei
capelli sul lato destro, a forma di moneta, ma molto piccola. Quel giorno
era in costume da bagno e le gambe erano abbronzate quanto le braccia.
Era in forma, ma mi sembrò anche stanco.
«Brindiamo alla tua salute, muchacho. Ce l'hai fatta.»
«D'accordo», dissi. «A me.»
Facemmo tintinnare i bicchieri e bevemmo. Conoscevo il tè verde e non
mi dispiaceva, ma quello era paradisiaco, come bere seta fresca con giusto
una punta di dolce.
«Senti il miele?» domandò e sorrise quando annuii. «Non lo fanno tutti.
Io ne metto giusto un cucchiaino per caraffa. Libera la dolcezza naturale
del tè. L'ho imparato cucinando su un cargo nel Mar della Cina.» Levò il
bicchiere e vi sbirciò attraverso socchiudendo gli occhi. «Tenemmo testa a
molti pirati e ci coricammo con donne strane dalla pelle scura sotto cieli
tropicali.»
«Questa mi suona un tantino come una presa per il culo, signor Wireman.»
Rise. «Per la verità ho letto questo trucco del miele su uno dei libri di
cucina della signorina Eastlake.»
«Sarebbe quella con cui vieni in spiaggia la mattina? Quella in carrozzella?»
«Proprio lei.»
E senza pensare troppo a quello che stavo dicendo - era a quelle sue enormi scarpe blu sui poggiapiedi cromati della sua sedia a rotelle che stavo
pensando - io dissi: «La Sposa del Padrino».
Wireman spalancò la bocca e strabuzzò quei suoi occhi verdi a tal punto
che mi sentii in dovere di scusarmi della mia gaffe. Ma lui cominciò a ridere, questa volta sul serio. Le sue furono quelle risate sconquassanti che ti
traboccano dalla gola in quelle rare occasioni in cui qualcosa la fa in barba
a tutte le tue difese e va a scatenare l'anima del tuo senso dell'umorismo.
Voglio dire che rideva a crepapelle e quando si accorse che non avevo la
più pallida idea di che cosa avesse trovato di tanto spassoso, rise ancora
più forte assieme al suo non indifferente pancione. Cercò di posare il bicchiere sul tavolino e mancò il bersaglio. Il bicchiere precipitò dritto nella
sabbia e lì si fermò, perfettamente verticale, come un mozzicone di sigaretta in una di quelle vaschette di sabbia che si trovano di fianco agli ascensori nella hall degli alberghi. Trovò il fenomeno ancora più buffo e puntò il
dito.
«Non ce l'avrei fatta nemmeno se ci avessi provato!» riuscì a balbettare
e poi ripartì di nuovo, a ondate successive, sobbalzando sulla sua sedia,
una mano premuta sullo stomaco e l'altra piantata sul petto. Mi sovvenne
all'improvviso e con inquietante chiarezza il verso di una poesia letta al liceo, più di trent'anni prima: Gli uomini non fingono una convulsione/Né
simulano uno spasimo.
Io per parte mia sorridevo, ridacchiavo e sorridevo, perché quel genere
di ilarità sfrenata è contagiosa, anche quando non sai quale ne sia l'origine.
E il bicchiere caduto in quel modo, con il tè di Wireman tutto dentro fino
all'ultima goccia... era divertente davvero. Come una scenetta in un cartone
di Willy il Coyote. Ma la fonte dell'ilarità di Wireman non era il bicchiere.
«Non l'ho colta. Cioè, mi spiace se ho...»
«Ma lo è!» esclamò Wireman, quasi incoerente, ancora in preda al suo
attacco di risa. «In un certo senso lo è, qui sta il bello! Solo che è la figlia,
naturalmente, è la Figlia del padri...»
Ma oltre che sobbalzare, su quella sedia da spiaggia, aveva continuato a
rollare da una parte all'altra - nessun inganno, spasimi autentici - e fu allora
che il suo scanno rese finalmente l'anima con un crrrack potente, dapprima
proiettandolo in avanti con un'estremamente comica espressione di sorpresa stampata sulla faccia e quindi rovesciandolo sulla sabbia. Gesticolando,
picchiò un braccio sul palo dell'ombrello e rovesciò il tavolo. Una folata di
vento investì l'ombrellone, lo gonfiò come una vela e cominciò a trascinare
il tavolo per la spiaggia. A farmi ridere non fu la faccia sbigottita con gli
occhi strabuzzati di Wireman quando la sedia che aveva disintegrato cercò
di chiudersi su di lui come un paio di fauci a strisce, né fu il suo improvviso capitombolo. E non fu neppure la vista del tavolo che cercava di scappare rimorchiato dall'ombrellone. Fu il bicchiere di Wireman, ancora tranquillamente dritto nella sabbia tra il fianco e il braccio sinistro dello sventurato.
Tè freddo prodotto dalla mitica Acme, pensai, ancora sintonizzato su
quei vecchi cartoni dello struzzo. Miip-miip! E quello, ovviamente, mi fece
pensare alla gru assassina, quella con il segnale acustico guasto che non
aveva segnalato niente, e tutt'a un tratto mi vidi nei panni di Willy il Coyote nella cabina del mio pick-up disintegrato, con gli occhi strabuzzati in
un'espressione sbigottita, le orecchie bruciacchiate messe di piatto, una di
qua e una di là, magari con un filo di fumo a salire dalle punte.
Quello fu. Risi fino a rotolare mollemente fuori della mia sedia per ritrovarmi sulla sabbia di fianco a Wireman... mancando però il bicchiere,
che ancora se ne stava in piedi come un mozzicone in un posacenere. Mi
era impossibile ridere più forte di così, eppure ci riuscii. Sprizzai lacrime e,
mentre mi si bagnavano le guance, la mancanza di afflusso di ossigeno al
cervello cominciò a spegnere il mondo che mi circondava.
Wireman, sempre ridendo come un matto, partì all'inseguimento del tavolo fuggiasco, stantuffando gomiti e ginocchia come una locomotiva. Fece per afferrarne uno spigolo e il tavolo sgattaiolò via come se avesse sentito che stava per essere catturato. Wireman finì con la faccia nella sabbia e
si rialzò ridendo e sternutendo. Io mi rotolai sulla schiena boccheggiando,
sul punto di perdere i sensi ma ancora ridendo.
Fu così che conobbi Wireman.
3
Venti minuti dopo il tavolo era stato sistemato approssimativamente nella sua posizione originale. Tutto molto bene, anche se nessuno dei due riusciva a guardare quell'ombrellone senza mettersi a ridacchiare. Una delle
zeppe era saltata via e adesso il paletto dell'ombrellone era tutto storto e
faceva pensare a un ubriaco che si sforza di farsi passare per sobrio. Wireman aveva trasportato la sedia rimasta in fondo alla passerella di legno e,
dietro le mie insistenze, vi si era seduto. Io invece mi ero accomodato sulla
passerella, che, sebbene sprovvista di schienale, mi avrebbe reso più semplice (per non dire più dignitosa) l'operazione al momento di rialzarmi in
piedi. Wireman si era offerto di portare un'altra caraffa di tè freddo, visto
che la prima si era rovesciata. Io avevo declinato ma accettato di dividere
con lui il bicchiere rimasto miracolosamente pieno.
«Ora siamo fratelli d'acqua», dichiarò quando il tè fu finito.
«Cos'è, qualche rito indiano?» domandai.
«No, è da Straniero in terra straniera di Robert Heinlein. Che Dio lo
benedica.»
Rammentai di non averlo mai visto leggere sulla sua sedia di tela, ma
non commentai. Sono molte le persone che non leggono in spiaggia, il riverbero fa loro venire il mal di testa. Io ero molto solidale con le persone
che soffrono di emicranie.
Wireman ricominciò a ridere. Si coprì la bocca con entrambe le mani,
come un bambino, ma la risata gli scappò lo stesso. «Basta. Gesù, basta.
Mi fa male la pancia, mi sembra di essermi stirato tutti i muscoli addominali.»
«Anch'io», feci eco.
Per qualche istante non parlammo. La brezza che arrivava dal Golfo era
fresca, quel giorno, con un mesto aroma salmastro. Lo strappo nell'ombrellone sbatacchiava. La macchia di sabbia più scura dove si era rovesciata la
caraffa di tè era già quasi asciutta.
Fece un risolino. «Hai visto il tavolo che cercava di filarsela? Un fottutissimo tavolo?»
Sghignazzai anch'io. Mi faceva male l'anca e avevo i muscoli dello stomaco indolenziti, ma mi sentivo alquanto bene considerato che per poco
non ero svenuto per il gran ridere. «Alabama Getaway», dissi.
Lui annuì, ancora intento a togliersi granelli di sabbia dalla faccia. «Grateful Dead. Millenovecentosettantanove. O giù di lì.» Ridacchiò e piano
piano la risatina aumentò d'intensità finché si distese in un altro attacco di
risate a squarciagola. Si tenne il ventre e gemette. «Non posso, devo smettere, ma... la Sposa del Padrino! Gesù!» E ripartì.
«Che non ti venga mai in mente di andarglielo a dire», mi raccomandai.
Lui smise di ridere, ma non di sorridere. «Non sono così indiscreto, muchacho. Ma... è per via del cappello, vero? Quel cappellone di paglia. Come Marion Brando in giardino quando gioca con il bambino.»
In realtà erano gli scarponi, ma annuii e ridemmo ancora un po' insieme.
«Se ci scappa da ridere quando ti presento», disse (sghignazzando di
nuovo, probabilmente solo all'idea; così va quando sei stato contagiato),
«diremo che è per via della sedia che ho sfasciato, d'accordo?»
«D'accordo», risposi. «Che cosa intendevi quando hai detto che lo è in
un certo senso?»
«Davvero non lo sai?»
«Brancolo nel buio.»
Indicò Big Pink, piccolissima in lontananza. Una scarpinata non da ridere a volerci tornare. «Chi credi che sia proprietario di casa tua, amigo? Voglio dire, sono sicuro che paghi l'affitto a un agente immobiliare o al servizio di alloggi per villeggianti, ma dove credi che vada a finire la fetta più
consistente del tuo assegno?»
«Sul conto corrente della signorina Eastlake?»
«Bravo. La signorina Elizabeth Eastlake. Data l'età immagino che possiamo chiamarla signora. Ha ottantacinque anni.» Ricominciò a ridere,
scosse la testa e aggiunse: «Devo assolutamente smettere. Ma in tutta franchezza era da molto tempo che non mi capitava qualcosa su cui sganasciarmi».
«Idem quaggiù.»
Mi guardò, guardò un uomo privo di un braccio e con ciuffi di capelli
scomposti su un lato della testa, e annuì. Poi per qualche tempo restammo
a contemplare il Golfo. So che la gente viene in Florida quando è vecchia e
malata perché qui il clima è quasi sempre mite per tutto l'anno, ma credo
che il Golfo del Messico abbia qualche virtù supplementare. Solo spaziare
con lo sguardo in quella calma piatta e serena, piena di luce, ha un effetto
terapeutico. È una parola grossa, vero? Golfo, intendo. Abbastanza grossa
da poterci buttare dentro molte cose e guardarle scomparire.
Dopo un po' Wireman disse: «E chi credi che sia il proprietario di tutte
le case tra la tua e questa?» Alzò il pollice sopra la spalla a indicare il muro di cinta bianco e le tegole arancione. «La quale, a proposito, al catasto
della contea è indicata come Heron's Roost, Nido dell'Airone, mentre io la
chiamo El Palacio de Asesinos.»
«Tutte proprietà della Eastlake?»
«Tutte dalla prima all'ultima», confermò.
«Perché chiami questa 'Palazzo degli Assassini'?»
«Be', quando penso in inglese in realtà la chiamo Tana del Fuorilegge»,
ribatté Wireman con un sorriso di scuse. «Perché sembra il posto dove appenderebbe il cappello il cattivo in un western di Sam Peckinpah. Comunque, ci sono sei ville piuttosto eleganti tra Heron's Roost e Salmon
Point...»
«Quella che io chiamo Big Pink», dissi io. «Quando penso in inglese.»
Lui annuì. «El Rosado Grande. Bel nome. Mi va. Tu ci starai... per
quanto?»
«L'ho affittata per un anno, ma onestamente non lo so. Non ho paura
della stagione calda, quella che mi pare che qui chiamino brutta stagione,
ma bisogna considerare gli uragani.»
«Sì, quaggiù tutti teniamo in considerazione la stagione degli uragani,
specialmente dopo Charley e Katrina. Ma le case tra Salmon Point e Heron's Roost saranno vuote molto prima che quella stagione abbia inizio.
Come tutto il resto di Duma Key. La quale, se è per questo, si potrebbe facilmente chiamare East-lake Island.»
«Mi stai dicendo che è tutto suo?»
«La questione è complicata persino per uno come me, che nella sua altra
vita faceva l'avvocato», mi rispose Wireman. «In passato era suo padre a
possedere tutto, compresa una bella fetta di terraferma in Florida, a est di
qui. Negli anni Trenta vendette tutto eccetto Duma. La signorina Eastlake
è proprietaria del lato nord, su questo non ci sono dubbi.» Mosse il braccio
in direzione dell'estremità settentrionale dell'isola, la zona che più tardi avrebbe definito pelata come la passera di una spogliarellista. «Il terreno e
le case che ci sorgono sopra, dalla Heron's Roost, la più lussuosa, alla tua
Big Pink, la più avventurosa. Le fruttano un reddito di cui non ha sicuramente bisogno, perché suo padre ha lasciato a lei e alle sue sorelle mucho
dinero.»
«Quante delle sue sorelle sono ancora...»
«Nessuna», mi precedette Wireman. «La Figlia del Padrino è l'ultima.»
Grugnì scuotendo la testa. «Bisogna che la pianti di chiamarla così», brontolò più a se stesso che a me.
«Se lo dici tu. Quello che io veramente non capisco è perché non c'è sta-
to sviluppo sul resto dell'isola. Visto l'interminabile boom edilizio e immobiliare che c'è in Florida, mi è sembrato folle fin da quando ho attraversato il ponte.»
«Parli da persona informata. Che cos'eri nella tua altra vita, Edgar?»
«Costruttore.»
«E sono giorni che ormai ti sei lasciato alle spalle?»
Avrei potuto tergiversare, non lo conoscevo abbastanza bene da concedermi a lui senza riserve, però non lo feci. Sono certo che in questo molto
ebbe a che fare il nostro reciproco giro sulla giostra delle grandi risate.
«Sì», dissi.
«E che cosa sei in questa vita?»
Sospirai e distolsi lo sguardo da lui. Lo spostai sul Golfo, dove potevi
scaricare tutte le tue pene e guardarle scomparire senza lasciare traccia.
«Non saprei darti una risposta precisa. Ho dipinto un po'.» E attesi che ridesse.
Non lo fece. «Non saresti il primo pittore ad abitare a Salm... Big Pink.
Ha un interessante passato artistico.»
«Mi prendi in giro?» Non c'era niente in quella casa che lo lasciasse intendere.
«Oh no», rispose. «C'è stato Alexander Calder. E Keith Haring. E Marcel Duchamp. Tutti prima che l'erosione della spiaggia mettesse la struttura
in pericolo di precipitare nell'acqua.» Fece una pausa. «Salvador Dalí.»
«Ma non sparare mazzate!» proruppi e subito arrossii quando lui inclinò
la testa sulla spalla. Per un momento mi sentii travolgere dalla vecchia collera da frustrazione, che mi ostruì testa e gola. Lo posso fare, pensai. «Scusa. Ho avuto un incidente qualche tempo fa e...» Mi interruppi.
«Non è difficile intuirlo», rispose Wireman. «Nel caso tu non l'abbia notato, sei un attimo scorciato sul lato destro, muchacho.»
«Sì. E ogni tanto divento... non saprei... afasico, immagino.»
«Eh già. A ogni modo non sto mentendo su Dalí. Nel millenovecentoottantuno alloggiò per tre settimane nella casa che occupi tu.» Poi, senza
pause: «So che cosa stai passando».
«Ne dubito seriamente.» Non avevo avuto intenzione di metterci dell'asprezza, ma così venne fuori. E così mi sentivo io, per la verità.
Per un po' Wireman rimase in silenzio. Lo strappo nell'ombrellone sbatacchiava. Ebbi tempo di pensare che si era messa male - Be', peccato, era
un'amicizia potenzialmente interessante ma non si svilupperà - ma quando
riaprì bocca, il suo tono fu calmo e cortese. Come se nulla fosse successo.
«Parte del motivo per cui Duma si è sviluppata così poco è la vegetazione. L'uniola è erba locale, ma tutto il resto di questa merda non è naturale
che cresca senza irrigazione. Qualcuno farebbe bene a indagare, così la
penso io.»
«Un giorno sono andato in esplorazione con mia figlia. A sud di qui c'è
una vera e propria giungla.»
Wireman si allarmò. «Duma Key Road non è adatta a uno nelle tue condizioni. È in uno stato pietoso.»
«Dillo a me. Quello che vorrei sapere è come mai non è una strada a
quattro corsie con piste ciclabili su entrambi i lati e un condominio ogni
ottocento metri.»
«Perché nessuno sa a chi appartiene il terreno? Questo ti va bene per
cominciare?»
«Dici sul serio?»
«Già. La signorina Eastlake è proprietaria del tratto dalla punta sud fino
alla Heron's Roost già dal millenovecentocinquanta. Su questo non ci piove nella maniera più assoluta. Era nei testamenti.»
«Testamenti? Al plurale?»
«Tre. Tutti olografi, tutti redatti alla presenza di diversi testimoni, tutto
diverso quando si tratta di Duma Key. Quello che è certo, comunque, è che
la parte nord di Duma è stata lasciata senza vincoli a Elizabeth Eastlake da
suo padre John. Il resto è in giro per tribunali fin da allora. Sessant'anni di
liti che al confronto Casa desolata è rose e fiori.»
«Credevo che avessi detto che tutte le sorelle della signorina erano morte.»
«Lo sono, ma ci sono nipoti e pronipoti. Come le vernici della SherwinWilliams, ricoprono il mondo. Sono loro a litigare, ma tra di loro, non con
lei. L'unica volta che il suo nome compare nei testamenti multipli del vecchio è in relazione a questo pezzo di Duma Key, i cui confini sono stati attentamente tracciati da due diverse perizie topografiche, una poco prima
della seconda guerra mondiale e una subito dopo. Tutto questo è agli atti.
E sai una cosa, amigo?»
Scossi la testa.
«La signorina Eastlake pensa che sia esattamente quello che il suo vecchio voleva che accadesse. E, avendo allungato il mio occhio avvocatesco
sulle copie di quei testamenti, lo penso anch'io.»
«Chi paga le tasse?»
Parve sorpreso, poi rise. «Mi sei sempre più simpatico, vato.»
«La mia altra vita», gli rammentai. Già mi piaceva come suonava questa
cosa dell'altra vita.
«Giusto. Allora ti piacerà», disse. «È una furbata. Tutti e tre i testamenti
di John Eastlake contengono clausole identiche per la creazione di un fondo fiduciario con cui pagare le tasse. Da allora la società d'investimento
che amministrava in origine il fondo è stata assorbita... anzi, la società che
l'aveva assorbita è stata a sua volta assorbita...»
«Così funziona il mercato finanziario in America», commentai.
«Già. Fatto sta che il fondo non è mai stato in pericolo di esaurirsi e le
tasse vengono pagate puntualmente tutti gli anni.»
«Moneta che canta zittisce tutti.»
«È la verità.» Si alzò, si applicò le mani al fondo della schiena e si
sgranchì. «Ti va di venire a casa a conoscere la padrona? A quest'ora dovrebbe aver finito il suo sonnellino. Ha i suoi problemi, ma nonostante i
suoi ottantacinque anni, merita.»
Non era il momento più adatto per dirgli che pensavo di averla già incontrata, brevemente, tramite la mia segreteria telefonica. «Un'altra volta.
Quando non avremo troppa voglia di ridere.»
Annuì. «Vieni domani pomeriggio, se ti va.»
«Può essere. È stato un piacere.» Gli porsi di nuovo la mano. Lui la
strinse di nuovo guardando il moncherino del mio braccio destro.
«Niente protesi? O semplicemente te la togli quando non devi scendere
tra le folle?»
Avevo una storiella che raccontavo in giro su una nevralgia nel moncherino, ma era una bugia e non volevo mentire a Wireman. In parte perché
aveva il naso fino nel fiutare l'odore delicato delle panzane, ma soprattutto
perché più semplicemente non volevo cacciargli balle.
«Naturalmente quand'ero ancora in ospedale mi presero le misure per
fabbricarmene una e ho subito opera di persuasione da parte di praticamente tutti, specialmente la mia fisioterapista e questo psicologo mio amico.
Dicevano che prima avessi imparato a usarla, prima avrei ripreso a condurre la mia vita...»
«Buttarsi tutto alle spalle e tornare in pista...»
«Sì.»
«Solo che certe volte buttarsi tutto alle spalle non è così facile.»
«Già.»
«Certe volte non è nemmeno giusto», disse Wireman.
«No, non è proprio così, ma...» Lasciai la frase in sospeso e mossi la
mano nell'aria.
«Vicino quanto basta?»
«Sì», annuii. «Grazie della bibita.»
«Torna a fartene un'altra. Io prendo il sole tra le due e le tre, un'ora al
giorno per me è sufficiente, ma la signorina Eastlake o dorme o riordina le
sue statuine per quasi tutto il pomeriggio e naturalmente non perde mai
Oprah, perciò il tempo non mi manca. Ne ho più di quanto sappia occuparne, per la verità. Chissà, può darsi che troviamo molto di cui chiacchierare.»
«Va bene», dissi. «La prospettiva è buona.»
Wireman sorrise. Diventava attraente. Mi offrì la mano e io gliela strinsi
di nuovo. «Sai cosa penso? Che le amicizie che si fondano sulle risa sono
sempre fortunate.»
«Forse il tuo prossimo lavoro sarà scrivere pronostici nei biscotti della
fortuna cinesi», dissi io.
«Ci sono lavori peggiori, muchacho. Molto peggiori.»
4
Tornando a casa i miei pensieri andarono alla signorina Eastlake, un'anziana signora in un paio di grosse scarpe blu e ampio copricapo di paglia
che guarda caso aveva una key tutta sua (più o meno). Non la Sposa del
Padrino, alla resa dei conti, ma la Figlia del Barone Terriero e Patrona delle Arti. La mia mente aveva fatto un altro di quei suoi strani scivoloni e
non ricordavo più come si chiamava suo padre (qualcosa di semplice, una
sola sillaba), ma ricordavo la situazione nel suo complesso così come me
l'aveva delineata Wireman. Non avevo mai sentito niente di simile, e
quando per guadagnarti da vivere costruisci case, ti capitano sotto gli occhi
ogni sorta di bizzarrie contrattuali. Mi sembrava uno stratagemma abbastanza ingegnoso... posto che l'intento fosse di mantenere il proprio piccolo
regno in uno stato di grazia sottosviluppata. La domanda era: perché?
Avevo percorso quasi tutta la via del ritorno prima di rendermi conto che
la gamba mi faceva un male bastardo. Entrai zoppicando, bevvi acqua direttamente dal rubinetto in cucina poi attraversai il soggiorno per andare in
camera. Vidi lampeggiare la spia sulla segreteria telefonica, ma in quel
momento non avevo proprio voglia di affrontare messaggi dal mondo esterno. Desideravo solo tirare su i piedi.
Mi sdraiai e guardai le pale del ventilatore girare lentamente. Non me
l'ero cavata molto bene nel giustificare la mancanza di un braccio finto. Mi
chiesi se Wireman avrebbe avuto miglior fortuna di me con: Cosa ci fa un
avvocato a fungere da cavalier servente a una vecchia zitella piena di soldi? Che razza di altra vita sarebbe?
Mentre così riflettevo, sprofondai in un sonno senza sogni e molto soddisfacente.
5
Appena sveglio feci una doccia calda, poi andai in soggiorno a controllare la segreteria. Non ero tutto indurito come mi ero aspettato, dopo quella
camminata di più di tre chilometri. Mi sarei risvegliato l'indomani tutto pesto, ma per quella sera pensavo che me la sarei cavata abbastanza bene. Il
messaggio era di Jack. Mi informava che sua madre aveva preso contatto
con un certo Dario Nannuzzi e che questo Nannuzzi sarebbe stato ben felice di dare un'occhiata ai miei lavori tra le quattro e le cinque del pomeriggio di venerdì: potevo portarne non più di dieci di quelli che consideravo
migliori alla Scoto Gallery? Niente schizzi, perché Nannuzzi voleva vedere solo opere finite.
Avvertii un formicolio di disagio.
No, questa è una definizione di gran lunga troppo blanda.
Mi prese un crampo allo stomaco e avrei giurato che l'intestino mi si
fosse abbassato di mezza spanna. E il peggio non fu nemmeno quello. La
sgradevole sensazione che era metà prurito e metà dolore mi si arrampicò
per il fianco destro e mi ridiscese per il braccio che non c'era più. Dissi a
me stesso che quella sensazione - che si riduceva a panico da palcoscenico
con tre giorni d'anticipo - era una stupidaggine. In passato avevo illustrato
un progetto da dieci milioni di dollari al consiglio municipale di St. Paul
che all'epoca includeva tra le sue file un uomo che sarebbe diventato il governatore del Minnesota. Avevo assistito due figlie nel loro primo saggio
di danza, nei loro provini da cheerleader, nelle lezioni di guida e nell'inferno dell'adolescenza. A confronto di tutto questo, cosa poteva essere mostrare alcuni dei miei dipinti a un gallerista?
Eppure salii le scale con piedi di piombo.
Il sole tramontava inondando lo stanzone di una favolosa e improbabile
luce color mandarino, ma io non provai l'impulso di cercare di catturarla,
non quella sera. La luce mi stava mandando lo stesso un richiamo. Come
potrebbe chiamarti la fotografia di un amore di tanto tempo fa, trovata per
caso frugando in una vecchia scatola di souvenir. Ed era alta marea. Sentivo la voce frusciante delle conchiglie anche dal piano di sopra. Mi sedetti e
cominciai a esaminare la raccolta di reperti sul mio tavolino: una piuma,
un sasso levigato dall'acqua, un accendino usa-e-getta che l'acqua salata
aveva scolorito in un grigio anonimo. In quel momento non stavo pensando a Emily Dickinson, bensì a una vecchia canzone folk: Non è bello quel
sole Mama, che brilla tra gli alberi. Là fuori non c'erano alberi, naturalmente, ma io, se avessi voluto, avrei potuto piazzarne uno all'orizzonte.
Avrei potuto piazzarne uno perché la luce rossa del sole al tramonto vi
splendesse attraverso. Hello, Dalí.
Non avevo paura di sentirmi dire che non avevo talento. Avevo paura
che il signor Nannuzzi mi dicesse che avevo un piccolo talento. Con accento italiano. Che alzasse pollice e indice, separati di non più di qualche
centimetro, consigliandomi di prenotare uno spazio alla Sagra dell'Arte di
Venice, dove di certo avrei avuto successo, molti turisti sarebbero stati sicuramente attratti dalle mie accattivanti imitazioni di Dalí.
E se avesse fatto così, se avesse sollevato pollice e indice tenendoli separati di quei pochi millimetri e avesse detto piccolo all'italiana, io come l'avrei presa? Era possibile che il verdetto di uno sconosciuto spazzasse via la
mia nuova fiducia in me stesso, mi derubasse della mia speciale nuova gioia?
«Forse», mormorai.
Sì. Perché dipingere quadri non era come costruire centri commerciali.
La soluzione più facile sarebbe stata annullare l'appuntamento... solo che
avevo più o meno promesso a Ilse e non avevo l'abitudine di disonorare le
promesse che facevo alle mie figlie.
Il braccio destro mi prudeva ancora, tanto quasi da far male, ma i miei
pensieri erano diretti altrove. Alla mia sinistra, contro il muro, erano allineate otto o nove tele. Mi girai da quella parte, pensando che avrei tentato
di decidere quali fossero le migliori, e invece non le guardai mai.
In cima alle scale c'era Tom Riley. Indossava solo i pantaloni celesti di
un pigiama, più scuri all'inguine e lungo l'interno di una gamba, dove si era
bagnato. Non aveva più l'occhio destro. Al suo posto c'era un'orbita piena
di poltiglia rossa e nera. Un grumo di sangue coagulato gli risaliva dalla
tempia destra come colori di guerra per scomparire nei suoi capelli brizzolati sopra l'orecchio. L'altro occhio era rivolto al Golfo del Messico. Sulla
sua faccia magra e pallida si avvicendavano i colori di un tramonto caleidoscopico.
Urlai di sorpresa e terrore, rinculai e caddi dalla sedia. Atterrai sull'anca
ferita e gridai di nuovo, questa volta di dolore. La gamba mi si contrasse in
un movimento inconsulto e con il piede colpii la sedia rovesciandola.
Quando guardai di nuovo in direzione delle scale, Tom non c'era più.
6
Dieci minuti dopo ero da basso a comporre il suo numero di casa. Ero
sceso per le scale seduto, picchiando il sedere gradino dopo gradino. Non
perché cascando dalla sedia mi fossi fatto male all'anca, ma perché mi tremavano troppo le gambe e non mi fidavo a reggermi in piedi. Temevo di
poter precipitare, anche scendendo al contrario per potermi aggrappare al
corrimano con la sinistra. Diavolo, temevo di svenire.
Non mi toglievo dalla testa quel giorno al lago Phalen quando avevo
sorpreso Tom con quell'innaturale luccichio negli occhi, Tom che cercava
di non mettermi in imbarazzo scoppiando in lacrime al mio cospetto. Non
riesco ad abituarmi a vederti con un braccio solo. Mi spiace.
Nella bella abitazione di Tom ad Apple Valley il telefono cominciò a
squillare. Tom, sposato e divorziato due volte, Tom che mi aveva sconsigliato di lasciare la casa di Mendota Heights: È come rinunciare a giocare
in casa in una partita dei playoff, aveva detto. Tom che non si era negato il
piacere di giocare un po' in casa mia, se dovevo credere ad Amici dispensatori... e io ci credevo.
Credevo anche a quello che avevo visto al piano di sopra.
Uno squillo... due... tre.
«Avanti», mormorai. «Tira su.» Non sapevo che cosa avrei detto se avesse risposto e non mi importava. La sola cosa che desideravo in quel
momento era udire la sua voce.
La sentii, ma solo registrata. «Salve, questa è l'abitazione di Tom Riley»,
disse. «Io e mio fratello George siamo via con mia madre per la nostra annuale crociera, quest'anno a Nassau. Che ci dici, mamma?»
«Che sono una Bahama Mama!» esclamò allegramente una voce rotta
dal fumo di sigarette.
«Proprio così», riprese Tom. «Saremo di ritorno l'otto febbraio. Fino ad
allora potete lasciare un messaggio... quando, George?»
«Al zegnale acuzzico!» gridò una voce maschile.
«Bravo!» concordò Tom. «Al zegnale acuzzico. Oppure potete chiamare
il mio ufficio.» Diede il numero, quindi tutti e tre insieme intonarono:
«BON VOYAGE!»
Riagganciai senza fiatare. Non mi era sembrato il messaggio d'addio di
un uomo che contempla il suicidio. D'altra parte in quel momento era in
compagnia dei suoi più intimi e cari (quelli che, più tardi, avrebbero probabilmente detto: sembrava sereno), e...
«Chi ha detto che dev'essere un suicidio?» domandai alla stanza vuota...
e subito mi guardai intorno con ansia per assicurarmi che fosse veramente
vuota. «Chi dice che non potrebbe essere un incidente? O persino un omicidio? Posto che non sia già successo.»
Ma se fosse stato già un fatto compiuto, qualcuno mi avrebbe telefonato.
Forse Bozie, ma con tutta probabilità Pam. Inoltre...
«È un suicidio.» Questa volta non era più una domanda. «È un suicidio e
non è ancora avvenuto. Quello era un avvertimento.»
Mi alzai e usai la gruccia per andare in camera da letto. Da qualche tempo la usavo più raramente, ma quella sera non volevo separarmene.
La mia fedele compagna era seduta contro i guanciali sul lato del letto
che sarebbe appartenuto a una donna reale, se ancora ne avessi avuta una.
Mi sedetti anch'io, la presi e guardai in quei suoi occhioni blu, così colmi
di sorpresa da cartone animato: Uuuh, cattivo! La mia Reba, che somigliava a Lucy di Lucy ed io.
«È stato come quando Scrooge riceve la visita del fantasma del Natale
che sarà», le dissi. «'Queste sono cose che possono avvenire.'»
Reba non espresse commenti su questa ipotesi.
«Ma io cosa faccio? Non è stato come per i quadri. Questa è una cosa
completamente diversa!»
Ma non era così e lo sapevo. Era sempre lo stesso cervello umano a dare
origine ai quadri e alle visioni e qualcosa nel mio cervello era cambiato. Io
pensavo che il mutamento fosse la conseguenza della giusta combinazione
di danni subiti. Oppure di quella sbagliata. Contraccolpo. Area di Broca. E
Duma Key. Duma stava... cosa?
«Amplificando il fenomeno», dissi a Reba. «Non è così?»
Lei zitta.
«C'è qualcosa qui che sta avendo effetto su di me. È possibile che mi
abbia addirittura convocato?»
A quel pensiero mi venne la pelle d'oca. Sotto di me le onde sollevarono
e fecero ricadere le conchiglie in un crepitio frusciante. Era fin troppo facile immaginare teschi al posto di conchiglie, teschi a migliaia, tutti a digrignare contemporaneamente i denti al sopraggiungere di ogni onda.
Jack non aveva forse detto che in quella giungla c'era un'altra casa che
stava andando a pezzi? Mi pareva di sì. Quando avevo cercato di avventurarmi in quella direzione con Ilse, la strada si era velocemente guastata.
Altrettanto aveva fatto lo stomaco di mia figlia. Il mio aveva retto, ma il
tanfo di quella flora invasiva era quasi insopportabile e il prurito nel mio
braccio mancante lo era ancor di più. Quando gli avevo parlato della nostra
esplorazione abortita, Wireman si era allarmato. Duma Key Road non è
adatta a uno nelle tue condizioni, aveva detto. Ma quali erano, di preciso,
le mie condizioni?
Reba continuava a non esprimere un'opinione.
«Io non voglio che questo succeda», mormorai.
Reba si limitò a fissarmi. Ero un uomo cattivo, questa era la sua opinione.
«Non mi servi a niente», protestai e la gettai sul letto. Cadde a faccia in
giù sul guanciale con il sedere all'insù e le gambe rosa di cotone spalancate, una bella immagine da troietta. Uuuh, cattivo, come no.
Lasciai ricadere la testa, guardai la moquette tra le mie ginocchia e mi
massaggiai la base del collo. In quel punto i muscoli erano tesi e annodati.
Sembravano di ferro. Da qualche tempo non avevo più i miei brutti mal di
testa, ma se quei muscoli non si fossero sciolti alla svelta, quella sera me
ne aspettava uno da spaccare i sassi. Avevo bisogno di mangiare qualcosa,
sarebbe stato già un inizio. Qualcosa di consolatorio. Una di quelle cene
già pronte, zeppe di calorie, ecco una buona prospettiva, una di quelle che
tagli via la busta, schiaffi nel forno carne e sugo congelati, li fai andare per
sette minuti nel microonde e poi ti ci avventi come un lupo famelico.
Invece restai dov'ero, seduto a meditare. Avevo molte domande, a molte
delle quali non ero presumibilmente in grado di dare una risposta. Lo riconoscevo e lo accettavo. Avevo imparato ad accettare molte cose dal giorno
in cui mi ero trovato a tu per tu con la gru. Ma ritenni di dover tentare di
trovare almeno una risposta prima di andare a mangiare, nonostante i morsi della fame. Il telefono che c'era sul comodino apparteneva alla casa. Era
di quelli simpaticamente all'antica, il modello Princess con il combinatore
a disco. Era posato su una guida formata soprattutto da Pagine Gialle. Aprii la striminzita sezione dei numeri locali, pensando che non avrei trovato quello di Elizabeth Eastlake, invece c'era. Lo composi. Suonò due volte,
poi mi rispose Wireman.
«Pronto, residenza Eastlake.»
In quella voce perfettamente modulata non rilevai la minima traccia
dell'uomo che aveva riso tanto da fracassare la sedia che occupava e tutt'a
un tratto mi parve di aver preso l'iniziativa più sballata della terra, ma non
vidi alternative.
«Wireman? Sono Edgar Freemantle. Ho bisogno d'aiuto.»
6
La signora della casa
1
Il pomeriggio del giorno dopo ero di nuovo seduto al tavolino in fondo
alla passerella del Palacio de Asesinos. L'ombrellone a strisce, anche se
strappato, rendeva ancora il suo servizio. Dall'oceano arrivava un venticello abbastanza fresco da consigliare una felpa. Mentre parlavo, guardavo
piccole cicatrici di luce danzare sulla superficie dell'acqua. E se parlai: per
quasi un'ora, rinfrescandomi con sorsi di tè verde da un bicchiere che Wireman rabboccava in continuazione. Quand'ebbi finito per un po' ci fu solo
il sospiro lieve delle onde che si scioglievano risalendo la spiaggia.
La sera prima qualcosa doveva aver spaventato Wireman abbastanza da
spingerlo a offrirsi di venire immediatamente da me con il golf-cart del Palacio. Si sarebbe mantenuto in contatto con la Eastlake con una ricetrasmittente. Gli avevo risposto che poteva aspettare. Era importante, ma non urgente. Non nel senso di un nove uno uno. Ed era vero. Se Tom aveva intenzione di togliersi la vita mentre era in crociera, c'era poco che potessi
fare per prevenirlo. Ma pensavo che avrebbe rimandato a quando non fosse
stato più in compagnia di madre e fratello.
Non avevo intenzione di confessare a Wireman la mia furtiva caccia nella borsetta di mia figlia; quello era un fatto per il quale avevo finito per
provare qualcosa di molto vicino alla vergogna. Ma una volta cominciato,
partendo da LINK-BELT, non potei fermarmi. Gli raccontai quasi tutto,
finendo con Tom Riley in cima alle scale che portavano alla Little Pink,
pallido, morto e privo di un occhio. Credo che se ebbi la forza di andare
fino in fondo fu anche in parte perché sapevo che Wireman non avrebbe
potuto farmi rinchiudere nell'ospedale psichiatrico più vicino, non ne aveva l'autorità legale. Aveva anche il suo peso il fatto che, per quanto mi sentissi attratto dai suoi modi cortesi e dalla sua cinica giovialità, era comunque uno sconosciuto. Talvolta, anzi direi spesso, raccontare storie imbarazzanti, quando non decisamente folli, è più facile se l'orecchio a cui le
affidi appartiene a qualcuno che non conosci. Ma più di tutto mi stavo solamente sfogando: la sensazione era quella di spremere il veleno dal morso
di un serpente.
Wireman si versò dell'altro tè con una mano che tremava leggermente.
Trovai il particolare interessante e inquietante. Poi guardò l'orologio, che
portava alla maniera degli infermieri, con il quadrante all'interno del polso.
«Tra mezz'ora devo tornare in casa a controllarla», disse. «Sono sicuro che
stia bene, ma...»
«E se così non fosse?» chiesi. «Se fosse caduta o avesse avuto qualche
incidente?»
Si tolse di tasca un walkie-talkie. Era sottile come un cellulare. «Mi assicuro che lei abbia sempre il suo a portata di mano. La casa è anche disseminata di pulsanti antipanico, ma...» Si batté il pollice sul petto. «Il vero
sistema di allarme sono io, capito? L'unico di cui mi fidi.»
Allungò lo sguardo verso l'acqua e sospirò.
«È malata di Alzheimer. Non è ancora troppo grave, ma il dottor Hadlock dice che, ora che il processo è entrato in moto, peggiorerà in fretta.
Di qui a un anno...» Si alzò nelle spalle, quasi con stizza, poi si rasserenò.
«Prendiamo il tè tutti i giorni alle quattro. Tè e Oprah. Perché non vieni a
conoscere la signora della casa? Ci metto anche una fetta di torta al lime.»
«Va bene», accettai. «Ci sto. Tu credi che sia stata lei a lasciare sulla
mia segreteria telefonica quel messaggio su Duma Key? Quello che diceva
che questo non è un posto fortunato per le figlie?»
«Certamente. Anche se, se ti aspetti una spiegazione, se anche ti aspetti
solo che se lo ricordi, ti auguro buona fortuna. Ma forse io posso darti
qualche delucidazione. Ieri ho menzionato le sue sorelle, senza però entrare nel dettaglio. Ebbene, Elizabeth era la più piccola di sei. La primogenita
era nata nel millenovecentootto o giù di lì. Elizabeth è entrata in scena nel
millenovecentoventitré. La madre morì due mesi dopo averla data alla luce. Un'infezione. Ma magari è stato un trombo, chi può saperlo dopo tutto
questo tempo? È successo qui, a Duma Key.»
«Suo padre non si è più risposato?» Ancora non ricordavo il suo nome.
Mi soccorse Wireman. «John? No.»
«Non mi dirai che ha cresciuto sei figlie quaggiù. Ha un sapore troppo
gotico.»
«Ci ha provato, con l'aiuto di una tata. Ma la figlia più grande scappò
con un ragazzo. La signorina Eastlake fu vittima di un incidente in cui per
poco non perse la vita. E le gemelle...» Scosse la testa. «Avevano due anni
più di Elizabeth. Scomparvero nel millenovecentoventisette. La tesi è che
abbiano voluto fare il bagno, siano state trascinate sott'acqua da una corrente e siano annegate là fuori, nel caldo largo.»
Contemplammo l'acqua per un po', quelle pigre onde ingannevoli che si
disfacevano docilmente sulla spiaggia, e i secondi trascorsero nel silenzio.
Poi gli domandai se tutto questo glielo avesse raccontato Elizabeth.
«Una parte. Non tutto. E fa confusione con quel che ricorda. Ho trovato
un accenno di un incidente che dovrebbe essere quello giusto in un sito
web dedicato alla storia del Golfo. Ho intrattenuto una breve corrispondenza via e-mail con un bibliotecario di Tampa.» Wireman alzò le mani e
digitò su una tastiera immaginaria. «Tessie e Laura Eastlake. Il bibliotecario mi mandò una copia del quotidiano di Tampa del diciannove aprile millenovecentoventi sette. Il titolo in prima pagina era crudo e agghiacciante.
Una parola: 'Scomparse'.»
«Gesù», mormorai.
«Avevano sei anni. Elizabeth ne aveva quattro, abbastanza grande da
capire che cosa fosse accaduto. Forse abbastanza grande da leggere un titolo di giornale semplice come 'Scomparse'. Le gemelle morte e Adriana, la
più grande, scappata ad Atlanta con uno dei suoi manager... si capisce perché per qualche tempo John ne aveva avuto abbastanza di questo posto. Si
trasferì a Miami anche lui con le tre figlie rimaste. Molti anni dopo tornò
qui per morirvi, assistito dalla signorina Eastlake.» Si strinse nelle spalle.
«Più o meno come io mi prendo cura di lei. Dunque... vedi perché una
vecchia signora con Alzheimer conclamato può ritenere che Duma sia un
brutto posto per delle figlie?»
«Direi di sì, ma come accade che una vecchia signora con Alzheimer
conclamato trovi il numero di telefono del suo nuovo inquilino?»
Wireman mi spedì un'occhiata di traverso. «Inquilino nuovo, numero
vecchio, in questa villa tutti i telefoni hanno la funzione di chiamata diretta.» Indicò la casa con il pollice. «Altre domande?»
Io lo guardavo a bocca aperta. «Ha il mio numero nelle chiamate dirette?»
«Non prendertela con me, io arrivo buon ultimo. Secondo me possono
essere stati quelli dell'agenzia immobiliare che tratta i suoi affari qui a inserire nei telefoni i numeri rapidi delle abitazioni che cede in locazione. O
forse è stato il suo amministratore. Viene giù da St. Petersburg ogni sei
settimane ad assicurarsi che lei non sia morta e che io non stia rubando
l'argenteria. La prossima volta glielo chiedo.»
«Dunque può chiamare qualunque casa sul lato nord della key schiacciando solo un bottone.»
«Be'... sì. Del resto sono tutte case che appartengono a lei.» Mi batté le
dita sulla mano. «Ma sai una cosa, muchacho? Ho il presentimento che
questa sera il tuo bottone avrà un piccolo esaurimento nervoso.»
«No», ribattei senza pensarci. «Non farlo.»
«Ah», fece Wireman, proprio come se avesse capito. E chissà, forse era
così. «Questo comunque spiega la tua misteriosa chiamata, anche se mi
permetto di aggiungere che qui a Duma Key le spiegazioni hanno la tendenza a svaporare. Come dimostra la tua storia.»
«Come sarebbe? Hai avuto delle... esperienze?»
Mi guardò dritto negli occhi con un'espressione imperscrutabile sul faccione abbronzato. Un colpo di vento di fine gennaio ci soffiò sabbia sulle
caviglie. Sollevò anche i suoi capelli, esponendo ancora una volta la cicatrice a forma di moneta sopra la tempia destra. Mi domandai se qualcuno
lo avesse colpito con un collo di bottiglia, magari in una rissa da bar, e
cercai di immaginare qualcuno che potesse perdere le staffe con quell'uomo. Non era facile.
«Sì, ho avuto... esperienze», rispose e flette due dita per mano a indicare
le virgolette di apertura e chiusura. «È quello che trasforma un bambino
in... un adulto. È anche quello che mette a disposizione ai professori d'inglese qualcosa da rimestare nel pentolone delle lezioni del primo anno di...
letteratura.» Ogni volta con il segno delle virgolette.
Bene, non aveva voglia di parlarne, almeno non in quel momento. Così
gli chiesi quanto della mia storia riteneva credibile.
Alzò gli occhi al cielo e si appoggiò allo schienale. «Non sfidare la mia
pazienza, vato. Potrai non aver visto giusto qua e là, ma matto non sei. Io
ho una signora quassù... la più dolce signora di questo mondo, e io l'adoro,
ma certe volte crede che io sia suo padre e che siamo a Miami nel millenovecentotrentaquattro. Certe volte ficca una delle sue figurine di porcellana
in una scatola di metallo per biscotti e la getta nella vasca delle carpe dietro il campo da tennis. Devo andare a recuperarle mentre dorme, se no le
viene un attacco isterico. Non so perché. Credo che a partire da quest'estate
dovrà portare il pannolone tutto il tempo.»
«Il punto?»
«Il punto è che so cos'è un loco, conosco Duma e sto imparando a conoscere te. Sono pronto a dichiarare di credere che tu abbia avuto una visione
del tuo amico morto.»
«Sul serio?»
«Sul serio. Verdad. La domanda è che cosa vuoi farci, posto che tu non
abbia una gran voglia di vederlo finire sotto terra per... posso essere volgare? Per aver imburrato quello che una volta era il tuo panino.»
«Questo no. Ho avuto, sì, un momentaneo... non saprei come descriverlo...»
«È stato un momentaneo desiderio di tagliargli via l'uccello e carbonizzargli gli occhi con un forchettone arroventato? È stato quel tipo di desiderio momentaneo, muchacho?» Alzò il pollice e distese l'indice puntandomi
addosso una pistola. «Io ero sposato a una messicana e conosco la gelosia.
È normale. Come una reazione riflessa.»
«Ma tua moglie ha mai...» Mi fermai, nuovamente cosciente d'aver conosciuto quell'uomo solo il giorno prima. Era facile dimenticarlo. Wireman era uno che ti prendeva.
«No, amigo, non che io sappia. Quello che ha fatto lei è stato morirmi.»
Il suo volto rimase perfettamente inespressivo. «Non andiamoci, okay?»
«Okay.»
«Quello che bisogna ricordare della gelosia è che viene e va. Come gli
acquazzoni pomeridiani di quaggiù nella brutta stagione. Ti è passata, dici.
Così dovrebbe essere, perché tu non sei più il suo campesino. Quello che
conta è invece come vuoi regolarti con quest'altra faccenda. Come intendi
evitare che quest'uomo si ammazzi. Perché sai che cosa succederà quando
la crociera della bella famigliola felice sarà finita, no?»
Per un momento non dissi niente. Stavo traducendo quel suo ultimo
scampolo di spagnolo, o almeno ci provavo. Non sei più il suo zappatore,
non era così? Perché in quel caso mi sembrava abbastanza azzeccato.
«Muchacho? La tua prossima mossa?»
«Non so», risposi. «Ha un indirizzo di posta elettronica, ma che cosa gli
scrivo? 'Caro Tom, ho la brutta impressione che tu stia meditando di ucciderti, vorresti rispondermi al più presto?' Ma scommetto che in vacanza
non controlla la posta. Ha due ex mogli e paga ancora gli alimenti a una
delle due, ma non è in stretti rapporti con loro. C'è stato un figlio, ma è
morto da piccolo... spina bifida, credo... e... cosa? Cosa?»
Wireman non mi guardava più e se ne stava affondato nella sua sedia a
contemplare l'acqua dove anche per i pellicani era l'ora della merenda. Mi
stava manifestando disgusto con il linguaggio del corpo.
Tornò a voltarsi dalla mia parte. «Piantala di girarci attorno. Sai benissimo chi lo conosce. O credi di saperlo.»
«Pam? Alludi a Pam?»
Si limitò a fissarmi.
«Hai intenzione di parlare, Wireman, o startene seduto lì muto come un
pesce?»
«Devo andare a controllare la mia signora. Ormai sarà sveglia e vorrà il
suo tè delle quattro.»
«Pam mi prenderebbe per pazzo! Anzi, continuerebbe a pensare che sia
pazzo!»
«Convincila.» Poi addolcì un po' il tono. «Senti, Edgar, se gli è stata vicino come pensi tu, non può non aver visto i sintomi. E tu l'unica cosa che
puoi fare è provare. Entiendes?»
«Non capisco che cosa vuol dire.»
«Vuol dire che devi chiamare tua moglie.»
«È la mia ex.»
«No no. Finché non è la tua mente a cambiare modo di vederla, il divorzio è solo una finzione legale. È per questo che ti sta tanto a cuore quello
che pensa del tuo stato di salute mentale. Ma se ti sta a cuore anche questo
individuo, tu la chiami e le dici che hai ragione di pensare che abbia intenzione di farla finita.»
Si issò in piedi e mi porse la mano. «Basta conciliabolo. Vieni a conoscere il boss. Non te ne pentirai. Avercene di boss come lei.»
Accettai la mano che mi offriva e mi lasciai tirare fuori dalla sedia da
spiaggia che aveva rimpiazzato quella rotta. Aveva una presa forte. Questo
è un altro particolare di Jerome Wireman che non scorderò mai; quell'uomo aveva una presa forte. La passerella che saliva al cancello permetteva il
passaggio di una sola persona per volta, così lo seguii zoppicando di buona
lena. Quando giunsi al cancello - che era una versione più piccola di quello
che si trovava sull'altro lato del muro di cinta e sembrava spagnolo quanto
l'estemporaneo patois di Wireman - si girò verso di me con un mezzo sorriso.
«Il martedì e il giovedì viene Josie a pulire e volentieri pensa lei a tendere l'orecchio alla signorina durante il suo sonnellino pomeridiano. Questo
significa che, se vuoi che dia un'occhiata ai tuoi lavori, potrei fare un salto
da te domani verso le due.»
«Come facevi a sapere che volevo mostrarteli? Ancora non avevo trovato il coraggio di chiedertelo.»
Alzò le spalle. «È chiaro che vuoi che qualcuno li veda prima di mostrarli a quello della galleria. Qualcun altro oltre tua figlia e quello che ti fa
le commissioni.»
«L'appuntamento è per venerdì. Ho la tremarella.»
Wireman agitò la mano nell'aria e sorrise. «Non temere», disse. Fece una
pausa. «Se secondo me fai solo croste, te lo dico.»
«Così mi sta bene.»
Lui annuì. «Patti chiari amicizia lunga.» Poi aprì il cancello e mi introdusse nel cortile della Heron's Roost, nota anche come Palacio de Asesinos.
2
Avevo già visto la corte il giorno in cui avevo sfruttato l'ingresso principale per girare la macchina, ma quella volta era stata solo poco più di
un'occhiata. Ero concentrato soprattutto sul compito di riportare a Big Pink
me stesso e la mia povera figlia con la faccia grigia e madida di sudore.
Avevo notato il campo da tennis e le piastrelle azzurre, ma avevo mancato
del tutto la vasca dei pesci. Il campo era spazzato e pronto per l'azione, blu
anch'esso, ma di due toni più scuro delle piastrelle che rivestivano il cortile. Un solo colpo di manovella cromata avrebbe teso la rete. Un treppiede
di metallo reggeva una cesta piena di palline e mi fece pensare brevemente
al disegno che Ilse aveva portato con sé a Providence: La fine della partita.
«Uno di questi giorni, muchacho», disse Wireman indicando il campo da
tennis mentre ci passavamo accanto. Aveva rallentato il passo perché potessi raggiungerlo. «Tu e io. Non te la farò difficile, solo volée e servizi.
Ma muoio dalla voglia di giocare un po'.»
«Volée e servizi sono il tuo prezzo per darmi un giudizio sui miei quadri?»
Sorrise. «Un prezzo ce l'ho, ma non è quello. Te lo dirò a suo tempo.
Vieni, entriamo.»
3
Wireman mi fece passare dalla porta di servizio. Attraversammo una cucina in penombra con ampi, bianchi piani di lavoro e un enorme Westinghouse e proseguimmo nell'atmosfera sommessa della casa, che luccicava
di legni scuri: quercia, noce, teak, sequoia, cipresso. Era proprio un palacio, in stile Florida antico. Superammo un locale pieno di libri dove c'era
un'autentica armatura in un angolo. Comunicava con uno studio dove c'e-
rano dipinti appesi alle pareti, non ponderosi ritratti a olio bensì vivaci
composizioni astratte, persino un paio di op-art da far andare insieme i
sentimenti al solo guardarli.
Attraversammo l'atrio principale in una luce che ci cascava addosso come pioggia bianca e, mentre mi adoperavo per star dietro a Wireman (lui
camminava; io zoppicavo), mi resi conto che, a dispetto di tutta la grandeur della villa, quella parte era soltanto un vestibolo nobilitato, una di
quelle aggiunte che mettono in comunicazione dimore più antiche e più
umili. Lo stile di queste costruzioni, quasi sempre in legno (anche di scarto) invece che in pietra, aveva persino un nome: Florida Cracker.
Il passaggio, illuminato a giorno dal lungo soffitto di vetro, era ornato da
file di piante. Arrivato in fondo, Wireman girò a destra. Lo seguii in un
enorme e fresco salotto. Una fila di finestre si affacciava su un giardino laterale pieno di fiori. Le mie figlie avrebbero saputo dirmi i nomi di almeno
una metà, Pam li conosceva tutti, ma io potei riconoscere solo aster, erba
miseria, sambuco e digitale. Oh, e anche i rododendri. Di quelli, ce n'erano
in quantità. Dietro a quella vegetazione, su un vialetto di piastrelle blu che
presumibilmente arrivava al cortile principale, si aggirava un airone dallo
sguardo attento e severo. Aveva un'aria pensierosa e corrucciata, ma ammetto di non averne mai visto uno a terra che non mi facesse pensare a un
vecchio Puritano assorto nella decisione su quale nuova strega bruciare.
Al centro del salone c'era la donna che io e Ilse avevamo visto il giorno
in cui avevamo tentato di esplorare Duma Key Road. Allora era su una sedia a rotelle, con i piedi in due grosse scarpe blu. Questa volta era in piedi,
con le mani saldamente chiuse sui manici di un deambulatore e i piedi su
cui si reggeva, grandi e molto pallidi, erano nudi. Indossava un paio di
comodi calzoni beige a vita alta e una camicetta di seta marrone con buffe
spalle rinforzate e ampie maniche. Vestita così mi faceva pensare a Katharine Hepburn in uno di quei vecchi film che passavano talvolta sul canale
dei classici: La costola di Adamo o La donna del giorno. Solo che non ricordavo d'aver mai visto Katharine Hepburn così anziana, nemmeno quando era anziana.
La sala era dominata da un tavolo basso e lungo, tipo quello che teneva
in cantina mio padre per i suoi trenini elettrici, solo che questo, invece che
trasparente, era di un legno chiaro, che somigliava al bambù. Era affollato
di edifici in miniatura e figurine di porcellana: uomini, donne, bambini, animali da cortile, animali da zoo, creature di mitica celebrità. A proposito
di creature mitiche, c'erano tra le altre un paio di facce nere che non avreb-
bero superato un esame dell'NAACP per i diritti civili degli afroamericani.
Elizabeth Eastlake guardò Wireman con un'espressione di delizia che mi
sarebbe piaciuto ritrarre... ma non sono sicuro che qualcuno l'avrebbe presa seriamente. Non sono sicuro che nelle nostre opere artistiche sappiamo
prendere per buona la più semplice delle emozioni, sebbene la vediamo
ogni giorno intorno a noi.
«Wireman!» disse. «Mi sono svegliata presto e non sai quanto mi sono
divertita con le mie statuine!» Aveva un forte accento del Sud. «Guarda, la
famiglia è a casa!»
A un'estremità del tavolo c'era il modellino di una villa, di quelle con il
colonnato. Pensate a Tara in Via col vento e vi farete l'idea giusta. Intorno
erano disposte in cerchio una decina di statuine. La composizione aveva
qualcosa di cerimoniale.
«Vedo», disse Wireman.
«E la scuola! Guarda come ho messo i bambini davanti alla scuola! Vieni a vedere!»
«Vengo, ma sa che non mi piace che si alzi senza di me.»
«Non avevo voglia di usare quel vecchio talkie-walkie. Mi sento bene,
più che bene. Vieni a vedere. E anche il tuo nuovo amico. Oh, so chi sei.»
Sorrise e fletté il dito per chiamarmi vicino a sé. «Wireman mi racconta
tutto di te. Sei il nuovo inquilino di Salmon Point.»
«Lui la chiama Big Pink», la informò Wireman.
La signorina Eastlake rise. La sua era quel genere di risata sigarettosa
che si esaurisce in tosse. Wireman dovette accorrere a sostenerla. Lei non
si scompose, né per la tosse né per essersi dovuta fare aiutare. «Bella questa!» esclamò quando poté parlare di nuovo. «Oh, Gesù, se mi piace! Vieni
a vedere come ho sistemato i bambini a scuola, vieni signor?... Sono sicura
che mi hanno detto come ti chiami ma ora non mi viene in mente, mi succede spesso ormai, tu saresti?...»
«Freemantle», risposi. «Edgar Freemantle.»
Mi avvicinai al suo tavolo e lei mi offrì la mano. Non era muscolosa,
ma, al pari dei piedi, era di dimensioni notevoli. Non aveva scordato l'arte
antica dello scambio di saluti e mise nella sua stretta tutta la forza che poteva. E lo fece guardandomi con allegro interesse. A me piacque la sua
franca ammissione di problemi di memoria. E, alla faccia dell'Alzheimer,
io balbettavo mentalmente e oralmente assai più di quanto avessi sentito
fare a lei fino a quel momento.
«Piacere di conoscerti, Edgar. Ti ho già visto, ma non rammento quan-
do. Mi tornerà. Big Pink! Forte!»
«La casa mi piace, signora.»
«Bene. Sono felice se è di tuo gradimento. È una casa di artisti, sai? Tu
sei un artista, Edgar?»
Mi fissava con un'espressione schietta negli occhi azzurri. «Sì», risposi.
Era la cosa più facile, la più veloce, e forse era la verità. «Credo di sì.»
«Ma certo che lo sei, caro, l'ho capito subito. Ho bisogno di uno dei tuoi
quadri. Wireman tratterà il prezzo con te. Oltre che essere un cuoco eccellente, è avvocato, te lo aveva detto?»
«Sì... no... cioè...» Ero smarrito. La sua conversazione aveva avviato
troppi argomenti e tutti in una volta. Wireman, quel cane, aveva la faccia
gonfia di uno che si sforza di non ridere. Cosa che naturalmente faceva venir voglia di ridere a me.
«Cerco di procurarmi quadri da tutti gli artisti che sono stati alla tua Big
Pink. Ho uno Haring che è stato dipinto lì. E anche un disegno di Dalí.»
Questo spazzò via l'impulso di ridere. «Davvero?»
«Sì! Fra poco te lo mostro e comunque non è che potremmo evitarlo, è
nella stanza della televisione e noi guardiamo sempre Oprah. Non è vero,
Wireman?»
«Sì», rispose lui e consultò il quadrante dell'orologio girando il polso.
«Ma non siamo costretti a guardarlo subito subito, perché abbiamo questo fantastico apparecchietto che si chiama...» Fece una pausa, aggrottò la
fronte e si portò un dito alla fossetta nel mento carnoso. «Vito? Si chiama
Vito, Wireman?»
Lui sorrise. «TiVo, signorina.»
Lei rise. «TiVo, che nome buffo! E non è buffo come siamo formali?
Lui per me è Wireman, io per lui sono la signorina Eastlake... eccetto
quando mi viene il nervoso, come mi capita quando mi scappano le cose di
mente. Siamo come personaggi a teatro! In una commedia di quelle allegre, dove uno sa che da un momento all'altro partirà l'orchestra e tutta la
compagnia si metterà a cantare!» Rise a dimostrazione di quanto simpatica
fosse la sua idea, ma c'era una vibrazione ansiosa nella sua risata. Per la
prima volta il suo accento mi fece pensare più a Tennessee Williams che a
Margaret Mitchell.
Dolcemente, con molta delicatezza, Wireman disse: «Forse ora dovremmo andare nell'altra stanza a guardare Oprah. Credo che farebbe bene
a sedersi. Può fumare una sigaretta mentre guarda la TV e sa che questo le
piace molto».
«Tra un minuto, Wireman. Tra un minuto. Abbiamo così raramente
compagnia qui da noi.» Si rivolse a me. «Che genere di artista sei, Edgar?
Sei uno di quelli che crede nell'arte per l'arte?»
«Assolutamente sì, signora.»
«Sono contenta. È il tipo di artista che piace di più a Salmon Point. Come la chiami?»
«La mia arte?»
«No, caro. Salmon Point.»
«Big Pink, signora.»
«E Big Pink sia. E per te io sarò Elizabeth.»
Sorrisi. Dovetti, perché la sua era una sincera offerta di amicizia, senza
civetteria. «Elizabeth sia.»
«Molto bene. Tra un momento andremo di là, ma prima...» Tornò a rivolgere la sua attenzione al plastico. «Allora, Wireman? Allora, Edgar?
Avete visto come ho messo i bambini?»
Ce n'erano una decina, tutti girati verso il lato sinistro della scuola. In fila per l'iscrizione.
«Che cosa vi dice?» chiese. «Wireman? Edward? L'uno o l'altro?»
C'era stata una piccola imprecisione, ma naturalmente io ci ero abituato.
E questa volta la buccia di banana era stata il mio nome.
«Intervallo?» azzardò Wireman con un'alzata di spalle.
«Certo che no», ribatté lei. «Se fosse l'intervallo, i bambini giocherebbero, non sarebbero tutti riuniti a guardare.»
«O c'è un incendio o c'è un'esercitazione», dissi io.
Lei si sporse dal suo deambulatore (Wireman, vigile, la prese per una
spalla per evitare che perdesse l'equilibrio) e mi schioccò un bacio sulla
guancia. Mi colse totalmente di sorpresa, ma non in una maniera spiacevole. «Ma bene, Edward!» proruppe. «E adesso, dimmi, quale dei due secondo te?»
Riflettei. Era facile se si prendeva la domanda sul serio. «Un'esercitazione.»
«Sì!» La gioia le illuminò gli occhi azzurri. «Spiega perché a Wiring.»
«Se ci fosse un vero incendio, sarebbero tutti sparpagliati. Invece sono...»
«In attesa di rientrare, già.» Ma quando si girò verso Wireman, vidi una
donna diversa, vidi una vecchia spaventata. «Ti ho chiamato di nuovo con
il nome sbagliato.»
«Niente di grave, signorina Eastlake», rispose lui e le baciò la piccola
conca della tempia con una tenerezza che me lo rese particolarmente simpatico.
Lei mi sorrise. Fu come vedere il sole che spunta da dietro una nuvola.
«Finché si rivolge a una persona dandole del lei, uno sa...» Ma a quel punto parve perdersi e il suo sorriso cominciò a vacillare. «Uno sa che...»
«Che è ora di guardare Oprah», finì per lei Wireman prendendole un
braccio. Ruotarono insieme il deambulatore, dopodiché lei partì a una velocità sorprendente verso una porta in fondo al salone. Lui le camminò accanto tenendola d'occhio.
La sua «sala della televisione» era dominata da un grande Samsung a
schermo piatto. Sull'altro lato c'erano i numerosi componenti di un costoso
impianto Hi-Fi. Ma io non badai né all'uno né agli altri. Ero fermo a guardare il disegno incorniciato appeso alla parete sopra i ripiani dei CD e per
qualche secondo dimenticai di respirare.
Era un disegno a matita, con l'aggiunta di due fili scarlatti, tracciati probabilmente da una semplice penna a sfera rossa, di quelle che usano gli insegnanti per dare i voti. Le due linee, tirate con professionale disinvoltura,
marcavano l'orizzonte del Golfo per rappresentare il tramonto. Erano giusto quel che ci voleva. Erano una manifestazione sotto traccia di genialità.
Quello era il mio orizzonte, quello che vedevo dalla Little Pink. Lo sapevo
esattamente come sapevo che l'artista aveva ascoltato il macinare delle
conchiglie sotto la casa mentre trasformava la carta bianca in ciò che il suo
occhio vedeva e la sua mente traduceva. All'orizzonte c'era una nave, probabilmente una petroliera. Sarebbe potuta essere la stessa che avevo disegnato io la mia prima sera al numero 13 di Duma Key Road. Lo stile era
tutt'altro paio di maniche, ma la scelta del soggetto era quasi identica.
In calce, vergato quasi distrattamente: Salv Dalí.
4
La signorina Eastlake - Elizabeth - fumò la sua sigaretta mentre Oprah
intervistava Kirstie Alley sul sempre affascinante argomento della perdita
di peso. Wireman servì sandwich con uova e maionese, che trovai squisiti.
Il mio sguardo continuava a tornare al disegno incorniciato di Dalí e io
continuavo a pensare, naturalmente: Hello, Dalí. Quando apparve il dottor
Phil e cominciò a strapazzare un paio di ciccione presenti nel pubblico che
evidentemente si erano offerte volontarie al suo strapazzamento, annunciai
a Wireman ed Elizabeth che per me era davvero venuta l'ora di tornare a
casa.
Elizabeth usò il telecomando per chiudere la bocca al dottor Phil, poi alzò il libro sul quale poco prima era appoggiato l'apparecchietto. La sua espressione era insieme umile e speranzosa. «Wireman mi dice che verrai
ogni tanto di pomeriggio a leggere per me, Edmund, è vero?»
Capita a tutti di essere costretti a prendere decisioni in una frazione di
secondo ed è quello che feci io in quel momento. Decisi di non guardare
Wireman, che sedeva alla sinistra di Elizabeth. La presenza di spirito che
l'anziana signora aveva esibito davanti al suo plastico si andava appannando, me ne rendevo conto persino io, ma pensavo che gliene fosse rimasta a
sufficienza. Un'occhiata in direzione di Wireman sarebbe bastata a informarla che la notizia mi giungeva del tutto nuova e si sarebbe imbarazzata.
Io non volevo che si imbarazzasse, in parte perché mi era simpatica e in
parte perché sospettavo che la vita avesse in serbo per lei un buon numero
di imbarazzi negli anni a venire. Presto non sarebbe più stato solo un problema di nomi dimenticati.
«Ne abbiamo discusso», risposi.
«Forse oggi ti va di leggermi una poesia», riprese lei. «A tua scelta. Mi
mancano tanto. Potrei fare a meno di Oprah, ma una vita senza libri è una
vita di sete e una vita senza poesia è...» Rise. Lo sconcerto che udii in
quella risata mi fece male al cuore. «È come una vita senza quadri, non
trovi? O no?»
Il silenzio era palpabile. Da qualche parte ticchettava un orologio, ma
non si sentiva altro. Pensai che Wireman avrebbe detto qualcosa, ma tacque; Elizabeth lo aveva momentaneamente ammutolito, niente colpi bassi
quando toccava a quel hijo de madre.
«Puoi scegliere tu», ripeté lei. «Ma se ti sei trattenuto già troppo, Edward...»
«No», risposi. «No, non c'è problema.»
Il libro si intitolava semplicemente: Poesie scelte. L'antologia era stata
curata da Garrison Keillor, un uomo che, nella parte di mondo da cui provenivo, avrebbe probabilmente potuto presentarsi candidato a governatore
ed essere eletto. Aprii a caso e trovai i versi di un certo Frank O'Hara. Erano brevi e questo faceva di loro un'ottima poesia secondo i miei canoni,
così mi lanciai.
Hai dimenticato com'eravamo allora
quando appartenevamo ancora all'eccellenza
e il giorno giungeva grasso con una mela in bocca
non serve preoccuparsi del Tempo
ma noi avevamo qualche asso nella manica
e prendemmo qualche scorciatoia
l'intero pascolo sembrava il nostro pasto
non avevamo bisogno di tachimetri
facevamo cocktail da ghiaccio e acqua...
A quel punto mi successe qualcosa. Mi tremò la voce e le parole si
sdoppiarono, come se la parola acqua nella mia bocca ne avesse richiamata
altra negli occhi. Alzai lo sguardo e dissi: «Chiedo scusa». Avevo la voce
roca. Wireman sembrava in apprensione, ma Elizabeth Eastlake mi sorrideva con l'espressione di chi ha capito perfettamente.
«È normale, Edgar», disse. «È un effetto che la poesia fa talvolta anche
su di me. Un sentimento onesto non è niente di cui vergognarsi. Gli uomini
non fingono una convulsione.»
«Né simulano uno spasimo», aggiunsi. La mia voce sembrò giungere
dalla bocca di qualcun altro.
Il sorriso di lei si fece brillante. «Quest'uomo conosce la sua Dickinson,
Wireman!»
«Così pare», convenne Wireman. Mi fissava con attenzione.
«Vuoi finire, Edward?»
«Sì, signora.»
Non vorrei essere più veloce
o più verde di come sono ora se tu fossi con me
O tu fosti il meglio di tutti i miei giorni.
Chiusi il libro. «Finisce così.»
Lei annuì. «Quali sono stati i migliori di tutti i tuoi giorni, Edgar?»
«Forse questi», dissi. «Spero.»
Lei annuì di nuovo. «Allora lo spero anch'io. Uno ha sempre il diritto di
sperare. E... Edgar?»
«Sì, signora?»
«Dammi del tu. Non sopporto di essere una signora alla fine della mia
vita. Ci siamo capiti?»
Feci un cenno affermativo. «Credo di sì, Elizabeth.»
Allora sorrise e le lacrime che si annidavano anche nei suoi occhi scivolarono giù. Le guance su cui caddero erano vecchie e solcate di rughe, ma
gli occhi erano giovani. Giovani.
5
Dieci minuti più tardi ero di nuovo con Wireman fermo in fondo alla
passerella del Palacio. Avevamo lasciato la signora della casa con una fetta
di torta al lime, un bicchiere di tè e il telecomando. Io avevo con me un
sacchetto con due dei sandwich di Wireman all'uovo e maionese. Disse che
se non me li portavo a casa sarebbero ammuffiti e non dovette insistere
troppo. Gli scroccai anche un paio di aspirine.
«Senti», disse, «sono mortificato. Avevo intenzione di chiedertelo prima, credimi.»
«Rilassati, Wireman.»
Annuì ma non stava guardando me. Guardava il Golfo. «Voglio che tu
sappia che non le avevo promesso niente. Ma è... così infantile ora. Scambia quello che vuole con quello che è, come fanno i bambini.»
«E quello che vuole è che qualcuno legga per lei.»
«Sì.»
«Le poesie registrate su nastri o CD non vanno bene?»
«No. Dice che la differenza tra registrato e dal vivo è come la differenza
tra i funghi in scatola e quelli freschi.» Sorrise ma continuò a non guardarmi.
«Perché non lo fai tu, Wireman?»
Sempre con lo sguardo rivolto all'acqua, rispose: «Perché non lo posso
più fare».
«Non puoi... perché?»
Rifletté, poi scosse la testa. «Non oggi. Wireman è stanco, muchacho, e
lei questa notte si sveglierà. E sarà polemica, piena di malinconia e confusione, convinta probabilmente di essere a Londra o a St. Tropez. Ho visto i
sintomi.»
«Me lo dirai un'altra volta?»
«Sì.» Sospirò soffiando dal naso. «Se tu mi mostri il tuo, immagino che
io possa mostrarti il mio, anche se non ne vado pazzo. Sicuro di poter tornare a casa da solo?»
«Assolutamente», lo rassicurai, sebbene l'anca mi pulsasse come un mo-
tore di grossa cilindrata.
«Ti ci porterei io con il golf-cart, sul serio, ma quando è in questo stato,
quello per cui il dottor Wireman ha coniato il termine clinico di 'vis-pazza',
potrebbe saltarle il ghiribizzo di mettersi a lavare le finestre... o spolverare
degli scaffali... o andarsene a fare una deambulazione senza deambulatore.» A quella prospettiva lo vidi rabbrividire. Una di quelle cose dette per
ridere che poi però si avverano.
«Cercano tutti di mettermi su un golf-cart», commentai.
«Chiamerai tua moglie?»
«Non mi pare di avere alternative.»
Annuì. «Bravo ragazzo. Potrai raccontarmi tutto quando verrò a vedere i
tuoi quadri. Mi va bene qualsiasi ora. C'è un'infermiera a cui posso telefonare, Annmarie Whistler, se per te è meglio la mattina.»
«Va bene. Grazie. E grazie di avermi ascoltato, Wireman.»
«Grazie a te di aver letto per il boss. Buena suerte, amigo.»
Io mi incamminai in spiaggia e avevo percorso una cinquantina di metri
quando mi sovvenne una cosa. Mi girai pensando che Wireman se ne fosse
andato, invece era ancora lì con le mani in tasca e il vento che arrivava dal
Golfo, sempre più freddo, che gli spingeva all'indietro i lunghi capelli
brizzolati. «Wireman!»
«Cosa?»
«Non è che Elizabeth sia stata artista anche lei?»
Lui non parlò per un lungo momento. C'era solo il suono delle onde, più
forte quella sera perché le spingeva il vento. Finalmente disse: «È una domanda interessante, Edgar. Se tu lo chiedessi a lei, e io te lo sconsiglio, ti
risponderebbe di no. Ma io non credo che sia la verità».
«Cioè?»
«Meglio che ti metti in cammino, muchacho», fu la sua sola riposta.
«Prima che ti si ingrippi quell'anca.» Mi spedì un breve gesto di saluto, si
voltò e risalì la passerella, inseguendo la sua ombra allungata, senza darmi
neanche il tempo di ricambiare.
Io rimasi dov'ero ancora un istante o due, poi mi girai verso nord, puntai
gli occhi su Big Pink e partii per il mio viaggio di ritorno. Fu una camminata lunga e prima che ci arrivassi la mia personale ombra, allungatasi
all'inverosimile, si smarrì nell'uniola, ma alla fine ci arrivai. Le onde stavano ancora crescendo e sotto la casa il mormorio delle conchiglie era diventato di nuovo un battibecco.
Come fare un disegno (IV)
Cominci con quello che sai, poi lo reinventi. L'arte è magia, non si discute, ma tutte le forme artistiche, per quanto strane, cominciano dall'umile quotidiano. Solo non sorprenderti quando dal suolo comune spuntano
fiori bizzarri. Elizabeth lo sapeva. Nessuno glielo ha insegnato, lo ha imparato da sé.
Più disegnava, più vedeva. Più vedeva, più voleva disegnare. È così che
funziona. E più vedeva, più le tornava l'uso delle parole: prima le quattro
o cinquecento che conosceva il giorno in cui era caduta battendo la testa,
poi molte, molte di più.
Papà osservava con meraviglia la velocità con cui si arricchivano di
particolari le sue composizioni. Erano sorprese anche le sorelle, le Grandi
Cattive e le gemelle (Adie no; Adie era in Europa con tre amiche e due fidati chaperon; Emery Paulson, il giovane che avrebbe sposato, non era
ancora entrato in scena). La tata/governante provava soggezione nei suoi
confronti, la chiamava la petite obéah fille. La piccola strega.
Il dottore che si occupava del suo caso si raccomandò che la bambina
non fosse esposta a eccessivi sforzi fisici ed emotivi, a rischio di ammalarsi, ma nel gennaio del 1926 Elizabeth correva in ogni angolo dell'estremità sud della key con il suo album da disegno e ben protetta dalla sua
«giacchetta impunita e scarponcini» a disegnare di tutto.
Quello fu l'inverno in cui vide la sua famiglia perdere interesse nel suo
talento, prima le Grandi Cattive Maria e Hannah, poi Tessie e Lo-Lo,
quindi papà e infine persino Tata Melda. Capì che anche il genio viene a
noia se preso in dosi massicce? Forse sì, in un modo istintivo da bambino.
Ciò che seguì, la conseguenza della loro noia, fu una determinatezza a
mostrare loro la meraviglia di quello che lei vedeva reinventandolo.
Ebbe inizio la sua fase surrealista; prima gli uccelli che volavano rovesciati, poi gli animali che camminavano sull'acqua, poi i Cavalli Ridenti
che le fruttarono una certa notorietà. E fu allora che qualcosa cambiò. Fu
allora che s'insinuò qualcosa di oscuro usando la piccola Libbit come
tramite.
Cominciò a disegnare la sua bambola e, quando lo fece, la sua bambola
cominciò a parlare.
Noveen.
Adriana era rientrata dall'Allegra Parì e, per cominciare, Noveen parlava soprattutto con la voce garrula di Adie, acuta e gioiosa, chiedendo a
Elizabeth se poteva hinky-dinky-parlevù e dicendole di fermé la sua busc.
Alle volte Noveen le cantava una ninna nanna ed Elizabeth si addormentava con i ritratti della sua bambola - una faccia larga e rotonda e tutta
marrone eccetto che. per le labbra rosse - sparsi sul copriletto.
Noveen canta Frère Jacques, frère Jacques, dormi tu? Dormi tu? Dormevù, dormevù?
Altre volte Noveen le raccontava delle storie, pasticciate ma bellissime,
in cui Cenerentola indossava le scarpette rosse di Oz e i Gemelli Bobbsey
si perdevano nella Foresta Magica e trovavano una casa di pandizucchero
con il tetto di caramelle alla menta.
Ma poi la voce di Noveen cambiò. Smise di essere la voce di Adie. Smise
di essere la voce di qualcuno che Elizabeth conosceva e continuò a parlare anche quando Elizabeth diceva a Noveen di fermé la busc. All'inizio
forse quella voce era piacevole. Forse era divertente. Strana, ma divertente.
Poi le cose cambiarono, non è vero? Perché l'arte è magia e non tutta la
magia è bianca.
Nemmeno per le bambine.
7
Arte per l'arte
1
Nell'armadietto dei liquori in soggiorno c'era una bottiglia di whisky.
Avevo voglia di berne un sorso e non lo feci. Volevo aspettare, mangiare
magari uno dei miei sandwich e meditare su che cosa le avrei detto e non
feci nemmeno quello. Alle volte l'unico modo di fare una cosa è farla. Portai il cordless nella Florida room. Faceva freddo anche con le porte a vetri
chiuse, ma in un certo senso era meglio così. Speravo che l'aria frizzante
mi desse un po' di tono. E forse la vista del sole che scendeva verso l'orizzonte e spennellava la sua luce dorata sull'acqua mi avrebbe calmato. Perché non ero calmo. Il cuore mi batteva troppo forte, mi scottavano le guance, l'anca mi faceva un male da cani e, all'improvviso e con autentico orrore, mi ero reso conto di essermi dimenticato come si chiamava mia moglie.
Tutte le volte che provavo a ritrovare il suo nome, mi veniva in mente solo
peligro, il vocabolo spagnolo che sta per pericolo.
Conclusi che prima di chiamare il Minnesota c'era almeno una cosa di
cui avevo bisogno.
Lasciai il telefono sul divano, andai zoppicando in camera (questa volta
con la stampella; io e la mia stampella saremmo stati inseparabili fino
all'ora di coricarmi) e presi Reba. Uno sguardo nei suoi occhi blu mi bastò
a far riaffiorare il nome di Pam e il cuore mi si calmò con la mia amata
compagna stretta tra moncherino e fianco a dondolare le molli gambotte
rosa, tornai nella Florida room e mi sedetti di nuovo. Reba mi cadde in
grembo e io la spostai con un colpo facendola girare verso il sole al tramonto.
«Guardalo troppo a lungo e resti cieca», dissi. «Ma naturalmente il divertimento è tutto qui. Bruce Springsteen, millenovecentosettantré o da
quelle parti, muchacha.»
Reba non rispose.
«Dovrei essere di sopra a dipingerlo», le dissi, «a fare arte per l'arte del
cazzo.»
Nessuna risposta. I grandi occhi di Reba dichiaravano al mondo intero
che era prigioniera dell'uomo più cattivo d'America.
Afferrai il cordless e glielo agitai davanti alla faccia. «Lo posso fare»,
dissi.
Niente da parte di Reba, ma mi parve dubbiosa. Sotto di noi le conchiglie continuavano nel loro litigio alimentato dal vento: L'hai fatto, non è
vero, oh sì che l'hai fatto.
Io avrei voluto continuare la mia discussione con la mia bambola anticollera. Digitai invece il numero di quello che una volta era il mio recapito
di casa. Nessun problema a rammentarlo. Speravo che mi rispondesse la
segreteria telefonica di Pam. Udii invece la voce della signora in persona.
«Ehi, Joanie, grazie a Dio mi hai richiamata. Sono in ritardo e speravo che
potessimo spostare il nostro appuntamento delle tre e un quarto...»
«Non sono Joanie», dissi. Presi Reba e me la ritrascinai in grembo senza
nemmeno accorgermene. «Sono Edgar. E ti conviene cancellare il tuo appuntamento delle tre e un quarto. Ho qualcosa di cui parlare con te ed è
importante.»
«Ti è successo qualcosa?»
«A me? Niente. Io sto bene.»
«Edgar, possiamo parlare in un altro momento? Devo andare dal parrucchiere e sono in ritardo. Sarò di ritorno per le sei.»
«Riguarda Tom Riley.»
Silenzio dalla parte di mondo in cui si trovava Pam. Durò forse dieci se-
condi. Durante quei dieci secondi la striscia dorata sull'acqua si oscurò
leggermente. Elizabeth Eastlake conosceva la sua Emily Dickinson; mi
domandai se conosceva anche il suo Vachel Lindsay.
«Cosa vuoi dirmi di Tom?» domandò finalmente. C'era cautela nella sua
voce, profonda cautela. Ero certo che avesse dimenticato del tutto il suo
appuntamento dal parrucchiere.
«Ho motivo di credere che abbia in mente di suicidarsi.» Incastrai il telefono tra spalla e guancia e cominciai ad accarezzare i capelli di Reba. «Tu
ne sai niente?»
«Cosa... perché...» Era sfiatata, come chi ha appena ricevuto un pugno
nello stomaco. «Perché in nome di Dio dovrei...» Cominciò a ritrovare un
po' di forza, annaspava alla ricerca di un tono adeguatamente indignato.
Sono situazioni in cui torna comodo, suppongo. «Mi sbuchi fuori di punto
in bianco e ti aspetti che io possa dirti in che condizioni di spirito è Tom
Riley? Credevo che stessi migliorando, ma mi sa che cercavo solo di illu...»
«Scopartelo dovrebbe averti messo sulla buona strada.» La mia mano
s'infilò tra i capelli finti di Reba e strinse, come per strapparli. «O mi sbaglio?»
«Ma questa è pura follia!» quasi strillò lei. «Tu hai bisogno di aiuto, Edgar! O chiami il dottor Kamen o cerchi aiuto lì dove sei, e al più presto!»
La collera - e la contemporanea certezza che avrei cominciato a perdere
pezzi del mio vocabolario - scomparve all'improvviso. Le dita con cui
stringevo i capelli di Reba si rilassarono.
«Calmati, Pam. Tu non c'entri. E nemmeno io. Riguarda Tom. Hai notato segni di depressione? Non è possibile che non ti sia accorta di niente.»
Nessuna risposta. Ma nemmeno lo scatto della comunicazione che veniva chiusa. E la sentivo respirare.
«Va bene», disse alla fine. «Va bene, d'accordo. So da dove ti è venuta
questa idea. La nostra piccola Miss Drammatica, giusto? Immagino che Ilse ti abbia raccontato anche di Max Stanton, giù a Palm Desert. Oh, Edgar,
sai anche tu com'è quella ragazza!»
La mia collera minacciò di riaffiorare. Afferrai il soffice busto di Reba.
Lo posso fare, pensai.
Non c'entra nemmeno Ilse. E Pam? Pam è solo spaventata perché questa le è piombata addosso alla sprovvista. È spaventata e arrabbiata, ma
io lo posso fare. Io lo devo fare.
Pazienza se per qualche istante avevo avuto voglia di ucciderla. O se,
fosse stata nella Florida room con me, forse ci avrei provato.
«Non è stata Ilse.»
«Basta assurdità, ora riattacco...»
«La sola cosa che non so è quale dei due ti ha convinta a farti fare un tatuaggio sul seno. La rosellina.»
Cacciò un grido. Un solo grido, sommesso, ma fu abbastanza. Ci fu un
altro momento di silenzio. Pulsava come feltro nero. Poi proruppe: «Quella
vigliacca! L'ha visto e te lo è venuto a raccontare! È l'unico modo perché
tu possa saperlo! Be', non significa niente! Non dimostra niente!»
«Non siamo in tribunale, Pam.»
Non rispose, ma io la sentivo respirare.
«Ilse aveva veramente i suoi sospetti su questo Max, ma non si sogna
nemmeno di Tom. Se glielo dici, le spezzerai il cuore.» Feci una pausa. «E
questo spezzerebbe il cuore a me.»
Pam stava piangendo. «Non m'importa un cazzo del tuo cuore. Non
m'importa un cazzo di te. Vorrei che morissi, lo sai? Bastardo bugiardo e
ficcanaso, vorrei che tu fossi morto.»
Io almeno avevo smesso di pensare così di lei. Grazie a Dio.
La striscia sull'acqua era diventata color del rame brunito. Ora avrebbe
cominciato a stendersi l'arancione.
«Che cosa sai dello stato d'animo di Tom?»
«Niente. E per tua informazione non ho una storia con lui. Se ne ho avuto una, è durata tre settimane. È finita. Ho chiarito tutto con lui quando sono rientrata da Palm Desert. Ci sono mille ragioni, ma principalmente Tom
è troppo...» Spiccò bruscamente un salto all'indietro. «Dev'essere stata lei a
dirtelo. Melinda non lo avrebbe mai fatto, anche se lo avesse saputo.» E,
con inspiegabile rancore: «Lei sa bene cosa ho dovuto passare con te!»
Era sorprendente, per la verità, quanto poco m'interessasse imboccare
quella strada con lei. M'interessava qualcos'altro. «È troppo cosa?»
«Chi è troppo cosa?» strillò lei. «Gesù, odio tutto questo! Questo interrogatorio!»
Come se io ci sguazzassi. «Tom. Hai detto che principalmente era troppo qualcosa, poi ti sei interrotta.»
«Troppo lunatico. Non fa che cambiare umore, un giorno è su, un giorno
è giù, un giorno è tutt'e due, specialmente se non prende...»
Si fermò all'improvviso.
«Se non prende le sue pillole», finii io per lei.
«Sì, be', io non sono la sua psichiatra», ribatté Pam e l'eco non era quello
di stizza di latta; ero quasi certo che fosse acciaio inossidabile. Gesù. La
donna alla quale ero stato sposato era capace di fare il muso duro se la situazione lo richiedeva, ma pensai che quell'inflessibile acciaio fosse qualcosa di nuovo, la sua conseguenza del mio incidente. Pensai che fosse la
zoppia di Pam.
«Ho avuto più che abbastanza di tutte quelle cazzate da strizzacervelli
già con te, Edgar. Una volta tanto mi piacerebbe conoscere un uomo che
fosse un uomo sul serio e non una Palla 8 Magica impasticcata. 'Non saprei adesso, chiedimelo più tardi quando non sarò così giù'.»
Tirò su con il naso dentro il mio orecchio e io attesi il raglio successivo.
Arrivò. Piangeva ancora alla stessa maniera; evidentemente certe cose non
cambiano.
«Vaffanculo, Edgar, per aver fatto diventare una merda quella che finora
era stata una gran bella giornata.»
«Non m'importa con chi vai a letto», dichiarai. «Siamo divorziati. Io voglio solo salvare la vita a Tom Riley.»
Questa volta gridò così forte che dovetti staccarmi il telefono dall'orecchio. «Io non sono RESPONSABILE della sua vita! ABBIAMO CHIUSO!
Hai capito o no?» Poi, abbassando un po' il volume (ma non molto): «Non
è nemmeno a St. Paul. È in crociera con sua madre e quella checca di suo
fratello».
A un tratto capii. Era come se ci volassi sopra, godendo di una visuale
aerea. Forse perché avevo contemplato io stesso quella possibilità, raccomandandomi di prendere tutte le precauzioni necessarie perché sembrasse
assolutamente un incidente. Non tanto perché loro potessero incassare i
soldi dell'assicurazione, ma perché le mie figlie non dovessero subire per
tutta la vita il marchio del giudizio del prossimo...
Perché era quella la risposta, non è vero?
«Digli che lo sai. Quando torna, digli che sai che ha intenzione di uccidersi.»
«Perché dovrebbe credermi?»
«Perché è vero. Perché tu lo conosci. Perché è mentalmente malato e
probabilmente pensa di andare in giro con un cartello con su scritto STO
PER AMMAZZARMI appiccicato alla schiena. Digli che sai che ha smesso di prendere i suoi antidepressivi. Perché questo tu lo sai, no?»
«Sì. Ma dirgli di prenderli non è mai servito a niente.»
«Gli hai mai detto che se non prendeva le sue medicine lo avresti sputtanato? Lo avresti raccontato a tutti?»
«No, e non lo farò adesso!» Sembrava sconcertata. «Vuoi che tutti a St.
Paul sappiano che andavo a letto con Tom Riley? Che avevo una storia
con lui?»
«E se invece tutti a St. Paul venissero a sapere che tieni alla sua vita? Sarebbe così orribile?»
Rimase in silenzio.
«Tutto quello che voglio è che tu gli stia vicino quando ritorna...»
«Tutto quello che vuoi! Come no! La tua vita intera è girata intorno a
tutto quello che vuoi! Ti dico una cosa, Eddie, se quest'uomo per te è così
maledettamente importante, allora stagli vicino tu!» C'era di nuovo quella
durezza stridula, ma questa volta con un sottofondo di paura.
«Se sei stata tu a tagliare», dissi, «probabilmente hai ancora abbastanza
influenza su di lui. Anche, forse, quella di indurlo a risparmiare la propria
vita. So che è una brutta situazione, ma è nelle tue mani.»
«Nient'affatto. Ora chiudo.»
«Se si uccide, dubito che passerai il resto dei tuoi giorni dilaniata dal rimorso... ma credo che un annetto di merda o due ti toccheranno.»
«Scordatelo. Dormirò come un bimbo.»
«Scusa, Panda, ma non ci credo.»
Era un vezzeggiativo antico a cui non ricorrevo da anni e non so da dove
mi fosse saltato fuori, ma piegò le sue difese. Riprese a piangere. Questa
volta senza collera. «Perché devi essere così bastardo? Perché non mi lasci
vivere?»
Non ne volevo più. In quel momento volevo solo un paio di antidolorifici. E forse gettarmi sul letto e piangere anch'io, non ne ero sicuro. «Digli
che lo sai. Digli di andare dal suo analista e di tornare a prendere i suoi antidepressivi. E c'è un'altra cosa, la più importante di tutte. Devi dirgli che
se si uccide, tu lo racconterai a tutti, cominciando da sua madre e suo fratello. Qualsiasi messinscena abbia in mente di architettare, per quanto bene
gli possa riuscire, tutti sapranno che si è trattato in realtà di suicidio.»
«Non lo posso fare! Non posso!» Era disperata.
Ci pensai su e conclusi che avevo scaricato la vita di Tom Riley interamente su di lei, le avevo semplicemente passato la responsabilità attraverso un telefono. Quel genere di scaricabarile non apparteneva al repertorio
del vecchio Edgar Freemantle, ma naturalmente quell'Edgar Freemantle
non avrebbe mai considerato di passare il suo tempo a dipingere tramonti.
O a giocare con le bambole.
«Decidi tu, Panda. Potrebbe essere inutile comunque, se non prova più
niente per te, ma...»
«Oh, non credere.» Ora la sentivo più disperata che mai.
«Allora digli che deve ricominciare a vivere, che gli piaccia o no.»
«Il buon vecchio Edgar, sempre a dirigere le operazioni», mormorò.
«Persino dal suo regno sull'isola. Buon vecchio Edgar. Edgar il mostro.»
«Questo fa male», dissi.
«Meglio», ribatté lei e riappese. Io rimasi seduto sul divano ancora un
po' a guardare il tramonto accendersi e a sentire l'aria che intorno a me diventava più fredda. Quelli che credono che in Florida l'inverno non ci sia si
sbagliano. Nel 1977 a Sarasota caddero due centimetri e mezzo di neve.
Immagino che la temperatura scenda dappertutto. Scommetto che nevica
persino all'inferno, anche se dubito che la neve attacchi.
2
Wireman mi telefonò il giorno successivo poco dopo mezzogiorno per
chiedermi se era ancora invitato a vedere i miei quadri. Io avevo qualche
riserva, ricordando la sua promessa (o minaccia) di darmi la sua franca opinione, ma gli dissi di venire.
Preparai quelli che pensavo fossero i miei sedici lavori migliori... sebbene nella luce limpida e fredda di quel pomeriggio di gennaio mi sembrassero tutte croste da buttare. Lo schizzo che avevo fatto di Carson Jones era
ancora sul ripiano nell'armadio della mia stanza. Andai a prenderlo, lo fissai a una tavola di compensato e lo posai in fondo alla fila. A confronto
con gli olii, le matite colorate apparivano scialbe e il lavoro aveva anche lo
svantaggio di essere più piccolo di tutti gli altri, tuttavia io continuavo ad
avere l'impressione che possedesse qualcosa che agli altri mancava.
Meditai se allegare anche il quadro della tunica rossa, ma rinunciai. Non
so perché. Forse perché mi dava i brividi. Esposi invece Ciao, lo schizzo a
matita della petroliera.
Wireman arrivò sfrecciando su un golf-cart azzurro brillante impreziosito da righine gialle. Non ebbe bisogno di suonare il campanello. Ero alla
porta a riceverlo.
«Hai un'aria un po' tirata, muchacho», commentò entrando. «Rilassati. Io
non sono il dottore e non siamo in un ambulatorio.»
«Non posso farci niente. Se fosse una costruzione e tu fossi un ispettore,
non mi sentirei così, ma...»
«Non rivangare cose che appartengono alla tua altra vita», tagliò corto
Wireman. «Questa è quella nuova, dove le scarpe in cui cammini non si
sono ancora modellate ai piedi.»
«Hai centrato la situazione.»
«Non ne dubito. A proposito della tua precedente esistenza, hai chiamato
tua moglie per quella questioncina di cui abbiamo discusso ieri?»
«Sì. Vuoi il resoconto completo?»
«No. Mi basta sapere se sei soddisfatto di come si è svolta la conversazione.»
«Non ho più avuto conversazioni soddisfacenti con Pam da quando mi
sono risvegliato in ospedale. Ma sono certo che parlerà a Tom.»
«Allora credo che possa andare, porco. Babe, millenovecentonovantacinque.» Ormai era dentro casa e si guardava intorno con curiosità. «Mi
piace come hai sistemato qui.»
Scoppiai a ridere. Non avevo nemmeno tolto il divieto di fumare da sopra il televisore. «Mi sono fatto portare da Jack un tapis roulant che gli ho
fatto piazzare al piano di sopra. L'unica cosa nuova. Evidentemente tu non
avevi mai messo piede qui dentro.»
Mi rivolse un sorrisetto enigmatico. «Abbiamo tutti messo piede qui
dentro, amigo. Roba più grossa del football professionista. Peter Straub,
millenovecentoottantacinque circa.»
«Non ti seguo.»
«Lavoro per la signorina Eastlake da sedici mesi, con un breve e scomodo trasferimento a St. Pete quando le key furono evacuate per l'uragano
Frank. Comunque le ultime persone che hanno preso in affitto Salmon
Point - pardon, Big Pink - sono rimaste solo due delle otto settimane prenotate, prima di filarsela in tutta fretta. O non avevano trovato di gradimento la casa o la casa non aveva trovato di gradimento loro.» Levò in alto
le mani alla maniera dei fantasmi facendo grandi passi dondolanti da fantasma sulla moquette celeste del soggiorno. L'effetto fu in larga misura guastato dalla sua camicia, che era coperta di uccelli e fiori tropicali. «Dopodiché, chiunque abbia camminato per Big Pink... ha camminato solo.»
«Shirley Jackson», dissi. «Circa non so quando.»
«Bravo. Comunque Wireman stava affermando un concetto. Big Pink
ALLORA!» Incluse tutta la casa con un ampio gesto delle braccia. «Arredata in quel popolare stile della Florida conosciuto come 'Casa in affitto nel
ventunesimo secolo'! Big Pink ORA! Arredata in Casa in affitto nel ventunesimo secolo con l'aggiunta di un tapis roulant Cybex al primo piano e...»
Socchiuse gli occhi. «È una Lucilie Ball quella bambolina che vedo seduta
sul divano nella Florida room?»
«È Reba, la regina anticollera. Un regalo che ho ricevuto dal mio amico
psicologo. Kramer.» Ma non faceva così. Il braccio mancante cominciò a
prudermi da matti. Per la decimillesima volta cercai di grattarlo e trovai
invece le mie costole ancora acciaccate. «Aspetta», e guardai Reba, che era
girata verso il Golfo. Lo posso fare, pensai. È come quel posto dove porti i
soldi quando li vuoi nascondere al Fisco.
Wireman attendeva paziente.
Il mio braccio prudeva. Quello che non c'era. Quello che alle volte aveva
voglia di disegnare. Aveva voglia di disegnare in quel momento. Pensai
che volesse disegnare Wireman. Wireman e la fruttiera. Wireman e la pistola.
Molla queste stronzate da svitato, pensai.
Lo posso fare, pensai.
Nascondi i soldi in banche offshore, pensai. Nassau. Bahamas. Grande
Cayman. E, Bingo, lo trovai.
«Kamen», proruppi. «Così si chiama. È stato Kamen a regalarmi Reba.
Xander Kamen.»
«Bene, ora che hai risolto questo piccolo problema», ribatté Wireman,
«diamo un'occhiata all'arte.»
«Se lo è», obiettai io e lo condussi di sopra, aiutandomi con la mia gruccia. Stavo salendo quando qualcosa mi colpì e mi fermai. «Wireman»,
chiesi senza girarmi, «come facevi a sapere che il mio tapis roulant è un
Cybex?»
Per un momento non parlò. «È l'unica marca che conosco», si giustificò
poi. «Ora sei in grado di riprendere a salire per conto tuo o hai bisogno di
un calcio nel culo per rimetterti in moto?»
Sembra buono, suona falso, giudicai mentre ripartivo.
Credo che tu stia mentendo e sai una cosa? Credo che tu sappia che lo
so.
3
I miei lavori erano allineati contro la parete nord della Little Pink, dove
il sole del pomeriggio assicurava un'egregia illuminazione naturale. Guardandoli da dietro Wireman che camminava lentamente lungo l'esposizione,
fermandosi talvolta e in un caso tornando persino indietro a studiare una
seconda volta un paio di tele, pensai che ricevessero assai più luce di quan-
to meritassero. Ilse e Jack li avevano lodati, ma la prima era mia figlia e
l'altro era un mio dipendente.
Quando arrivò al disegno a colori della petroliera in fondo alla fila, Wireman si accosciò e lo esaminò per una trentina di secondi con gli avambracci appoggiati alle cosce e le mani penzoloni tra le gambe.
«Cosa...» cominciai.
«Ssst», fece lui e io sopportai altri trenta secondi di silenzio. Finalmente
Wireman si rialzò. Gli schioccarono le ginocchia. Quando si girò verso di
me, gli si erano ingigantiti gli occhi e quello sinistro era infiammato.
Dall'angolo interno gli scivolava dell'acqua, non una lacrima. Dalla tasca
posteriore dei jeans tolse un fazzoletto con cui asciugarsi, il gesto automatico di una persona che lo ripete parecchie volte al giorno.
«Dio del cielo», disse e andò alla finestra ficcandosi il fazzoletto in tasca.
«Dio del cielo cosa?» domandai. «Dio del cielo che cosa?»
Lui si fermò a guardar fuori. «Tu non ti rendi conto di quanto siano buoni, vero? Proprio non ne hai idea.»
«Lo sono?» chiesi. Non mi ero mai sentito tanto insicuro. «Sei serio?»
«Li hai disposti in ordine cronologico?» volle sapere, sempre guardando
il Golfo. Il Wireman scherzoso, canzonatore e ironico si era momentaneamente assentato. Avevo il sospetto che quello che stavo ascoltando in quel
momento avesse molto più in comune con quello che avevano udito le giurie... dato e non concesso che fosse stato quel tipo di avvocato. «Lo hai fatto, vero? A parte gli ultimi due, intendo. Quelli sono evidentemente molto
precedenti.»
Non vedevo come potesse esserci qualcosa da me prodotto che si potesse definire «molto precedente» quando non erano che un paio di mesi che
disegnavo e dipingevo, ma scorrendoli con lo sguardo, vidi che aveva ragione. Non avevo avuto intenzione di disporli in ordine cronologico, non
consapevolmente, ma era quello che avevo fatto.
«Sì», confermai. «Dai primi fino ai più recenti.»
Indicò gli ultimi quattro dipinti, quelli che per me erano diventati le mie
composizioni con tramonto. In una avevo inserito una nautilus, in un'altra
un compact disc con la parola MEMOREX stampata sulla faccia (e il sole
che brillava rossastro attraverso il foro), alla terza un gabbiano morto che
avevo trovato sulla spiaggia, solo ingigantito a dimensioni da pterodattilo.
L'ultima era il letto di conchiglie sotto Big Pink, ripreso da una fotografia
digitale. In quell'ultima composizione avevo per qualche motivo sentito
l'impulso di aggiungere delle rose. Non ce n'erano intorno a Big Pink, ma
avevo trovato un'ampia selezione di foto offertemi dal mio nuovo amico
Google.
«Quest'ultimo gruppo di dipinti», disse. «Li ha visti nessuno? Tua figlia?»
«No. Questi quattro li ho fatti dopo che se ne era andata.»
«Il ragazzo che lavora per te?»
«No.»
«E naturalmente non hai mai mostrato a tua figlia il disegno che hai fatto
del suo ra...»
«Dio mio, no! Scherzi?»
«No, è chiaro che non gliel'hai mostrato. Ha una sua forza intrinseca,
quel disegno, per quanto ovviamente frettoloso. Quanto al resto di questi
tuoi lavori...» Rise. Mi accorsi allora che era emozionato e fu allora che
cominciai a esserlo anch'io. Ma con prudenza. Ricordati che faceva l'avvocato, dissi a me stesso. Non è un critico d'arte.
«Il resto di questi imbrattamenti...» Emise di nuovo quella risatina
scherzosa. Fece il giro della stanza, montò sul tapis roulant e scese dall'altra parte con un'agilità che gli invidiai molto. S'infilò le dita nei capelli
brizzolati e li tirò all'infuori e all'insù, come per sgranchirsi il cervello.
Finalmente tornò da me. Mi si piazzò davanti. Mi confrontò, quasi.
«Senti. Il mondo ti ha strapazzato parecchio in quest'ultimo anno e so che
sono esperienze che sgonfiano parecchio il vecchio airbag della stima di
sé. Ma non venirmi a raccontare che come minimo non senti quanto sono
validi.»
Ricordai il momento in cui ci stavamo riprendendo dal nostro attacco
d'ilarità con i raggi del sole che attraversavano lo strappo nell'ombrellone
disseminando piccole scaglie di luce sul tavolo. Wireman aveva detto So
che cosa stai passando e io avevo risposto Ne dubito seriamente. Non ne
dubitai ora. Sapeva. Il ricordo del giorno precedente era stato seguito dal
desiderio asettico - non una fame ma un prurito - di ritrarre Wireman sulla
carta. Una composizione di ritratto e natura morta, Avvocato con frutta e
pistola.
Mi batté amorevolmente la guancia con una delle sue manone dalle dita
tozze. «Terra a Edgar. Rispondi, Edgar.»
«Ah, Roger, Houston», mi sentii rispondere. «Avete Edgar.»
«Allora cosa dici, muchacho? Dico bene o dico storto? È vero o non è
vero che mentre li facevi sentivi che erano buoni?»
«Sì», risposi. «Mi sentivo una forza della natura, la fine del mondo.»
Wireman annuì. «È la realtà stessa dell'espressione artistica. Quasi sempre l'arte buona trasmette la sua forza positiva all'artista. E chi guarda, lo
spettatore che si consegna, quello che guarda davvero...»
«Che saresti tu», intervenni. «Hai guardato abbastanza.»
Non sorrise. «Quando è buona e la persona che sta guardando vi si apre,
c'è come una sferzata emotiva. Io ho sentito la sferzata, Edgar.»
«Bene.»
«Puoi dirlo forte che è un bene. E quando quel tizio della Scoto avrà visto un po' dei tuoi lavori, credo che la sentirà anche lui. Anzi, sono pronto
a scommetterci.»
«Andiamo, non sono poi questa gran cosa. Dalí riscaldato, a voler veder
bene.»
Mi passò un braccio intorno alle spalle e mi avviò verso le scale. «Non
mi metterò a controbattere. Neppure discuteremo del fatto che a quanto pare hai dipinto il fidanzato di tua figlia tramite una strana telepatia di un arto
fantasma. Mi spiace davvero non poter vedere il quadro delle palline da
tennis, ma quello se ne è andato.»
«Senza rimpianti», aggiunsi io.
«Ma devi stare bene in guardia, Edgar. Duma Key ha una forte influenza
su... su un certo tipo di persone. Amplifica un certo tipo di persone. Persone come te.»
«E tu?» chiesi io. Non rispose subito, così alzai un dito puntandoglielo
in faccia. «Ti lacrima di nuovo l'occhio.»
Si asciugò con il fazzoletto.
«Vuoi raccontarmi che cosa è successo a te?» lo sollecitai. «Perché non
puoi leggere? Perché se guardi dei quadri troppo a lungo hai questa strana
reazione?»
Per molto tempo non disse niente. Avevano molto da dire invece le conchiglie sotto Big Pink. Con un'onda dissero la frutta. Con quella successiva dissero la pistola. Avanti e indietro così. La frutta, la pistola, la pistola,
la frutta.
«No», disse Wireman finalmente. «Non ora. E se vuoi disegnare me, accomodati. Buttati pure.»
«Fino a che punto sei in grado di leggermi nel pensiero, Wireman?»
«Poco», rispose. «Ci hai preso, muchacho.»
«Sapresti leggermi nel pensiero anche se non fossimo a Duma Key? Se
fossimo in una tavola calda di Tampa, per esempio?»
«Oh, qualche vibrazione potrei percepirla.» Sorrise. «Specialmente dopo
aver trascorso qui più di un anno ad assorbire i... raggi, potremmo dire.»
«Verrai alla galleria con me? Alla Scoto?»
«Amigo, non me lo perderei per tutto il tè della Cina.»
4
Quella notte giunse dal mare un temporale e piovve forte per due ore. Il
cielo brillava di fulmini e le onde sferzavano i pali di sostegno sotto la casa. Big Pink scricchiolò ma resse. Scoprii un particolare interessante:
quando il Golfo s'imbizzarriva e le onde diventavano davvero violente, le
conchiglie si ammutolivano. Le onde le sollevavano troppo in alto perché
potessero far conversazione.
Al culmine di lampi, tuoni e saette, salii nello stanzone e, sentendomi un
po' come il dottor Frankenstein che animava il suo mostro nella torre del
castello, disegnai Wireman usando una semplice matita nera. Fino alla fine, per la verità. Perché poi usai il rosso e l'arancio per la frutta. In secondo
piano abbozzai una soglia e sulla soglia misi Reba, ferma a guardare. Immagino che Kamen avrebbe visto in Reba una rappresentazione di me stesso nel mondo del quadro. Forse yes, forse no. Per finire usai la tonalità di
celeste che la Venus definiva Cielo per colorare i suoi stupidi occhi. Fatto.
Era nato un altro capolavoro di Freemantle.
Contemplai il mio lavoro mentre i tuoni si affievolivano in lontananza e
i fulmini salutavano il Golfo con qualche ultimo baleno d'addio. C'era Wireman seduto a un tavolo. Seduto lì, ne ero certo, alla fine della sua altra
vita. Sul tavolo c'erano una fruttiera e la pistola che conservava o per esercitarsi (all'epoca aveva occhi buoni) o per protezione o l'uno e l'altro. Avevo abbozzato la pistola e poi vi avevo scarabocchiato sopra conferendole
un aspetto sinistro e un po' ondivago. Quell'altra casa era vuota. Da qualche parte in quell'altra casa ticchettava un orologio. Da qualche parte in
quell'altra casa ronzava un frigorifero. L'aria era pesante di profumo di fiori. Il profumo era terribile. I rumori erano qualcosa di peggio. La marcia
dell'orologio. Il ronzio incessante del frigorifero che continuava a produrre
ghiaccio in un mondo senza moglie e senza figli. Presto l'uomo seduto al
tavolo avrebbe chiuso gli occhi, allungato la mano e preso un frutto. Se
fosse stato un'arancia, sarebbe andato a letto. Se fosse stato una mela, si sarebbe appoggiato la canna della pistola alla tempia destra, avrebbe premuto
il grilletto e avrebbe dato aria al suo cervello dolente.
Era una mela.
5
L'indomani Jack si presentò a casa mia con un furgone a noleggio e una
quantità di panni morbidi in cui avvolgere le mie tele. Lo informai che avevo fatto amicizia con una persona della grande casa in fondo alla spiaggia e che sarebbe venuta con noi. «Nessun problema», rispose allegramente Jack, salendo verso Little Pink tirandosi dietro un carrello. «C'è posto
per tutti sul... cavoli!» Si era fermato in cima alle scale.
«Cosa?» chiesi.
«Sono nuovi questi? Sì, per forza.»
«Già.» Nannuzzi della Scoto aveva chiesto di vedere cinque o sei quadri,
non più di dieci, così io avevo deciso di stare nel mezzo e ne avevo scelti
otto. Quattro erano quelli che avevano tanto colpito Wireman la sera prima. «Cosa ne dici?»
«Socio, sono incredibili!»
Era difficile dubitare della sua sincerità: non era mai successo che mi
chiamasse socio. Salii un altro paio di gradini e gli pungolai il sedere con
la punta della stampella. «Fa' spazio.»
Si fece da parte tirando con sé il carrello e lasciandomi passare. Era ancora immobile ad ammirare i quadri.
«Jack, questo tizio della Scoto è uno giusto? Lo conosci?»
«Mia madre dice di sì e tanto mi basta.» Intendendo, credo, che dovesse
bastare anche a me. Non vedevo come potesse essere altrimenti. «Non mi
ha detto niente degli altri partner, credo che ce ne siano due, ma dice che il
signor Nannuzzi è a posto.»
Jack aveva riscosso un credito di favore per me. Ero commosso.
«E se questi non gli piacciono», aggiunse, «è un ciarlatano.»
«È così che pensi?»
Annuì.
Da sotto giunse la voce gioviale di Wireman: «Toc-toc! Sono qui per la
scampagnata. È ancora in programma? Chi ha la mia targhetta con il nome? Dovevo preparare una colazione al sacco?»
6
Mi ero figurato un individuo dall'aria molto professionale, magro e calvo
e con abbaglianti occhi castani, una versione italiana di Ben Kingsley, invece Dario Nannuzzi era sulla quarantina, grassoccio, con una capigliatura
folta e modi cortesi. Non mi ero sbagliato sugli occhi, però. Non perdevano un colpo. Li vidi sgranarsi una volta, poco ma percettibilmente, quando
Wireman rimosse con tutta la cautela del caso il panno dall'ultimo dipinto
che avevo portato, Rose che crescono da conchiglie. Era stato appoggiato
al muro di fondo della galleria, al momento dedicato quasi tutto a fotografie di Stephanie Shachat e olii di William Berra. Lavori migliori, pensai, di
quanto avrei potuto realizzare io in un secolo.
C'era stato però quel leggero spalancarsi degli occhi.
Nannuzzi passò in rassegna le tele da un capo all'altro e ritorno. Non avevo idea se fosse un segno buono o negativo. La sporca verità è che prima di quel giorno non avevo mai messo piede in una galleria d'arte in vita
mia. Mi girai per domandare a Wireman che cosa ne pensasse, ma Wireman si era ritirato e conversava sottovoce con Jack, senza perder d'occhio
Nannuzzi che esaminava i miei dipinti.
Né erano i soli, mi accorsi. La fine di gennaio è stagione di attività per i
costosi negozi lungo la costa occidentale della Florida. Nella spaziosa Scoto Gallery c'erano una decina di curiosi, quelli che più tardi Nannuzzi avrebbe ribattezzato con la più nobile definizione di «potenziali clienti», entranti a guardare le dalie di Shachat, le squisite ma turistiche vedute europee di William Berra e alcune straordinarie sculture, allegramente deliranti, che nell'ansia di esporre la mia merce mi erano sfuggite: erano firmate
da un certo David Gerstein.
All'inizio pensai che ad attirare i casuali spigolatori pomeridiani fossero
le sculture: musicisti jazz, nuotatori matti, turbinose scene cittadine. E
qualcuno in effetti un'occhiata in quella direzione la dava, ma solo in piccola parte. Erano i miei dipinti, che guardavano.
Un uomo con quella che i floridiani chiamano un'abbronzatura alla Michigan - che può significare con la pelle bianca come un cadavere o, in alternativa, color aragosta lessa - mi batté la spalla con la mano libera. Con
l'altra teneva le dita intrecciate in quelle della moglie. «Sa chi è l'autore?»
mi chiese.
«Io», mormorai e mi sentii scottare la faccia. Mi pareva di aver appena
confessato di aver passato l'ultima settimana a scaricare foto di Lindsey
Lohan.
«Ma bravo!» esclamò la moglie. «Farà una mostra?»
Ora mi stavano guardando tutti. Nello stesso modo in cui si guarderebbe
un nuovo tipo di pesce palla che potrebbe anche trasformarsi nel sushi du
jour. Almeno così lo vivevo io.
«Non so se farò una giostra. Mostra.» Sentii altro sangue che veniva a
infiammarmi le guance. Sangue di vergogna, la qual cosa non era un bene.
Sangue di collera, che era peggio. Se fosse traboccata, sarebbe stata rivolta
a me stesso, ma quelle persone non avrebbero potuto capirlo.
Aprii la bocca per emettere altre parole e la chiusi. Vai piano, pensai e
rimpiansi di non avere con me Reba. Quella gente avrebbe probabilmente
ritenuto del tutto normale che un artista giocasse con una bambola. Erano
passati da Andy Warhol, dopo tutto.
Vai piano. Lo puoi fare.
«Quello che intendo dire è che non è molto che lavoro e non conosco la
procedura.»
Piantala di cacciare balle a te stesso, Edgar. Sai a che cosa sono interessati. Non ai tuoi dipinti ma alla tua manica vuota. Tu sei Artie l'Artista
Monobraccio. Perché non tagli corto e li mandi affanculo?
Era ridicolo, naturalmente, però...
Però a questo punto che il diavolo mi portasse se tutte le persone presenti alla galleria non mi si erano avvicinate. Quelli più lontani, davanti ai fiori della signora Shachat, erano stati attratti per semplice curiosità. Era un
tipo di raduno che mi era famigliare; avevo visto capannelli di quel genere
formarsi davanti ai pertugi nelle staccionate intorno a centinaia di cantieri
edili.
«Le spiego io qual è la procedura», disse un altro individuo con un'abbronzatura da Michigan. Era un pancione con un graticcio di capillari rotti
sul naso e indossava una camicia tropicale che gli arrivava quasi alle ginocchia. Le scarpe bianche si accordavano ai capelli bianchi perfettamente
pettinati. «È semplice. Solo due fasi. Fase uno, mi dice quanto vuole per
quello.» Indicò Tramonto con gabbiano. «Fase due, io compilo l'assegno.»
La piccola folla rise. Dario Nannuzzi no. Mi richiamò con un gesto.
«Mi scusi», dissi all'uomo dai capelli bianchi.
«Il prezzo della mercanzia è appena salito, amico mio», commentò qualcuno e ci furono delle risa. Il pancione stette al gioco, ma non dava l'impressione di essersi divertito molto.
Io notai tutto questo come in sogno.
Nannuzzi sorrise, quindi si rivolse ai clienti, che ancora stavano osservando i miei dipinti. «Signore e signori, oggi il signor Freemantle non è
qui per vendere, ma solo per un'opinione sul suo lavoro. Vi prego di usare
rispetto per la sua privacy e per la mia posizione professionale.» Qualunque cosa sia, pensai io perplesso. «Posso suggerire ai presenti di prendere
più attenta visione dei lavori esposti mentre noi ci ritiriamo per un momento? La signora Aucoin e i signori Brooks e Castellano saranno lieti di rispondere a tutte le vostre domande.»
«La mia opinione è che farebbe bene a mettere quest'uomo sotto contratto», intervenne una donna dall'aria severa con i capelli grigi raccolti in una
crocchia e un ricordo di bellezza sul viso ora sciupato dall'età. Ci fu addirittura qualche applauso. La mia sensazione di trovarmi in un sogno s'intensificò.
Da tergo si fece avanti silenziosamente un giovane etereo. Poteva essere
stato chiamato da Nannuzzi, ma non saprei proprio come o quando. Si
consultarono velocemente, dopodiché il giovane si tolse di tasca un rotolo
di etichette. Erano ovali con le lettere NIV goffrate in argento. Nannuzzi
ne staccò una, si chinò sul mio primo dipinto ed esitò lanciandomi uno
sguardo di rimprovero. «Questi non hanno nessuna protezione.»
«Ehm... temo di no», ammisi. Stavo arrossendo di nuovo. «Non... non so
bene come si fa.»
«Dario, la persona con cui abbiamo a che fare è un autentico primitivo
americano», dichiarò la signora dall'aria austera. «Se dipinge da più di tre
anni, ti offro una cena al Zona's con tanto di bottiglia di vino.» Girò verso
di me il suo viso sciupato ma ancora quasi incantevole.
«Se e quando ci sarà qualcosa da scrivere per te, Mary», ribatté Nannuzzi, «ti chiamerò di persona.»
«Sarà meglio per te», rispose lei. «E non gli chiedo nemmeno come si
chiama. Vedi che brava ragazza sono?» Mi salutò con un frullio delle dita
e si confuse nella piccola folla.
«Non è che ci fosse bisogno di chiederlo», commentò Jack e naturalmente aveva ragione. Avevo firmato tutti i miei lavori a olio nell'angolo in
basso a sinistra, proprio come avevo sempre fatto con tutte le fatture, le
ordinazioni e i contratti nella mia altra vita: Edgar Freemantle.
7
Nannuzzi dovette accontentarsi di applicare le sue etichette NIV sugli
angoli superiori destri, come l'indice delle cartellette di uno schedario. Poi
condusse me e Wireman nel suo ufficio. Fu invitato anche Jack, che declinò, preferendo restare con i quadri.
In ufficio Nannuzzi ci offrì un caffè, che rifiutammo, e dell'acqua, che
accettammo. Io accettai anche un paio di capsule di Tylenol.
«Chi era quella donna?» domandò Wireman.
«Mary Ire», rispose Nannuzzi. «Un'istituzione sulla scena artistica della
costa del sole. Pubblica un foglio indipendente per appassionati che si
chiama Boulevard. Esce una volta al mese per quasi tutto l'anno e diventa
bisettimanale nella stagione turistica. Lei vive a Tampa, in una bara, secondo alcune spiritose malelingue del nostro settore. Ha un debole particolare per i nuovi artisti locali.»
«Mi sembra molto sveglia», osservò Wireman.
Nannuzzi alzò le spalle. «Mary è a posto. Ha aiutato molti artisti ed è nel
giro da sempre. Questo fa di lei un personaggio di rilievo in una città dove,
in larga misura, possiamo contare solo su una clientela in transito.»
«Capisco», annuì Wireman. Ero contento che almeno lui capisse. «È un
facilitatore.»
«Qualcosa di più», corresse Nannuzzi. «È una specie di guida. Ci piace
tenercela buona. Se ci riusciamo, naturalmente.»
Wireman stava annuendo. «C'è un bel mercato basato su artisti e gallerie, qui sulla costa occidentale della Florida. Mary Ire ne conosce i meccanismi e lo favorisce. Così se la Happy Art Galleria in fondo alla strada
scopre di poter vendere dipinti di Elvis fatti con spaghetti su fondo di velluto per diecimila dollari al pezzo, Mary interviene...»
«Li spellerebbe vivi», lo interruppe Nannuzzi. «Contrariamente a quel
che credono gli snob del settore, quelli facilmente riconoscibili dagli abiti
neri e dai cellulari minuscoli, noi non siamo venali.»
«Si è tolto un sassolino?» lo apostrofò Wireman non proprio sorridendo.
«Quasi», rispose Nannuzzi. «Guardi, io dico solo che Mary capisce la
nostra situazione. Noi vendiamo opere di buon livello, quasi tutti noi, e
qualche volta vendiamo opere straordinarie. Facciamo di tutto per scovare
e sviluppare artisti nuovi, ma alcuni dei nostri clienti sono troppo ricchi
per sapere quello che fanno. Sto pensando a persone come il signor Costenza là fuori, che agitava in giro il suo libretto degli assegni, e le signore
che entrano nella mia galleria con il cagnolino tinto dello stesso colore del
loro ultimo soprabito.» Mostrò i denti in un sorriso che, ci avrei scommesso, non molti dei suoi clienti più ricchi avevano mai visto.
Ero affascinato. Era un altro mondo.
«Mary recensisce ogni nuova mostra a cui riesce ad andare, il che significa la maggior parte, e, mi creda, non tutte le sue recensioni sono di lodi
sperticate.»
«Ma per lo più sì, vero?» obiettò Wireman.
«Certo, ma perché per lo più si tratta di lavori che meritano. Le dirà che
assai poco di quello che si vede qui in giro è di altissimo valore, perché
non sono opere di questo genere quelle che si producono di regola in zone
turistiche, ma lavori buoni? Sì. Lavori che uno può appendersi in casa per
poi dire: 'Quello l'ho comprato io' senza un filo di imbarazzo.»
Pensai che Nannuzzi aveva appena dato una definizione perfetta di mediocrità. Avevo visto quel principio applicato in centinaia di disegni di architettura. Però anche questa volta tenni la bocca chiusa.
«Mary divide con noi l'interesse per i nuovi artisti. Potrebbe venire il
giorno in cui potrebbe essere nel suo interesse fare due chiacchiere con lei,
signor Freemantle. Prima di mettere in mostra i suoi lavori, diciamo.»
«Saresti interessato ad allestire un'esposizione qui alla Scoto?» mi chiese
Wireman.
Avevo le labbra secche. Cercai di inumidirle con la lingua, ma era secca
anch'essa. Così bevvi un sorso d'acqua prima di parlare. «Questo è mettere
il cardo davanti ai buoni.» Feci una pausa. Presi tempo. Bevvi un altro sorso d'acqua. «Chiedo scusa. Il carro davanti ai buoi. Io sono venuto qui a
sentire che cosa ne pensa lei, signor Nannuzzi. È lei l'esperto.»
Sciolse l'intreccio delle dita che aveva davanti al gilet e si sporse in avanti. Il cigolio della sua poltrona nell'ambiente piccolo mi sembrò molto
forte. Ma lui sorrideva e il sorriso era caloroso. Gli illuminava gli occhi,
glieli rendeva magnetici. Capivo che cosa faceva di lui un vincente quando
si trattava di vendere dei quadri, ma non penso che stesse vendendo in quel
momento. Si protese per prendermi la mano, quella con cui dipingevo, la
sola che mi era rimasta.
«Se posso permettermi, la vedo un po' scombussolato e forse anche sulle
spine. Mi lasci dire, allora, che i suoi dipinti sono buoni davvero. Considerato da quanto poco tempo dipinge, mi azzardo a definire le sue opere straordinarie.»
«Che cosa le rende di valore?» domandai. «Se sono buone, che cosa le
rende buone?»
«La verità», disse lui. «Risplende in ogni pennellata.»
«Ma sono quasi tutti solo tramonti! Gli oggetti che aggiungo...» Sollevai
la mano e la lasciai ricadere. «Sono solo marchingegni.»
Nannuzzi rise. «Certo che ha imparato certe parole!... Dove? Leggendo
le pagine d'arte del New York Times? Ascoltando Bill O'Reilly? O entram-
bi?» Indicò il soffitto. «Lampadina? Marchingegno!» Si indicò il petto.
«Pacemaker? Marchingegno!» Alzò le braccia. Ne aveva due da muovere,
quella canaglia fortunata. «Butti via le brutte parole, signor Freemantle.
L'arte dovrebbe essere luogo di speranza, non di dubbio. E i suoi dubbi nascono dall'inesperienza, che non è una cosa disonorevole. Mi ascolti. Vuole ascoltarmi?»
«Certo, è per questo che sono qui.»
«Verità è bellezza.»
«John Keats», intervenne Wireman. «Ode su un'urna greca. Tutto ciò
che sappiamo, tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere. Vecchia, ma sempre valida.»
Nannuzzi non gli prestò attenzione. Era sporto sopra la scrivania e guardava me. «Per me, signor Freemantle...»
«Edgar.»
«Per me, Edgar, questo riassume lo scopo stesso di tutta l'arte ed è l'unico modo in cui la si può giudicare.»
Mi rivolse un sorriso che, secondo me, aveva qualcosa di difensivo.
«Io non voglio rimuginare troppo sull'arte, capisce? Io non voglio criticarla. Io non voglio partecipare ai simposi, ascoltare conferenze o discuterne ai cocktail, anche se, dato il mio mestiere, certe volte sono costretto a
fare tutte queste cose. Quello che voglio io è battermi una mano sul cuore
e cascare sul cuore quando la vedo.»
Wireman scoppiò a ridere e lanciò entrambe le mani verso l'alto. «Sì, Signore!» declamò. «Non so se quel tizio là fuori si stava battendo una mano
sul cuore e stesse per cadere per terra, ma di certo si batteva la mano sul
portafogli.»
«Dentro di sé», ribatté Nannuzzi, «io credo che sia caduto per terra. Credo che siamo caduti tutti.»
«Ammetto che è successo anche a me», disse Wireman. Ora non sorrideva più.
Nannuzzi non distolse il suo sguardo da me. «Non ci sono marchingegni. Quello che lei sta cercando in questi dipinti è perfettamente chiaro: un
modo di reinventare il più popolare e inflazionato di tutti i soggetti della
Florida, il tramonto tropicale. Lei ha cercato di superare il cliché.»
«Sì, questo sì. Perciò ho copiato Dalí...»
Nannuzzi mi zittì con un gesto della mano. «Quei dipinti là fuori non
hanno niente a che vedere con Dalí. E non mi metterò a discutere di scuole
con lei, Edgar, né mi abbasserò a usare parole che finiscono in ismo. Lei
non appartiene a nessuna scuola pittorica, perché lei non ne conosce nessuna.»
«Io conosco malta e mattoni», risposi.
«Allora perché non dipinge muri?»
Scossi la testa. Avrei potuto rispondergli che quell'idea non mi era mai
passata per l'anticamera del cervello, ma sarei stato più sincero se gli avessi detto che non era mai passata per il mio braccio mancante.
«Mary ha ragione. Lei è un primitivista. Niente di male in questo. Grandma Moses era una primitiva americana. E lo era Jackson Pollock. Il punto, Edgar, è che lei ha talento.»
Aprii la bocca. La chiusi. Proprio non sapevo che cosa dire. Mi soccorse
Wireman.
«Ringrazialo, Edgar.»
«Grazie», dissi.
«Non c'è di che. E se dovesse decidere veramente di esibire i quadri,
Edgar, la prego di passare prima alla Scoto. Le farò l'offerta migliore di
tutta Palm Avenue. È una promessa.»
«Stiamo scherzando? È ovvio che verrò prima di tutto qui.»
«Ed è ovvio che sarò io a esaminare il contratto», fece eco Wireman con
un sorriso da chierichetto.
Nannuzzi ricambiò il sorriso. «Così è giusto che sia e non chiedo di meglio. Non che troverà molto da esaminare. Il contratto standard della Scoto
per gli artisti esordienti è di una paginetta e mezzo.»
«Signor Nannuzzi», dissi io, «davvero non so come ringraziarla.»
«Lei lo ha già fatto», rispose lui. «Mi sono battuto la mano sul cuore,
quel che ne resta, e sono caduto. Prima che se ne vada, c'è un'altra questione.» Avvicinò a sé un block notes, vi scrisse qualcosa, strappò il foglio e
me lo tese come un medico che porge una prescrizione al paziente. Persino
la parola che aveva scritto in grandi lettere maiuscole sembrava una di
quelle che trovi sulle ricette dei medici: LIQUIN.
«Che cos'è?» domandai.
«Un protettivo. Le suggerisco di cominciare ad applicarlo sui lavori finiti con una salvietta di carta. Uno strato molto sottile. Lo lasci asciugare per
ventiquattr'ore, poi applichi un secondo strato. Servirà a conservare i suoi
tramonti brillanti e freschi per secoli.» Mi guardò con un'espressione così
solenne da farmi risalire lo stomaco nel petto. «Non so se sono abbastanza
buoni da meritare tanta longevità, ma chissà? Non si può mai dire.»
8
Cenammo allo Zoria's, il ristorante menzionato da Mary Ire, e lasciai
che Wireman mi offrisse un bourbon prima di mangiare. Era la prima volta
che bevevo qualcosa di veramente forte dopo l'incidente e mi produsse un
effetto singolare. Tutto diventò più nitido finché il mondo intorno a me si
riempì di luce e colore. Gli elementi angolari, porte, finestre, persino i gomiti piegati dei camerieri di passaggio, mi apparvero tanto affilati da poter
tagliare l'aria e lasciar fluire come sciroppo un'atmosfera più scura e densa.
Il pesce spada che ordinai fu squisito, i fagiolini mi croccarono tra i denti
quando li addentai e la crème brûlée era così gustosa che quasi non riuscii
a finirla (ma era troppo gustosa per lasciarla lì). La conversazione fra noi
tre fu allegra, si rise molto. Ciononostante desideravo che la cena terminasse. Mi faceva ancora male la testa, anche se la pulsazione era scivolata
verso il fondo del cranio (come una boccia in fondo alla pista) e la Main
Street piena di traffico che vedevamo attraverso la vetrata mi distraeva.
Tutti i clacson mi sembravano stizziti e minacciosi. Volevo Duma. Volevo
il nero del Golfo e la sommessa conversazione delle conchiglie sotto di
me, mentre me ne stavo sdraiato sul letto con Reba sul guanciale accanto.
E quando finalmente il cameriere venne a chiederci se volevamo dell'altro caffè, Jack stava praticamente reggendo la conversazione da solo. Nel
mio stato iper percettivo mi ero accorto di non essere l'unico ad avere bisogno di cambiare aria. Nella luce soffusa del ristorante mi era difficile
stabilire quanto avesse perso Wireman della sua abbronzatura di mogano,
ma di certo si era alquanto schiarito. E poi l'occhio sinistro aveva preso a
lacrimargli di nuovo.
«Solo il conto», disse Wireman e riuscì a sorridere. «Mi spiace di porre
fine un po' precocemente ai festeggiamenti, ma voglio tornare dalla mia signora. Se voi non avete niente in contrario.»
«A me sta bene», disse Jack. «Una cena gratis e a casa in tempo per vedere SportsCenter? Perfetto.»
Io e Wireman aspettammo davanti alla rimessa che Jack andasse a riprendere il furgone. Lì la luce era più intensa, ma ciò che mi mostrò non
mi fece sentire più tranquillo sul conto del mio nuovo amico; sotto le lampade che illuminavano l'ingresso della rimessa la sua faccia era quasi gialla. Gli chiesi se si sentisse bene.
«Wireman si sente forte come un toro», rispose. «La signorina Eastlake
viceversa ha passato qualche nottata di merda. Invocando le sorelle, chia-
mando suo padre, pretendendo di tutto, mancavano giusto la pipa e il fumo
e poi avevamo fatto l'en-plein. Ti dico che in questa stronzata della luna
piena qualcosa c'è. Sarà un insulto alla logica, ma qualcosa c'è. Diana trasmette su una lunghezza d'onda sulla quale sono sintonizzate solo le menti
vacillanti. Ora che è nell'ultimo quarto, riprenderà a dormire. Il che significa che riprenderò a dormire anch'io. Spero.»
«Bene.»
«Se fossi in te, Edgar, su questa faccenda della galleria ci farei un bel
sonno e per più di una notte. Senza smettere di dipingere, sia chiaro. Finora sei stato prolifico, ma dubito che tu abbia messo assieme abbastanza per
allestire una...»
Alle nostre spalle c'era un pilastro rivestito di piastrelle. Barcollò all'indietro e vi si appoggiò contro. Non ci fosse stato, sono certo che sarebbe
caduto. L'effetto del bourbon si stava esaurendo, ma godevo abbastanza di
quello stato di iper percezione da vedere che cosa gli successe agli occhi
quando perse l'equilibrio. Quello destro guardò all'ingiù, come per controllarsi le scarpe, mentre il sinistro, lacrimante e arrossato, ruotò nell'orbita al
punto che dell'iride si scorgeva soltanto uno spicchio sottile. Ebbi tempo di
riflettere che quello che stavo vedendo doveva essere per forza un'illusione
ottica, gli occhi non possono muoversi in due direzioni così completamente diverse. Ma questo probabilmente valeva solo per persone in buona salute. Poi Wireman cominciò a scivolare.
Lo afferrai. «Wireman? Wireman!»
Scrollò con forza la testa e mi guardò. Occhi presenti e al loro posto. Il
sinistro era lucido e iniettato di sangue, ma niente di più. Si tolse di tasca il
fazzoletto e si asciugò la guancia. Rise. «Ho sentito di gente che si addormenta ascoltando le noiose tiritere altrui, ma addormentare se stessi? È assurdo.»
«Non ti stavi addormentando. Stavi... non so cosa stavi facendo.»
«Su, su, sciocchina», cercò di scherzare Wireman.
«No, gli occhi hanno fatto una cosa strana.»
«Questo si chiama addormentarsi, muchacho.» Mi rifilò una delle sue
classiche occhiate: testa inclinata, sopracciglia inarcate, angoli della bocca
contratti nel principio di un sorriso. Ma credo che sapesse molto bene a
che cosa alludevo.
«Io devo andare dal dottore, ho bisogno di fare un checkup», gli dissi.
«Una risonanza magnetica. L'ho promesso al mio amico Kamen. Perché
non ci andiamo assieme?»
Wireman era ancora appoggiato al pilastro. Si raddrizzò. «Ecco Jack con
il furgone. È stato veloce. Sbrigati, Edgar. L'ultima corriera per Duma
Key. Parte ora.»
9
Accadde di nuovo, in viaggio, e fu anche peggio, anche se Jack non vide
niente, troppo occupato a pilotare il furgone sulla Casey Key Road, e sono
certo che Wireman non se ne accorse. Avevo chiesto a Jack di farmi la
gentilezza di evitare la Tamiami Trail, che è la seducente Main Street della
costa occidentale della Florida, in favore dell'altro percorso, più stretto e
tortuoso. Mi giustificai dicendo che desideravo vedere la luna sull'acqua.
«Cominciano tutti quei piccoli capricci d'artista, muchacho», mi apostrofò Wireman da dietro, dove si era disteso sul sedile. In fatto di cinture di
sicurezza non era un tipo molto ligio al dovere. «Uno di questi giorni comincerai a portare il basco.»
«Vaffanculo, Wireman», gli risposi.
«Ci sono andato per su e per giù», recitò Wireman nel tono di una reminiscenza sentimentale, «ma quanto a culo, come tua mamma non ce n'è
più.» Con questo si zittì.
Osservai la luna nuotare nell'acqua nera alla mia destra. Era uno spettacolo ipnotico. Mi domandai se fosse possibile dipingerla come si vedeva
dal furgone: una luna in movimento, un proiettile d'argento sotto il pelo
dell'acqua.
Ero distratto da questi pensieri (e forse cominciavo ad assopirmi) quando mi accorsi di un movimento spettrale che si sovrapponeva alla luna
nell'acqua. Era il riflesso di Wireman. Per un attimo ebbi la folle impressione che si stesse masturbando sul sedile posteriore, perché mi sembrava
che aprisse e chiudesse le cosce muovendo il bacino su e giù. Lanciai
un'occhiata a Jack, ma la Casey Key Road è una sinfonia di curve e Jack
era tutto preso dalla guida. Inoltre Wireman era per gran parte proprio dietro di lui, nascosto persino allo specchietto retrovisore.
Guardai sopra la mia spalla sinistra. Wireman non si stava masturbando.
Wireman non si stava agitando nel sonno in preda a un sogno realistico.
Wireman aveva le convulsioni. Era di modesta entità, ma era senz'altro un
attacco epilettico, probabilmente petit mal. Nei primi dieci anni di vita della Freemantle Company avevo avuto tra i miei dipendenti un disegnatore
epilettico e sapevo riconoscere una crisi. Il busto di Wireman si sollevava
dal sedile di una spanna e ricadeva, con un ritmico contrarsi e rilassarsi
delle natiche. Le mani, posate sul ventre, tremavano. Schioccava le labbra
come se stesse assaporando qualcosa di particolarmente buono. E gli occhi
erano come davanti alla rimessa del ristorante. Nella luce delle stelle quel
disassamento uno su e uno giù era qualcosa di troppo spaventoso perché
trovi le parole per descriverlo. Gli colava bava dall'angolo sinistro della
bocca; una lacrima gli scivolò dall'occhio sinistro nella basetta incolta.
Durò una ventina di secondi. Poi Wireman sbatté le palpebre e i suoi occhi tornarono a posto. Rimase perfettamente immobile per un minuto. Forse due. Si accorse che lo stavo guardando e disse: «Ucciderei per un altro
sorso o una coppa di burro d'arachidi e suppongo che di bere non se ne
parla, giusto?»
«Meglio che lasci perdere, se vuoi essere sicuro di sentirla quando suona
di notte», risposi io sperando d'aver trovato un tono abbastanza neutrale.
«Ponte di Duma Key in vista» annunciò Jack. «Siamo quasi a casa.»
Wireman si alzò a sedere e si sgranchì. «È stata una giornata pesante e
non mi dispiacerà rivedere il mio letto, ragazzi. Mi sa che sto invecchiando, eh?»
10
Nonostante mi si fosse irrigidita la gamba, scesi dal furgone e mi fermai
accanto a lui mentre apriva lo sportello della cassetta di ferro accanto al
cancello che conteneva una sofisticata piccola tastiera.
«Grazie di avermi accompagnato, Wireman.»
«Prego», disse lui. «Ma se mi ringrazi di nuovo, muchacho, dovrò tirarti
un cazzotto in bocca. Spiacente, ma ci sarò costretto.»
«Buono a sapersi», risposi. «Grazie di avermi informato.»
Rise e mi batté la mano sulla spalla. «Mi piaci, Edgar. Astuto come una
volpe, tenace come un mulo, con le labbra giuste per baciarmi il culo.»
«Straordinario. Potrei piangere. Senti, Wireman...»
Avrei potuto raccontargli quello che gli era appena accaduto. Ci andai
vicino. Alla fine decisi di non farlo. Non sapevo se la mia fosse la decisione giusta, ma sapevo che lo aspettava forse una nottataccia con Elizabeth
Eastlake. E poi avevo ancora quel dolore in fondo al cranio. Ripiegai dunque su una seconda offerta di trasformare la mia promessa visita dal dottore in un appuntamento a due.
«Ci penserò», rispose. «E ti farò sapere.»
«Non aspettare troppo, però, perché...»
Alzò una mano chiudendomi la bocca e per una volta mi guardò senza
sorridere. «Basta così, Edgar. Basta per oggi, okay?»
«Okay», mormorai. Lo guardai entrare e tornai al furgone.
Jack aveva alzato il volume. Stavano suonando Renegade. Fece per
riabbassarlo ma lo fermai. «No, va bene così. Tira su.»
«Sul serio?» Manovrò e riprese la strada. «Grande band. Li hai mai sentiti?»
«Jack», dissi, «sono gli Styx. Dennis DeYoung? Tommy Shaw? Dove
sei vissuto in tutti questi anni? In una caverna?»
Mi rivolse un sorriso colpevole. «Di solito ascolto country e ancora di
più i vecchi classici», si giustificò. «Se devo essere sincero, sono rimasto
agli anni Cinquanta con quelli del Rat Pack.»
L'idea di Jack Cantori che se l'intendeva con Dino e Frank mi venne da
chiedermi, e non per la prima volta quel giorno, se stesse succedendo tutto
davvero. Mi domandai anche come potessi ricordarmi che Dennis DeYoung e Tommy Shaw erano negli Styx, addirittura che Shaw aveva scritto proprio la canzone che ci stava assordando in quel momento dagli altoparlanti del furgone, mentre certe volte non ero capace di ricordare il nome
della mia ex moglie.
11
Entrambe le spie della segreteria telefonica di fianco al telefono in soggiorno stavano lampeggiando, quella che indicava che avevo dei messaggi
e quella che indicava che il nastro di registrazione dei messaggi era pieno.
Ma il numero nella finestrella dei messaggi in attesa era solo 1. Considerai
il fatto con uno sgradevole presentimento mentre il peso che conteneva il
mio mal di testa rotolava dalla nuca verso la fronte. Le sole due persone
che mi venivano in mente capaci di telefonarmi e lasciarmi un messaggio
tanto lungo da usare tutto il nastro erano Pam e Ilse e in entrambi i casi era
improbabile che schiacciando il tasto di ascolto avrei ascoltato una buona
notizia. Non ci volevano cinque minuti di registrazione per lasciar detto:
Va tutto bene, dammi un colpo quando ti capita.
Lascialo fino a domani, pensai e una voce pavida che nemmeno sapevo
di possedere nel mio repertorio mentale (forse era nuova) mi esortò a fare
di più. Mi suggerì di cancellare semplicemente il messaggio senza ascoltarlo.
«Ma senz'altro», dissi a voce alta. «E quando la stessa persona richiamerà, le dirò che il cane si è mangiato la mia segreteria.»
Schiacciai PLAY e come spesso accade quando siamo sicuri di sapere
che cosa attenderci, pescai un jolly. Non era Pam e non era Ilse. La voce
affannata e lievemente enfisemica che scaturì dalla segreteria telefonica
apparteneva a Elizabeth Eastlake.
«Salve, Edgar», disse. «Uno spera che tu abbia avuto un pomeriggio
fruttuoso e che ti stia gustando la serata fuori con Wireman come io mi sto
godendo la mia in compagnia della signorina... be', non ricordo il nome,
ma è molto piacevole. E uno spera che tu abbia notato che ho ricordato il
tuo nome. Sono in uno dei miei momenti di lucidità. Ne sono contenta e ne
faccio tesoro, però mi rattristano, anche. È come trovarsi su un aliante e salire su un colpo di vento al di sopra di un banco di nebbia che si estende
basso sul terreno. Per un po' riesci a vedere tutto con tanta chiarezza... e
contemporaneamente sai che il vento cadrà e che l'aliante riaffonderà nella
nebbia. Capisci?»
Capivo. Per me le cose erano migliorate, ma quello era il mondo in cui
mi ero risvegliato, un mondo dove le parole cozzavano insensate l'una contro l'altra e i ricordi erano sparpagliati come mobili da giardino dopo una
tromba d'aria. Era un mondo in cui avevo cercato di comunicare con il
prossimo picchiandolo e le sole due emozioni di cui ero veramente capace
erano paura e furia. Uno progredisce oltre quello stato (come avrebbe detto
Elizabeth), ma poi uno non perde mai del tutto la convinzione che la realtà
sia un velo sottile. Dietro la sua trama? Caos. Follia. La verità reale, forse,
e la verità reale è rossa.
«Ma basta parlare di me, Edgar. Ti chiamo per porti una domanda. Tu
sei uno che crea arte per denaro o credi nell'arte per l'arte? Sono sicura di
avertelo chiesto quando ci siamo visti, quasi sicura, ma non ricordo la tua
risposta. Penso che debba essere stata l'arte per l'arte, altrimenti Duma non
ti avrebbe chiamato. Ma se resti qui a lungo...»
Nella sua voce spuntò una palpabile eco di ansia.
«Edgar, uno è certo che sarai un ottimo vicino, su questo non ho dubbi,
ma devi prendere delle precauzioni. Credo che tu abbia una figlia e penso
che sia venuta a trovarti. È così? Mi pare di ricordare che mi salutasse.
Una giovane graziosa con i capelli biondi? Potrei confondermi con mia sorella Hannah, ho la tendenza, lo sai, ma in questo caso credo di avere ragione. Se hai intenzione di restare, Edgar, non devi invitare più qui tua figlia. In nessuna circostanza. Duma Key non è un luogo sicuro per le fi-
glie.»
Io ascoltavo fissando il registratore. Non sicuro. La prima volta aveva
detto non fortunato, o almeno così ricordavo io. Erano due modi diversi
per esprimere lo stesso concetto o no?
«E la tua arte. C'è la questione della tua arte.» Il tono era di scuse e nella
voce c'era un certo affanno. «A uno non piace dire a un artista che cosa
deve fare; anzi, uno non può dire a un artista che cosa deve fare, eppure...
oh, mio Dio...» Fu interrotta dalla tosse scomposta e gracchiante del fumatore incallito. «A uno non piace parlare di queste cose direttamente... o anche sapere come parlarne direttamente... ma ti do un piccolo consiglio, Edgar. Da uno che si limita ad apprezzare a uno che crea. Mi è consentito?»
Aspettai. La macchina era silenziosa. Pensai che forse il nastro avesse
esaurito la sua corsa. Sotto i miei piedi le conchiglie mormoravano piano,
come scambiandosi segreti. La pistola, la frutta. La frutta, la pistola. Poi
Elizabeth riprese a parlare.
«Se le persone che gestiscono la Scoto o l'Avenida dovessero offrirti
l'occasione di esibire i tuoi lavori, ti consiglio molto vivamente di accettare. Perché altri possano goderne, naturalmente, ma soprattutto per portarne
via da Duma più che puoi il più presto possibile.» Trasse un respiro profondo e sonoro, come preparandosi a portare a compimento un'ardua corvée. Sembrava anche assolutamente e completamente lucida, totalmente
presente. «Non lasciare che si accumulino. Questo è il consiglio che ho per
te, dato in buona fede e senza alcun personale tornaconto? Sì, questo voglio dire. Lasciare che i lavori artistici si accumulino qui è come lasciare
che si accumuli troppa elettricità in una batteria. Se lo fai, la batteria può
esplodere.»
Non sapevo se fosse proprio vero, ma mi era chiaro il concetto.
«Non posso dirti perché debba essere così, ma lo è», proseguì... e io ebbi
l'improvvisa intuizione che a tal proposito stesse mentendo. «E se tu credi
nell'arte per l'arte, allora la parte importante è la pittura in sé, giusto?» Ora
il suo tono si era fatto quasi suadente. «Anche se non hai bisogno di vendere i tuoi dipinti per comprarti il pane quotidiano, far conoscere la propria
opera... metterla a disposizione del mondo... di certo agli artisti sono cose
che stanno a cuore, giusto? La cessione?»
Come faceva a sapere che cosa fosse importante per gli artisti? Solo quel
giorno avevo appreso che tipo di finitura dovevo applicare ai miei dipinti
per conservarli. Io ero un... come mi avevano definito Nannuzzi e Mary Ire? Un primitivo americano.
Un'altra pausa. Poi: «Credo che ora chiuderò. Ho detto quanto dovevo.
Ti prego solo di pensarci, se hai intenzione di restare, Edward. E attendo
con ansia che tu venga a leggere a voce alta per me. Molte poesie, spero.
Sarà per me motivo di grande gioia. Per ora ti saluto. Grazie di aver ascoltato una vecchietta». Una pausa. Poi ancora: «La tavola perde. Dev'essere
così. Mi spiace tanto».
Attesi venti secondi, trenta. Stavo per concludere che si era dimenticata
di riappendere e mi accingevo a schiacciare il bottone di STOP quando
parlò di nuovo. Solo sei parole, e non avevano più senso di quell'accenno
alla tavola che perde, ma lo stesso mi fecero accapponare la pelle del braccio e formicolare i capelli sulla nuca.
«Mio padre era un nuotatore subacqueo», disse Elizabeth Eastlake. Ogni
parola era scandita con precisione. Poi ci fu lo scatto della comunicazione
che veniva interrotta.
«Fine messaggi», annunciò la voce artificiale. «Il nastro è pieno.»
Contemplai per qualche secondo la macchina, pensai di cancellare la registrazione, poi decisi di conservarla per farla ascoltare a Wireman. Mi
spogliai, mi lavai i denti e andai a letto. Mi sdraiai nel buio con quel pulsare sommesso nella testa mentre sotto di me le conchiglie bisbigliavano a
ripetizione l'ultima cosa che aveva detto: Mio padre era un nuotatore subacqueo.
8
Ritratto di famiglia
1
Ci fu un rallentamento. Alle volte accade. La pentola bolle e poi, proprio
quando sta per traboccare, una mano - Dio, fato, forse semplice coincidenza - abbassa la fiamma. Una volta ne accennai a Wireman e lui disse che la
vita è come una soap opera di venerdì. Ti dà l'illusione che tutto stia per risolversi, poi viene lunedì e riparte il casino di prima.
Pensavo che sarebbe venuto con me da un dottore e che avremmo scoperto che cosa aveva. Pensavo che mi avrebbe confidato perché si era sparato in testa e mi avrebbe spiegato come fa un uomo a sopravvivere a un
gesto come quello. Mi sembrava che la risposta potesse essere: «Con le
convulsioni e una difficoltà dannata a leggere la scrittura in piccolo». Forse sarebbe stato anche in grado di spiegarmi perché la sua datrice di lavoro
era fissata sulla necessità di tenere Ilse lontana dall'isola. E per finire in
bellezza: avrei deciso quale sarebbe stato il futuro prossimo di Edgar Freemantle, il Grande Primitivo Americano.
Nulla di tutto questo, almeno per un po'. È vero che la vita produce cambiamenti e talvolta i risultati finali sono esplosivi, ma nelle soap opera e
nella vita reale i big bang hanno spesso una miccia lunga.
Wireman accettò di venire con me da uno specialista e di «farsi esaminare la testa», ma non prima di marzo. In febbraio aveva troppo da fare, disse. A partire dal fine settimana successivo in tutte le proprietà Eastlake si
sarebbero insediati i residenti invernali, quelli che Wireman chiamava «i
mensili», come se fossero cicli mestruali invece di locatari. I primi migratori ad arrivare dal Nord sarebbero stati quelli che Wireman gradiva di
meno. Costoro erano i Godfrey del Rhode Island, conosciuti da Wireman
(e pertanto da me) come Joe e Rita dei Cani Cattivi. Venivano tutti gli inverni per dieci settimane e occupavano la casa più vicina alla tenuta Eastlake. Gli avvisi della ferocia dei loro rottweiler e dei loro pit bull erano
già esposti, io e Ilse li avevamo visti. Wireman diceva che Joe Cane Cattivo era un ex berretto verde, in un tono di voce che, nelle sue intenzioni,
spiegava tutto.
«Il signor Dirisko si rifiuta di scendere dalla sua macchina quando ha da
consegnargli qualcosa», mi riferì Wireman. Alludeva al grasso e gioviale
funzionario del servizio postale federale che aveva in carico la zona sud di
Casey e tutta Duma Key. Sedevamo sulle transenne davanti alla casa dei
Cani Cattivi un giorno o due prima dell'arrivo dei Godfrey. Il rosa del vialetto di frammenti di conchiglie luccicava di umidità. Wireman aveva azionato i diffusori dell'impianto di irrigazione. «Molla quello che deve
consegnare davanti al cancello, suona il clacson e tira dritto verso El Palacio. Dovrei biasimarlo? No, no, Nanette.»
«Wireman a proposito della visita...»
«Marzo, muchacho, e prima delle Idi. Te lo prometto.»
«Stai cercando di sottrarti», lo accusai.
«No. È che ho una sola stagione lavorativa ed è questa. L'anno scorso mi
sono lasciato cogliere un po' impreparato, ma non succederà di nuovo. Non
deve succedere di nuovo, perché quest'anno la signorina Eastlake sarà molto meno partecipe. Per fortuna i Cani Cattivi sono degli habitué, una quantità nota, e lo stesso vale per i Baumgarten. I Baumgarten mi piacciono.
Due rampolli.»
«Femmine?» chiesi pensando al pregiudizio di Elizabeth sulle figlie e
Duma.
«No, maschi entrambi, che dovrebbero portare tutti e due stampato sulla
fronte NOI SIAMO INVIDIABILI MA NON ABBIATEVENE. Le persone che verranno ad abitare le altre quattro case sono tutte nuove. Posso solo sperare che fra loro non ci sia qualche fracassone di quelli secondo cui
una vacanza vuol dire far casino giorno e notte dall'inizio alla fine, ma
quante probabilità ho?»
«Non molte, ma puoi almeno sperare che lascino a casa i loro CD degli
Slipknot.»
«Chi sono gli Slipknot? Cosa sono gli Slipknot?»
«Wireman, meglio che tu non lo sappia. Specialmente ora che stai cominciando a entrare in tensione.»
«Ti sbagli. Wireman ti sta solo spiegando com'è il febbraio a Duma Key,
muchacho. Mi dovrò occupare di tutto io, dalle richieste mediche su che
cosa fare se uno dei piccoli Baumgarten viene urticato da una medusa a
dove Rita Cane Cattivo può trovare un ventilatore per sua nonna, che probabilmente anche quest'anno imbucheranno per una settimana nella stanzetta in fondo. La signorina Eastlake ti è sembrata vecchia? Ho visto trasportare per le strade di Guadalajara nel Giorno dei Morti certe mummie
messicane che avevano un aspetto più vivace di quello di nonna Cane Cattivo. La sua conversazione si riassume in due frasi. C'è quella interrogativa: 'Mi hai portato un biscotto?' e c'è quella assertiva: 'Portami una salviettina, Rita, credo che nell'ultima scoreggia ci fosse dentro un tocco'.»
Scoppiai a ridere.
Wireman grattò le conchiglie con il tallone della scarpa disegnando un
sorriso. Le nostre ombre si allungavano alle nostre spalle in Duma Key
Road, che era asfaltata e liscia e uniforme. In quel punto. Più a sud era
un'altra storia. «La risposta al problema del ventilatore, se ti interessa, è il
Centro Freschezza di Dan. Gran bel nome, no? E ti confiderò un segreto:
mi piace davvero risolvere questi problemi. Sciogliere i piccoli nodi. Faccio la felicità di molte più persone qui a Duma Key di quando lavoravo in
tribunale.»
Ma non hai perso l'abilità di distogliere le persone dalle questioni di cui
non vuoi discutere, riflettei. «Wireman, non ci vuole più di mezz'ora per
esaminarti gli occhi e darti un colpetto al cranio...»
«Ti sbagli, muchacho», obiettò lui, paziente. «In questo periodo dell'anno ci vogliono minimo due ore anche solo per farsi guardare la gola infiammata nel più pidocchioso degli ambulatori. Se ci aggiungi un'ora di vi-
aggio - anche di più adesso, perché è la stagione dei villeggianti e nessuno
di loro sa dove andare - stiamo parlando di tre ore diurne a cui io proprio
non posso rinunciare. Non con l'appuntamento con il tizio dell'aria condizionata al diciassette... quello che viene a leggere il contatore del ventisette... quello della televisione via cavo qui, dato e non concesso che si presenti.» Indicò la casa più avanti che era il numero 39. «Quella la prendono
dei giovani di Toledo fino al quindici marzo e pagano settecento dollari
extra per una cosa che si chiama Wi-Fi, che non so nemmeno cos'è.»
«L'onda del futuro, ecco cos'è. Io ce l'ho. Ci ha pensato Jack. L'onda del
futuro che stupra i padri e accoltella le madri.»
«Buona questa. Arlo Guthrie, millenovecentosessantasette.»
«Il film era del millenovecentosessantanove, credo.»
«Quale che sia, viva l'onda del futuro stupramadri e infilzarane. Non
cambia il fatto che sono più indaffarato di un uomo con una gamba sola in
una gara di calcinculo... e poi, dai, Edgar. Sai benissimo anche tu che non
è solo un colpetto e un'occhiatina nella pupilla con la minitorcia. Quello è
solo l'inizio.»
«Ma se ne hai bisogno...»
«Al momento mi basto come sono.»
«Certo, è per questo che sono io quello che le legge le poesie tutti i pomeriggi.»
«Un po' di cultura letteraria non ti farà male, fottuto cannibale.»
«So che non mi farà male e tu sai che non è di questo che sto parlando.»
Pensai, non per la prima volta, che Wireman era uno dei pochi uomini che
avevo conosciuto nella mia vita da adulto in grado di dirmi costantemente
di no senza farmi arrabbiare. Era il genio del no. Alle volte pensavo che
fosse lui; alle volte pensavo che l'incidente avesse cambiato qualcosa dentro di me; alle volte che fossero entrambe le cose insieme.
«Posso leggere, sai?» riprese. «A piccole dosi. Quanto basta per tirare
avanti. Le etichette sui medicinali, numeri di telefono, cose così. E mi farò
visitare, perciò rimetti in valigia questa tua incontenibile frenesia di raddrizzare tutte le storture del mondo. Gesù, devi aver fatto ammattire tua
moglie.» Mi lanciò un'occhiata. «Ops. Non è che Wireman ha pestato
qualche callo?»
«Sei pronto a parlare di quella piccola cicatrice rotonda che hai sulla testa? Muchacho?»
Fece un sorriso sornione. «Touché, touché. Le mie più profonde scuse.»
«Kurt Cobain», dissi. «Millenovecentonovantatré. O giù di lì.»
Sbatté le palpebre. «Davvero? Io avrei detto millenovecentonovantacinque, ma la musica rock mi ha lasciato parecchio indietro. Wireman è invecchiato, triste ma vero. Quanto alle convulsioni... spiacente, Edgar, ma
proprio non ci credo.»
Non era vero, però. Glielo leggevo negli occhi. Ma prima che potessi aprire bocca, scese dalla transenna e indicò a nord. «Guarda! Furgone bianco! Credo che siano arrivate le Forze della TV via cavo!»
2
Credetti a Wireman quando mi disse che non sapeva di che cosa stesse
parlando Elizabeth Eastlake dopo che gli ebbi fatto ascoltare la registrazione della mia segreteria telefonica. Restava dell'opinione che le sue preoccupazioni verso mia figlia avessero qualcosa a che vedere con le proprie
sorelle decedute molto tempo prima. Dichiarava di brancolare nel buio sul
motivo per cui non voleva che accumulassi i miei dipinti sull'isola. Su questo, disse, non aveva appigli a cui aggrapparsi.
Joe e Rita Cani Cattivi si insediarono; ebbe inizio l'abbaiare incessante
della loro muta. Arrivarono anche i Baumgarten e io mi ritrovai a incrociare sempre più spesso i loro ragazzi che giocavano con il frisbee in spiaggia. Erano come me li aveva descritti Wireman: atletici, belli e educati,
uno sugli undici anni e l'altro sui tredici, con un fisico che presto avrebbe
alimentato i risolini maliziosi della squadra delle pompon della loro scuola, se già non era successo. Quando passavo zoppicando, erano sempre
pronti a scambiare due o tre tiri del loro frisbee con me e il più grande,
Jeff, di solito trovava qualcosa di incoraggiante da dirmi, come: «Yo, signor Freemantle, bel colpo!»
Davanti alla casa subito a sud di Big Pink vennero a parcheggiarsi un
paio di vetture sportive e verso l'ora del cocktail cominciai a essere avvolto
dalle snervanti note di Toby Keith. Tutto sommato avrei preferito gli Slipknot. I quattro giovani di Toledo avevano un golf-cart con cui scorrazzavano per la spiaggia quando non giocavano a pallavolo o non erano in mare per qualche battuta di pesca.
Wireman era più che preso, era sommerso. Per fortuna aveva chi gli dava una mano. Un giorno fu Jack ad aiutarlo a pulire gli ugelli degli sprinkler nel prato dei Cani Cattivi. Uno o due giorni dopo fui io ad aiutarlo a
spingere il golf-cart dei visitatori di Toledo fuori dalla duna in cui si era
insabbiato: i responsabili se n'erano andati a comprare della birra e la ma-
rea minacciava di portarselo via. Io avevo ancora un'anca e una gamba
convalescenti, ma il braccio che mi era rimasto non aveva niente che non
andava.
Che mi facessero male o no anca e gamba, non avevo rinunciato alle mie
Grandi Camminate in Spiaggia. C'erano giorni, soprattutto quando nel tardo pomeriggio saliva la nebbia, cancellando prima il Golfo in una gelida
amnesia e portandosi poi via anche le case, in cui prendevo antidolorifici
dalla mia scorta che si andava esaurendo. Ma il più delle volte non ne avevo bisogno. Molto raramente durante il mese di febbraio Wireman parcheggiava la sua sedia in spiaggia dove sorseggiare il suo tè verde, ma Elizabeth Eastlake era sempre nel suo salotto, quasi sempre sapeva chi ero e
di solito aveva un libro di poesie a portata di mano. Non era sempre l'antologia di Keillor, ma quello era senz'altro il libro che le piaceva di più. Piaceva anche a me. Merwyn e Sexton e Frost, nientemeno.
Lessi molto anch'io in febbraio e marzo. Lessi più di quanto avessi fatto
in anni, romanzi, racconti, tre lunghi saggi su come eravamo andati a infognarci nel pasticcio iracheno (la risposta breve era un dick che spunta da
un bush). Ma ciò che feci soprattutto fu dipingere. Tutti i pomeriggi e le
sere dipingevo finché stentavo a sollevare il braccio. Paesaggi marini,
spiagge, nature morte e tramonti, tramonti, tramonti.
Ma quella miccia continuava a consumarsi. La fiamma era stata abbassata ma non spenta. La questione di Candy Brown non fu il fatto seguente, fu
solo l'ovvio fatto seguente. E non bisogna arrivare alla festa di San Valentino. Un'ironia crudele, a ben pensarci.
Crudele.
3
ifsogirl88 a EFree19
10.19
3 febbraio
Caro papà, non sai che gioia sapere che i tuoi dipinti sono piaciuti! Hurrà! ☺
E se davvero ti offriranno di fare una mostra, prendo il primo aereo e sarò lì nel mio "vestitino nero" (ne ho uno, che tu ci creda o
no).
È un periodo in cui devo sgobbare come una matta perché - ecco
il segreto - spero di fare una bella sorpresa a Carson quando ci saranno le vacanze di primavera verso aprile. I Colibrì saranno nel
Tennessee e nell'Arkansas (dice che la tournée è partita alla grande).
Sto meditando di raggiungerli o a Memphis o a Little Rock se
prima avrò fatto bene agli esami di fine semestre.
Che cosa ne dici?
Ilse
Le mie riserve sul Colibrì Battista non erano sbiadite e quello che pensavo io era che era in cerca di guai. Ma se si sbagliava su di lui forse sarebbe stato meglio che lo scoprisse al più presto. Così, sperando con tutto
il cuore di non essere io a sbagliarmi, le risposi che l'idea mi sembrava interessante, se naturalmente non avesse compromesso il suo piano di studi.
(Non trovai la forza di sprecarmi fino al punto di dire alla mia amata figlia
minore che trascorrere una settimana in compagnia del suo ragazzo, anche
se detto ragazzo fosse stato guardato a vista da una squadra di rigorosi battisti, fosse una buona idea.) Aggiunsi anche che non ritenevo fosse una
buona politica mettere sua madre al corrente dei suoi progetti. Questo mi
fruttò una pronta risposta.
ifsogirl88 a EFree19
12.02
3 febbraio
Paparino carissimo: ma credi che mi abbia dato di volta il CERVELLO???
Illy
No, non lo pensavo affatto... ma se, arrivando a Little Rock, avesse sorpreso il suo tenore occupato in un duetto orizzontale con il contralto, sarebbe stata una If-So-Girl molto infelice. Non avevo dubbi che allora sarebbe saltato fuori tutto con sua madre, il fidanzamento e il resto, e Pam
avrebbe trovato molto da ridire sull'argomento della mia sanità mentale. Al
riguardo mi ero già posto alcuni interrogativi del mio e nella maggior parte
dei casi avevo deciso di soprassedere. Quando si tratta dei propri figli, ci si
ritrova di tanto in tanto a prendere iniziative singolari affidandosi alla speranza che si risolvano per il meglio: iniziative e figli. Il mestiere di genito-
re è il paradigma di «accennami un paio di battute che io m'invento qualcosa».
Poi fu la volta di Sandy Smith, l'immobiliarista. Nel messaggio che mi
aveva lasciato in segreteria, Elizabeth aveva detto che dovevo essere una
di quelle persone che credono nell'arte in quanto arte, altrimenti Duma Key
non mi avrebbe chiamato. Ciò che desideravo da Sandy era la conferma
che l'unica cosa che mi aveva chiamato era stato un dépliant patinato, di
quelli che probabilmente erano stati mostrati a potenziali clienti con tasche
ben fornite in ogni angolo degli Stati Uniti. Forse del mondo intero.
La risposta che ebbi non fu quella che speravo, ma mentirei se dicessi
che mi colse totalmente alla sprovvista. Del resto quello era il mio anno di
memoria acciaccata. E poi c'è il desiderio di credere che le cose siano andate in una certa maniera. Quando attingiamo al passato le nostre scelte
sono prevenute.
SmithRealty9505 a EFree19
14.17
8 febbraio
Caro Edgar, sono felice che il posto ti piaccia.
In risposta al tuo quesito, ti avevo mandato il dépliant di Salmon
Point con altri otto di diverse offerte in affitto in Florida e Giamaica.
Per quel che ricordo, Salmon Point è stato il solo per cui hai manifestato interesse.
Anzi, ricordo che mi hai detto: "Non perdere tempo a trattare sul
prezzo, prendilo e basta".
Spero ti sia d'aiuto.
Sandy
Lessi il suo messaggio due volte, poi mormorai: «Fai l'accordo e lascia
che l'accordo faccia te, muchacha».
Neppure ora ricordo gli altri dépliant, ma ricordavo quello di Salmon
Point. Era di un vivo color rosa. Un grosso rosa, potremmo dire, e le parole che mi avevano colpito non erano state SALMON POINT ma quelle subito sotto, a sbalzo in oro: IL VOSTRO RIFUGIO SEGRETO SUL GOLFO. Dunque forse mi aveva chiamato.
Alla fine, forse sì.
4
KamenDoc a EFree 19
13.46
10 febbraio
Edgar, lungo tempo no sentire, come disse l'indiano al figliol prodigo (ti prego di perdonarmi, le pessime battute sono le sole che
conosco).
Come va l'arte? Quanto alla RM, ti suggerisco di chiamare il centro di studi neurologici al Sarasota Memorial Hospital. Il numero
è 941-555-55554.
Kamen
EFree 19 a KamenDoc
14.19
10 febbraio
Kamen, grazie della segnalazione. Una cosa che si chiama centro
per gli studi neurologici fa un po' paura! Ma prenderò quanto
prima un appuntamento.
Edgar
KamenDoc a EFree19
16.55
10 febbraio
Quanto prima dovrebbe essere più prima che poi. Basta che tu
non soffra di convulsioni.
Kamen
Aveva allegato a basta che tu non soffra di convulsioni uno di quegli
emoticon che mettono a disposizione nella corrispondenza elettronica, scegliendone uno con una faccia rotonda che ride mostrando una bocca piena
di denti. Dopo aver visto Wireman agitarsi nell'oscurità del sedile posteriore del furgone con gli occhi puntati in direzioni diverse, a me una gran voglia di ridere non venne. Sapevo però che senza una bella catena e un gan-
cio da trattore non sarei riuscito a far visitare Wireman prima del 15 marzo, a meno che fosse colto da una crisi grave di grand mal. Ma naturalmente Wireman non era un problema di Xander Kamen. Non lo ero nemmeno io, tecnicamente, e trovavo affettuoso da parte sua che si interessasse
ancora alla mia salute. D'impulso cliccai sull'icona della risposta e scrissi:
EFree 19 a KamenDoc
17.05
10 febbraio
Kamen, niente convulsioni. Sto bene. Dipingo a tutto spiano. Ho
portato alcuni dei miei lavori a una galleria di Sarasota e uno dei
proprietari li ha guardati. Credo che abbia intenzione di offrirmi
una mostra. Se la fa e io accetto vorresti venire anche tu? Sarebbe
bello vedere un volto famigliare dalla terra della neve e del ghiaccio.
Edgar
Stavo per chiudere e andare a prepararmi un sandwich, ma fui preceduto
dalla campanella della posta in arrivo.
KamenDoc a EFree 19
17.09
10 febbraio
Dammi una data e sono lì.
Mentre spegnevo il computer sorridevo. E mi si erano anche velati un
po' gli occhi.
5
Il giorno dopo andai al Nokomis con Wireman a prendere un nuovo sifone per quelli del numero 17 (auto sportive; vomitevole musica country) e
dei graticci di plastica dal ferramenta per i Cani Cattivi. Wireman non aveva bisogno del mio aiuto e certamente non aveva bisogno di uno zoppo che
gli arrancava dietro in giro per negozi, ma era una giornataccia piovosa e
io avevo voglia di lasciare l'isola. Pranzammo all'Ophelia's e discutemmo
animatamente di musica rock, cosa che rese piacevole la nostra gita.
Quando tornai a casa la spia della mia segreteria telefonica lampeggiava.
Era Pam. «Chiamami», aveva detto riattaccando subito.
Ubbidii, ma prima - questa sa di ammissione di colpa e anche di vigliaccheria - entrai in Internet, scaricai lo StarTribune di Minneapolis di quel
giorno e cliccai su NECROLOGI. Feci scorrere velocemente i nomi e mi
assicurai che Thomas Riley non ci fosse, sapendo che non dimostrava nulla; era possibile che si fosse ucciso troppo tardi per essere citato nell'edizione del mattino.
Alle volte spegneva la suoneria per fare un sonnellino pomeridiano, nel
qual caso avrei trovato la segreteria telefonica e ottenuto un breve rinvio
della pena. Non quel pomeriggio. Era Pam in persona, tono blando ma non
caloroso: «Pronto?»
«Sono io, Pam. Mi avevi cercato.»
«Immagino che fossi fuori a prendere il sole», disse. «Qui nevica. Nevica e fa un freddo da congelarsi.»
Mi rilassai. Tom non era morto. Se Tom fosse morto, non ci staremmo
preparando a un piccolo battibecco estemporaneo.
«Per la verità fa freddo e piove anche qui da me», risposi.
«Bene. Spero che ti venga una bronchite. Questa mattina Tom Riley è
uscito da qui sbattendo la porta dopo avermi dato della stronza invadente e
aver fracassato un vaso scagliandolo per terra. Suppongo di dovermi felicitare che non l'abbia tirato a me.» Cominciò a piangere. Grugnì tirando su
con il naso, poi mi sorprese ridendo. Era riso amaro, il suo, ma anche imprevedibilmente divertito. «Quando pensi che si esaurirà la tua speciale abilità nel farmi piangere?»
«Dimmi cos'è successo, Panda.»
«E basta anche con quello. Chiamami di nuovo così e riappendo. Poi potrai chiamare Tom tu stesso e chiedere a lui cos'è successo. Probabilmente
è quello che dovrei farti fare. Ti starebbe bene.»
Io mi portai la mano alla testa e cominciai a massaggiarmi le tempie:
pollice nella fossetta di sinistra, indice e medio in quella di destra. È stupefacente che una mano sola possa includere tanti sogni e tanto dolore. Per
non parlare della capacità di generare un'indicibile quantità di cazzate, banali e fantasiose.
«Racconta, Pam. Per piacere. Ascolterò senza arrabbiarmi.»
«Ti sta passando? Dammi un secondo.» Udii il tonfo del ricevitore che
veniva posato, probabilmente su un mobile della cucina. Per un momento
ci fu il borbottio della televisione in lontananza. La spense e quando tornò,
disse: «Bene, ora posso sentirmi pensare». Si soffiò nuovamente il naso e
quando riprese a parlare era composta, nessuna traccia di pianto nella voce.
«Avevo chiesto a Myra di chiamarmi quando Tom fosse tornato a casa...
Myra Devorkian, quella che abita di fronte a lui. Le ho detto che ero preoccupata per il suo stato d'animo. Non c'era motivo di nasconderglielo,
giusto?»
«Sì.»
«E, pensa un po'? Myra mi dice che è preoccupata anche lei. Lei e Ben.
Dice che beveva troppo, tanto per cominciare, e che alle volte lo ha visto
andare in ufficio con la barba lunga. Però, prima di partire per la crociera,
ha detto che era su di giri. Incredibile quanto vedono i vicini di casa, anche
se non sono amici intimi. Ben e Myra non sapevano di... noi, naturalmente,
ma quant'è vero Iddio sapevano che Tom era stato depresso.»
Lo pensi tu che non lo sapessero, mi guardai bene dal dire.
«Comunque, per farla breve, l'ho invitato qui. Quando è entrato aveva
una certa espressione negli occhi... questo sguardo... come se pensasse che
forse avevo intenzione di... sai...»
«Riprendere da dove avevi lasciato», finii per lei.
«Sono io che racconto a te o tu a me?»
«Scusa.»
«Comunque hai ragione. Ovviamente hai ragione. Volevo invitarlo in
cucina a bere un caffè, ma non siamo mai andati oltre l'anticamera. Voleva
baciarmi.» Lo disse in un tono di orgoglio e sfida. «Gliel'ho concesso...
una volta... ma quando è risultato chiaro che voleva di più, l'ho respinto e
gli ho detto che avevo qualcosa da dirgli. Lui ha risposto che sapeva dalla
mia faccia che era qualcosa di brutto, ma che niente avrebbe potuto fargli
male quanto gli avevo fatto male quando gli avevo detto che non potevamo
vederci più. Tipicamente maschile. E poi dicono che siamo noi quelle che
sanno come scaricarvi addosso i sensi di colpa.
«Gli ho detto che solo perché non potevamo più avere una storia romantica, questo non significava che non gli volessi più bene. Poi gli ho detto
che alcune persone mi avevano riferito di suoi comportamenti strani, non
da lui, e che io ne avevo dedotto che non prendeva più le sue pillole e avevo cominciato a preoccuparmi. Gli ho detto che pensavo che avesse in
mente di uccidersi.»
S'interruppe per un momento, poi riprese.
«Prima che venisse non avevo avuto assolutamente intenzione di sbat-
terglielo in faccia in quel modo. Però è buffo... appena è entrato mi sono
sentita quasi sicura e quando mi ha baciato non ho avuto più dubbi. Le sue
labbra erano fredde. E secche. È stato come baciare un cadavere.»
«Ci scommetto», commentai e cercai di grattarmi il braccio destro.
«Gli si è indurita la faccia e dico letteralmente. È diventato come di gesso e quasi gli è scomparsa la bocca. Mi ha chiesto chi mi avesse messo in
testa un'idea come quella. Poi, prima che potessi rispondere, mi ha detto
che era una cazzata. Questa è la parola che ha usato e non è mai appartenuta al vocabolario di Tom Riley.»
Su questo aveva ragione. Al Tom che conoscevo io non sarebbe mai venuto in mente di usare una parola come quella.
«Non volevo fare nomi, certamente non il tuo perché avrebbe pensato
che ero matta e non quello di Illy, perché non sapevo che cosa avrebbe potuto dire a lei se...»
«Te l'ho già detto, Illy non ha niente a che fare con...»
«Sta' zitto. Ho quasi finito. Gli ho detto che le persone che mi avevano
riferito del suo comportamento strano non sapevano nemmeno delle pillole
che aveva cominciato a prendere dopo il secondo divorzio e che aveva
smesso in maggio. Lui le chiama le pillole che instupidiscono. Gli ho detto
che se pensava di tenere nascosto tutto quello che in lui non andava, si stava sbagliando. Che se avesse fatto qualcosa a se stesso, io avrei detto a sua
madre e a suo fratello che era un suicidio e questo avrebbe spezzato loro il
cuore. È stata un'idea tua, Edgar, e ha funzionato. Spero che tu ne sia fiero.
È stato a quel punto che ha rotto il vaso e mi ha dato della stronza invadente, capisci? Era bianco come un lenzuolo. Scommetto...» Deglutì. Sentii lo
schiocco della sua gola a distanza di tutti quei chilometri. «Scommetto che
aveva già programmato tutto fin nei minimi particolari.»
«Io non ne dubito», risposi. «Secondo te adesso che cosa farà?»
«Non so. Proprio non lo so.»
«Forse farei bene a chiamarlo.»
«Forse faresti bene a evitarlo. Scoprire che ci siamo sentiti potrebbe dargli l'ultima spinta.» Con un pizzico di malizia aggiunse: «Allora saresti tu
a perdere il sonno».
Era una possibilità che non avevo preso in considerazione, ma aveva ragione. In un certo senso Tom e Wireman si somigliavano: entrambi avevano bisogno di aiuto e io non riuscivo a darglielo. Mi sovvenne un vecchio
bon mot, forse a proposito e forse no: puoi dare a una puttana un'istruzione, ma non puoi costringerla a pensare. Forse Wireman sapeva chi l'aveva
detto. E quando.
«Allora, tu come facevi a sapere che aveva in mente di togliersi la vita?»
mi chiese. «Voglio che me lo dica e perdio me lo dirai prima che riattacchi. Io ho fatto la mia parte e adesso tu parli.»
Eccola, la domanda che non mi aveva posto prima. L'ultima volta era
troppo fissata su come avessi scoperto di lei e Tom. Bene, Wireman non
era il solo depositario di aforismi; anche mio padre se la cavava bene. Uno
dei suoi era: quando una bugia non è sufficiente, dovrai accontentarti della
verità.
«Dopo l'incidente ho preso a dipingere», dissi. «Questo lo sai.»
«E allora?»
Le riferii del disegno che avevo fatto di lei con Max di Palm Desert e
Tom Riley. Delle mie navigazioni in Internet nel mondo degli arti fantasma e fenomeni annessi. E di aver visto Tom Riley in cima alle scale di
quello che immaginavo di dover ormai definire il mio studio, con addosso
solo i calzoni del pigiama e privo di un occhio, sostituito da un grumo coagulato che gli riempiva l'orbita.
Quand'ebbi finito, ci fu un silenzio prolungato. Non lo disturbai. Alla fine, in un tono di voce nuovo pieno di cautela, disse: «Ci credi davvero,
Edgar? Anche solo in una piccola parte?»
«Wireman, quello che abita più giù sulla spiaggia...» Mi fermai, furioso
mio malgrado. E non perché mi mancasse qualche parola. O non proprio.
Stavo per dirle che il tizio che abitava in fondo alla spiaggia era un telepatico occasionale, perciò lui mi credeva?
«Cosa devi dirmi di quello che abita sulla spiaggia, Edgar?» La sua voce
era calma e dolce. Riconobbi quella che aveva durante il primo mese dopo
il mio incidente. Era la voce che riservava all'Edgar sbroccato.
«Niente», dissi. «Non importa.»
«Devi chiamare il dottor Kamen e dirgli di questa tua nuova idea», concluse lei. «L'idea che tu sia diventato un sensitivo. Non mandargli un'email, chiamalo. Per piacere.»
«Va bene, Pam.» Mi sentivo molto stanco. Per non dire anche frustrato e
incavolato.
«Va bene cosa?»
«Va bene, ti sento. Mi arrivi forte e chiara. Nessun malinteso. Muoia
l'infelice pensata. Io volevo solo salvare la vita a Tom Riley.»
A questo non aveva una risposta. E nessuna spiegazione razionale nemmeno per ciò che io avevo saputo in anticipo su Tom. Così chiudemmo la-
sciando la questione a mezz'aria. Il mio pensiero, mentre riattaccavo, fu:
Nessuna buona azione resta impunita.
Forse era quello che pensava anche lei.
6
Ero adirato e mi sentivo perso. Il brutto tempo, tetro e umido, non era
d'aiuto. Cercai di dipingere e non ci riuscii. Scesi a prendere uno dei miei
album da disegno e mi ritrovai ridotto a fare i ghirigori di quando ero al telefono nella mia altra vita: buffi pupazzi con grandi orecchie. Stavo per
buttar via l'album quando squillò il telefono. Era Wireman.
«Vieni oggi pomeriggio?» mi chiese.
«Certo.»
«Pensavo che forse con questa pioggia...»
«Avevo intenzione di venire piano piano in automobile. Non ho certo
voglia di starmene rintanato qui.»
«Bene. Solo scordati l'ora della poesia. È andata.»
«Grave?»
«Come non l'avevo mai vista. Sconnessa. In libera uscita. Confusa.»
Trasse un respiro profondo e lo soffiò nel microfono. Fu come sentire una
folata di vento. «Senti, Edgar, mi scoccia chiedertelo, ma potrei lasciarla
con te per un po'? Tre quarti d'ora al massimo. I Baumgarten hanno dei
problemi con la sauna, dev'essere quella dannata caldaia, e il tizio che viene a ripararla deve mostrarmi un interruttore generale o qualcosa del genere. E naturalmente ha bisogno che gli firmi la bolla dell'uscita.»
«Nessun problema.»
«Sei un vero amico. Ti bacerei, se non fosse per tutte quelle piaghe che
hai sulle labbra.»
«Mille vaffanculo, Wireman.»
«Sì, tutti mi adorano, è la mia maledizione.»
«Mi ha chiamato Pam. Ha parlato al mio amico Tom Riley.» Considerato quello che avevano combinato quei due assieme mi suonava un po' strano definire Tom un amico, ma pazienza. «Credo che abbia smontato le sue
velleità di suicida.»
«Meglio così. Allora perché questa voce plumbea?»
«Mi ha chiesto come facevo a saperlo.»
«Non come sapevi che faceva le porcherie con questo tizio, ma...»
«Come ho fatto a diagnosticare la sua depressione suicida da duemila-
cinquecento chilometri di distanza.»
«Ah! E tu cos'hai detto?»
«Non avendo a disposizione un bravo avvocato, mi sono ridotto alla verità.»
«E lei ha pensato che tu fossi poco loco.»
«No, Wireman, ha pensato che fossi muy loco.»
«È importante?»
«No. Ma ci rimuginerà sopra e credimi se ti dico che Pam è materiale da
squadra olimpica di rimuginamento. Adesso ho paura che la mia buona azione possa esplodere in faccia alla mia figlia più piccola.»
«Posto che tua moglie stia cercando qualcuno da incolpare.»
«È un'ipotesi fondata. La conosco.»
«Sarebbe una brutta cosa.»
«Sconvolgerebbe il mondo di Ilse più di quanto meriti. Fin da quando
sono nate per lei e Melinda Tom è stato come uno zio.»
«Allora dovrai convincere tua moglie che hai visto davvero quello che
hai visto e che tua figlia non c'entra niente.»
«Ma come faccio?»
«E se per esempio tu le dicessi qualcosa di lei che in nessun modo potresti sapere?»
«Wireman, tu sei pazzo! Non posso far succedere queste cose!»
«Come lo sai? Amigo, ora devo lasciarti, dal rumore ho idea che il pranzo della signorina Eastlake sia appena finito per terra. Ci vediamo più tardi?»
«Sì», dissi. Stavo per aggiungere un saluto, ma lui se n'era già andato.
Riattaccai domandandomi dove avessi messo i guanti da giardinaggio di
Pam, quelli con le scritte GIÙ LE e MANI. Forse con quelli il suggerimento di Wireman si sarebbe rivelato meno pazzesco di quel che mi sembrava.
Li cercai per tutta la casa senza trovarli. Forse li avevo gettati via dopo
aver finito Amici dispensatori, ma non mi ricordavo d'averlo fatto. Non me
lo ricordo nemmeno ora. So solo che non li ho mai più rivisti.
7
Quel pomeriggio la stanza che Wireman ed Elizabeth chiamavano il Salotto delle Porcellane era illuminata da una triste luce da inverno subtropicale. La pioggia era più intensa e batteva a scrosci su muri e finestre e si
era alzato un vento che faceva rumoreggiare le palme intorno a El Palacio
e correre ombre sulle pareti. Per la prima volta da quando mi recavo in
quella casa non trovai alcun criterio nelle figurine di porcellana sul lungo
tavolo. Non c'era nessun tableau, solo un ammasso di persone, animali e
edifici. Vicino alla scuola abbattuta giacevano fianco a fianco un unicorno
e uno di quegli omini con la faccia nera. Se quel giorno il plastico intendeva raccontare una storia, era quella di un cataclisma. Vicino all'edificio in
stile Tara c'era una scatola da biscotti Sweet Owen. Se Elizabeth l'avesse
richiesta, Wireman mi aveva spiegato il da farsi.
La signora era sulla sua sedia a rotelle, un po' accasciata su un fianco, a
contemplare distrattamente il soqquadro sul suo lungo tavolo, di solito così
ordinato. Indossava un vestito blu quasi intonato alle enormi Chuck Taylor
che aveva ai piedi. Piegata com'era su un lato, la scollatura a barchetta del
vestito pendeva di traverso lasciando intravedere la spallina di una sottoveste color avorio. Mi venne da chiedermi chi l'avesse vestita quella mattina,
se lei stessa o Wireman.
All'inizio fu del tutto normale, chiamandomi con il mio nome giusto e
informandosi sulla mia salute. Salutò Wireman quando uscì per recarsi dai
Baumgarten e gli chiese, per piacere, di portare cappello e ombrello. Fin lì
tutto bene. Ma quando un quarto d'ora dopo tornai dalla cucina con il suo
spuntino, c'era stato un cambiamento. Aveva gli occhi rivolti a un angolo e
la sentii mormorare: «Torna indietro, torna indietro, Tessie, tu non devi
stare qui. E fai andar via quello grosso».
Tessie. Conoscevo quel nome. Impiegai la mia tecnica di pensiero obliquo cercando delle associazioni e ne trovai una: un titolo di giornale con
scritto SCOMPARSE. Tessie era una delle gemelline sorelle di Elizabeth.
Me lo aveva detto Wireman. Lo avevo sentito dire che si riteneva che fossero annegate e una lama gelida mi si conficcò nel fianco come un coltello.
«Portami quella», disse indicandomi la scatola da biscotti e io l'accontentai. Lei si tolse di tasca una statuina avvolta in un fazzoletto. Tolse il
coperchio, mi lanciò un'occhiata in cui si fondevano insieme furbizia e
confusione in un modo che ti rendeva difficile guardarla e lasciò cadere la
statuina nella scatola. Fece un tonfo soffice. Armeggiò per rimettere il coperchio, spinse via la mia mano quando cercai di aiutarla, poi mi porse la
scatola.
«Sai cosa devi fare con questa?» mi chiese. «Eh... eh...» la vedevo sforzarsi. La parola era lì, ma continuava a sfuggirle. Prendendosi gioco di lei.
Avrei potuto dargliela io, ma ricordavo quanto mi infuriavo quando gli altri lo facevano con me, perciò attesi. «Lui ti ha detto che cosa farne?»
«Sì.»
«Allora che aspetti? Portala via!»
Portai la scatola di metallo al laghetto di fianco al campo da tennis. I pesci saltavano affiorando dall'acqua, eccitati dalla pioggia molto più di me.
Come mi aveva preannunciato Wireman, di fianco alla panchina c'era un
mucchietto di sassi. Ne gettai uno nell'acqua («Tu penserai che non ti senta, ma ha un udito finissimo», mi aveva detto Wireman), stando attento a
non ferire una delle carpe. Poi tornai a casa con la scatola e la statuetta. Ma
non andai nel Salotto delle Porcellane. Andai in cucina, sollevai il coperchio ed estrassi la statuina avvolta nel fazzoletto. Questa operazione non
era compresa nelle istruzioni ricevute da Wireman, ma ero curioso.
Era una donnina senza volto. Dove sarebbe dovuta trovarsi la faccia,
mancava una scaglia di porcellana.
«Chi c'è?» strillò Elizabeth facendomi trasalire. Per poco non mi lasciai
sfuggire di mano l'inquietante statuina, che sicuramente sarebbe finita in
mille pezzi sul pavimento di piastrelle.
«Sono io, Elizabeth», risposi a voce alta posando la statuina.
«Edmund? O Edgar, o come ti chiami?»
«Sì.» Tornai in salotto.
«Hai fatto?»
«Sì, signora, ho fatto.»
«Ho già mangiato la mia merenda?»
«Sì.»
«Bene.» Sospirò.
«Vuole nient'altro? Sono sicuro che potrei...»
«No, grazie, caro. Sono sicura che il treno sta per arrivare e sai che non
mi piace viaggiare a stomaco pieno. Finisco sempre in uno dei sedili di coda e con del cibo nello stomaco sono sicura che mi viene il mal di treno.
Hai visto la mia scatola dei biscotti?»
«Credo che sia in cucina. Devo portargliela?»
«Non in una giornataccia come questa», rispose. «Pensavo di fartela buttare nel laghetto, il laghetto andrebbe bene, ma ho cambiato idea. Non è
necessario in una giornata di pioggia. Non è nella natura della misericordia
d'essere costretta, sai? Scende come pioggia leggera.»
«Dal cielo», dissi io.
«Sì, sì.» Agitò la mano come se quella parte non contasse.
«Perché non mette a posto le statuine, Elizabeth? Oggi sono tutte mischiate.»
Rivolse uno sguardo al tavolo, poi alzò gli occhi alla finestra che in quel
momento era sferzata dalla pioggia spinta da un vento particolarmente forte. «Cazzo», disse. «Sono così confusa.» Poi, con un astio che in lei non
avrei mai sospettato: «Sono morti tutti e mi hanno mollato questo».
Ero l'ultima persona al mondo che avrebbe potuto scandalizzarsi della
sua improvvisa volgarità; la capivo fin troppo bene. Forse non è nella natura della misericordia d'essere costretta, ci sono milioni di noi che vivono e
muoiono con questa convinzione, ma... ci aspettano cose come questa. Già.
«Non avrebbe mai dovuto prendere quella cosa, ma non lo sapeva», disse Elizabeth.
«Quale cosa?»
«Quale cosa», ripeté lei e annuì. «Voglio il treno. Voglio andare via da
qui prima che arrivi quello grosso.»
Dopo quelle parole restammo in silenzio entrambi. Elizabeth chiuse gli
occhi e parve assopirsi sulla sua sedia a rotelle.
Per occupare il tempo, mi alzai dalla mia poltrona che non avrebbe sfigurato in un club inglese e mi avvicinai al plastico. Presi due bambini di
porcellana, un maschio e una femmina, li osservai, poi li misi da parte. Mi
grattai distrattamente il braccio che non c'era, esaminando il caos insensato
che avevo sotto gli occhi. Sul levigato piano di rovere dovevano esserci
almeno un centinaio di statuine. Forse duecento. Tra le altre c'era una donnina con in testa un antiquato copricapo, da mungitrice, mi parve, ma non
volevo nemmeno lei. La cuffietta che aveva in testa non era quella giusta e
poi era troppo giovane. Ne trovai un'altra con lunghi capelli dipinti ed era
migliore. I capelli erano un po' troppo lunghi e un po' troppo scuri, tuttavia...
No che non andava, perché Pam era stata al salone di bellezza, quello
noto anche come Fonte della Giovinezza per crisi di mezza età.
Mi rigirai la donnina di porcellana tra le dita, rimpiangendo di non avere
una casa in cui inserirla e un libro da darle da leggere.
Cercai di passarmela nella mano destra, un atto perfettamente naturale
perché la mia mano destra era al suo posto, me la sentivo, e la stamina
cadde sul tavolo con un tonfo sonoro. Non si ruppe, ma Elizabeth aprì gli
occhi. «Dick! Ho sentito il treno? Il fischio? Ha suonato?»
«Non ancora», la tranquillizzai. «Perché non dorme un po'?»
«Oh, la trovi sul pianerottolo del primo piano», rispose lei come se le
avessi domandato qualcos'altro e chiuse di nuovo gli occhi. «Chiamami
quando arriva il treno. Sono così stufa di questa stazione. E attento a quel-
lo grosso, quel ficchinculo potrebbe essere dovunque.»
«Starò attento», promisi. Il prurito al braccio destro era terrificante. Cercai nella tasca posteriore sperando di trovare il mio taccuino. Non c'era. Lo
avevo lasciato in cucina a Big Pink. Ma questo mi fece pensare alla cucina
del Palacio. Dove avevo lasciato la scatola degli Sweet Owen c'era un piccolo blocco per i messaggi. Tornai in fretta e furia a prenderlo, lo afferrai
tra i denti e tornai quasi correndo nel Salotto delle Porcellane, mentre già
mi sfilavo la biro dal taschino. Seduto nuovamente nella mia poltrona cominciai a disegnare la statuina mentre la pioggia frustava le finestre ed Elizabeth sonnecchiava con la bocca socchiusa e la testa appoggiata allo
schienale della sua sedia a rotelle dall'altra parte del tavolone. Le ombre
delle palme scosse dal vento volavano sulle pareti come pipistrelli.
Non mi ci volle molto e, mentre lavoravo, mi resi conto di una cosa: facevo defluire il prurito dalla punta della penna, rovesciandolo sulla pagina.
La donna del mio disegno era la statuina di porcellana, ma era anche Pam.
La donna era Pam, ma era anche la statuina di porcellana. Aveva i capelli
più lunghi di come li ricordavo dall'ultima volta che l'avevo vista e le si
posavano sciolti sulle spalle. Era seduta su una
(CANNA, ZANNA)
una scranna. Che tipo di scranna? Una sedia a dondolo. Quando me n'ero
andato, nella nostra casa non ce n'erano, ma adesso ce n'era una. Sul tavolo
di fianco a lei c'era qualcosa. Lì per lì non capii cosa potesse essere, ma
emerse dalla punta della penna e diventò una scatola con una scritta sul
coperchio. SWEET OWEN? C'era scritto SWEET OWEN? No, c'era scritto GRANMA'S. La mia penna a sfera aggiunse qualcosa sul tavolo accanto
alla scatola. Un biscotto d'avena. I preferiti di Pam. Mentre la guardavo, la
penna disegnò un libro in mano a Pam. Non riuscivo a leggerne il titolo
perché l'angolazione era sbagliata. Intanto la mia penna aggiungeva linee
tra la finestra e i suoi piedi. Aveva detto che nevicava, ma ora la neve era
passata. Le righe volevano essere raggi solari.
Pensai che il disegno fosse finito, invece c'era ancora qualcosa. La mia
penna si spostò sul margine del foglio e aggiunse il televisore, pochi colpi
veloci come lampi. Un televisore nuovo, schermo piatto come quello di Elizabeth. E sotto di esso...
La penna finì e cadde. Il prurito non c'era più. Avevo le dita rigide.
Dall'altra parte del plastico, il torpore di Elizabeth si era trasformato in
sonno autentico. Un tempo poteva essere stata giovane e bella. Un tempo
poteva essere stata il sogno di qualche giovanotto. Ora russava con la boc-
ca quasi sdentata rivolta al soffitto. Se un Dio c'è, credo che dovrebbe metterci un po' più di buona volontà.
8
C'era un telefono in cucina ma ne avevo visto uno anche in biblioteca e
la biblioteca era più vicina al salotto. Decisi che né Wireman né Elizabeth
mi avrebbero lesinato un'interurbana nel Minnesota. Sollevai il ricevitore,
poi esitai tenendomelo appoggiato al petto. Sulla parete accanto all'armatura, messa in risalto da alcuni faretti sapientemente orientati, c'era una collezione di armi antiche: un fucile a canna lunga ad avancarica che poteva
essere dei tempi della Rivoluzione, una pistola a pietra focaia, una derringer forse pescata dallo stivale di qualche squalo dei tavoli da gioco di un
battello fluviale, una carabina Winchester. Al di sopra della carabina era
montato l'aggeggio che Elizabeth aveva in grembo il giorno in cui io e Ilse
l'avevamo vista passando in macchina. Su entrambi i lati, a disegnare una
V rovesciata, c'erano quattro proiettili. Non si sarebbero potuti definire
frecce, perché erano troppo corti. Erano dardi di piccole dimensioni e forse
la parola giusta era arpioni. Le punte erano molto lucide e sembravano alquanto affilate.
C'è da fare parecchio male con un aggeggio come quello, pensai. E poi
pensai: Mio padre era un nuotatore subacqueo.
Lo scacciai dalla mia mente e chiamai il numero che una volta era quello
di casa mia.
9
«Salve, Pam, sono di nuovo io.»
«Edgar, non voglio parlare più con te. Abbiamo finito quello che avevamo da dirci.»
«Non del tutto. Ma sarà una cosa breve. Devo badare a una signora anziana. In questo momento sta dormendo, ma non mi piace lasciarla sola
troppo a lungo.»
Pam, curiosa suo malgrado: «Che anziana signora?»
«Si chiama Elizabeth Eastlake. È una signora ultraottantenne con Alzheimer in stadio avanzato. La persona che normalmente si occupa di lei si
è dovuta assentare per risolvere un problema elettrico nella sauna di un'altra casa e io la sostituisco.»
«Vuoi una stella d'oro da incollare sulla pagina di Aiutare gli Altri del
tuo quaderno?»
«No, ti ho chiamato per convincerti che non sono pazzo.» Avevo con me
il mio disegno. Ora m'incastrai il ricevitore tra spalla e orecchio per poterlo
prendere.
«Perché darti tanta pena?»
«Perché tu ti sei messa in testa che tutto questo ha avuto origine da Ilse e
non è così.»
«Mio Dio, ma sei incredibile! Se chiamasse da Santa Fé per dire che le
si è strappato il laccio di una scarpa, prenderesti un aereo per correre a portargliene uno nuovo!»
«Inoltre non mi piace che tu pensi che io sia quaggiù a diventare pazzo
quando non è così. Allora, mi vuoi ascoltare?»
Solo silenzio all'altro capo del filo, ma non chiedevo di più. Stava ascoltando.
«Sei uscita dalla doccia da dieci, forse quindici minuti. Lo penso perché
hai i capelli sciolti. Immagino che continui a essere contraria all'asciugacapelli.»
«Come...»
«Non so come. Quando ti ho chiamato eri seduta su una sedia a dondolo.
Devi averla presa dopo il divorzio. Leggevi un libro e mangiavi un biscotto. Era un biscotto d'avena Grandma's. Ora c'è il sole e i raggi entrano dalla
finestra. Hai un televisore nuovo, di quelli a schermo piatto.» Feci una
pausa. «E un gatto. Ti sei presa un gatto. Dorme sotto il televisore.»
Silenzio assoluto dal telefono. Da me soffiava il vento e la pioggia
schiaffeggiava le finestre. Stavo per domandarle se era ancora lì quando
parlò di nuovo, con una voce sorda che non sembrava affatto la sua. Credevo che avesse finito di spezzarmi il cuore, ma mi sbagliavo. «Smettila di
spiarmi. Se mai mi hai voluto bene... smettila di spiarmi.»
«Allora tu smettila di incolparmi», risposi con la voce roca ma non
completamente rotta. All'improvviso ricordai Ilse che si preparava a tornare alla Brown, Ilse davanti al terminal della Delta sotto il cocente sole tropicale. Mi aveva guardato negli occhi e aveva detto: Tu meriti di guarire.
Alle volte mi viene da chiedermi se ne sei convinto anche tu. «Quello che
mi è successo non è colpa mia. L'incidente non è stato colpa mia e nemmeno questo. Non l'ho chiesto io.»
«Perché secondo te sarebbe colpa mia?» strillò lei.
Chiusi gli occhi pregando che qualcosa, qualsiasi cosa, mi trattenesse dal
restituire collera per collera. «No, certo che no.»
«Allora lasciamene fuori! Non chiamarmi più! Smettila di SPAVENTARMI!»
Riattaccò. Io restai com'ero, con il ricevitore contro l'orecchio. Ci fu silenzio, poi uno scatto più forte. Lo seguì il tipico ronzio distorto di Duma
Key. Quel giorno sembrava più subacqueo del solito. Forse era per via della pioggia. Riappesi il ricevitore e mi soffermai a contemplare l'armatura.
«Direi che è andata piuttosto bene, Sir Lancillotto», dissi.
Nessuna risposta, che era probabilmente ciò che meritavo.
10
Attraversai il corridoio principale con le sue file di piante e feci capolino
nel Salotto delle Porcellane. Vidi che Elizabeth dormiva ancora e nella
stessa scomoda posizione con il capo ripiegato su un lato. Il suo russare,
che poco prima avevo trovato patetico nella sua nuda vecchiezza, mi era
ora addirittura di conforto; altrimenti sarebbe stato fin troppo facile immaginarla seduta morta con il collo spezzato. Mi chiesi se dovessi svegliarla e
decisi di lasciarla dormire. Poi guardai a destra, verso la scala principale, e
pensai a quello che mi aveva detto: Oh, la trovi sul pianerottolo del primo
piano.
Troverò cosa?
Era stata probabilmente una delle sue numerose farneticazioni, ma non
avendo di meglio da fare m'incamminai per il corridoio sotto il soffitto di
vetro picchiettato dalla pioggia e salii l'ampia scalinata. Mi fermai a cinque
gradini dal pianerottolo, con lo sguardo fisso davanti a me, poi lentamente
arrivai in cima. Sì, qualcosa c'era: un'enorme fotografia in bianco e nero in
una sottile cornice dorata. Chiesi più tardi a Wireman come fosse possibile
che una foto in bianco e nero degli anni Venti potesse essere stata ingrandita fino a quel punto - stiamo parlando di un metro e mezzo di altezza per
più di un metro in larghezza - conservando una grana così compatta. Mi rispose che probabilmente era stata scattata con una Hasselblad, la miglior
fotocamera non digitale mai costruita al mondo.
C'erano otto persone nella fotografia, sulla sabbia bianca e con il Golfo
del Messico alle spalle. L'uomo era alto e di bell'aspetto, sui quarantacinque anni d'età. Indossava un costume da bagno nero che consisteva in una
canottiera e un paio di calzoncini simili alle mutande attillate che indossano ai giorni nostri i giocatori di basket. Schierate dall'una e dall'altra parte
c'erano cinque ragazze di età variabile, da un'adolescente sbocciata, a due
bambine identiche con i capelli color stoppa che mi fecero pensare ai Gemelli Bobbsey delle mie prime avventure da lettore. Le gemelle indossavano vestitini da bagno identici con la gonnellina a gale e si tenevano per
mano. Nella mano libera stringevano ciascuna una bambola Raggedy Ann,
con il grembiulino e le gambe penzoloni, e io subito pensai a Reba... i capelli di filaccia sopra il sorriso ebete erano sicuramente ROSSI. Nel braccio ripiegato l'uomo - John Eastlake, ne ero più che certo - reggeva la bimba numero sei che sarebbe diventata la vecchietta che russava sotto di me.
Dietro la famiglia di bianchi c'era una giovane donna di colore, poco più
che ventenne, con i capelli raccolti in un foulard. Reggeva una cesta da
picnic e, a giudicare dalla tensione nei muscoli tutt'altro che inconsistenti
delle sue braccia, era pesante. Tre cerchietti d'argento le ornavano un avambraccio.
Elizabeth sorrideva e protendeva le manine cicciottelle verso la persona
che stava scattando quel ritratto di famiglia. Nessun altro sorrideva, sebbene un fantasma di sorriso aleggiasse forse negli angoli della bocca
dell'uomo; aveva i baffi, perciò era difficile accertarlo. La giovane tata nera era decisamente incupita.
Nella mano non occupata a sostenere la bambina, John Eastlake aveva
due oggetti. Uno era una maschera da sub. L'altra era la pistola che avevo
visto montata con le altre armi sulla parete della biblioteca. La domanda,
mi sembrava, era se un barlume di mente razionale fosse emerso dalla
nebbia che aveva invaso la testa di Elizabeth per il tempo sufficiente a
spedirmi lassù.
Prima di poter riflettere più a fondo, sotto di me si aprì la porta d'ingresso. «Sono tornato!» annunciò Wireman. «Missione compiuta! Ora, chi
vuole qualcosa da bere?»
Come fare un disegno (V)
Non aver paura di sperimentare; trova la tua musa e lasciati guidare da
lei. Con il crescere del suo talento, la musa di Elizabeth diventò Noveen,
la speciale bambola parlante. O così pensava lei. E quando giunse il momento in cui scoprì il suo errore, quando ormai la voce di Noveen era
cambiata, era troppo tardi. Ma all'inizio dev'essere stato meraviglioso.
Trovare la propria musa lo è sempre. La torta, per esempio.
Falla finire per terra, dice Noveen. Falla finire per terra, Libbit.
E siccome lo può fare, lo fa. Disegna la torta di Tata Melda sul pavimento. Spappolata sul pavimento! Ha! E Tata Melda lì a guardarla con le
mani sui fianchi, disgustata.
Ed Elizabeth ha provato vergogna quando è successo? Vergogna e un
po' di paura? Io credo di sì.
Io so di sì. Per i bambini di solito la cattiveria è divertente solo quando
è immaginata.
C'erano però altri giochi. Altri esperimenti. E alla fine, nel '27...
In Florida tutti gli uragani fuori stagione si chiamano Alice. È una specie di gioco. Ma quello che sopraggiunse dal Golfo con furia assordante
nel marzo di quell'anno si sarebbe dovuto chiamare Uragano Elizabeth.
La bambola bisbigliò con una voce che deve essere stata simile al frusciare del vento nelle palme di notte. O alla marea che si ritira macinando
le conchiglie sotto Big Pink. Bisbigliò alla piccola Libbit attardata sulla
soglia del sonno. Le disse quanto sarebbe stato divertente disegnare una
tempesta. E dell'altro ancora.
Noveen dice: Ci sono cose segrete. Tesori sepolti che una tempesta scoprirà. Cose che papà sarebbe contento di trovare e guardare.
E qui stava il trucco. Elizabeth non aveva una gran voglia di disegnare
una tempesta, ma far piacere a suo padre? Quell'idea era irresistibile.
Perché quell'anno papà era rabbioso. Ce l'aveva con Adie, che non voleva tornare a scuola dopo il suo giro in Europa. Adie non aveva voglia di
conoscere le persone giuste o andare ai giusti balli delle debuttanti. Era
cotta del suo Emery... che non era affatto Quello Giusto, dal punto di vista
di papà.
Papà dice: Non è della nostra classe, è un: Colletto di Celluloide, e Adie
dice È della mia classe e può portare il colletto che gli pare, e papà s'infuria.
C'erano litigi terribili. Daddy infuriato con Adie e viceversa. Hannah e
Maria infuriate con Adie perché aveva un ragazzo bello che era insieme
più grande di lei e a lei inferiore. E le gemelle erano spaventate da tutta
quella furia. Anche Libbit era impaurita. Tata Melda dichiarava in continuazione che se non fosse stato per Tessie e Lo-Lo, già da un pezzo sarebbe ritornata dalla sua gente a Jacksonville.
Tutte queste cose Elizabeth le disegnò, perciò io le vidi.
Alla fine il bollore fece saltare il coperchio. Adie e il suo Giovane Inadatto fuggirono ad Atlanta, dove a Emery era stato promesso un posto
nell'ufficio di un rivale in affari. Papà era fuori di sé. Le Grandi Cattive,
di ritorno a casa dalla Braden School per il fine settimana, lo sentirono
parlare al telefono del suo studio e dire a qualcuno che avrebbe fatto riportare indietro Emery Paulson e lo avrebbe frustato fino al penultimo respiro. Tutti e due, li avrebbe fatti frustare!
Poi dice: No, che Dio m'assista. Sia come sia. Si è fatta il suo letto; ora
che ci dorma dentro.
Poi venne l'uragano. Alice.
Libbit lo sentì arrivare. Sentì il vento rinforzare e soffiare dai semplici
tratti a carboncino neri come la morte. L'entità della tempesta vera e propria, quando arrivò, con quella pioggia battente e il vento che strillava
come un treno in corsa, la spaventò da morire, come se avesse fischiato
per chiamare un cane e fosse arrivato un lupo.
Ma poi il vento cadde e tornò il sole e tutto ridiventò normale. Meglio
che normale, perché passato Alice, ci si dimenticò per qualche tempo di
Adie e del suo Giovane Inadatto. Elizabeth sentì persino papà canticchiare
mentre ripuliva il disastro davanti a casa con il signor Shannington: papà
guidava il piccolo trattore rosso e il signor Shannington gettava sul piccolo rimorchio fronde di palma fradice e rami spezzati.
La bambola bisbigliò, la musa raccontò la sua storia.
Elizabeth ascoltò e quel giorno stesso dipinse il punto davanti a Hag's
Rock, quello dove Noveen le aveva bisbigliato che era emerso il tesoro sepolto.
Libbit prega papà di andare a vedere, lo prega lo prega lo prega. Papà
dice NO, papà dice che è troppo stanco, che è troppo indolenzito per tutto
il lavoro che ha fatto in giardino.
Tata Melda dice: Una nuotata potrebbe farle bene, signor Eastlake.
Tata Melda dice: Porto da mangiare e le bambine piccole.
E poi Tata Melda dice: Sa come è ora. Se dice che là fuori c'è qualcosa,
allora forse...
Così scesero sulla spiaggia di Hag's Rock, papà nel costume da bagno
che non gli andava più ed Elizabeth e le gemelle e Tata Melda. Hannah e
Maria erano di nuovo a scuola e Adie... ma meglio non parlare di lei. Adie
è INGUAIATA. Tata Melda aveva portato la cesta rossa da picnic. Dentro
c'erano la colazione, i cappelli per proteggere le bambine dal sole, il materiale da disegno di Elizabeth, la pistola subacquea di papà e alcuni arpioni.
Papà calza le pinne e scende nel caldo fino alle ginocchia e dice: È
fredda! Speriamo che sia una cosa veloce, Libbit. Dimmi dov'è questo fa-
voloso tesoro.
Libbit dice: Te lo dico, ma tu mi prometti di dare a me la bambola di
porcellana?
Papà dice: Se c'è una bambola è tua, per diritto di salvataggio.
La musa lo vide e la bambina lo disegnò. Cosi è decretato il loro futuro.
9
Candy Brown
1
Due sere più tardi dipinsi la nave per la prima volta.
All'inizio intitolai il quadro Bambina e nave, poi Bambina e nave no. 1,
anche se in entrambi i casi non era il nome vero; il nome vero era Ilse e
nave no. 1. Fu più la serie della Nave che quanto successe a Candy Brown
a farmi prendere una decisione sulla mostra. Se Nannuzzi ci teneva, lo avrei accontentato. Non perché fossi a caccia di quella che Shakespeare definì la bubble reputation, una celebrità evanescente (questa la devo a Wireman), ma perché avevo capito infine che Elizabeth aveva ragione: era
meglio che non si accumulassero a Duma Key.
I dipinti della Nave erano buoni. Forse di valore. Certamente così mi
sentivo di poter affermare nel portarli a termine. Erano anche una medicina
potente e cattiva. Questo intuii fin dal primo, eseguito nelle ore piccole del
giorno di San Valentino. Durante l'ultima notte di vita di Tina Garibaldi.
2
Il sogno non fu propriamente un incubo, ma di una vividezza che va oltre la mia capacità di descriverla a parole, benché abbia catturato sulla tela
qualcosa delle sensazioni provate. Non tutto, ma in parte. Abbastanza, forse. Era il tramonto. In quel sogno e in tutti quelli che seguirono era sempre
il tramonto. Una vasta luce rossa riempiva l'occidente, salendo alta nel cielo, dove prima si stemperava nell'arancione e quindi in un verde irreale.
Nel Golfo c'era quasi calma piatta, solo le increspature più lievi e vetrose
ne attraversavano la superficie come una respirazione. Nel riverbero riflesso del tramonto, sembrava una gigantesca orbita piena di sangue.
Stagliato in quel bagliore da fornace c'era un relitto a tre alberi. Dagli
strappi e i buchi nelle vele marce e flaccide occhieggiava quella luce rosso
fuoco. A bordo non c'era nessuno vivo. Bastava guardare per saperlo. Lo
scafo era avvolto da un sudario di minaccia, come se avesse ospitato una
peste che aveva sterminato l'equipaggio, lasciando solo quel marcescente
cadavere di legno, canapa e tela. Ricordo d'aver avuto la sensazione che se
un gabbiano o un pellicano l'avesse sorvolato, sarebbe precipitato morto
sul ponte con le piume fumanti.
A una quarantina di metri galleggiava una barchetta a remi. Su di essa
c'era una bambina che mi volgeva le spalle. Aveva i capelli rossi, ma i capelli erano finti, non esiste bambina con capelli così, di filaccia, tutti aggrovigliati. A definirne l'identità era il vestito che indossava. Era tutto ricoperto di griglie del gioco del filetto e della frase VINCO IO, VINCI TU.
Ilse aveva un vestito così quando aveva cinque o sei anni... più o meno la
stessa età delle gemelle nel ritratto di famiglia che avevo visto sul pianerottolo del primo piano a El Palacio de Asesinos.
Cercai di urlare, di avvertirla di non avvicinarsi al relitto. Non potei. Ero
impotente. In ogni caso sembrava non importasse. Se ne stava seduta sulla
sua bella barchetta nel mite ondeggiare dell'acqua rossa a guardare la nave,
nel vestitino dei filetti di Illy.
Caddi dal letto e sul lato sbagliato. Gridai di dolore e mi girai sulla
schiena ascoltando le onde e il sommesso frusciare delle conchiglie sotto
la casa. Mi dicevano dove mi trovavo ma non mi erano di conforto. Vinco
io, dicevano. Vinco io, vinci tu. Vinci tu, vinco io. La pistola, vinco io. La
frutta, vinci tu. Vinco io, vinci tu.
Il braccio che non c'era bruciava. Se non avessi trovato un rimedio sarei
impazzito e c'era un solo sistema. Salii nel mio studio e dipinsi come un
matto per tre ore. Non avevo nessun modello sul tavolo, nessun soggetto
visibile dalla finestra. Ma non ne avevo bisogno. Avevo tutto nella testa. E
mentre lavoravo capii che a questo avevano mirato tutti i lavori precedenti.
Non la bambina in barca, necessariamente; la sua presenza era probabilmente solo un'attrattiva di corollario, un aggancio alla realtà. Il mio obiettivo era sempre stato la nave. La nave e il tramonto. Guardando indietro
trovavo il filo ironico di questa realtà: mai ci ero andato tanto vicino come
con Ciao, lo schizzo a matita che avevo fatto il giorno del mio arrivo.
3
Precipitai sul letto verso le tre e mezzo e dormii fino alle nove. Mi svegliai sentendomi riposato, ripulito, come nuovo. Il tempo era bello, un cie-
lo limpido e una temperatura mite come non avevamo da una settimana. I
Baumgarten si preparavano a ripartire, ma ebbi ancora il tempo per una vivace giocata a frisbee con i ragazzi. Poco dolore, molto appetito. Era bello
sentirsi di nuovo parte del genere umano, anche se solo per un'ora.
Il tempo si era rimesso al bello anche nella mente di Elizabeth. Le lessi
alcune poesie mentre riordinava le sue statuine. C'era anche Wireman, una
volta tanto in forma e di buonumore. Insomma, era una giornata ridente.
Solo in un secondo tempo mi venne da riflettere che George «Candy»
Brown potesse aver rapito la dodicenne Tina Garibaldi nello stesso momento in cui io leggevo a Elizabeth la poesia di Richard Wilbur che parla
del bucato. L'avevo scelta perché avevo letto per caso sul giornale che era
tra le preferite per il giorno di San Valentino. Destino vuole che il rapimento della Garibaldi fosse stato registrato. Avvenne alle 15.16 precise,
secondo quanto impresso sul nastro, e dunque doveva essere accaduto
pressoché nello stesso momento in cui io mi prendevo una pausa per bere
dal mio bicchiere di tè verde e dispiegavo il foglio con la poesia di Wilbur,
che avevo stampato scaricandola da Internet.
Sul retro del Crossroads Mall c'erano telecamere a circuito chiuso che
sorvegliavano la zona di carico. Per scongiurare i piccoli furti di merce,
immagino. In questo caso colsero il furto della vita di una bambina. Compare da destra verso sinistra, una bimba magra in jeans con uno zaino in
spalla. Aveva probabilmente intenzione di fare un salto al centro commerciale prima di tornare a casa. Sul nastro, ossessivamente mandato in onda
dalle emittenti TV, si vede lui sbucare da una rampa e prenderla per un
polso. Lei alza la testa e sembra chiedergli qualcosa. Brown annuisce e
s'incammina con lei. All'inizio lei non si oppone, ma poi, qualche istante
prima di scomparire dietro un cassonetto, cerca di liberarsi. Ma lui la tiene
ancora saldamente per il polso mentre scompaiono dietro il cassonetto e
fuori della visuale della telecamera. La uccise meno di sei ore dopo, secondo il patologo della contea, ma a giudicare dallo strazio del suo corpo,
quelle ore dovevano essere sembrate molto lunghe alla bambina, che non
aveva mai fatto male a nessuno. Dovevano esserle sembrate interminabili.
Fuori della finestra aperta/L'aria del mattino è inondata di angeli, scrive Richard Wilbur. Ma no, Richard. No.
Quelli erano solo lenzuoli.
4
I Baumgarten partirono. I cani dei Godfrey abbaiarono loro un addio.
Nell'abitazione dei Baumgarten entrò una squadra della Merry Maids per
una ripulita generale. I cani dei Godfrey abbaiarono loro salve (e poi addio). Il corpo di Tina Garibaldi fu rinvenuto in un fosso dietro il campo da
gioco della Little League al Wilk Park, nuda dalla vita in giù e scaricata
come un sacco d'immondizia. Channel 6 mandò in onda immagini della
madre urlante che si graffiava le guance. I Kintner sostituirono i Baumgarten. La truppa di Toledo lasciò il no. 39 e il loro posto fu preso da tre amabili signore anziane del Michigan. Le signore anziane erano sempre allegre
e non mancavano di gridare yu-hu quando vedevano passare me o Wireman. Non so se approfittassero o no del nuovo impianto Wi-Fi appena installato nella casa in cui abitavano, ma è un fatto che la prima volta che
andai a giocare a Scrabble con loro, mi offrirono il pranzo. Quando le signore anziane uscivano per la loro passeggiata pomeridiana i cani dei Godfrey abbaiavano instancabilmente. Un uomo che lavorava all'E-Z JetWash
di Sarasota chiamò la polizia e disse che l'uomo che era stato visto sul nastro registrato del rapimento di Tina Garibaldi somigliava molto a un suo
collega al lavaggio delle automobili, un certo George Brown che tutti conoscevano come Candy. Il pomeriggio del giorno di San Valentino Candy
Brown aveva lasciato il lavoro verso le 14.30, riferì costui, e non si era più
visto fino all'indomani mattina. Aveva sostenuto di essersi sentito poco
bene. L'E-Z JetWash era a un solo isolato dal Crossroads Mall. Due giorni
dopo San Valentino, entrando nella cucina del Palacio, trovai Wireman seduto al tavolo in preda alle convulsioni, con la testa rovesciata all'indietro.
Quando gli spasmi cessarono, mi disse di sentirsi bene. Quando gli risposi
che non aveva l'aspetto di una persona che sta bene, mi disse di tenere per
me le mie opinioni, sbottando in un tono brusco che non era da lui. Io alzai
tre dita e gli chiesi di dirmi quante erano. Tre, rispose lui. Gliene mostrai
due e disse due. Gliela lasciai passare, ancora una volta, non senza qualche
dubbio. In fondo nessuno mi aveva nominato suo curatore. Dipinsi Bambina e nave no. 2 e 3. Nel no. 2, la fanciulla in barca indossava il vestito blu
a pallini di Reba, ma io ero più che sicuro che fosse sempre Ilse. Nel no. 3
non c'era modo di sbagliarsi. I suoi capelli erano tornati al bel color pennacchio di mais che ricordavo da quei tempi, e indossava una blusa alla
marinara con il colletto ornato da uno svolazzo blu che avevo motivo di ricordare molto bene: era la stessa che indossava la domenica in cui era caduta dal melo dietro casa nostra e si era spezzata il braccio. Nel no. 3 la
nave aveva un'angolazione leggermente diversa, che mi permetteva di leg-
gere le prime tre lettere un po' sfaldate del suo nome sulla fiancata di prua:
PER. Non avevo idea di quale potesse essere il nome completo. Fu anche
il primo dipinto in cui compariva la pistola subacquea di John Eastlake.
Era posata carica su uno dei sedili della barca. Il 18 febbraio arrivò un amico di Jack a dare una mano con le riparazioni in alcune delle case cedute
in affitto. I cani dei Godfrey lo accolsero con un coro di latrati invitandolo
a fare un salto da loro in qualsiasi momento avesse avuto voglia di farsi
staccare un pezzo dei jeans alla moda che gli fasciavano il didietro. La polizia interrogò la moglie di Candy Brown (anche lei lo chiamava Candy,
tutti lo chiamavano Candy, probabilmente lui stesso aveva invitato Tina
Garibaldi a chiamarlo Candy prima di torturarla e ucciderla) sui movimenti
del marito il pomeriggio della festa di San Valentino. La moglie rispose
che forse non si era sentito bene, ma non era comunque accaduto a casa.
Quel giorno era rientrato solo alle otto di sera. Disse che le aveva comprato dei cioccolatini. Disse che era sempre stato avvezzo a carinerie di quel
tipo. Il 21 febbraio i patiti di musica country rimontarono sulle loro auto
sportive e a tempo di boot-scoot ritornarono nei climi settentrionali da cui
erano scesi. Nessuno prese il loro posto. Wireman disse che segnalava l'inversione della marea dei migratori. Disse che a Duma Key, dove non c'erano ristoranti e attrazioni turistiche (nemmeno un pidocchioso allevamento di alligatori!) il fenomeno avveniva sempre in anticipo. I cani dei Godfrey abbaiarono senza sosta, come a voler chiarire che se la marea dei vacanzieri invernali era forse cambiata, era ben lontana dall'essersi ritirata.
Lo stesso giorno in cui i patiti di boot-scoot lasciarono Duma, la polizia si
presentò all'abitazione di Candy Brown a Sarasota munita di mandato di
perquisizione. Secondo Channel 6, prelevarono alcuni oggetti. Il giorno
dopo le tre anziane signore del no. 39 mi servirono di nuovo il pranzo durante la nostra partita a Scrabble; io non arrivai mai nemmeno a sfiorare
una parola da punto triplo, ma appresi che qiviut è un vocabolo esistente.
Tornato a casa, quando accesi la TV su Channel 6, che trasmette notizie
sulla costa del sole ventiquattro ore su ventiquattro, apparve il logo dell'EDIZIONE STRAORDINARIA. Candy Brown era stato arrestato. Secondo
«fonti vicine agli inquirenti incaricati dell'indagine» due degli oggetti prelevati durante la perquisizione dell'abitazione dei Brown erano indumenti
intimi, uno dei quali sporco di sangue. Sarebbero stati sottoposti immediatamente al test del DNA. Candy Brown non aspettò. L'indomani il giornale
riferì che alla polizia aveva dichiarato di «essersi drogato e aver fatto una
cosa terribile». Questo lessi mentre bevevo la mia spremuta mattutina. So-
pra l'articolo c'era la Foto, a me già famigliare quanto quella di Kennedy
che veniva colpito dalla fucilata a Dallas. La Foto mostrava Candy con la
mano stretta intorno al polso di Tina Garibaldi, che alzava il faccino verso
di lui con un'espressione interrogativa. Squillò il telefono. Sollevai il ricevitore senza guardarlo e dissi pronto. Ero assorto su Tina Garibaldi. Era
Wireman. Mi chiese se potessi fare un salto a casa sua. Risposi di sì, feci
per salutarlo e mi resi conto di udire qualcosa, non nella sua voce ma subito sotto, di tutt'altro che normale. Gli chiesi cosa c'era che non andava.
«Sembra che non ci veda più dall'occhio sinistro, muchacho.»
Fece una risatina. Fu come un'eco distorta, in lontananza.
«Sapevo che era inevitabile, ma è lo stesso un brutto colpo. Immagino
che sia così per tutti quando ci si sveglia d... d...» Trasse un respiro tremante. «Puoi venire? Ho cercato Annmarie all'agenzia, ma è occupata e...
puoi venire, Edgar? Per piacere?»
«Arrivo subito. Tu resta lì buono dove sei, Wireman. Resta dove sei e
aspettami.»
5
Da settimane io non avevo problemi di vista. L'incidente mi era costato
una limitazione del campo di visuale periferico e ora avevo la tendenza a
girare la testa verso destra per guardare cose che prima coglievo facilmente
guardando diritto davanti a me, ma per il resto potevo dire di vedere più
che egregiamente. Mentre mi avvicinavo alla mia anonima Chevy a noleggio, mi domandai come mi sarei sentito se la mia vista fosse stata velata di
nuovo da quella ematica pellicola rossa... o se mi fossi destato una mattina
per trovare che metà del mio mondo era diventato un buco nero. Al che mi
domandai come fosse riuscito Wireman a ridere. Anche se solo per un istante.
Avevo le dita sulla maniglia della Malibu quando ricordai che mi aveva
detto che Annmarie Whistler, che lo sostituiva accanto a Elizabeth tutte le
volte che doveva assentarsi a lungo, aveva un altro impegno. Tornai in
fretta in casa e chiamai Jack sul cellulare, pregando che rispondesse e che
potesse venire. Rispose e poteva. Un punto per la squadra di casa.
6
Quella mattina lasciai l'isola al volante di un'automobile per la prima
volta e persi la mia verginità nella maniera più clamorosa, tuffandomi
nell'impressionante coda dei veicoli che procedevano in direzione nord
sulla Tamiami Trail. Eravamo diretti al Sarasota Memorial Hospital. Ci era
stato consigliato dal medico curante di Elizabeth, che avevo interpellato
facendo orecchie da mercante alle deboli proteste di Wireman. E ora Wireman continuava a chiedermi se mi sentissi bene io, se fossi sicuro di potercela fare, se non sarebbe stato meglio lasciare che lo accompagnasse
Jack e che io restassi con Elizabeth.
«Sto bene», insistei.
«Be', sembri terrorizzato. Almeno questo riesco ancora a vederlo.» Il suo
occhio destro si era girato nella mia direzione. Il sinistro aveva cercato di
imitarlo, ma con pochissimo successo. Era pieno di sangue, leggermente
rivolto all'insù, e lacrimava per conto suo. «Ti verrà una crisi di nervi, muchacho?»
«No. E poi hai sentito anche tu Elizabeth. Se avessi puntato i piedi, ti avrebbe sbattuto fuori casa a colpi di scopa.»
Avrebbe voluto celare alla «signorina Eastlake» il guaio che gli era capitato, ma lei, entrando in cucina, aveva colto la fine della nostra conversazione telefonica. Inoltre aveva lei stessa una piccola dose della specialità di
Wireman. Tra noi restava inconfessato, ma lo sapevamo entrambi.
«Se vorranno ricoverarti...»
«Oh, lo vorranno di sicuro, per loro è una forma di reazione riflessa, ma
non succederà. Se potessero rimettermi a posto, sarebbe un'altra storia. No,
io ci vado solo perché è sempre possibile che Hadlock mi dica che non è
un danno permanente ma solo un blip temporaneo sul radar.» Fece un sorriso triste.
«Wireman, si può sapere che cosa cazzo hai?»
«Tutto a tempo debito, muchacho. Cosa vai pittando di questi giorni?»
«Lasciamo stare.»
«Guarda guarda», commentò lui, «sembra che io non sia il solo a essere
stanco di domande. Lo sai che durante i mesi invernali un utente abituale
della Tamiami Trail su quaranta avrà un incidente d'auto? È vero. E secondo quello che ho sentito l'altro giorno in TV, le probabilità che un asteroide
delle dimensioni dell'Astrodome di Houston colpisca la terra sono sicuramente maggiori delle probabilità che...»
Io accesi la radio: «Perché non ascoltiamo un po' di musica?»
«Buona idea», rispose. «Basta che non sia country del cazzo.»
Lì per lì non capii, poi ricordai gli appassionati di boot-scoot appena ri-
partiti. Trovai la più becera e chiassosa stazione rock della zona, che si faceva chiamare The Bone. Lì c'erano i Nazareth che stavano vociando Hair
of the Dog.
«Ah, ottimo rock da vomito sulle scarpe», disse Wireman. «Adesso sì
che ci siamo, mi hijo.»
7
Quella fu una giornata lunga. Ogni volta che lasci cadere il tuo corpo sul
nastro trasportatore della medicina moderna - specialmente quella praticata
in una città stracolma di visitatori anziani e spesso malati, devi mettere in
conto una giornata lunga. Restammo lì fino alle sei di sera. Come Wireman aveva previsto, non fu ricoverato solo perché si rifiutò recisamente.
Io trascorsi la gran parte del mio tempo in quei purgatori che sono le sale
d'aspetto dove le riviste sono vecchie, i cuscini sulle sedie sono sottili e c'è
sempre una TV appollaiata su una mensola in un angolo, sotto il soffitto.
Ascoltai conversazioni preoccupate competere con il chiacchiericcio della
televisione, trasferendomi di tanto in tanto in una delle zone dov'era concesso l'uso dei cellulari a chiamare Jack. Stava bene? Ottimamente. Stavano giocando a Parcheesi. Poi stavano modificando la composizione di
Porcy Town. La terza volta mangiavano sandwich e guardavano Oprah. La
quarta stava dormendo.
«Digli che finora ha fatto tutte le sue gite previste in bagno», mi riferì
Jack.
Ubbidii. Wireman ne fu contento. E il nastro trasportatore procedette
lentamente.
Tre sale d'aspetto, una davanti all'accettazione generale, dove Wireman
aveva rifiutato persino di vedere un modulo da compilare, probabilmente
perché non era in grado di leggerlo (fui io a scrivere i dati indispensabili);
una davanti a Neurologia, dove conferii con Gene Hadlock, il medico di
Elizabeth, e un pallido individuo con il pizzetto di nome Herbert Principe.
Il dottor Hadlock dichiarò che Principe era il miglior neurologo di Sarasota. Principe né lo negò, né disse bau. L'ultima sala d'aspetto era a! primo
piano, dimora delle Megatecnottrezzature. Quassù Wireman non fu sottoposto alla risonanza magnetica, un procedimento che mi era noto, ma fu
condotto invece nella sala delle radiografie in fondo al corridoio, un locale
che immaginavo polveroso e trascurato nella nostra era moderna. Wireman
mi consegnò da custodire la sua medaglietta della Madonna e io fui lascia-
to solo a domandarmi perché il miglior neurologo di Sarasota dovesse affidarsi a una tecnologia così antiquata. Nessuno si prese la briga di illuminarmi.
In tutte le sale d'aspetto le TV erano sintonizzate su Channel 6, da cui
venivo continuamente bombardato dalla Foto: Candy Brown con la mano
chiusa sul polso di Tina Garibaldi che alzava verso di lui il viso immortalato in un'espressione che era terribile perché chiunque fosse cresciuto in
una famiglia solo decente sapeva in cuor suo esattamente che cosa significava. Si insegna ai propri figli a stare attenti, molto attenti, che ogni sconosciuto può nascondere un'insidia, e forse lo credono, ma i bambini che crescono nelle famiglie perbene imparano anche a credere che la sicurezza sia
un loro diritto di nascita. Così gli occhi dicevano: Sì, signore, mi dica che
cosa devo fare. Gli occhi dicevano: Tu sei l'adulto, io sono la bambina,
perciò sei tu che dici a me che cosa vuoi. Gli occhi dicevano: Mi è stato
insegnato a rispettare gli adulti. E soprattutto, quello che ti uccideva, era
che gli occhi dicevano: Nessuno mi ha mai fatto male prima.
Non credo che la continua, ossessiva ripetizione della Foto riassuma tutto quello che seguì, ma non ne era un tangibile indizio? Sì.
Come no.
8
Era ormai buio quando uscii dalla rimessa e svoltai a sud sulla Trail per
tornare a Duma. All'inizio mi scordai del tutto di Wireman; ero completamente assorto nella guida, sicuro che questa volta la fortuna mi avrebbe girato le spalle e avremmo avuto un incidente. Superato lo svincolo di Siesta
Key il traffico si diradò e cominciai a rilassarmi. Quando giungemmo al
Crossroads Mall, Wireman disse: «Fermati».
«Hai bisogno di qualcosa da Gap? Un paio di boxer? Qualche maglietta
con il taschino?»
«Non fare il coglione e fermati. Mettiti sotto una luce.»
Parcheggiai sotto uno dei lampioni e spensi il motore. Mi sentivo leggermente a disagio, sebbene il parcheggio fosse pieno per più della metà e
sapessi che Candy Brown aveva preso Tina Garibaldi sull'altro lato, dove
c'è l'area di carico e scarico merci.
«Penso di poterla raccontare una volta», esordì Wireman. «E tu meriti di
sentirla. Perché sei stato un vero amico per me. E mi hai fatto del bene.»
«Sentimento ricambiato, Wireman.»
Teneva le mani posate su una sottile cartelletta grigia che aveva portato
con sé dall'ospedale. In copertina c'era il suo nome. Sollevò un dito per zittirmi senza guardarmi: teneva gli occhi fissi sul Bealls Department Store
che occupava quell'ala del centro commerciale. «Voglio farlo tutto in una
volta. Ti sta bene?»
«Sì.»
«La mia storia è come...» Si girò verso di me animandosi all'improvviso.
Aveva l'occhio sinistro tutto rosso e lacrimante, ma almeno adesso lo puntava su di me assieme al suo compagno. «Muchacho, hai mai visto uno di
quei servizi sulla fortuna sfacciata dove c'è un tizio che ha incassato due o
trecento milioni di dollari al Powerball?»
«Chi non li ha visti?»
«Lo fanno salire su un palcoscenico, gli mollano un enorme facsimile di
assegno in cartone e lui dice qualcosa che è quasi sempre inarticolato, ma
va bene così, in una situazione come quella l'inarticolato è il nocciolo della
questione, perché centrare tutti quei numeri è semplicemente scandaloso.
Assurdo. In una situazione come quella il massimo che ti può venir fuori è:
'Andrò a Disney World'. Fin qui mi segui?»
«Fin qui sì.»
Wireman tornò a osservare la gente che entrava e usciva da Bealls, dietro il quale Tina Garibaldi aveva incontrato il suo strazio nella persona di
Candy Brown.
«Anch'io ho vinto alla lotería. Non in una maniera positiva, però. Sarei
anzi propenso a dire che è stata la peggior maniera possibile. Nella mia altra vita facevo l'avvocato a Omaha. Lavoravo per uno studio che si chiamava Fineham, Dooling e Allen. Gli spiritosi, alla quale compagnia ritengo di appartenere anch'io, lo chiamavano anche Scovali, Scorticali e Scordali. Per la verità era un ottimo studio, tutta gente onesta. Facevamo buoni
affari e io avevo una posizione invidiabile. Ero scapolo e a quell'epoca, a
trentasette anni, pensavo che così probabilmente sarei rimasto. Poi in città
arrivò il circo, Edgar. Dico un circo vero, di quelli con gli animali feroci e
i trapezisti. Gli artisti erano quasi tutti di altra nazionalità, come accade
spesso. La troupe dei trapezisti con le loro famiglie era messicana. Anche
una delle contabili del circo, Julia Taveres, era messicana. Oltre a tenere i
libri, aveva il compito di tradurre i volantini.»
Pronunciò il suo nome alla spagnola: Hulia.
«Io non andai al circo. Wireman va ogni tanto a vedere uno spettacolo
rock, non va al circo. Ma qui viene fuori la lotteria. Ogni due o tre giorni il
personale amministrativo del circo tira a sorte per vedere chi deve andare a
fare la spesa di spuntini per l'ufficio: patatine fritte, merendine, caffè, bibite. Un giorno, mentre la troupe si trovava a Omaha, dal cappello estrassero
il nome di Julia. Mentre stava tornando al circo e attraversava il parcheggio del supermarket, un camion di rifornimenti che stava entrando in quel
momento a velocità troppo sostenuta urtò una fila di carrelli... Sai come
vengono raccolti uno dentro l'altro?»
«Sì.»
«Va bene. Bang! I carrelli percorrono una decina di metri, investono Julia e le procurano una frattura a una gamba. Le erano piombati addosso da
dietro, perciò non aveva avuto la possibilità di spostarsi in tempo. Nel parcheggio c'è anche una macchina della polizia e l'agente la sente gridare.
Chiama un'ambulanza. Sottopone anche il camionista all'esame del palloncino, che registra un uno-sette.»
«È grave?»
«Sì, muchacho. In Nebraska, un uno-sette significa che vai direttamente
a ubriaco senza passare dal via. Dietro consiglio del dottore che la visitò al
pronto soccorso, Julia si rivolse a noi. All'epoca alla Scovali, Scorticali e
Scordali c'erano trentacinque avvocati e il caso di lesioni personali di Julia
sarebbe potuto capitare a uno di quindici specializzati nel campo. Vedi
come i numeri cominciano a finire nelle caselle?»
«Sì.»
«Io non mi limitai a rappresentarla, io la sposai. Julia vince la causa e intasca una bella sommetta. Il circo riparte, come è nella natura dei circhi,
solo che questo se ne va lasciandosi dietro una contabile. Devo dirti che
eravamo molto innamorati?»
«No», risposi. «Lo sento ogni volta che pronunci il suo nome.»
«Grazie, Edgar. Grazie.» Rimase in silenzio a capo chino e con le mani
posate sulla cartelletta. Poi si tolse dalla tasca posteriore un vecchio portafogli, sciupato e gonfio. Mi domandai come potesse sopportare di sedersi
su un sasso come quello. Cercò nei piccoli comparti riservati alle fotografie e ai documenti importanti, poi tirò fuori la foto di una donna con occhi
e capelli neri in una canotta bianca. Dimostrava trent'anni. Era una di quelle che ti arrestano il cuore.
«Mi Julia», mormorò. Io feci per restituirgli la fotografia e lui scosse la
testa. Ne stava scegliendo un'altra. Io ebbi paura, ma quando me la porse,
la presi lo stesso.
Era Julia Wireman in miniatura. Stessi capelli neri a incorniciare un fac-
cino bianco e perfetto. Stessi solenni occhi scuri.
«Esmeralda», disse Wireman. «L'altra metà del mio cuore.»
«Esmeralda», dissi io. Pensai che gli occhi che mi guardavano da quella
fotografia e gli occhi che si levavano a guardare Candy Brown nella Foto
erano quasi identici. Ma forse tutti gli occhi dei bambini sono identici.
Cominciò a prudermi il braccio. Quello che era stato cremato nell'inceneritore dell'ospedale. Me lo grattai e trovai le costole. Nessuna novità su quel
fronte.
Wireman riprese le foto, le baciò entrambe in un breve gesto di disseccato ardore terribile a vedersi e le ripose nei rispettivi comparti trasparenti.
Gli ci volle un po', perché avevano preso a tremargli le mani. Ed ebbi il sospetto che avesse qualche difficoltà anche a vedere. «Non c'è nemmeno bisogno di stare a guardare quei numeri, amigo. Se chiudi gli occhi li senti
cadere al loro posto: clic e clic e clic. Capita che alla fortuna venga in
mente di baciare qualcuno. Smack!» Schioccò la lingua contro il palato. Il
suono riverberò potente nella piccola vettura.
«Quando Ez aveva tre anni, Julia iniziò un lavoro part-time in un'organizzazione chiamata Work Fair, un servizio per gli immigrati nel centro di
Omaha. Aiutava a trovare lavoro a persone di lingua spagnola con o senza
carta verde e aiutava gli immigrati clandestini che volevano prendere la
cittadinanza a imboccare la strada giusta. Una piccola organizzazione di
basso profilo, ma che faceva del bene nella maniera più pratica molto più
di tutti i cortei con tutti i loro cartelli e striscioni. Nell'umile opinione di
Wireman.»
Si premette le mani sugli occhi e trasse un respiro profondo e sussultorio. Poi lasciò ricadere pesantemente le mani sulla sua cartel letta.
«Quando è successo, io ero a Kansas City per lavoro. Julia prestava al
Work Fair le mattine dal lunedì al giovedì. Ez andava a un asilo nido. Di
quelli ben organizzati. Avrei potuto far loro causa e mandarli in rovina, costringere a chiedere l'elemosina per le strade le donne che lo gestivano, ma
non l'ho fatto. Perché anche se distrutto dal dolore, mi rendevo conto che
quello che era accaduto a Esmeralda sarebbe potuto accadere a qualsiasi
bambino. È sempre una questione di lotería, entiendes? Una volta il nostro
studio si trovò a querelare una ditta produttrice di veneziane - un caso che
non trattai io personalmente - dopo che un neonato sdraiato nella sua culla
aveva afferrato una delle cordicelle, l'aveva ingoiata ed era morto per asfissia. I genitori vinsero la causa e ottennero un risarcimento, ma il loro
bambino era morto lo stesso, e se non fosse stata la cordicella, sarebbe po-
tuto essere qualcos'altro. Una macchinina. La medaglietta del collare del
cane. Una bilia.» Wireman si strinse nelle spalle. «Nel caso di Ez è stata
una bilia. Se l'è messa in bocca mentre giocava ed è morta soffocata.»
«Gesù, Wireman! Che cosa spaventosa!»
«Quando l'hanno portata in ospedale era ancora viva. Una delle sorveglianti al nido telefonò in ufficio a Julia e a me. Farneticava, sembrava impazzita. Julia è saltata in macchina ed è partita a razzo. A tre isolati dall'ospedale ha avuto un frontale con un camioncino del dipartimento dei Lavori pubblici di Omaha. Morta sul colpo. A quell'ora nostra figlia era probabilmente già morta da venti minuti. Quella medaglietta della Madonna che
tu hai tenuto per me... era di Julia.»
S'interruppe e il silenzio si prolungò. Io non lo disturbai, non c'era niente
da dire in risposta a una storia come quella. Dopo un po' riprese a parlare.
«Una versione speciale del Powerball. Cinque numeri, più l'indispensabile numero jolly. Clic, clic, clic, clic, clic. E poi clac per buona misura.
Pensavo che una cosa del genere potesse accadere a me? No, muchacho,
mai e poi mai l'avrei pensato, e Dio ci punisce per ciò che non sappiamo
immaginare. I miei genitori mi pregarono di trovarmi un analista e per un
po', otto mesi dopo il funerale, mi sono fatto curare. Ero stanco di vagare
per il mondo come un palloncino trattenuto da un filo un metro sopra la
mia stessa testa.»
«Conosco la sensazione», commentai.
«Lo so. Abbiamo fatto un giro turistico all'inferno in turni diversi, tu e
io. E siamo tornati su, suppongo, anche se a me fumano ancora le piante
dei piedi. I tuoi come vanno?»
«Lo stesso.»
«Lo psichiatra... un brav'uomo, ma con lui non riuscivo a parlare. Con
lui mi si legava la lingua. Con lui mi ritrovavo a sorridere parecchio. Continuavo ad aspettarmi l'arrivo di una bella gnocca in costume da bagno con
il mio grande assegno di cartone. Il pubblico avrebbe applaudito e alla fine
l'assegno arrivò sul serio. Quando ci siamo sposati, ho stipulato una polizza assicurativa congiunta sulla vita. Alla nascita di Ez, l'ho aumentata.
Quindi ho veramente vinto alla lotería. Specialmente quando ci aggiungi il
risarcimento ricevuto da Julia per l'incidente nel parcheggio del supermercato. La qual cosa ci porta a questo.»
Alzò la cartelletta grigia.
«Nella testa mi ronzava l'idea del suicidio, girava in cerchi sempre più
stretti. L'attrazione principale era la possibilità che Julia ed Esmeralda fos-
sero ancora appena oltre la soglia ad aspettare che le raggiungessi... ma il
timore era che non avrebbero aspettato per sempre. Io non sono una persona religiosa nel senso convenzionale del termine, ma credo che ci sia almeno una possibilità di un'esistenza dopo la morte, la possibilità che sopravviviamo come... come entità individuali, diciamo. Ma naturalmente...»
Un sorriso di ghiaccio gli sfiorò gli angoli della bocca. «Più che altro ero
semplicemente depresso. In cassaforte tenevo una pistola. Una calibro ventidue. L'avevo comprata per difesa personale dopo la nascita di Esmeralda.
Una notte mi sono seduto con la pistola al tavolo da pranzo e... credo che
tu conosca questa parte della storia, muchacho.»
Io alzai una mano e la oscillai nell'aria in un gesto di forse yes, forse no.
«Mi sono seduto al tavolo della sala da pranzo nella mia casa vuota. Sul
tavolo c'era una ciotola piena di frutta, omaggio del servizio di consegne a
domicilio a cui mi appoggiavo per i miei rifornimenti. Ho posato la pistola
sul tavolo e poi ho chiuso gli occhi. Ho fatto ruotare la ciotola due o tre
volte. Mi sono detto che se avessi preso una mela, mi sarei puntato la pistola alla tempia e l'avrei fatta finita. Se fosse stata un'arancia invece... allora avrei preso la mia vincita alla lotteria e sarei andato a Disney World.»
«Sentivi il frigorifero», dissi.
«Infatti», confermò lui senza stupirsi. «Sentivo il frigorifero, sia il ronzio del motore, sia il rimestio della macchina del ghiaccio. Ho preso un
frutto ed era una mela.»
«Hai barato?»
Sorrise. «È un sospetto lecito. Se mi chiedi se ho sbirciato, la risposta è
no. Se intendi che possa aver memorizzato la disposizione dei frutti nella
ciotola...» Si strinse nelle spalle. «Quién sabe? Fatto sta che ho preso una
mela: il peccato di Adamo è il peccato di tutti noi. Non avevo bisogno di
morsicarla o sentirne l'odore, sapevo che era una mela dal tatto. Così, senza aprire gli occhi e senza darmi la possibilità di pensare, ho alzato la pistola e me la sono portata alla tempia.» Mimò il gesto con la mano che io
non avevo più, sollevando il pollice e appoggiandosi il polpastrello dell'indice alla piccola cicatrice circolare che veniva di solito celata dai suoi lunghi capelli brizzolati. «Il mio ultimo pensiero è stato: Almeno non dovrò
più sentire quel frigorifero e non sarò più costretto ad aprirlo per tirar fuori
qualche pseudoleccornia precotta con cui sfamarmi. Non ricordo nessuna
detonazione. Comunque il mondo intero diventò bianco e quella è stata la
fine dell'altra vita di Wireman. Ora... hai voglia di sentire le stronzate allucinogene?»
«Sì, ti prego.»
«Vuoi vedere se hanno corrispondenza con le tue, vero?»
«Sì.» E nella mente mi sorse una domanda. Di qualche importanza, forse. «Wireman, avevi già avuto questi fenomeni telepatici... queste ricezioni
inspiegabili... comunque le vogliamo chiamare... le hai avute anche prima
di venire a Duma Key?» Pensavo al cane di Monica Goldstein, Gandalf, e
al fatto che secondo me lo avevo strangolato con un braccio che non avevo
più.
«Sì, due o tre», rispose. «Forse una volta o l'altra te ne parlerò, Edgar,
ma non voglio lasciare la signorina Eastlake troppo a lungo con Jack. A
parte ogni altra considerazione, è probabile che sia in pensiero per me. È
una persona di grande cuore.»
Avrei potuto dirgli che anche Jack - a sua volta di grande cuore a modo
suo - era probabilmente preoccupato, invece gli dissi solo di andare avanti.
«Vedo spesso una nebbia rossa intorno a te, muchacho», riprese Wireman. «Non credo che si tratti propriamente di un'aura, e non è precisamente un pensiero... ma in un certo senso lo è. Me l'hai comunicato non solo
come colore, ma anche come una parola in tre o quattro occasioni. E anche
una volta quando non eravamo a Duma Key, sì. Quando eravamo alla Scoto.»
«Quando non trovavo una certa parola.»
«È così? Non ricordo.»
«Nemmeno io, ma sono sicuro. La parola rosso ha per me un valore
mnemonico. È un catalizzatore. Da una canzone di Reba McEntire, pensa
un po'. L'ho trovato quasi per caso. E c'è qualcos'altro, credo. Quando non
mi funziona la memoria ho la tendenza a... sai...»
«Incavolarti?»
Pensai a come avevo preso Pam per il collo. Come avevo cercato di
strangolarla.
«Sì», risposi. «Possiamo dire così.»
«Ah.»
«Comunque mi sa che quel rosso sia travasato fuori e abbia macchiato il
mio... il mio abito mentale? È questa la sensazione?»
«Più o meno. E tutte le volte che lo percepisco intorno a te, dentro di te,
ripenso a quando mi sono svegliato dopo essermi piantato una pallottola in
testa e aver visto il mondo intero color rosso scuro. Credevo di essere
all'inferno, credevo che così sarebbe stato, un'eternità di rosso cupo.» Fece
una pausa. «Poi mi sono reso conto che era solo la mela. Era lì davanti a
me, forse a uno o due centimetri dai miei occhi. Era per terra ed ero per
terra anch'io.»
«Dannazione», fu il mio commento.
«Già, è quello che ho pensato anch'io, ma non era la dannazione, era solo una mela. 'Il peccato di Adamo è il peccato di tutti noi.' L'ho detto a voce alta. Poi ho detto: 'Fruttiera'. Delle novantasei ore successive ricordo
tutto quello che è successo e tutto quello che è stato detto con chiarezza assoluta. Ogni particolare.» Rise. «Naturalmente so che alcune delle cose che
ricordo non sono vere, ma le ricordo lo stesso con squisita precisione. Ancora oggi nessun inquirente riuscirebbe a farmi cadere in contraddizione in
un interrogatorio, nemmeno riguardo agli scarafaggi coperti di pus che vidi
uscire dagli occhi, dalla bocca e dalle narici del vecchio Jack Fineham.
«Avevo un mal di testa infernale, ma superato lo choc della mela davanti
al naso, per il resto mi sentivo abbastanza bene. Erano le quattro di notte.
Erano passate sei ore. Giacevo in una pozzanghera di sangue rappreso. Ne
avevo un po' sulla guancia destra, come un grumo di marmellata. Ricordo
di essermi alzato a sedere dicendo: 'Pâté d'uomo in gelatina' e di aver cercato di ricordare che differenza c'è tra la gelatina di frutta e la marmellata.
Poi ho detto: 'Non c'è marmellata nella fruttiera'. E mi è sembrato d'aver
espresso un concetto così razionale che è stato come superare un test di sanità mentale. Ho cominciato a dubitare d'essermi sparato. Mi sembrava più
probabile che mi fossi addormentato sul tavolo da pranzo pensando di spararmi, di essere caduto dalla sedia e aver battuto la testa. Per quello avevo
perso sangue. Anzi, ero quasi sicuro che fosse andata così, visto che mi
muovevo e parlavo. Mi sono ordinato di dire qualcos'altro. Il nome di mia
madre, per esempio. Invece ho detto: 'Una volta seminavi per mangiare,
ora semini per guadagnare'.»
Annuii colto dall'emozione. Dopo essere uscito dal mio coma avevo vissuto esperienze simili, non una ma infinite volte. Porta la socia, prendi la
serva.
«Eri in collera?»
«No, tranquillissimo! Serafico! Mi sembrava logico sentirmi un po' disorientato dopo la botta in testa. Solo in un secondo tempo ho visto la pistola
sul pavimento. L'ho raccolta e ho annusato la canna. Impossibile non riconoscere l'odore di un'arma che ha appena fatto fuoco. È acre, un odore con
gli artigli. Io però ho tenuto fede alla mia idea d'essermi addormentato e di
aver picchiato la testa finché non sono andato in bagno e non ho visto il
buco che avevo nella tempia. Un forellino tondo circondato da una corona
di strinature.» Rise di nuovo come si fa ricordando qualche impensabile
sciocchezza di cui ci si è resi responsabili, dimenticarsi di aprire il portellone del box, per esempio, e cercare di uscire a marcia indietro. «È stato allora che è caduto al suo posto l'ultimo numero, Edgar, il numero della vittoria finale al Powerball! E ho capito che alla fine sarei andato a Disney
World.»
«O a un suo facsimile», commentai. «Cristo, Wireman.»
«Ho cercato di lavarmi via le bruciature, ma applicare la spugnetta mi
faceva troppo male. Era come schiacciare un dente malato.»
A quel punto capii perché invece della risonanza magnetica, gli avevano
fatto una radiografia. Aveva ancora in testa quel cazzo di proiettile.
«Wireman, posso chiederti una cosa?»
«Ti ascolto.»
«I nervi ottici di una persona sono... non so come dire... a scambio?»
«Certamente.»
«Allora è per questo che il tuo occhio sinistro è conciato in quel modo.
È come...» Sul momento non mi venne la parola e strinsi i pugni. Poi la
trovai. «È come un contraccolpo.»
«In effetti... Mi sono sparato sul lato destro di questa testa da imbecille,
ma è l'occhio sinistro quello che è andato alla malora. Mi sono messo un
cerotto sul foro. E ho preso dell'aspirina.»
Risi. Non potei trattenermi. Wireman sorrise e annuì.
«Poi sono andato a letto e ho cercato di dormire. Peggio che se avessi
cercato di dormire nel bel mezzo di una banda di ottoni. Non ho chiuso occhio per quattro giorni. Sono arrivato a pensare che non avrei mai più
dormito. La mia mente filava a migliaia di chilometri l'ora. Al confronto la
cocaina sembrerebbe un sedativo. Non riuscivo nemmeno a stare sdraiato a
lungo. Massimo venti minuti e saltavo su e correvo a mettere un disco di
mariachi. Erano le cinque e mezzo del mattino. Mi sono fatto mezz'ora di
cyclette, ed era la prima volta che ci montavo sopra da quando Julia ed Ez
erano morte, poi ho fatto una doccia e sono andato al lavoro.
«Nei tre giorni seguenti sono stato un uccello, un aereo, un superavvocato. I miei colleghi passarono dall'apprensione per me alla paura per me alla
paura per sé. Le mie incongruenze peggioravano e altrettanto la mia tendenza a scivolare in uno spagnolo maccheronico e in un francese da Pepé
la puzzola, ma non c'è dubbio che in quei giorni lavorai come un assatanato e con scarso rilievo per lo studio. Ho controllato. I soci negli uffici d'angolo e gli avvocati in trincea erano unanimi nel ritenere che avessi un esau-
rimento nervoso e in un certo senso avevano ragione. Era un esaurimento
nervoso organico. In molti cercarono di convincermi ad andare a casa, ma
fu inutile. Dion Knightly, uno dei miei più cari amici allo studio, arrivò
praticamente a scongiurarmi di permettergli di accompagnarmi da un dottore. Sai che cosa gli ho risposto?»
Scossi la testa.
«'Due e due quattro, contratto presto fatto.' Lo ricordo benissimo! Poi
me ne sono andato. Solo che praticamente pattinavo. Camminare era una
cosa troppo lenta per Wireman. Sono rimasto in ufficio per due notti di fila. La terza notte la guardia giurata mi ha accompagnato fuori ignorando le
mie proteste. Io l'ho informato che un pene eretto ha un milione di capillari
ma non un solo scrupolo. Gli ho anche detto che ero un pâté in gelatina e
che suo padre lo odiava.» Per qualche momento rimase in silenzio a guardare corrucciato la sua cartelletta. «Questa cosa su suo padre lo aveva colpito, credo. Anzi, lo so per certo.» Si batté la ferita sulla tempia. «Radio
impazzita, amigo. Radio impazzita.
«Il giorno dopo sono stato chiamato al cospetto di Jack Fineham, il
sommo rajà del nostro studio. Mi ha ordinato di prendermi una vacanza.
Non me lo ha chiesto, me lo ha ordinato. Secondo Jack ero tornato al lavoro troppo presto dopo il 'mio tragico rovescio famigliare'. Io gli ho detto
che era una stupidaggine, non avevo avuto nessun rovescio famigliare. 'Di'
solo che mia moglie e mia figlia hanno mangiato una mela marcia', gli ho
detto. 'Di' così, eminenza grigia dai capelli bianchi, perché era mortalmente piena di bachi.' È stato in quel momento che gli scarafaggi hanno cominciato a venirgli fuori da occhi e naso. E un paio da sotto la lingua, e
quando gli si sono arrampicati sul labbro inferiore si sono portati dietro un
fiotto di bava bianca.
«Ho cominciato a gridare. E gli sono saltato addosso. Non fosse stato
per il bottone d'allarme che aveva sulla scrivania - non sapevo che quel
vecchiaccio paranoico ne avesse uno - forse lo avrei ucciso. E mi ha anche
sorpreso per la velocità con cui si è mosso. Sembrava un razzo in quell'ufficio, Edgar. Dev'essere per tutti gli anni di tennis e golf.» Rifletté per un
momento. «Io comunque avevo dalla mia pazzia e gioventù. Quando sono
arrivati i soccorsi ero già riuscito a mettergli le mani addosso. Ci sono voluti non so quanti avvocati per trascinarmi via e non prima che gli strappassi di dosso mezza giacca del suo completo Paul Stuart. Gliel'avevo divisa in due di netto, in mezzo alla schiena.» Scosse lentamente la testa.
«Avresti dovuto sentire come sbraitava quel hijo de puta. E avresti dovuto
sentire me. Delirio allo stato puro, comprese accuse gridate a pieni polmoni sulla sua passione per gli indumenti intimi femminili. E, come nel caso
del padre della guardia giurata, ho idea che possa essere stato vero. Buffo,
no? Comunque, pazzo o no, grande mente legale o no, quella è stata la fine
della mia carriera alla Scovali, Scorticali e Scordali.»
«Mi spiace», dissi.
«De nada, tutto di guadagnato», ribatté lui in un tono molto professionale. «Mentre i colleghi mi portavano fuori di forza dal suo ufficio, che era
devastato, ebbi una crisi. Il più grandioso degli attacchi epilettici. Se tra gli
altri non ci fosse stato un tirocinante con un'infarinatura di tecniche di
pronto soccorso, forse sarei morto in corridoio. Sono comunque rimasto in
stato di incoscienza per tre giorni. E Dio sa quanto bisogno avevo di dormire. Dunque ora...»
Aprì la cartelletta e mi porse tre lastre. Non erano esplicite come le sezioni corticali prodotte da una risonanza, ma grazie alla mia esperienza
personale potevo interpretare ciò che vedevo almeno con la competenza
del dilettante informato.
«Eccola lì, Edgar, quella cosa che molti sostengono che non esiste: il
cervello di un avvocato. Hai anche tu reperti di questo genere?»
«Mettiamola così, se volessi riempire un album...»
Sorrise. «E chi lo vuole, un album di foto come queste? Vedi il proiettile?»
«Sì. Devi aver tenuto la pistola...» Alzai la mano inclinando l'indice a un
angolo molto acuto verso il basso.
«Più o meno era così. E la pistola deve aver fatto parzialmente cilecca.
La spinta è stata sufficiente a far penetrare il proiettile nell'osso del cranio
e a deviarlo in una traiettoria ancora più acuta. Mi si è insediato nel cervello e lì è rimasto. Ma prima di fermarsi, ha dato origine a una... non so...»
«Onda di prua?»
Gli si illuminarono gli occhi. «Giusto! Solo che la consistenza della materia cerebrale è più simile a quella del fegato di vitello che all'acqua.»
«Caspita, carino.»
«Lo so. Wireman ha il dono dell'eloquenza, è pronto ad ammetterlo. Il
proiettile ha dato origine a un'onda d'urto verso il basso che ha provocato
un edema e pressione sul chiasma ottico. Quello è il punto di scambio dei
messaggi che arrivano dagli occhi al cervello. Cogli la raffinatezza del caso? Mi sono sparato in una tempia e non solo mi sono ritrovato ancora vivo, ma la pallottola mi ha creato problemi nell'equipaggiamento situato
quaggiù.» Si batté il dito sull'osso al di sopra dell'orecchio destro. «E i
problemi peggiorano perché il proiettile si muove. In due anni è sprofondato di almeno un altro mezzo centimetro. Probabilmente di più. Non c'era
nemmeno bisogno che fossero Hadlock o Principe a informarmi, lo vedo
da me in queste lastre.»
«Allora lascia che ti operino, Wireman, che te lo tirino fuori. A Elizabeth possiamo badare io e Jack finché non sarai tornato...» Lui stava scuotendo la testa. «No? Perché no?»
«È troppo profondo per un intervento chirurgico, amigo. Per questo non
ho voluto essere ricoverato. Credevi che fosse perché ho un complesso da
Marlboro Man? Figuriamoci. Il tempo in cui volevo essere morto appartiene al passato. Mi mancano ancora mia moglie e mia figlia, ma ora ho la signorina Eastlake di cui prendermi cura e ho finito per affezionarmi alla
key. Poi ci sei tu, Edgar. Ho voglia di star qui a vedere come va a finire la
tua storia. Rimpiango ciò che ho fatto? Qualche volta yes qualche volta no.
Quando è yes, ricordo a me stesso che non ero lo stesso uomo che sono ora
e che ho il dovere di giudicare con un minimo di tolleranza quello di prima. Quell'uomo era così angosciato e sperduto da non poter essere considerato del tutto responsabile. Questa è la mia altra vita e cerco di vedere i
problemi che ho qui come... be'... difetti congeniti.»
«Mi sembra un po' bizzarro, Wireman.»
«Ah sì? Pensa alla tua situazione.»
Pensai alla mia situazione. Ero un uomo che aveva strangolato la propria
moglie per poi dimenticarsene. Un uomo che ora dormiva con una bambola. Decisi di tenere per me le mie opinioni.
«Il dottor Principe vuole ricoverarmi solo perché sono un caso interessante.»
«Questo non puoi dirlo.»
«Invece sì!» sbottò Wireman con impeto contenuto. «Da quando mi sono fatto questo regalino sono passato attraverso quattro diversi Principe.
Sembrano fatti con lo stampino: svegli ma dissociativi, incapaci di empatia, giusto una o due porte prima dei sociopatici di cui scriveva John D. MacDonald. Principe non può operare me tanto quanto non potrebbe operare
un paziente affetto da un tumore maligno nello stesso punto. Con un tumore potrebbero almeno tentare la radioterapia. Un proiettile di piombo non è
sensibile ai raggi. Principe lo sa, ma è affascinato. Lui non vede niente di
male nell'elargirmi un po' di falsa speranza se può servire a farmi finire in
un letto d'ospedale dove può chiedermi se sento dolore quando fa... così.
Poi, quando sarò morto, magari scriverà un bell'articolo. Potrà andarsene
su una spiaggia di Cancún a scolarsi beveroni di vino, succo e gazzosa.»
«Sei duro.»
«Mai quanto gli occhi di Principe, quelli sì che sono duri. Li guardo una
volta e mi vien voglia di darmela a gambe finché posso. Che è pressoché
quello che ho fatto.»
Io scossi la testa e gliela lasciai passare. «Dunque le prospettive quali
sono?»
«Perché non ce ne andiamo? Questo posto comincia a darmi i brividi.
Mi è appena venuto in mente che è dove quello sbandato ha preso la bambina.»
«Avrei potuto dirtelo quando ci siamo fermati.»
«Meglio che te lo sia tenuto per te.» Sbadigliò. «Dio, come sono stanco.»
«È lo stress.» Guardai da una parte e dall'altra e mi immisi nuovamente
sulla Tamiami Trail. Ancora mi sembrava impossibile che stessi guidando,
ma cominciava a piacermi.
«Le prospettive non sono rosee. Già prendo abbastanza Doxepin e Zonegran da soffocare un cavallo. Sono farmaci anticonvulsivi e hanno funzionato molto bene, ma l'altra sera, quando siamo stati a cena allo Zoria's
sapevo di non stare bene. Ho cercato di negarlo a me stesso, ma sai come
si dice: il diniego annegò il faraone e Mosè condusse alla libertà i figli di
Israele.»
«Sì... credo che fosse il Mar Rosso. Ci sono altri medicinali che puoi
prendere? Più forti?»
«Principe mi ha certamente sventolato davanti al naso il suo blocchetto
delle prescrizioni, ma lui proponeva il Neurontin, e io di quello non voglio
sapere niente.»
«Per via del tuo lavoro.»
«Già.»
«Wireman, non serviresti un granché a Elizabeth se diventassi cieco.»
Per un minuto o due non rispose. La strada si srotolava davanti ai miei
fari abbaglianti ora praticamente deserta. «La cecità sarà presto l'ultimo dei
miei problemi», dichiarò alla fine.
Arrischiai un'occhiata al suo profilo. «Vuoi dire che questo potrebbe ucciderti?»
«Sì.» Poiché totalmente privo di drammaticità, il tono della sua voce fu
molto convincente. «Una cosa, Edgar.»
«Cosa?»
«Prima che lo faccia e finché mi resta almeno un occhio che funziona,
mi piacerebbe vedere qualcun altro dei tuoi lavori. Li vuole vedere anche
la signorina Eastlake. Mi ha incaricato di chiedertelo. Puoi usare la macchina per portarli giù a El Palacio. Mi sembra che guidi da Dio.»
Davanti a me c'era l'uscita per Duma Key. Misi la freccia.
«Ti dico quel che penso certe volte», riprese lui. «Penso che la fortuna
sfacciata che ho avuto per tanto tempo prima o poi debba voltarmi le spalle. Non c'è assolutamente nessuna ragione statistica per pensarlo, ma è
qualcosa che conviene tenere a mente. Ti pare?»
«Mi pare», risposi. «E un'altra cosa, Wireman.»
«Sono qui, muchacho.»
«Tu ami la key, ma pensi anche che abbia qualcosa che non va. Cosa c'è
di strano in questo posto?»
«Non so cos'è, ma qualcosa c'è. Tu non trovi?»
«Certo che sì. Lo sai anche tu. Il giorno in cui io e Ilse abbiamo cercato
di percorrere quella strada, ci siamo sentiti male tutti e due. Lei peggio di
me.»
«E non è la sola, secondo quello che ho sentito in giro.»
«Perché, se ne parla?»
«Oh sì. La spiaggia è a posto, ma l'entroterra...» Scosse la testa. «Io penso che potrebbe essere un inquinamento della falda acquifera. Lo stesso
qualcosa che trasforma la vegetazione in una foresta in un clima dove è
necessario irrigare solo perché non ti si secchi l'erba del prato. Non so. Ma
è meglio starne alla larga. E credo che questo valga soprattutto per le giovani signore che hanno in programma di avere dei figli. Di quelli senza difetti congeniti.»
Quella era un'idea sgradevole che a me non era venuta. Per il resto del
tragitto non parlai più.
9
Qui si parla di memoria e pochi dei miei ricordi di quell'inverno sono
limpidi come quello del mio ritorno a El Palacio quella sera di febbraio. I
battenti del cancello di ferro erano aperti. Tra di essi, sulla sua sedia a rotelle proprio come il giorno in cui io e Ilse ci eravamo imbarcati nella nostra abortita esplorazione verso sud, c'era Elizabeth Eastlake. Non aveva
con sé la pistola subacquea, ma ancora una volta indossava la sua tuta di
felpa (questa volta ulteriormente protetta da quella che sembrava la vecchia giacca della divisa di un liceo) e, sui poggiapiedi, posava le sue grosse
scarpe, che nel fascio della luce dei fari della Malibu sembravano nere.
Accanto a lei c'era il suo deambulatore e di fianco al deambulatore c'era
Jack Cantori con una torcia in mano.
Quando vide la macchina, cominciò ad alzarsi. Jack si mosse per trattenerla. Poi, constatato che faceva sul serio, posò la torcia per aiutarla. Mentre io mi fermavo davanti al cancello, Wireman già apriva la portiera. I fari
della Malibu illuminavano Jack ed Elizabeth come attori su un palcoscenico. «No, signorina!» gridò Wireman. «No, non cerchi di alzarsi! La spingo
io in casa!»
Lei non gli badò. Jack l'aiutò a recuperare il deambulatore, o fu lei a
condurre lui, poi l'anziana signora si avviò a tonfi successivi verso la Malibu. Intanto io scendevo laboriosamente dalla mia parte, dovendo come al
solito lottare con l'anca destra. Ero eretto di fianco al muso dell'automobile
quando lei abbandonò il deambulatore e protese le braccia verso di lui. La
pelle che le ricopriva i gomiti pendeva flaccida e defunta, esangue nella luce dei fari, ma aveva piantato bene i piedi a gambe leggermente divaricate
e il suo equilibrio era saldo. Un venticello carico di profumi notturni le
spingeva i capelli all'indietro e non mi sorpresi per niente di vedere una cicatrice - assai vecchia - come un'ammaccatura sul lato destro della testa.
Sarebbe potuta essere quasi la gemella della mia.
Wireman uscì da dietro lo sportello aperto ed esitò per un secondo o due.
Credo che stesse decidendo se fosse ancora in grado di accettare consolazione tanto quanto la elargiva. Poi andò verso di lei con una camminata
dondolante da orso, a capo chino, con i lunghi capelli che gli nascondevano le orecchie e gli sfioravano le guance. Lei lo abbracciò e gli spinse la
testa verso il petto voluminoso. Per un momento vacillò e temetti il peggio
anche se si era piantata bene sulle gambe, ma poi si raddrizzò di nuovo e
vidi quelle mani deformate dall'artrite cominciare ad accarezzare la schiena di Wireman, che aveva cominciato a sussultare.
Andai verso di loro, un po' titubante, e gli occhi della vecchia si girarono
su di me. Erano perfettamente lucidi. Non era la stessa donna che mi aveva
chiesto se stesse arrivando il treno, quella che aveva confessato di sentirsi
orribilmente confusa. Tutti i suoi interruttori erano in posizione di acceso.
Almeno in quel momento.
«Qui è tutto a posto», mi comunicò. «Ora puoi andare a casa, Edgar.»
«Ma...»
«Non abbiamo bisogno.» Accarezzandogli la schiena con le dita nodose.
Accarezzandogliela con tenerezza infinita. «Wireman mi riporterà dentro.
Tra un minuto. Non è vero, Wireman?»
Lui annuì sul suo seno senza sollevare la testa e senza emettere un suono.
Io riflettei e decisi di fare come voleva. «D'accordo allora. Buonanotte,
Elizabeth. Buonanotte, Wireman. Vieni, Jack.»
Il deambulatore era di quelli con una mensolina. Jack vi posò sopra la
torcia, rivolse un'occhiata a Wireman con la faccia ancora affondata nel
seno dell'anziana signora, e andò allo sportello aperto della mia automobile. «Buonanotte, signora.»
«Buonanotte, giovanotto. Come giocatore di Parcheesi hai poca pazienza, ma l'impostazione è promettente. E... Edgar?» Tornò a guardarmi con
un'espressione pacata da sopra la testa reclinata di Wireman. «L'acqua
scorre più veloce ora. Presto arriveranno le rapide. Lo senti?»
«Sì», risposi. Non sapevo di che cosa stesse parlando. Sapevo di che cosa stava parlando.
«Resta, ti prego, resta sulla key, qualunque cosa accada. Abbiamo bisogno di te. Io ho bisogno di te e ha bisogno di te Duma Key. Ricorda che te
l'ho detto, quando andrò di nuovo via con la testa.»
«Ricorderò.»
«Cerca la cesta da picnic di Tata Melda. È in soffitta, ne sono sicura. È
rossa. La troverai. Sono là dentro.»
«Che cosa, Elizabeth?»
Lei annuì. «Sì. Buonanotte, Edward.»
E così, di punto in bianco, mi fu comunicato che la sua mente stava cominciando a svagare di nuovo. Ma Wireman l'avrebbe riportata dentro.
Wireman si sarebbe preso cura di lei. E finché lui ne fosse stato in grado,
lei si sarebbe presa cura di entrambi. Li lasciai fermi sul selciato sotto l'arco del cancello, tra il deambulatore e la carrozzella, lei che lo cingeva con
le braccia, lui con la testa posata sul suo seno. Il ricordo è limpido.
Limpido.
10
La fatica della guida mi aveva sfinito e, credo, anche l'aver trascorso la
giornata fra tanta gente dopo che per tanto tempo vivevo in solitudine, ma
sdraiarmi era fuori discussione, figuriamoci cercare di dormire. Controllai
la posta elettronica e trovai comunicazioni da entrambe le mie figlie. Melinda si era presa un mal di gola a Parigi e lo stava affrontando come faceva sempre con tutte le malattie: come un torto personale. Ilse mi aveva
spedito il link del Citizen Times di Asheville, North Carolina. Lo cliccai e
trovai una sfegatata recensione dei Colibrì, che si erano esibiti alla Prima
Chiesa Battista e avevano fatto urlare alleluia ai fedeli convenuti. C'era anche una foto di Carson Jones e di una bionda alquanto attraente davanti al
resto della band, entrambi nell'atto di cantare e anche di guardarsi occhi
negli occhi. «Carson Jones e Bridget Andreisson duettano in How Great
Thou Art», diceva la didascalia. Mmm. La mia If-So-Girl aveva scritto:
«Non sono per niente gelosa». Doppio mmm.
Mi preparai un sandwich di mortadella e formaggio (tre mesi a Duma
Key e ancora non mi era venuta a noia la mortadella), quindi salii nello
studio. Guardai i quadri di Bambina e nave che erano in realtà Ilse e nave.
Pensai a Wireman che mi chiedeva che cosa stessi dipingendo in quei
giorni. Pensai al lungo messaggio che Elizabeth mi aveva lasciato in segreteria. L'ansia nella sua voce. Aveva detto che dovevo prendere precauzioni.
Quella sera aveva detto: Presto arriveranno le rapide.
Presi una decisione improvvisa e tornai giù, scendendo le scale più veloce che potevo senza cadere.
11
A differenza di Wireman, non mi trascino dietro il mio vecchio e rigonfio Lord Buxton; di solito m'infilo nella tasca anteriore una carta di credito,
la patente e una piccola scorta di contante e mi ritengo soddisfatto. Il portafogli era chiuso a chiave nel cassetto della scrivania in soggiorno. Andai
a prenderlo, passai in rassegna i biglietti da visita e trovai quello con la
scritta SCOTO GALLERY in lettere dorate a sbalzo. Ascoltai come previsto il messaggio registrato per le telefonate in arrivo dopo l'orario di chiusura. Quando Dario Nannuzzi ebbe finito il suo discorsetto e il segnale acustico diede il suo segnale, dissi: «Salve, signor Nannuzzi, sono Edgar
Freemantle da Duma Key. Sono...» Mi interruppi per qualche attimo, stavo
per dire tizio e sapevo che per lui non lo ero. «Sono l'artista dei tramonti
con le grandi conchiglie e le piante e gli altri oggetti. Lei mi ha ventilato la
possibilità di allestire una mostra dei miei lavori. Se è ancora interessato,
vuole darmi un colpo di telefono?» Lasciai il mio numero e riappesi sen-
tendomi un po' meglio. Sentendomi come se avessi almeno fatto qualcosa.
Presi una birra dal frigo e accesi la TV, pensando che avrei potuto trovarmi un film accettabile prima di andarmi a coricare. Le conchiglie sotto
la casa avevano assunto un andamento piacevole, rilassante, quella sera la
loro conversazione era educata e sommessa.
Furono cancellate dalla voce di un uomo in piedi in mezzo a una foresta
di microfoni. Era Channel 6 e la star del momento era l'avvocato che il tribunale aveva assegnato a Candy Brown. Doveva aver tenuto quella conferenza stampa ora ritrasmessa in differita più o meno nel momento in cui
Wireman si faceva esaminare la testa. L'avvocato doveva essere sui cinquant'anni e portava l'immancabile codino, ma non c'era altro di scontato
in lui. L'atteggiamento era quello di un professionista che si sente investito.
Stava dicendo ai giornalisti che il suo cliente si sarebbe dichiarato non colpevole invocando l'infermità mentale.
Affermò che il signor Brown era un tossicodipendente e un pornodipendente e che era schizofrenico. Ancora niente sulla sua fragilità davanti ai
gelati e alle compilation dei grandi crooner americani, ma naturalmente la
giuria non era stata ancora insediata. Oltre al microfono di Channel 6, vidi
i marchi di NBC, CBS, ABC, Fox e CNN. Tina Garibaldi non avrebbe
raggiunto tanta notorietà nemmeno vincendo una gara di spelling o un
concorso di scienze naturali per scolari delle medie, nemmeno se avesse
salvato il cane di famiglia da un fiume in piena. Ma a farsi violentare e assassinare ci si guadagna i titoli di testa in tutta la nazione. Tutti sanno che
il tuo assassino ha le tue mutandine nel cassetto del comò.
«È una vittima innocente della sua situazione», proseguì l'avvocato. «Erano tossicodipendenti sua madre ed entrambi i suoi patrigni. La sua infanzia è stata un orrore durante la quale è stato sistematicamente percosso e
violentato. Ha trascorso alcuni periodi in strutture per malattie mentali.
Sua moglie è una donna di buon cuore, ma mentalmente labile lei stessa.
Non si sarebbe dovuto lasciarlo circolare liberamente fin dal principio.»
Si rivolse alle telecamere.
«Questo è un crimine di Sarasota, non di George Brown. Il mio cuore va
alla famiglia Garibaldi, piango con i genitori della Garibaldi...» Alzò il
mento fissando gli obiettivi con gli occhi asciutti, come a volerne dare dimostrazione. «...ma chiudere per la vita George Brown a Starke non riporterà in vita Tina e non riparerà il sistema guasto che ha lasciato libero e incustodito questo essere umano così gravemente disadattato. Tanto avevo
da dichiarare, grazie di avermi ascoltato, e ora, se volete scusarmi...»
Si girò per andarsene ignorando le domande che gli gridavano i giornalisti e tutto sarebbe potuto andare bene, sarebbe stato almeno diverso, se avessi spento la TV o avessi cambiato subito canale. Ma non lo feci. Guardai il mezzobusto di Channel 6 che dallo studio commentava: «Royal
Bonnier, un crociato della giustizia che ha vinto alcune importanti cause
perse assumendone gratuitamente la difesa, ha dichiarato che si adopererà
in tutti i modi possibili perché il video che mandiamo in onda adesso, registrato da una telecamera di sorveglianza dietro il Bealls Department Store,
sia escluso dal processo».
E a quel punto ripartì quella maledetta registrazione. La bambina che entrava in scena da destra verso sinistra con il suo zaino sulla schiena. Brown
che sbuca dalla rampa e la prende per il polso. Lei lo guarda e sembra che
gli rivolga una domanda. Ed è lì che il prurito si avventò sul mio braccio
mancante come uno sciame di api.
Lanciai un grido - di sorpresa oltre che di dolore - e caddi per terra grattandomi quello che non c'era, o a cui non potevo arrivare, tirandomi dietro
il telecomando e il piatto del mio sandwich. Mi sentii urlare di smetterla, ti
prego smettila. Ma naturalmente c'era un solo modo perché cessasse. Mi
sollevai sulle ginocchia e raggiunsi carponi le scale, cosciente dello scricchiolio del telecomando che si ruppe quando vi calcai sopra un ginocchio,
non prima però d'aver cambiato stazione. Mi ero sintonizzato su Country
Music Television. Alan Jackson cantava di omicidi. Due volte mentre salivo le scale cercai di afferrare il corrimano, per dire fino a che punto sentivo la presenza della mia mano destra. Udii il suono liquido del mio palmo
sudato che stringeva il legno un attimo prima di passarci attraverso come
fosse fumo.
In qualche maniera arrivai in cima e mi tirai in piedi. Alzai tutti gli interruttori con l'avambraccio e arrancai disordinatamente al mio cavalletto. Su
di esso c'era un Bambina e nave non ancora finito. Lo tolsi senza nemmeno
guardarlo e lo sostituii con una tela nuova. Respiravo in piccoli gemiti caldi. Mi colava sudore dai capelli. Presi uno straccio e me lo sbattei sulla
spalla come facevo con i bavaglini quando le ragazze erano piccole. Afferrai un pennello tra i denti, me ne sistemai un secondo dietro l'orecchio, fui
sul punto di prenderne un terzo, poi scelsi invece una matita. Appena cominciai a disegnare, il prurito mostruoso al braccio diminuì. A mezzanotte
il disegno era finito e il prurito era scomparso. Solo che non avevo fatto un
quadro qualunque, non questa volta; questa volta avevo fatto Il Quadro, ed
era buono, se lo dico io. E io lo dico. Ero davvero un bastardo di talento.
C'era Candy Brown con la mano serrata sul polso di Tina Garibaldi. C'era
Tina che alzava il viso verso di lui e lo guardava con quegli occhi scuri,
terribili nella loro innocenza. Avevo colto così bene la sua espressione che
se i suoi genitori avessero dato anche una sola occhiata al lavoro finito, avrebbero avuto voglia di suicidarsi. Ma i suoi genitori non lo avrebbero
mai visto.
No, non questo.
Il mio disegno era una copia quasi precisa della fotografia che avevo visto su tutti i giornali della Florida almeno una volta dal 15 febbraio in avanti, probabilmente replicata su quasi tutti i quotidiani della nazione. C'era una sola importante differenza. Sono certo che Dario Nannuzzi vi avrebbe visto il mio tocco distintivo - Edgar Freemantle, il Primitivo Americano che sconfigge abilmente il cliché, impegnandosi a reinventare
Candy e Tina, un abbinamento concepito all'inferno - ma nemmeno Nannuzzi avrebbe mai visto quel lavoro.
Rituffai i miei pennelli nei vasetti da maionese. Ero tutto macchiato di
colori fino al gomito e lungo il lato sinistro della faccia, ma pulirmi non mi
passò nemmeno per l'anticamera del cervello.
Avevo troppa fame.
C'erano degli hamburger, ma erano congelati. Lo stesso l'arrosto di maiale che Jack mi aveva preso la settimana prima. E quel che restava della
mia scorta di mortadella, l'avevo consumato per cena. Avevo tuttavia una
confezione ancora sigillata di Special K con yogurt e frutta. Cominciai a
versarne un po' in una scodella, ma famelico com'ero, una scodella mi
sembrava poco più grande di un ditale. La spinsi via, così forte da farla
sbattere contro il portapane e presi invece da un pensile un'insalatiera, in
cui rovesciai l'intera scatola. Inondai i cereali con mezzo litro di latte, aggiunsi sette o otto cucchiaioni di zucchero e finalmente mi ci buttai, fermandomi una sola volta per versare altro latte. Svuotai l'insalatiera, poi mi
trascinai a letto, facendo sosta al televisore per zittire il cowboy urbano che
si stava esibendo in quel momento. Crollai di traverso sul copriletto e mi
ritrovai faccia a faccia con Reba nel mormorio delle conchiglie sotto Big
Pink.
Cosa hai fatto? mi chiese Reba. Cosa hai fatto questa volta, cattivo?
Cercai di rispondere Niente, ma mi addormentai prima di pronunciare la
parola. E poi... sapevo che non era vero.
12
Mi svegliò il telefono. Riuscii a pigiare il tasto giusto al secondo tentativo e dissi qualcosa che somigliava vagamente a pronto.
«Muchacho, svegliati e vieni a fare colazione!» esclamò Wireman. «Bistecca e uova! Si festeggia!» Fece una pausa. «Io almeno festeggio. La signorina Eastlake è di nuovo svampita.»
«Che cosa festeg...» Ma ci arrivai da solo, l'unico motivo possibile, e mi
alzai a sedere di scatto facendo rotolare Reba sul pavimento. «Ci vedi di
nuovo?»
«Non è quella la bella notizia, purtroppo, ma è bella lo stesso. È una cosa per cui può festeggiare tutta Sarasota. Candy Brown, amigo. Questa
mattina all'appello le guardie lo hanno trovato morto nella sua cella.»
Per un attimo il prurito mi saettò lungo tutto il braccio destro, ed era rosso.
«Cosa dicono?» domandai meccanicamente. «Suicidio?»
«Non lo so, ma comunque sia, suicidio o cause naturali, ha fatto risparmiare un sacco di soldi allo stato della Florida e ai genitori l'angoscia del
processo. Vieni qui a suonare qualche trombetta con me, che ne dici?»
«Dammi il tempo di vestirmi», risposi. «E lavarmi.» Mi guardai il braccio. Era tutto inzaccherato di colori vari. «Sono rimasto su fino a tardi.»
«A dipingere?»
«No, a sbattermi Pamela Anderson.»
«Mi dispiaccio della tua immaginazione, Edgar, mi sembra un po' sterile. Io la notte scorsa mi sono sbattuto la Venere di Milo e aveva le braccia.
Non metterci troppo. Come ti piacciono gli huevos?»
«Ah... strapazzate. Mi ci vorrà mezz'ora.»
«Perfetto. Devo dire che non mi sembri molto entusiasta del mio bollettino.»
«Sto ancora cercando di svegliarmi. Devo dire comunque che sono molto contento che sia morto.»
«Prendi un numero e mettiti in coda», ribatté lui prima di riattaccare.
13
Siccome il telecomando era rotto, dovetti sintonizzare la TV manualmente, una tecnica antiquata che scoprii di non aver dimenticato. Sul 6,
Tutto Tina, Sempre Tina era stato sostituito da un nuovo show: Tutto
Candy, Sempre Candy. Alzai il volume da spaccare i timpani e ascoltai
mentre mi strofinavo via i colori a olio.
Sembrava che George «Candy» Brown fosse morto nel sonno. «Mai
sentito uno russare così», aveva commentato un secondino. «Tra di noi si
scherzava che, se non fosse stato in isolamento, i suoi compagni di cella lo
avrebbero ammazzato solo per quello.» Un medico disse che sembrava un
caso di apnea nel sonno e avanzava l'ipotesi che Brown potesse essere
morto per una conseguente complicazione. Aggiunse che decessi di quel
genere erano insoliti negli adulti ma non senza precedenti.
L'apnea nel sonno mi sembrava una buona possibilità, ma pensavo che la
complicazione fossi stato io. Ripulito quasi del tutto dai colori, salii nello
studio per un'occhiata alla mia versione del Quadro nella luce obliqua del
mattino. Non pensavo che lo avrei trovato buono come mi era sembrato
quando ero sceso barcollando a far fuori un'intera confezione di cereali:
non poteva essere, considerata la velocità con cui lo avevo eseguito.
Invece lo era. C'era Tina, in jeans e un'intonsa T-shirt rosa, con il suo
zaino in spalla. C'era Candy Brown, anche lui in jeans, con la mano sul
polso della bambina. Lei alzava gli occhi verso di lui e aveva la bocca socchiusa, come per porgli una domanda, quasi certamente: Che cosa vuole,
signore? Lui aveva gli occhi rivolti a lei ed erano colmi di nere intenzioni,
ma il resto del suo volto non mostrava nulla, perché il resto del suo volto
non c'era. Non avevo dipinto la bocca e il naso.
Sotto gli occhi, la mia versione di Candy Brown era un triangolo vuoto.
10
Bubble Reputation
1
Ero salito sull'aereo che mi avrebbe portato in Florida indossando un pesante montgomery, lo indossai la mattina in cui percorsi zoppicando il tratto di spiaggia che divideva Big Pink da El Palacio de Asesinos. Faceva
freddo, con un vento teso che giungeva dal Golfo, dove l'acqua sembrava
acciaio spezzato sotto un cielo vuoto. Se avessi saputo che quello sarebbe
stato l'ultimo giorno in cui avrei patito il freddo a Duma Key, forse me lo
sarei goduto... ma probabilmente no. Avevo perso lo spirito con cui si soffre il freddo con piacere.
In ogni caso non sapevo bene dove mi trovassi. Mi ero appeso alla spalla
la sacca di tela per le mie raccolte, perché portarla con me in spiaggia era
ormai una seconda natura, ma non vi infilai una sola conchiglia o reperto
di alcun genere. Camminai e basta, muovendo la gamba lesa senza veramente sentirla, ascoltando il vento che mi fischiava sulle orecchie senza
veramente udirlo e guardando i peep correre dentro e fuori la risacca senza
veramente vederli.
Pensavo: L'ho ucciso esattamente come ho ucciso il cane di Monica
Goldstein. So che sembra una cazzata senza senso, ma...
Ma non sembrava affatto una cazzata. Non era una cazzata.
C'era un motivo se non gli avevo disegnato bocca e naso, un motivo assolutamente logico.
Gli avevo fermato il respiro.
2
Sul lato sud di El Palacio c'era un solarium chiuso da vetrate. Si affacciava sul groviglio di vegetazione tropicale da una parte e sul blu metallico
del Golfo dall'altra. Lì era seduta Elizabeth sulla sua sedia a rotelle con un
vassoio applicato ai braccioli. Da quando l'avevo conosciuta, era la prima
volta che la vedevo imprigionata nella sua carrozzella. Il vassoio, sporco di
grumi di uova strapazzate e briciole di toast, sembrava reduce dal pasto di
un bambino piccolo. Wireman l'aveva persino imboccata facendole bere il
suo succo di frutta da una tazza antigoccia. Il piccolo televisore portatile
nell'angolo era sintonizzato su Channel 6. Era ancora Tutto Candy, Sempre
Candy. Era morto e Channel 6 si masturbava sul suo cadavere. Senza dubbio non meritava di meglio, ma era macabro lo stesso.
«Credo che abbia finito», disse Wireman, «ma preferirei che restassi qui
con lei mentre io ti strapazzo un paio d'uova e ti brucio il toast.»
«Volentieri, ma non ti devi disturbare per me. Ho lavorato fino a tardi e
poi ho mangiato un boccone.» Un boccone. Come no. Avevo visto l'insalatiera vuota nel lavello in cucina mentre uscivo.
«Nessun disturbo. Come vanno stamane gamba e anca?»
«Non male.» Era la verità. «Et tu, Brute?»
«Bene, grazie.» Ma aveva l'aria stanca, l'occhio sinistro era ancora rosso
e umido. «Cinque minuti e ho fatto.»
Elizabeth era quasi completamente assente. Quando le offrii la tazza,
bevve un sorsetto e poi girò la testa dall'altra parte. Nell'impietosa luce invernale il suo viso era più vecchio che mai e la sua espressione smarrita.
Riflettei che facevamo un bel terzetto: la donna senile, l'ex avvocato con
una pallottola nel cervello e l'ex costruttore monco. Ciascuno con le proprie cicatrici di guerra sul lato destro della testa. In TV l'avvocato di Candy
Brown - ex avvocato ormai, immagino - sollecitava un'inchiesta. Elizabeth
parlò forse a nome di tutta la contea di Sarasota al riguardo chiudendo gli
occhi, abbandonandosi in avanti contro la cinghia che le spinse all'infuori
il seno abbondante e addormentandosi.
Tornò Wireman con uova per entrambi e io mangiai la mia parte con
sorprendente appetito. Elizabeth cominciò a russare. Una cosa era sicura:
se fosse andata in apnea nel sonno, la sua non sarebbe stata una morte precoce.
«Ti è scappata una punticina sull'orecchio, muchacho», disse Wireman e
si toccò il lobo con la forchetta.
«Eh?»
«Colore. Sul tuo brutto muso.»
«Sì», risposi. «Ne troverò ancora da grattar via per un paio di giorni.
L'ho sbattuto da tutte le parti.»
«Cosa dipingevi in piena notte?»
«Non voglio parlarne adesso.»
Alzò le spalle e annuì. «Ti sta prendendo quella cosa degli artisti. Quella
posa.»
«Non ti ci mettere.»
«Triste quando uno offre rispetto e l'altro sente sarcasmo.»
«Scusa.»
Scacciò la questione con un gesto della mano. «Mangia i tuoi huevos.
Cresci grande e forte come Wireman.»
Mangiai i miei huevos. Elizabeth russava. La TV chiacchierava. Ora la
scena era stata ceduta alla zia di Tina Garibaldi, una ragazza non molto più
grande di mia figlia Melinda. Stava dicendo che Dio aveva deciso che lo
stato della Florida sarebbe stato troppo lento e aveva punito «il mostro»
Lui Stesso. Ci hai praticamente azzeccato, muchacha, pensai io, solo che
non è stato Dio.
«Spegni quella cloaca», sbottai.
Lui mi accontentò, quindi si girò verso di me e mi guardò con attenzione.
«Forse hai ragione su quella storia dell'atteggiamento da artista. Ho deciso di mettere in mostra i miei lavori alla Scoto, se quel Nannuzzi è ancora ben disposto.»
Wireman sorrise e batté delicatamente le mani per non svegliare Eliza-
beth. «Eccellente! Edgar a caccia della bubble reputation! E perché no?
Perché diavolo girare le spalle alla fama?»
«Io non cerco nessuna fama di nessun tipo», ribattei chiedendomi se fossi del tutto sincero. «Ma se mi offrono un contratto, torneresti al lavoro il
tempo necessario che serve per darci un'occhiata?»
Il suo sorriso si spense. «Lo farò se ci sarò, ma non so per quanto tempo
sarò ancora qui.» Vide la mia espressione e alzò una mano. «Non sto ancora intonando la Marcia Funebre, ma fatti questa domanda tu stesso, mi amigo: sono ancora la persona giusta per occuparsi della signorina Eastlake? Nelle mie condizioni attuali?»
E siccome quello era un ginepraio nel quale non intendevo addentrarmi,
non quel giorno, gli chiesi: «Com'è che sei finito a farle da assistente?»
«Ha importanza?»
«Potrebbe averne.»
Pensavo a come avessi iniziato il mio soggiorno a Duma Key sulla base
di una presunzione, quella di essere stato io a sceglierlo, per poi giungere a
concludere che forse era accaduto il contrario. Mi ero persino domandato,
di solito disteso sul letto mentre ascoltavo il bisbiglio delle conchiglie, se il
mio incidente fosse stato davvero un incidente. Naturalmente lo era stato,
doveva essere così, ma era ancora facile vedere analogie tra il mio incidente e quello di Julia Wireman. Io avevo avuto la gru, lei il camioncino municipale. D'altra parte ci sono persone - per molti versi esseri umani del tutto funzionanti - che vi diranno di aver visto il volto di Gesù su un taco.
«Se ti aspetti un'altra lunga storia», cominciò Wireman, «te lo puoi scordare. Per inaridire me ce ne vuole, ma allo stato attuale, il pozzo è quasi
asciutto.» Rivolse un'occhiata pensierosa a Elizabeth. Forse con una punta
d'invidia. «La notte scorsa non ho dormito molto bene.»
«Dammi una versione sintetica, allora.»
Si strinse nelle spalle. Il suo febbrile buonumore era scomparso come la
schiuma in un boccale di birra. Le sue spalle muscolose erano curvate in
avanti e gli incassavano il torace. «Dopo che Jack Fineham mi ha
'licenziato', ho deciso che Tampa era abbastanza vicino a Disney World.
Solo che quando ci sono arrivato, ero stufo marcio.»
«Capisco.»
«Pensavo anche di dover fare penitenza. Non volevo andare nel Darfur o
a New Orleans a fare volontariato, anche se ci ho pensato. Mi sembrava
che le palline con i numeri della lotteria stessero ancora saltellando e che
ne mancasse ancora una, con l'ultimo numero.»
«Già», feci io. Un dito gelido mi toccò la base del collo. Delicatamente.
«Ancora un numero. Conosco la sensazione.»
«Sí, señor, lo so. Aspettavo la maniera giusta di fare del bene sperando
di riportarmi in parità. Perché sentivo di essere in debito. E un giorno ho
visto un annuncio sul Tribune di Tampa. 'Cercasi assistente per signora anziana e amministratore per alcune prestigiose abitazioni isolane in locazione. Si pregano gli interessati di inoltrare curriculum e referenze adeguate a
eccellente stipendio con benefit. Trattasi di posizione di riguardo che la
persona giusta troverà remunerativa. Deve essere solvibile.' Io ero solvibile
e mi piaceva l'idea. Mi sono presentato a un colloquio con l'avvocato della
signorina Eastlake. Mi ha detto che la coppia che si occupava precedentemente di lei era stata richiamata nel New England quando un genitore
dell'uno o dell'altro era stato vittima di un gravissimo incidente.»
«E tu hai preso il loro posto. Ma?...» Alzai il dito a indicare la sua tempia.
«Non gli ho detto niente. Era già abbastanza dubbioso, credo che si domandasse per quale strano motivo un leguleio di Omaha avrebbe voluto
passare un anno a mettere a letto una vecchietta e a far sferragliare le serrature di case che per quasi tutto il tempo restano vuote. Ma la signorina...»
Si allungò per accarezzarle la mano rattrappita. «Ci siamo capiti subito, al
primo sguardo, non è vero cara?»
Lei continuò a russare ma io vidi l'espressione sul volto di Wireman e
sentii quel dito gelido che mi toccava di nuovo il collo, con una pressione
un po' maggiore questa volta. Lo sentii ed ebbi un'intuizione: noi tre eravamo lì perché c'era qualcosa che lì ci voleva. La mia consapevolezza non
si basava su quel genere di ragionamento logico al quale ero stato addestrato e grazie al quale avevo costruito il mio successo aziendale, ma non
mi importava. Lì a Duma ero una persona diversa e la sola logica che mi
serviva era nelle mie terminazioni nervose.
«Provo per lei una stima immensa, sai?» riprese Wireman. Raccolse il
tovagliolo con un sospiro, quasi che fosse qualcosa di pesante, e si asciugò
gli occhi. «Quando sono arrivato qui, tutto il feroce accanimento di cui ti
ho raccontato era finito. Ero svuotato, un uomo grigio in un clima di blu e
azzurro che poteva leggere solo pochi paragrafi di giornale se non voleva
essere accecato da un'emicrania insopportabile. Mi aggrappavo a un solo
concetto semplice: avevo un debito da saldare. Lavoro da fare. L'avrei trovato e fatto. Il resto non mi interessava. La signorina Eastlake non mi ha
propriamente assunto, direi che piuttosto mi ha accolto. Quando sono arri-
vato qui non era così, Edgar. Era brillante, era divertente, era altezzosa,
ammiccante, capricciosa, esigente... sapeva farmi passare il cattivo umore
con le buone o con le cattive, se voleva, e spesso lo faceva.»
«Era in gamba.»
«Eccome. Un'altra al suo posto si sarebbe ormai rassegnata completamente alla sedia a rotelle. Lei si issa con tutto quanto il suo peso su quel
deambulatore e gira per questo museo, nel giardino... Fino a qualche tempo fa le piaceva tirare al bersaglio, qualche volta con una delle vecchie pistole di suo padre, ma più spesso con quella pistola balestra perché ha meno rinculo. E perché dice che le piace il rumore. La vedi con quell'aggeggio tra le mani e veramente sembra la Sposa del Padrino.»
«È così che l'ho vista io la prima volta.»
«Io mi ci sono affezionato subito e l'affetto verso di lei è diventato qualcosa di più. Julia mi chiamava mi compañero. Mi torna in mente spesso
quando sono con la signorina. Lei è mi compañera, mi amiga. Mi ha aiutato a trovare il mio cuore quando credevo che il mio cuore se ne fosse andato.»
«Direi che sei stato fortunato.»
«Forse yes, forse no. E ti dirò, sarà dura lasciarla. Che cosa farà quando
arriverà una persona nuova? Una persona nuova non sa che la mattina le
piace bere il suo caffè in fondo alla passerella... o che fa finta di gettare
quella stupida scatola da biscotti nel laghetto dei pesci... e lei non sarà in
grado spiegarglielo, perché ormai è entrata nella nebbia per sempre.»
Si girò verso di me e lo trovai sbattuto e non poco nervoso.
«Scriverò tutto, ecco che cosa farò, tutto quello che c'è da sapere. Quello
che c'è da fare da mattina a sera. E tu ti assicurerai che chi prenderà il mio
posto ci stia dietro. Non è vero, Edgar? Voglio dire, le vuoi bene anche tu,
no? Non vorresti che avesse a patire. E Jack! Forse potrebbe dare una mano anche lui. So che non è giusto chiederlo, ma...»
Gli era venuto in mente dell'altro. Si alzò e si mise a contemplare il Golfo. Aveva perso peso. La pelle sugli zigomi era così tesa da essere lucida. I
capelli gli pendevano disordinati sulle orecchie, bisognosi d'essere lavati.
«Se muoio... e potrebbe succedere, potrei spegnermi così come il señor
Brown, se me ne vado dovrai prendere tu il mio posto finché l'avvocato
non avrà trovato un nuovo aiuto residente. Non dovrebbe esserti di eccessiva scomodità, puoi dipingere anche da qui. La luce è ottima, non è vero?
La luce è splendida!»
Cominciava a farmi paura. «Wireman...»
Ruotò su se stesso e ora i suoi occhi erano accesi, quello sinistro attraverso un reticolo di sangue. «Promettimelo, Edgar! Abbiamo bisogno di un
piano! Senza un piano, la porteranno via e la metteranno in un ospizio e
morirà entro un mese! Una settimana! Lo so! Dunque prometti!»
Non escludevo che avesse ragione. E pensavo che se non fosse riuscito a
disperdere un po' della pressione che aveva accumulato dentro di sé, c'era
il rischio che gli venisse una crisi convulsiva. Così promisi. Poi dissi: «Può
darsi che tu viva molto più a lungo di quel che credi, Wireman».
«Certo. Ma metterò comunque tutto nero su bianco. Tanto per non sbagliare.»
3
Mi offrì di nuovo il golf-cart del Palacio per tornare a Big Pink. Gli risposi che mi sentivo abbastanza in forma per poter camminare, ma che non
mi sarebbe spiaciuto un bicchiere di spremuta prima di partire.
Il succo d'arancia della Florida appena spremuto mi gusta come a tutti,
ma confesso che quel mattino in particolare avevo un motivo ulteriore. Mi
lasciò nella piccola reception sul lato della spiaggia del vestibolo centrale
di El Palacio. Usava quel locale come ufficio, anche se mi sfuggiva come
potesse occuparsi della corrispondenza un uomo che non era in grado di
leggere per più di cinque minuti di fila. Immaginavo - e la cosa mi commosse - che Elizabeth lo avesse aiutato, e non poco, prima che le sue condizioni cominciassero a peggiorare.
Quando ero arrivato per la colazione, avevo gettato un occhio in quella
stanza e avevo scorto una certa cartelletta grigia posata sul coperchio abbassato di un laptop che con tutta probabilità Wireman usava ormai solo
molto saltuariamente. L'aprii e presi una delle tre lastre.
«Bicchiere piccolo o bicchiere grande?» mi gridò Wireman dalla cucina,
facendomi prendere un tale spavento che per poco mi scappò di mano la
lastra.
«Medio!» risposi. Infilai la radiografia nella mia sacca da raccolta e richiusi la cartelletta. Cinque minuti dopo ero in viaggio sulla spiaggia.
4
Non mi piaceva rubare a un amico, nemmeno se si trattava di una semplice foto ai raggi X. Né mi piaceva tenere per me quello che ero sicuro di
aver fatto a Candy Brown. Avrei potuto confidarlo a lui; dopo Tom Riley,
mi avrebbe senz'altro creduto. Anche senza quell'afflato di facoltà extrasensoriale, mi avrebbe creduto. Ma era proprio quello il problema. Wireman non era uno stupido. Se ero in grado di spedire Candy Brown all'obitorio della contea di Sarasota usando un pennello, allora forse avrei potuto
fare per un certo ex avvocato con una lesione cerebrale quello che non erano stati in grado di fare i medici. E se non fosse stato così? Meglio non alimentare false speranze... almeno fuori dal mio cuore, dove erano clamorosamente alte.
Arrivai a Big Pink con l'anca che urlava. Abbandonai il montgomery
nell'armadio, presi un paio di OxyContin e vidi che la spia della mia segreteria telefonica lampeggiava.
Era Nannuzzi. Era felice di sentirmi. Sì, ma certo, diceva, se il resto dei
miei lavori erano all'altezza di quelli che aveva visto lui, la Scoto sarebbe
stata onorata e orgogliosa di finanziare un'esposizione delle mie opere, e
prima di Pasqua, quando i villeggianti invernali tornavano a casa. Sarebbe
stato possibile per lui e uno o più dei suoi partner venire a trovarmi nel
mio studio per vedere alcuni degli altri miei lavori finiti? Avrebbe volentieri portato con sé una bozza di contratto da sottoporre alla mia attenzione.
Erano buone notizie, notizie eccitanti, ma in un certo senso era come se
venissero trasmesse su un altro pianeta, a un altro Edgar Freemantle. Salvai il messaggio e, quando stavo per salire le scale con la lastra fotografica
rubata, mi fermai a riflettere. Little Pink non andava bene perché il cavalletto non andava bene. Neppure tele e colori a olio andavano bene. Non per
quel che avevo in mente.
Mi ritrascinai la gamba malandata nel grande soggiorno. Sul tavolino
c'erano degli album e alcune scatole di matite colorate, ma non andavano
bene neanche quelle. Nel braccio destro mancante mi si diramava un vago
prurito e per la prima volta pensai di potercela fare davvero... se avessi
trovato il medium giusto per il messaggio.
Mi venne da riflettere che un medium è anche una persona che riferisce
sotto dettatura dal Grande Aldilà, e questo mi fece ridere. Con una punta di
nervosismo, è vero.
Andai in camera da letto senza sapere bene cosa stessi cercando. Poi
guardai la porta dell'armadio a muro e capii. La settimana prima mi ero fatto accompagnare da Jack a fare acquisti, non al Crossroads Mall, ma in
una delle boutique di abbigliamento maschile al St. Armand's Circle. E avevo comprato qualche camicia. Erano ancora nelle loro buste di cellofan.
Le strappai, sfilai gli spilli e ributtai le camicie nell'armadio, una sull'altra.
Non mi interessavano le camicie. Mi interessavano gli inserti di cartone.
Quei rettangoli bianchi bianchi.
In una tasca della borsa del mio portatile trovai una Sharpie. Avevo
sempre avuto in antipatia le Sharpie per l'odore d'inchiostro e per la tendenza che avevano a macchiare. Mi ero invece affezionato a quella in particolare per le belle linee grasse e decise che tracciava, linee che sembravano affermarsi di realtà propria. Presi gli inserti di cartone, la Sharpie e la
lastra del cervello di Wireman e mi trasferii nella Florida room, dove la luce era forte ed enfatica.
Il prurito nel braccio mancante si era intensificato. Ma ora era diventato
quasi un amico.
Non avevo una di quelle tavole luminose su cui posano le lastre fotografiche i medici quando vogliono studiarle, ma la grande vetrata della Florida room mi offriva un sostituto più che accettabile. Non ebbi bisogno neppure di usare del nastro adesivo. Infilai il bordo della lastra tra il vetro e il
telaio cromato ed eccola lì, quella cosa che molti sostenevano non esistesse: il cervello di un avvocato. Sospesa sullo sfondo del Golfo. Per un po'
rimasi fermo a guardarlo, non so per quanto tempo, due minuti? Quattro?
Ero affascinato dall'effetto cromatico dell'acqua blu vista attraverso le merlature grigie, dal modo in cui quelle pieghe trasformavano l'acqua in nebbia.
Il proiettile era una scaglia nera, leggermente frastagliata. Somigliava un
po' a un piccolo scafo galleggiante. Una barca a remi nel caldo largo.
Cominciai a disegnare. La mia intenzione era di disegnare semplicemente il suo cervello intatto, senza proiettile, ma ne venne fuori molto di più.
Proseguii aggiungendo l'acqua, vedete, perché era come se mi fosse richiesto. O dal disegno, o dal braccio mancante. Ma forse erano la stessa cosa.
Era solo un suggerimento del Golfo, ma c'era e tanto bastava perché funzionasse alla perfezione, perché io ero davvero un bastardo di talento. Mi
ci vollero solo venti minuti e quand'ebbi finito avevo disegnato un cervello
umano che galleggiava nel Golfo del Messico. Era, in un certo senso, sensazionale.
Era anche terrificante. Non è una parola che mi va di usare per il mio lavoro, ma è inevitabile. Quando staccai la lastra dal vetro e la confrontai
con il mio disegno - proiettile nella realtà, nessun proiettile nell'arte - presi
atto di qualcosa che forse avrei dovuto vedere molto prima. Certamente
dopo che avevo iniziato la serie di Bambina e nave. Quello che facevo non
funzionava solo perché trovava rispondenza nelle terminazioni nervose;
funzionava perché la gente sapeva - a un livello indefinito di coscienza, ma
lo sapeva - che quello che stava guardando veniva da un luogo al di là del
talento. Il sentimento che trasmettevano i quadri di Duma era orrore, a
stento tenuto a bada. Orrore in attesa di manifestarsi. In vista, spinto da vele marce.
5
Avevo di nuovo fame. Mi preparai un sandwich e lo mangiai davanti al
computer. Mi stavo aggiornando sui Colibrì - erano diventati una piccola
ossessione per me - quando squillò il telefono. Era Wireman.
«Mi è passato il mal di testa», annunciò.
«Saluti sempre così?» lo apostrofai. «Devo aspettarmi che la prossima
volta che chiami cominci con: 'Sono appena andato di corpo'?»
«Non scherzarci sopra. Ho sempre sofferto di mal di testa fin dal momento in cui mi sono svegliato sul pavimento del soggiorno dopo essermi
sparato. Alle volte è solo rumore di sottofondo e altre mi assorda come un
Capodanno all'inferno, ma il dolore c'è sempre stato. Invece, mezz'ora fa, è
semplicemente sparito. Mi stavo facendo un caffè ed è sparito. Non riuscivo a crederci. All'inizio ho pensato di essere morto. Mi sono messo a
camminare in punta di piedi in attesa che tornasse e me ne pestasse uno di
quelli da stordirti con il martello di Maxwell's Silver Hammer, e invece
niente.»
«Lennon-McCartney», dissi io. «Millenovecentosessantotto. E non dirmi
che mi sbaglio su questo.»
Non mi disse niente. A lungo. Ma lo sentivo respirare. Poi, finalmente:
«Hai fatto qualcosa, Edgar? Dillo a Wireman. Dillo al tuo papà».
Fui lì lì per rispondergli che non avevo fatto proprio un bel niente. Poi
me lo immaginai controllare la sua cartelletta e scoprire che mancava una
lastra. Considerai il mio sandwich, ferito ma tutt'altro che morto. «Come
va con la vista? Nessun cambiamento?»
«No, la lampadina di sinistra è sempre bruciata. E secondo Principe, non
si accenderà più. Non in questa vita.»
Merda. Ma in cuor mio non avevo forse sentore che il mio lavoro non
fosse finito? Il mio armeggiare mattutino con la Sharpie e gli inserti di cartone ben poco aveva a che fare con il tormento e l'estasi della notte prima.
Ero stanco. Per quel giorno non avevo voglia di fare altro che starmene se-
duto a contemplare il Golfo. Guardare il sole scendere nel caldo largo senza mettermi a dipingerlo. Solo che c'era Wireman. Wireman, maledizione.
«Sei ancora lì, muchacho?»
«Sì», risposi. «Non è che oggi potresti far venire da te Annmarie Whistler per qualche ora?»
«Perché? Cosa hai in mente?»
«Voglio farti posare per un ritratto», spiegai. «Se l'occhio continua a non
funzionare, allora ho bisogno del Wireman reale.»
«Tu hai fatto qualcosa.» Aveva abbassato la voce. «Mi hai già dipinto?
A memoria?»
«Da' un'occhiata alla cartelletta con le tue radiografie», risposi. «Vieni
qui verso le quattro. Prima voglio dormire un po'. E porta qualcosa da
mangiare. Dipingere mi fa venir fame.» Pensai se rettificare in un certo
modo di dipingere, e rinunciai. Avevo già detto abbastanza.
6
Non ero sicuro che sarei riuscito a dormire, invece presi sonno. La sveglia mi aprì gli occhi alle tre. Salii nella Little Pink e sostai a esaminare la
mia scorta di tele nuove. La più grande era di un metro e mezzo per uno e
fu quella che scelsi. Estesi al massimo della sua corsa il supporto del mio
cavalletto e vi piazzai sopra la tela in verticale. Quel rettangolo bianco,
come una bara sollevata, mi sollecitò un palpito di emozione nello stomaco
e lungo il braccio destro. Flettei quelle dita. Non le potevo vedere, ma le
sentivo aprirsi e chiudersi. Sentivo le unghie premere il palmo. Erano lunghe, quelle unghie. Avevano continuato a crescere dopo l'incidente e non
c'era modo di tagliarle.
7
Stavo pulendo i miei pennelli quando Wireman arrivò risalendo la
spiaggia nella sua dondolante andatura da orso e mettendo in fuga i peep.
Indossava jeans e maglione, senza giacca. La temperatura aveva ripreso a
salire.
Mi gridò un saluto dalla soglia di casa e io ricambiai invitandolo a salire.
Si fermò prima di arrivare al pianerottolo e vide la grande tela sul cavalletto. «Santa miseria, amigo, quando hai parlato di ritratto, m'ero fatto l'idea
che ti saresti limitato alla testa.»
«È più o meno quello che ho in mente», spiegai, «ma ho paura che non
sarà molto realistico. Ho già fatto una bozza preliminare. Da' un'occhiata.»
La lastra rubata e il disegno erano sul ripiano inferiore del mio tavolo da
lavoro. Li porsi a Wireman, poi tornai a sedermi davanti al mio cavalletto.
La tela non era più completamente vuota. A tre quarti dell'altezza c'era un
rettangolo tracciato con una riga sottile. Lo avevo disegnato applicando alla tela l'inserto di cartone della camicia e passandoci intorno una matita del
numero due.
Wireman non disse niente per quasi due minuti. Continuava a spostare
gli occhi avanti e indietro dalla radiografia al disegno che ne avevo tratto
io. Poi, con un filo di voce così sommesso che stentai a udirlo: «Di che cosa stiamo parlando qui, muchacho? Che cosa stiamo dicendo?»
«Ancora niente», risposi. «Dammi l'inserto.»
«Inserto?»
«Sì, il cartone delle camicie. E fa' attenzione. Mi serve. Ci serve. Ora la
lastra non conta più.»
Mi passò il disegno sul cartone con una mano che non era del tutto ferma.
«Ora vai laggiù dove ci sono i quadri finiti. Guarda quello in fondo a sinistra. Nell'angolo.»
Andò, guardò e indietreggiò di un passo di soprassalto. «Miseria santa!
Quando lo hai fatto?»
«La scorsa notte.»
Lo prese e lo girò verso la luce che inondava la stanza dalla grande finestra. Guardò Tina, con il viso levato verso quello privo di bocca e di naso
di Candy Brown.
«Niente bocca, niente naso, Brown muore, caso chiuso», mormorò Wireman. «Gesù Cristo, che non mi capiti mai di essere il maricón de playa
che scalcia sabbia in faccia a te.» Posò nuovamente il quadro e si allontanò... piano piano, come se una vibrazione avesse potuto farlo esplodere.
«Che cosa ti ha preso? Che cosa ti ha posseduto?»
«Bella domanda», ribattei. «Non pensavo di fartelo vedere. Poi... considerato quello che abbiamo in programma adesso...»
«Che cosa abbiamo in programma?»
«Lo sai, Wireman.»
Barcollò leggermente, come se lo zoppo fosse lui. Ed era arrivato sudato. Gli luccicava il viso. L'occhio sinistro era ancora rosso, ma forse non
così rosso. Ma poteva anche essere solo il Dipartimento della Pia Illusione.
«Lo puoi fare?»
«Ci posso provare», risposi. «Se tu ci stai.»
Lui annuì e si tolse il maglione. «Avanti.»
«Ho bisogno che ti metta vicino alla finestra in modo che la luce ti illumini in pieno la faccia mentre il sole tramonta. In cucina c'è uno sgabello
che puoi usare. Fino a che ora si trattiene Annmarie?»
«Ha detto che può restare fino alle otto e che darà lei la cena alla signorina Eastlake. Per noi ho portato delle lasagne che metterò in forno alle
cinque e mezzo.»
«Bene.» Per l'ora in cui fossero state pronte le lasagne, non avrei avuto
comunque più luce a sufficienza. Avrei potuto scattargli qualche foto digitale, da fissare al cavalletto per lavorare da quelle. Ero veloce, ma già sapevo che questo impegno mi avrebbe preso molto tempo, almeno qualche
giorno.
Quando Wireman rientrò con lo sgabello che era andato a prendere in
cucina, si fermò trasalendo. «Ma cosa stai facendo?» proruppe.
«Secondo te?»
«Stai tagliando un buco in una tela ancora intatta.»
«Vai alla lavagna.» Posai il rettangolo che avevo ritagliato e presi quello
di cartone con l'immagine del cervello galleggiante. Girai dietro il cavalletto. «Aiutami a incollare questo.»
«Quand'è che hai architettato tutto questo, vato?»
«Non l'ho fatto.»
«Non l'hai fatto?» Mi guardava attraverso il ritaglio nella tela come i
mille curiosi che avevo visto spiare dalle mille fessure delle staccionate intorno ai miei cantieri edili.
«No. C'è qualcosa che mi dice quello che devo fare mentre procedo.
Vieni da questa parte.»
Con il suo aiuto sbrigammo i preparativi in un paio di minuti. Lui applicò il rettangolo di cartone al ritaglio nella tela. Io pescai dal taschino un
tubetto di colla e cominciai a fissarlo. Quando tornai dall'altra parte, era
perfetto. Almeno così sembrava a me.
Indicai la fronte di Wireman. «Questo è il tuo cervello», dissi. Poi indicai il cavalletto. «Questo è il tuo cervello su tela.»
Mi guardava disorientato.
«È uno scherzo, Wireman.»
«Non lo colgo», rispose.
8
Mangiammo come giocatori di football, quella sera. Chiesi a Wireman
se vedeva meglio e lui scosse malinconicamente la testa. «Sul lato sinistro
il mondo è ancora infinitamente nero, Edgar. Vorrei poter dire diversamente, ma non posso.»
Gli feci ascoltare il messaggio di Nannuzzi. Wireman rise e agitò il pugno. Era difficile non farsi commuovere dalla sua contentezza, che rasentava il giubilo. «Sei sulla pista di decollo, muchacho. Questa è senz'altro la
tua nuova vita. Non vedo l'ora di ammirarti sulla copertina del Time.» Alzò
le mani di taglio, come delimitando una copertina.
«C'è una sola cosa che mi preoccupa», cominciai... e a quel punto dovetti ridere. Erano molte le cose che mi preoccupavano, non una sola, compreso il fatto che non avessi la più pallida idea dei possibili guai in cui mi
stavo andando a cacciare. «È possibile che mia figlia voglia venire. Quella
che è già stata a trovarmi quaggiù.»
«Cosa c'è di male? È solo naturale che un uomo si senta orgoglioso e felice se le proprie figlie vogliono vederlo passare da dilettante a professionista. Dico, lo finisci quel po' di lasagne?»
Dividemmo l'avanzo. Siccome io ero quello con il temperamento artistico, mi presi la parte più grossa.
«Sarei felice che venisse. Ma il tuo boss-signora dice che Duma Key
non è posto per le figlie e, non so perché, ma mi viene da crederle.»
«Il mio boss-signora ha l'Alzheimer, che ormai comincia a farsi sentire
parecchio. La brutta notizia è che adesso non sa più distinguere il culo dalla bocca. La buona notizia è che conosce tutti i giorni gente nuova. Me
compreso.»
«Quella cosa sulle figlie, l'ha detta due volte e in entrambi i casi non era
via con la testa.»
«Può anche darsi che abbia ragione», ribatté. «Ma può anche darsi che
sia solo una fissa della signorina Eastlake, basata sul fatto che quando lei
aveva quattro anni due delle sue sorelle sono morte.»
«Ilse ha vomitato dal finestrino della mia macchina. Quando siamo tornati a casa stava ancora così male che si reggeva in piedi a stento.»
«Troppo sole e troppo di qualcosa di sbagliato che si è messa in pancia.
Senti, tu non vuoi correre questo rischio e io lo rispetto. Allora quello che
devi fare è mettere entrambe le tue figlie in un buon albergo dove c'è il
servizio in camera giorno e notte e il concierge si struscia e scodinzola
peggio di un barboncino. Ti suggerisco il Ritz-Carlton.»
«Tutt'e due? Melinda non potrà...»
Deglutì l'ultimo boccone di lasagne e spinse via il piatto. «Tu non stai
guardando questa cosa dall'angolazione giusta, muchacho, ma Wireman,
da quel riconoscente bastardo che è...»
«Non hai ancora niente di cui essere riconoscente...»
«... ti girerà la testa dalla parte giusta. Perché non sopporto di vedere la
tua felicità guastata da ansie campate all'aria. E, Gesù-Krispies, hai il dovere di essere felice. Sai quanta gente c'è sulla costa occidentale della Florida che sarebbe disposta a uccidere per avere i propri quadri in mostra in
Palm Avenue?»
«Wireman, hai appena detto Gesù-Krispies?»
«Non cambiare argomento.»
«Ancora non mi hanno offerto la mostra.»
«Lo faranno. Non vengono nel buco del culo del mondo portando una
bozza di contratto solo per capriccio. Perciò ascoltami bene. Mi stai ascoltando?»
«Sì.»
«Quando sarà stata fissata la data dell'esposizione, e lo sarà, farai quello
che ci si aspetta che faccia ogni artista esordiente: promozione. Interviste,
a cominciare da Mary Ire per arrivare fino ai quotidiani e Channel 6. Se
vogliono dare risalto al fatto che ti manca un braccio, tanto di guadagnato.» Mimò di nuovo la cornice con le mani. «Edgar Freemantle risorge sulla scena artistica della costa del sole come una fenice dalle ceneri fumanti
della tragedia!»
«Fumati questo, amigo», dissi io e mi strinsi la mano tra le gambe. Ma
non potei fare a meno di sorridere.
Wireman scelse di ignorare la mia volgarità. Era infervorato. «Quel tuo
brazo che non c'è diventerà oro.»
«Wireman, sei un cinico mascalzone.»
Lo prese come un complimento. Annuì e fece un gesto magnanimo. «Io
ti farò da avvocato. Tu scegli i quadri e Nannuzzi ti assiste. Nannuzzi allestisce l'esposizione e tu lo assisti. Ti pare che vada?»
«Direi di sì, se è così che si fa.»
«È così che si fa questa mostra. E per finire, Edgar, ultima cosa ma di
capitale importanza, inviterai tutte le persone che ti stanno a cuore.»
«Ma...»
«Sissignore», mi zittì lui annuendo. «Tutte. Il tuo strizzacervelli, la tua
ex, tutte e due le figlie, questo Tom Riley, la donna che ti ha curato...»
«Kathi Green», dissi io, sconcertato. «Wireman, Pam non verrà mai. E
Lin è in Francia. Con la faringite, santo cielo. E Tom neanche morto...»
M'interruppi, perché in quello che avevo detto avevo sentito qualcosa di
grottesco.
Wireman me la lasciò passare. «Mi avevi parlato di un avvocato...»
«William Bozeman Terzo. Bozie.»
«Invitalo. Oh, e anche i tuoi, naturalmente. E fratelli e sorelle.»
«I miei sono morti e sono figlio unico. Bozie...» Annuii. «Bozie verrebbe. Ma non chiamarlo così, Wireman. Non in faccia.»
«Chiamare Bozie un altro avvocato? Mi hai preso per scemo?» Rifletté.
«Mi sono sparato in testa e non sono riuscito ad ammazzarmi, perciò è
meglio se non mi rispondi.»
Io non gli prestavo molta attenzione perché stavo pensando. Vedevo che
avrei potuto organizzare una rimpatriata attingendo alla mia altra vita... e
c'era il rischio che gli invitati venissero davvero. Era un'idea che insieme
mi eccitava e intimoriva.
«È possibile che vengano tutti, sai?» disse lui. «La tua ex, la tua figliola
giramondo e il tuo commercialista suicida. Pensaci, la combriccola del Michigan.»
«Minnesota.»
Alzò le spalle e agitò le mani a dirmi che per lui era lo stesso. Bella
spocchia, per uno del Nebraska.
«Potrei noleggiare un aereo», dissi. «Un Gulfstream. Prendere un piano
intero al Ritz-Carlton. Spendere e spandere. Perché cazzo non dovrei?»
«Ben detto», esclamò lui. Poi ridacchiò. «Una bella scena da artista morto di fame.»
«Giusto», convenni. «Mettiamo fuori un cartello. 'Disposto lavorare per
tartufi.'»
Poi ridemmo insieme.
9
Sistemati piatti e bicchieri nella lavastoviglie, tornai di sopra con lui, ma
solo per scattargli cinque o sei foto digitali, primi piani molto tecnici senza
nessuna ambizione artistica. Ho scattato qualche buona foto in vita mia,
ma sempre per caso. Detesto le macchine fotografiche e sembra che loro lo
sappiano. Quand'ebbi finito, gli dissi che poteva andare a casa e congedare
Annmarie. Fuori era buio e gli offrii la mia Malibu.
«Andrò a piedi. L'aria mi farà bene.» Poi indicò la tela. «Posso guardare?»
«Per la verità preferirei di no.»
Pensavo che avrebbe protestato, invece lui fece un cenno affermativo e
tornò da basso, quasi trottando. La sua andatura era diventata più scattante
e non era certo la mia immaginazione. Alla porta disse: «Chiama Nannuzzi
domattina. Non lasciarti crescere l'erba sotto i piedi».
«D'accordo. E tu chiama me se dovesse cambiare qualcosa...» Indicai il
suo volto con la mano costellata di macchioline.
Mi rivolse un sorriso sornione. «Sarai il primo a saperlo. Intanto sono
già felice di non avere più mal di testa.» Il sorriso si spense. «Sei sicuro
che non tornerà?»
«Non sono sicuro di niente.»
«Già. Già, così è la condizione umana, giusto? Ma ti ringrazio per aver
tentato.» E prima che io potessi intuire che cosa aveva in mente, mi prese
la mano e me la baciò sul dorso. Un bacio dolce nonostante le setole che
aveva sul labbro superiore. Poi mi disse adiós e scomparve nel buio e l'unico suono fu il sospiro del Golfo a cui rispondeva la conversazione sommessa delle conchiglie sotto la casa. Poi se ne aggiunse un altro. Stava
squillando il telefono.
10
Era Ilse, che chiamava per fare due chiacchiere. Sì, le sue lezioni andavano bene, sì, anche lei stava bene... ottimamente, anzi, e sì, telefonava a
sua madre una volta alla settimana e si teneva in contatto via e-mail con
Lin. Secondo lei la faringite di Lin era probabilmente una bufala autodiagnosticata. Le risposi che ero colpito dalla generosità dei suoi sentimenti e
lei rise.
Le confidai della possibilità che esibissi i miei lavori in una galleria di
Sarasota e lei strillò così forte che fui costretto ad allontanarmi il ricevitore
dall'orecchio.
«Papà, ma è fantastico! Quando? Posso venire?»
«Certo, se ti fa piacere», risposi. «Inviterò tutti.» Era una decisione che
non avevo ancora preso del tutto prima di aver sentito me stesso manifestarla a voce alta. «Verso metà aprile, si pensava.»
«Merda! È proprio quando avevo in mente di raggiungere i Colibrì.» Fe-
ce una pausa. Pensò. Poi: «Ci farò stare tutti e due. Una piccola tournée
anche per me».
«Credi?»
«Sì. Tu dammi solo una data e io ci sarò.»
Sentii le lacrime che mi pungevano gli occhi. Non so com'è avere figli
maschi, ma sono sicuro che non può essere così appagante - così semplicemente bello - come avere figlie femmine. «Be', mi fai felice, cara. Pensi... che ci sia qualche possibilità che venga anche tua sorella?»
«Sai una cosa?» ribatté lei. «Credo che verrà. Morirà dalla voglia di vedere cosa stai facendo di così interessante da smuovere la gente che se ne
intende. Scriveranno di te?»
«Il mio amico Wireman pensa di sì. L'artista con un braccio solo e via
dicendo.»
«Ma sai che sei forte, papà?»
La ringraziai, poi passai a Carson Jones. Le domandai che notizie aveva
di lui.
«Sta bene», rispose.
«Sul serio?»
«Sì... perché?»
«Non so. Mi è sembrato di avvertire una piccola ombra nella tua voce.»
Fece una risatina storta. «Tu mi conosci troppo bene. Il fatto è che ora
fanno il tutto esaurito dovunque vanno, si è sparsa la voce. Il tour doveva
finire il 15 maggio perché quattro dei cantanti hanno altri impegni, ma il
loro agente gli ha trovato altre tre date. E Bridget Andreisson, che è diventata una vera star, è riuscita a far spostare l'inizio del suo periodo di vicariato pastorale in Arizona. Ed è stata una fortuna.» Su quelle ultime parole
la sua voce si appiattì e diventò la voce di una donna adulta che non conoscevo. «Così, invece di finire a metà maggio, la tournée è stata prolungata
fino alla fine di giugno, con dei concerti nel Midwest e quello finale al
Cow Palace a San Francisco. Si va al massimo, eh?» Era un mio modo di
dire, lo usavo quando Illy e Lin erano piccole e mettevano in scena in garage quelli che chiamavano «supershow di balletto», ma non ricordavo di
averlo mai usato con quel tono triste di non-proprio-sarcasmo.
«Sei preoccupata per il tuo ragazzo e questa Bridget?»
«No!» esclamò subito lei e rise. «Dice che lei ha una gran voce e che
cantare con lei per lui è una fortuna - ora hanno due pezzi insieme invece
di uno solo - ma è superficiale e pompata. Dice anche che sarebbe più contento se si succhiasse qualche mentina prima di, sai, cantare nello stesso
microfono con lui.»
Aspettai.
«Okay», disse finalmente Ilse.
«Okay cosa?»
«Okay, sono preoccupata.» Una pausa. «Un po', perché è con lei sul pullman tutti i giorni ed è con lei in scena tutte le sere e io sono qui.» Un'altra
pausa più lunga. Poi: «E la sua voce non è quella di prima quando gli parlo
al telefono. Quasi... ma non del tutto».
«Questa potrebbe essere la tua immaginazione.»
«Sì. Potrebbe. E in tutti i modi, se c'è sotto qualcosa, ma non c'è niente,
di questo sono sicurissima, ma se ci fosse qualcosa, allora meglio ora che
dopo... sai, che dopo che...»
«Sì», risposi, pensando che era una filosofia così adulta da far male. Ricordai quando avevo trovato la foto che li ritraeva abbracciati davanti alla
bancarella. L'avevo toccata con la mano destra che non ho. Poi ero corso
su nella Little Pink con Reba stretta tra il moncherino e il fianco destro.
Quanto tempo era passato, mi sembrava un'enormità. Ti amo, Zucchetta!
aveva scritto «Smiley», ma il disegno che avevo fatto quel giorno con le
mie matite colorate (di nuovo la sensazione di qualcosa avvenuto molto
tempo prima) aveva a suo modo dileggiato l'idea di un amore duraturo: la
bambina nel suo vestitino da tennis a guardare il Golfo sconfinato. Palline
da tennis intorno ai suoi piedi. Altre che sopraggiungevano sulla cresta
delle onde.
Quella bambina era Reba, ma anche Ilse, e... chi ancora? Elizabeth Eastlake?
L'idea sorgeva dal nulla, ma pensai di sì.
L'acqua scorre più veloce ora, aveva detto Elizabeth. Presto arriveranno le rapide. Lo senti?
Lo sentivo.
«Papà, ci sei?»
«Sì», ripetei. «Sii buona con te stessa, tesoro, prometti? Non ti angustiare più del necessario. Il mio amico quaggiù dice che finiamo sempre per
consumare i nostri crucci. E io ci credo.»
«Tu trovi sempre il modo di farmi stare meglio», disse lei. «È per questo
che telefono. Ti voglio bene, papà.»
«E io voglio bene a te.»
«Quante ciocche?»
Quanti anni da quando me lo aveva chiesto? Dodici? Quattordici? Non
aveva importanza, ricordavo la risposta.
«Un milione e una da sotto il tuo cuscino», risposi.
Poi la salutai, riappesi e pensai che se Carson Jones avesse fatto del male
a mia figlia, lo avrei ucciso. Mi venne da sorridere a quel pensiero, domandandomi quanti padri mi avessero preceduto e avessero formulato
mentalmente la stessa promessa. Ma fra tutti quei genitori, io ero forse l'unico che avrebbe potuto uccidere con qualche colpo di pennello un corteggiatore che faceva male a sua figlia.
11
Dario Nannuzzi venne a trovarmi il giorno dopo accompagnato da
Jimmy Yoshida, uno dei suoi soci. Yoshida era un Dorian Gray nippoamericano. Quando smontò dalla Jaguar di Nannuzzi davanti a casa mia, in
un paio di jeans scoloriti a gamba dritta e una stinta maglietta con Rihanna
in Pon De Replay, lunghi capelli neri nella brezza del Golfo, aveva diciotto
anni. Arrivato in cima al vialetto, ne aveva ventotto. Quando ci stringemmo la mano, trovandoci a quattr'occhi, notai le rughe che gli tatuavano la
pelle intorno agli occhi e la bocca e lo piazzai vicino ai cinquanta.
«Piacere di conoscerla», disse. «In galleria si sente ancora l'eco della sua
visita. Mary Ire è già tornata tre volte a chiedere quando le facciamo firmare un contratto.»
«Accomodatevi», risposi. «Il mio amico che abita più giù, Wireman, mi
ha già telefonato due volte per assicurarsi che non firmi niente senza di
lui.»
Nannuzzi sorrise. «Non è nostro stile raggirare gli artisti, signor Freemantle.»
«Edgar, ricorda? Un caffè?»
«Prima i quadri», intervenne Jimmy Yoshida. «Poi il caffè.»
Trassi un respiro. «Bene. Andiamo di sopra.»
12
Avevo coperto il ritratto di Wireman (che era ancora poco più di una vaga sagoma con un cervello sospeso a circa tre quarti d'altezza) e il quadro
di Tina Garibaldi e Candy Brown era finito nel ripostiglio di sotto (con
Amici dispensatori e quello in tunica rossa), ma gli altri miei lavori c'erano
tutti. Ormai ne avevo abbastanza da occupare due pareti e parte di una ter-
za, quarantun tele in tutto, incluse cinque versioni di Bambina e nave.
Quando il loro silenzio mi diventò insopportabile, lo ruppi. «Grazie per
la dritta su quel Liquin. È ottimo. Le mie figlie direbbero che è una bomba.»
Nannuzzi non diede segno di aver udito. Lui camminava in una direzione, Yoshida nell'altra. Nessuno dei due mi chiese della grande tela nascosta dal lenzuolo sul cavalletto; immaginai che nel loro ambiente sarebbe
stato considerato una mancanza di riguardo. Sotto di noi mormoravano le
conchiglie. In lontananza ronzava un Jet-ski. Io avevo prurito al braccio
destro, ma era un fastidio lieve, in profondità, che mi diceva che aveva voglia di dipingere ma che poteva aspettare, sapeva che il momento buono
sarebbe arrivato. Prima che il sole tramontasse. Mi sarei messo a dipingere
e all'inizio avrei consultato le fotografie fissate ai lati del cavalletto e poi
qualcos'altro avrebbe preso il sopravvento e il fruscio delle conchiglie sarebbe diventato più forte e il cromo del Golfo avrebbe cambiato colore,
prima pesca e poi rosa e poi arancione e finalmente ROSSO, e poi tutto sarà bene, tutto sarà bene e tutto sarà bene, tutto sarà bene, ogni cosa sarà
bene.
Nannuzzi e Yoshida si ritrovarono davanti alle scale che scendevano
dalla Little Pink. Conferirono brevemente, poi vennero da me. Dalla tasca
posteriore dei jeans Yoshida tolse una busta su cui una nitida scritta diceva: BOZZA CONTRATTO/GALLERIA SCOTO. «Qui», disse. «Riferisca
al signor Wireman che siamo pronti a sottoscrivere qualunque accordo ragionevole per poter esporre i suoi lavori.»
«Davvero?» chiesi. «Siete sicuri?»
Yoshida non sorrise. «Sì, Edgar. Siamo sicuri.»
«Grazie», dissi io. «Grazie a tutti e due.» Io guardai Nannuzzi, alle spalle di Yoshida. Lui stava sorridendo. «Dario, lo apprezzo davvero tanto.»
Lui passò con lo sguardo in rassegna i dipinti, emise una risatina, poi alzò le mani e le lasciò ricadere. «Credo che siamo noi a dover esprimere
apprezzamento, Edgar.»
«Quello che mi colpisce è la chiarezza», commentò Yoshida. «E... non
so, ma... penso... la lucidità. Queste immagini portano con sé chi le guarda
senza annegarlo. L'altro aspetto che mi sorprende è la velocità con cui ha
lavorato. Sta sturando.»
«Non conosco questa espressione.»
«Lo diciamo di artisti che cominciano in tarda età», mi spiegò Nannuzzi.
«Sturano. Come se cercassero di ricompensare per il tempo perduto. Tut-
tavia... quaranta dipinti in pochi mesi... settimane, per la verità...»
E non hai nemmeno visto quello che ha ucciso l'assassino della bambina,
pensai.
Dario rise con un'espressione un po' sinistra. «Stia attento a che non vada a fuoco tutto, eh?»
«Sì... sarebbe un bel guaio. Se dovessimo trovare un accordo, poi potrei
far trasferire parte dei miei lavori alla vostra galleria?»
«Certamente», mi rispose Nannuzzi.
«Benissimo.» Riflettendo che avrei cercato di firmare al più presto possibile, qualunque cosa pensasse Wireman del contratto, solo per poter allontanare quei quadri dalla key... e non era perché avessi paura di un incendio. Sturare poteva essere un fenomeno abbastanza comune tra artisti
che cominciavano quando erano avanti con gli anni, ma quarantun dipinti a
Duma Key erano almeno tre dozzine di troppo. Avvertivo la loro viva presenza in quella stanza come elettricità in una campana di vetro.
Naturalmente lo percepivano anche Dario e Jimmy. Faceva parte del fascino speciale di quei quadri maledetti. Erano contagiosi.
13
L'indomani mattina mi unii a Wireman ed Elizabeth per un caffè in fondo alla passerella di El Palacio. Avevo ridotto le mie assunzioni all'aspirina
e ora le mie Grandi Camminate erano un piacere invece di un'impresa.
Specialmente da quando il tempo si era rimesso al bello.
Elizabeth era sulla sua sedia a rotelle con i resti di una pasta sbriciolati
sul vassoio. Mi sembrava che Wireman fosse riuscito a trasferirle in corpo
anche un po' di spremuta e mezza tazza di caffè. Osservava il Golfo con
occhi di severa disapprovazione, quella mattina più somigliante al comandante Bligh del Bounty che alla figlia di un don mafioso.
«Buenos días, mi amigo», mi salutò Wireman. Poi si rivolse a Elizabeth.
«È Edgar, signorina. È venuto per una partitella a rugby. Vuole fargli un
saluto?»
«Piscia merda testa topo», disse lei. Credo. In ogni caso lo disse al Golfo, che era ancora blu scuro e per lo più addormentato.
«Ancora maluccio, mi pare», commentai.
«Già. Non è la prima volta che affonda e poi riemerge, ma non si era inabissata fino a questo punto.»
«Ancora non le ho portato da vedere nessuno dei miei quadri.»
«Ora come ora non servirebbe.» Mi porse una tazza di caffè nero.
«Prendi. Manda giù qualcosa in quel tuo corpaccio.»
Io gli consegnai la busta con la bozza del contratto. Mentre Wireman estraeva il foglio, mi girai verso Elizabeth. «Vuole sentire qualche poesia
più tardi?» le chiesi.
Niente. Continuò a fissare il Golfo con quel cipiglio di pietra: il comandante Bligh che si appresta a ordinare che qualcuno venga legato all'albero
maestro e preso a frustate.
«Suo padre era un sommozzatore, Elizabeth?» le domandai senza alcuna
ragione.
Girò leggermente la testa e ruotò i vecchi occhi nella mia direzione. Le
si sollevò il labbro superiore in un ghigno cagnesco. Per un momento, molto breve ma che mi sembrò lungo, ebbi l'impressione che a guardarmi fosse un'altra persona. O qualcosa che non era affatto una persona. Un'entità
che indossava il decrepito corpo flaccido di Elizabeth Eastlake come un
calzino. La mia mano destra si serrò per un attimo e di nuovo sentii le inesistenti unghie troppo lunghe premermi il palmo inesistente. Poi lei tornò a
guardare il Golfo mentre contemporaneamente tastava il vassoio finché
trovò con la punta delle dita un pezzetto di pasta e intanto io mi davo
dell'idiota per come mi lasciavo dominare dai miei nervi. Indubbiamente
c'erano forze strane in quel posto, ma non tutte le ombre erano fantasmi.
«Lo era», disse in tono distratto Wireman, aprendo il contratto. «John
Eastlake era un autentico Ricou Browning. Sai? Il tizio che interpretava Il
mostro della laguna nera negli anni Cinquanta.»
«Wireman, tu sei un pozzo artesiano di informazioni inutili.»
«Bel tipo che sono, vero? Il suo vecchio non comprò quella pistola balestra in un negozio, sai? La signorina dice che se l'è fatta costruire appositamente. Starebbe bene in un museo.»
Ma a me non interessava la pistola subacquea di John Eastlake, non in
quel momento. «Stai leggendo quel contratto?»
Lo lasciò cadere sul vassoio e mi guardò sconcertato. «Ci stavo provando.»
«E l'occhio sinistro?»
«Niente. Ma non c'è motivo di sentirsi delusi. Il dottore ha pur detto...»
«Fammi un favore. Copritelo.»
Ubbidì.
«Cosa vedi?»
«Te, Edgar. Un hombre mui feo.»
«Sì, sì. Copriti l'occhio destro.»
Lo coprì. «Ora vedo solo nero. Ma...» Fece una pausa. «Forse non così
nero.» Lasciò ricadere la mano. «Non so bene nemmeno io. In questi giorni faccio fatica a separare la realtà dal desiderio.» Scosse la testa facendo
svolazzare i capelli, poi si batté la mano sulla fronte.
«Buono.»
«Facile per te dirlo.» Rimase in silenzio per qualche momento, poi sfilò
dalle dita di Elizabeth il pezzetto di pasta dolce e la imboccò. Quando fu
sicuro che il boccone sarebbe rimasto dov'era, si girò verso di me. «Le daresti un'occhiata mentre io vado a prendere una cosa?»
«Volentieri.»
Risalì al piccolo trotto la passerella e io fui lasciato con Elizabeth. Cercai di metterle in bocca un altro dei pezzi rimasti della sua pasta e lei lo rosicchiò dalla mia mano, resuscitando il fugace ricordo di un coniglio che
possedevo quando avevo sette o otto anni. Si chiamava Mister Hitchens,
anche se non so più perché... la memoria è strana, vero? Le labbra della
sua bocca sdentata erano morbide, ma la sensazione non era spiacevole. Le
accarezzai la testa, sul lato dove i capelli bianchi, duri, quasi crespi, erano
tirati verso lo chignon. Mi venne da pensare che certamente Wireman glieli pettinava tutte le mattine ed era lui a raccoglierglieli dietro la nuca. Che
doveva essere stato Wireman a vestirla quella mattina, pannolone compreso, perché sicuramente era incontinente quando era in quella fase. Chissà
se pensava a Esmeralda mentre chiudeva le linguette adesive. Chissà se
pensava a Julia mentre le acconciava la crocchia.
Presi un altro pezzetto di pasta. Ubbidiente, lei aprì la bocca... ma io esitai. «Cosa c'è nella cesta rossa da picnic, Elizabeth? Quella in soffitta?»
Parve riflettere. Con impegno. Poi: «Un vecchio flessibile». Ci pensò su.
Alzò le spalle. «Un vecchio flessibile che Adie vuole. Spara!» E ridacchiò.
Fu un suono che mi sorprese, uno sghignazzo da strega. Le misi in bocca il
resto della sua pasta, pezzo dopo pezzo e non le feci altre domande.
14
Wireman tornò con un registratore a microcassette. Me lo porse. «Mi
duole, ma devo chiederti di registrarmi quel contratto. Meno male che sono solo due pagine. Vorrei averlo indietro per oggi pomeriggio, se possibile.»
«È possibile. E se dovessi davvero vendere qualcuno dei miei quadri, ti
spetta una provvigione, amico mio. Quindici per cento. Dovrebbe coprire i
tuoi diritti di legale e agente.»
Lui si lasciò andare contro lo schienale ridendo e gemendo allo stesso
tempo. «Por Diós! Proprio quando pensavo di non poter scendere più in
basso, divento un fottuto talent scout. Perdoni la licenza, signorina Eastlake.»
Nessuna reazione da parte del boss: i suoi occhi severi erano fissi sul
Golfo, dove, al confine più remoto e blu, una petroliera scivolava come in
sogno verso Tampa. Ne fui subito affascinato. I natanti che solcavano il
Golfo avevano questo effetto su di me.
A forza spostai nuovamente la mia attenzione su Wireman. «Sei tu il responsabile di tutto questo, quindi...»
«Che faccia tosta!»
«... quindi hai il dovere di fare un passo avanti e accettare da uomo ciò
che meriti.»
«Prenderò il dieci per cento ed è già probabilmente troppo. Accontentati,
muchacho, se no ci mettiamo a discutere per l'otto.»
«D'accordo, vada per il dieci.» Allungai la mano e strinsi la sua sul vassoio pieno di briciole di Elizabeth. Intascai il piccolo registratore. «E tu mi
farai sapere se c'è qualche cambiamento nel tuo...» Indicai il suo occhio
rosso. Che in effetti non era più rosso come prima.
«Non mancherò.» Prese il contratto. Si era sporcato delle briciole della
pasta di Elizabeth. Le spazzò via e me lo porse, poi si protese verso di me
con le mani strette tra le ginocchia e mi guardò da sopra l'autorevole seno
di Elizabeth. «Se facessi un'altra radiografia, che cosa mostrerebbe? Che il
proiettile è più piccolo? È scomparso?»
«Non lo so.»
«Tu stai lavorando ancora al mio ritratto?»
«Sì.»
«Non smettere, muchacho. Ti prego, non smettere.»
«Non ne ho intenzione. Ma non alimentare troppe speranze, va bene?»
«Va bene.» Poi immaginò un'altra eventualità, un'ipotesi che rispecchiava in un modo un po' inquietante la preoccupazione già espressa da Dario.
«E se su Big Pink cascasse un fulmine mandando a fuoco tutto quanto con
dentro quel quadro? Che cosa credi che succederebbe a me?»
Scrollai la testa. Non volevo pensarci. Mi venne, sì, in mente di chiedere
a Wireman se mi permetteva di salire nella soffitta di El Palacio a cercare
una certa cesta da picnic (era ROSSA), ma decisi di no. Ero sicuro che fos-
se lassù, meno sicuro di voler sapere che cosa c'era dentro. C'erano abbastanza stranezze a Duma Key e io avevo ragione di credere che non tutte
fossero piacevoli e quello che volevo fare al riguardo era niente. Se le lasciavo in pace, forse loro avrebbero lasciato in pace me. Avrei spedito il
grosso dei miei quadri via dall'isola per buona pace di tutti; li avrei anche
venduti se qualcuno fosse stato disposto a comprarli. Li avrei guardati andar via senza rimpianti. Mi appassionavano finché ci lavoravo, ma
quand'erano finiti, provavo per loro lo stesso affetto che avevo avuto per i
semicerchi di pelle dura che mi strofinavo via di tanto in tanto dagli alluci
perché le scarpe da lavoro non mi facessero male alla fine di una calda
giornata di agosto passata in qualche cantiere.
Avrei tenuto la serie della Bambina e nave non perché vi fossi particolarmente affezionato, ma perché non era finita; quei dipinti erano ancora
carne viva. Forse li avrei esposti e venduti in un secondo tempo, ma al
momento avevo intenzione di tenerli dove si trovavano, nella Little Pink.
15
Quando fui di nuovo a casa non c'erano navi all'orizzonte e il bisogno di
dipingere si era momentaneamente spento. Usai invece il microregistratore
di Wireman e trasferii su nastro il testo della bozza di contratto. Non ero
avvocato, ma nella mia altra vita avevo letto e firmato la mia dose di documenti legali e quello mi sembrò abbastanza lineare.
Quella sera tornai a El Palacio con il contratto e il registratore. Wireman
stava preparando la cena. Elizabeth era nel Salotto delle Porcellane. L'airone dall'occhio, penetrante che, anche se non ufficialmente, era l'animale
di casa, era fermo sul vialetto a spiare dentro con torva disapprovazione.
La stanza era inondata dal sole del tardo pomeriggio. E tuttavia non era luce. Porcy Town era sottosopra, c'erano animali e persone rovesciate qua e
là, gli edifici erano sparpagliati ai quattro angoli del tavolo di bambù. La
villa con il colonnato era addirittura a gambe all'aria. Accanto al tavolo,
nella sua sedia, con la faccia del comandante Bligh, Elizabeth sembrava
sfidarmi a rimettere ordine, se ne avessi avuto il coraggio.
Wireman parlò da dietro le mie spalle facendomi sobbalzare. «Se cerco
di risistemare quel tavolo in qualche modo, lei butta giù tutto di nuovo. Ha
fatto cadere un po' di statuine per terra e le ha rotte.»
«Sono preziose?»
«Alcune, ma non è questo il punto. Quando è in sé, le conosce una a u-
na. Le conosce e le ama. Se dovesse riprendersi e mi chiedesse dov'è Bo
Peep o l'addetto al carbonamento... dovrò dirle che li ha rotti e sarà triste
per una giornata intera.»
«Se si riprende.»
«Sì. Certo.»
«Credo che tornerò a casa, Wireman.»
«A dipingere?»
«L'idea è quella.» Mi girai verso il tavolo. «Wireman?»
«Sono qui, vato.»
«Perché quando è in questo stato incasina tutto?»
«Penso... perché non sopporta di vedere quello che lei non è.»
Feci per voltarmi. Lui mi posò una mano sulla spalla.
«Preferirei che non mi guardassi in questo modo», disse. Teneva a stento
sotto controllo la voce. «Ora come ora nemmeno io sono me stesso. Se
vuoi scendere in spiaggia esci dalla porta principale e poi taglia per il giardino. Va bene?»
Feci come mi aveva consigliato. E quando fui a casa, lavorai al suo ritratto. Andava bene. Con il che suppongo di voler affermare che era buono. Là dentro vedevo la sua faccia che desiderava emergere. Cominciava
ad affiorare. Non era niente di speciale, ma andava bene. Il risultato migliore, lo ottenevo proprio quando non era niente di speciale. Ero felice,
questo lo ricordo. Ero in pace. Le conchiglie sussurravano. Il braccio destro mi prudeva, ma era una sensazione blanda. La vetrata affacciata sul
Golfo era un rettangolo di nero. A un certo punto scesi a mangiare un sandwich. Accesi la radio e trovai The Bone, la stazione rock: i J. Geils in
Hold Your Lovin'. I J. Geils non erano niente di speciale, solo fantastici, un
dono dagli dei del rock. Dipinsi e il volto di Wireman affiorò un po' di più.
Ora era un fantasma. Era uno spettro che abitava la tela. Ma era uno spettro inoffensivo. Se mi fossi girato, non avrei trovato Wireman fermo in
cima alle scale là dove avevo visto Tom Riley; e in fondo alla spiaggia, a
El Palacio de Asesinos, il lato sinistro del mondo di Wireman era ancora al
buio, era una cosa che sapevo da solo. Dipinsi. La radio suonò. Sotto la
musica, le conchiglie bisbigliarono.
A un certo punto sospesi, feci una doccia e andai a letto. Non ci furono
sogni.
Quando ripenso al mio soggiorno a Duma Key, i giorni di febbraio e
marzo nei quali lavorai al ritratto di Wireman mi sembrano i migliori.
16
Wireman mi chiamò l'indomani alle dieci. Io ero già al cavalletto. «Ti
interrompo?»
«Non fa niente», risposi. «Una pausa mi fa bene.» Era una bugia.
«Abbiamo sentito la tua mancanza stamane.» Una pausa. «Be', sai
com'è. Io ho sentito la tua mancanza. Lei...»
«Già», feci io.
«Il contratto è al bacio. Da prendere così com'è. Dice che tu e la galleria
dividete equamente a metà, ma io ci aggiungerò qualcosa. Metà a testa non
è un concetto che può sopravvivere quando le vendite superano il quarto di
milione al lordo. Passato quel limite, la ripartizione è di sessanta a quaranta a tuo favore.»
«Wireman, non venderò mai dipinti per un quarto di milione di dollari!»
«Io spero che loro la pensino precisamente come te, muchacho, motivo
per il quale proporrò anche che la ripartizione diventi settanta a trenta
quando toccherai il mezzo milione.»
«Più un servizietto dalla dolce manina di Miss Florida», aggiunsi io con
un filo di voce. «Mettici anche quello.»
«Preso nota. L'altra cosa è la durata dell'esclusiva. La fisserebbero a centoottanta giorni, quando dovrebbero essere novanta. Non prevedo problemi, ma lo trovo interessante. Hanno paura che piombi qui qualche grosso
gallerista di New York e ti rapisca.»
«Nient'altro del contratto che dovrei sapere?»
«No e sento che hai voglia di rimetterti al lavoro. Mi metto in contatto io
con il signor Yoshida per le modifiche.»
«Nessuna quanto a te?»
«No, amigo. Vorrei poter dire il contrario. Ma tu continua a dipingere.»
Stavo allontanando il ricevitore dall'orecchio quando chiese: «Hai visto
per caso il telegiornale stamattina?»
«No, non ho acceso la TV. Perché?»
«Il coroner ha detto che Candy Brown è morto di insufficienza cardiaca
congestizia. Pensavo che ti interessasse saperlo.»
17
Dipinsi. Fu un'attività lenta ma non certo inattività. Wireman emerse dai
flutti dell'inesistenza intorno alla finestra dove il suo cervello nuotava nei
flutti del Golfo. Era un Wireman più giovane di quello delle foto fissate ai
lati del mio cavalletto, ma andava bene così; le consultavo sempre meno e,
giunto al terzo giorno di lavoro, le tolsi definitivamente. Non ne avevo più
bisogno. Dipinsi tuttavia nel modo in cui pensavo dipingesse la gran parte
degli altri artisti: come se fosse un mestiere e non un susseguirsi di sprazzi
di follia che andavano e venivano come spasmi. Dipinsi con la radio accesa, ora sempre sintonizzata su The Bone.
Il quarto giorno Wireman mi portò un contratto modificato e mi disse
che potevo firmare. Nannuzzi voleva fotografare i miei dipinti e farne delle
diapositive per una presentazione da tenere alla Selby Library di Sarasota
alla metà di marzo, un mese prima dell'apertura della mia mostra. Alla presentazione, mi riferì Wireman, sarebbero intervenuti una sessantina o più
di mecenati che sostenevano il lavoro degli artisti nella zona di TampaSarasota. Gli risposi che mi stava bene e firmai il contratto.
Dario arrivò nel pomeriggio. Ero impaziente che finisse di scattare le sue
foto e se ne andasse per potermi rimettere al lavoro. Più che altro per fare
conversazione, gli domandai chi avrebbe condotto la presentazione alla
Selby Library.
Lui mi contemplò con un sopracciglio inarcato come se stessi scherzando. «L'unica persona al mondo che in questo momento ha familiarità con il
suo lavoro», rispose. «Lei.»
Rimasi a bocca aperta. «Ma io non posso parlare in pubblico! Non so
niente di arte!»
Lui comprese in un gesto del braccio i dipinti che Jack e due trasportatori assunti per l'occasione dalla Scoto avrebbero imballato e trasferito a Sarasota la settimana seguente. Sarebbero rimasti nelle casse, presumevo, nel
magazzino sul retro della galleria, fino a pochi giorni prima dell'inaugurazione della mostra. «Questi la contraddicono, amico mio.»
«Dario, questa è gente che sta dentro l'arte! Hanno seguito corsi, scommetto che la maggior parte di loro non ha solo una laurea in arte, ma un
dottorato! Cosa vuole che faccia, che mi alzi davanti a quella gente a dire
bah?»
«È più o meno quello che faceva Jackson Pollock quando parlava del
suo lavoro. Il più delle volte da ubriaco. E ne è uscito ricco.» Mi si avvicinò e mi prese per il moncherino. Ne fui colpito. Pochissime persone sono
disposte a toccare un moncherino; è come se, sotto sotto, temessero che
l'amputazione sia contagiosa. «Senta, amico mio, queste sono persone importanti. Non solo perché hanno molti soldi, ma perché sono interessate ai
nuovi artisti e ciascuna di loro ne conosce altre tre di uguale inclinazione.
Dopo la conferenza, la sua conferenza, nascerà la voce. Quel tipo di voce
che quasi sempre si trasforma in quel magico fenomeno chiamato
'tamtam'.»
S'interruppe giocherellando con la cinghia della macchina fotografica e
abbozzò un sorriso.
«Deve solo parlare di come ha cominciato e come le è cresciuto dentro...»
«Dario, io non so come mi è cresciuto dentro!»
«Allora dica così. Dica quel che le pare! Lei è un artista, diamine!»
Mi arresi. La minacciata conferenza era ancora lontana nel tempo e io
volevo che se ne andasse. Volevo alzare il volume della radio, togliere il
telo dal dipinto sul cavalletto e tornare a lavorare a Wireman guarda a ovest. Volete la sudicia verità? Il dipinto non riguardava più un ipotetico
trucco di magia. Era diventato esso stesso un trucco di magia. Ne ero diventato molto geloso e tutto quello che sarebbe potuto accadere dopo, una
promessa intervista con Mary Ire, la presentazione, la mostra in sé, non mi
sembrava tanto collocato nel mio futuro, bensì sopra di me. Come deve
apparire a un pesce la pioggia sulla superficie del Golfo.
Durante quella prima settimana di marzo fu la luce diurna a fare da protagonista. Non la luce del tramonto, ma quella del giorno. La sensazione
che dava di colmare Little Pink e sollevarla. Quella settimana fu tutta musica radiofonica, tutto il repertorio degli Allman Brothers, e poi Molly Hatchet e Foghat. Fu J.J. Cale che attaccava Call me the Breeze dicendo:
«Eccovi un altro dei vostri prediletti vecchi pezzi rock, fatevi una scappatella a Broadway». E quando spegnevo la radio e lavavo i pennelli, sentivo
le conchiglie sotto la casa. E fu la settimana del volto fantasma che intravedevo, il volto di un uomo più giovane che non aveva ancora conosciuto i
panorami di Duma. C'è una canzone, credo di Paul Simon, che dice: «Se
non avessi mai amato, non avrei mai pianto». Così era quella faccia. Era
una faccia reale, non proprio reale, ma c'ero io a farla diventare reale. Cresceva intorno al cervello che galleggiava nel Golfo. Non mi servivano più
le fotografie perché era una faccia che conoscevo. Questa faccia era un ricordo.
18
Il 4 di marzo fece caldo per tutto il giorno, ma non accesi l'aria condi-
zionata. Dipinsi in calzoncini da ginnastica, con il sudore che mi scorreva
sul viso e lungo i fianchi. Il telefono squillò due volte. La prima era Wireman.
«Non ti abbiamo visto un granché dalle nostre parti ultimamente, Edgar.
Vieni a cena?»
«Credo che declinerò, Wireman. Grazie.»
«Dipingi o sei stanco della nostra comitiva quaggiù a El Palacio? O tutt'e
due?»
«Solo la prima. Dipingo. Ho quasi finito. Niente di nuovo agli occhi?»
«La lampadina di sinistra è sempre bruciata, ma ho comprato una pezza
da metterci sopra e, quando la porto, riesco a leggere con l'occhio destro
anche per quindici minuti di fila. È un gran balzo in avanti e credo di doverlo a te.»
«Non so se hai ragione», risposi. «Questo non è un quadro come quello
che ho fatto di Candy Brown e Tina Garibaldi. O l'altro di mia moglie e i
suoi... i suoi amici, se vogliamo. Questa volta non c'è nessun bam. Capisci
che cosa intendo quando dico bam?»
«Sì, muchacho.»
«Ma se deve succedere qualcosa, credo che sarà presto. Altrimenti avrai
almeno un ritratto di com'eri quando avevi venticinque anni. Com'eri...
forse.»
«Mi prendi in giro, amigo?»
«No.»
«Non credo nemmeno di ricordare che faccia avevo a venticinque anni.»
«Elizabeth come sta? Nessun miglioramento?»
Sospirò. «Ieri mattina sembrava che stesse un po' meglio, così l'ho sistemata nel salotto sul retro, dove c'è un plastico più piccolo, quello che
chiamo il Porcy Suburb, e lei ha pensato bene di buttare sul pavimento un
set intero di ballerine Wallendorf. Distrutte tutte e otto. Insostituibili, naturalmente.»
«Che peccato.»
«Ancora in autunno non pensavo che potesse peggiorare fino a questo
punto e Dio ci punisce per ciò che non sappiamo immaginare.»
La seconda telefonata arrivò un quarto d'ora dopo e lasciai cadere il pennello con un moto di esasperazione. Era Jimmy Yoshida. Fu impossibile
rimanere esasperato dopo che ero stato esposto alla sua eccitazione, che rasentava l'esuberanza. Aveva visto le dia, che, proclamava, «avrebbero fatto
cascare tutti con il culo per terra».
«Ottimo», commentai. «Alla mia presentazione intendo dire loro: 'Tirate
su il culo da terra'... e poi me ne vado.»
Rise come se non avesse mai sentito niente di più spassoso. «Mi sono
permesso di chiamare», aggiunse poi, «per chiederle se tra i quadri ce ne
sono alcuni che non vuole che siano messi in vendita.»
Da fuori giunse un rombo simile a quello di un autocarro pesante e a
pieno carico su un ponte di legno. Girai gli occhi verso il Golfo, dove non
c'erano ponti di legno e capii di aver udito un tuono in lontananza verso
ovest.
«Edgar? È ancora lì?»
«Sono qui», dissi. «Dato e non concesso che ci sia qualcuno che vuole
acquistare, potete vendere tutto eccetto la serie di Bambina e nave.»
«Ah.»
«Sento della delusione in quell'ah.»
«Speravo di comprare uno di quelli. Avevo messo gli occhi sul numero
due.» E dato quello che era stabilito dal contratto lo avrebbe comperato
con uno sconto del cinquanta per cento. Bel colpo gobbo, avrebbe detto
mio padre.
«Quella serie non è ancora finita. Forse quando avrò dipinto anche quelli
che mancano.»
«Quanti saranno?»
Continuerò a dipingerne finché riuscirò a leggere il nome di quella cazzo di nave fantasma.
Forse lo avrei anche detto a voce alta se il tuono non avesse brontolato
di nuovo a ovest. «Lo saprò quando sarà il momento, immagino. Ora, se
mi vuole scusare...»
«Sta lavorando. Scusi. Tolgo il disturbo.»
Chiusa la comunicazione, mi chiesi se avevo davvero voglia di rimettermi al lavoro. Ma... c'ero vicino. Se ci avessi dato dentro, forse avrei finito prima di notte. E non mi dispiaceva l'idea di dipingere mentre dal Golfo
arrivava un temporale.
Dio non me ne voglia, trovavo l'idea romantica.
Così alzai il volume della radio, che avevo abbassato durante la telefonata e c'era Axl Rose che sbraitava Welcome to the Jungle. Presi un pennello
e me lo infilai dietro l'orecchio. Poi ne presi un altro e cominciai a dipingere.
19
I nuvoloni si accumularono, enormi chiatte con il fondo nero e la fascia
centrale color viola livido. Ogni tanto dentro i cumuli si accendeva un
fulmine e allora sembravano cervelli pieni di brutte idee. Il Golfo perse il
suo colore naturale e diventò morto. Il tramonto fu ridotto a una striscia
gialla che, dopo un debole sfarfallio arancione, si spense. Una penombra
tetra invase Little Pink. La radio cominciò a ragliare disturbi statici a ogni
balenio nel cielo. Interruppi il lavoro per andare a spegnerla, ma non accesi
le luci.
Non ricordo di preciso quando smisi di essere io a dipingere quel quadro... e ancora oggi non sono sicuro di aver mai smesso di essere io; forse
yes, forse no. So solo che a un certo punto ho abbassato gli occhi e, nell'ultimo palpito di luce morente e nei bagliori irregolari dei lampi, vidi il mio
braccio destro. Il pezzetto attaccato alla spalla era abbronzato, il resto
bianco come un cadavere. I muscoli erano rilassati e flaccidi. Non c'era cicatrice, nessuna cucitura eccetto la linea di demarcazione dell'abbronzatura, ma da lì in giù prudeva da far impazzire. Poi ci fu un altro lampo e il
braccio era scomparso, non c'era mai stato un braccio, almeno non su Duma Key, ma il prurito c'era ancora, tremendo, da farti venir voglia di strappare brani a morsi.
Tornai a girarmi e appena ebbi di fronte a me la tela, il prurito si riversò
in quella direzione come acqua rovesciata e mi prese la frenesia. Il temporale si abbatté sulla key portando con sé il buio e io pensai a certi numeri
da circo in cui un uomo bendato lancia coltelli a una bella ragazza che si
regge a gambe e braccia aperte su una ruota girevole e credo che risi perché io stesso stavo dipingendo alla cieca o quasi. Di tanto in tanto balenava
un fulmine e allora mi balzava addosso Wireman a venticinque anni, Wireman prima di Julia, prima di Esmeralda, prima della lotería.
Vinco io, vinci tu.
Un lampo possente illuminò la mia finestra di una luce bianca soffusa di
viola e una ventata violenta spinse tutta quell'elettricità dal Golfo sulla key,
e la sventagliata di pioggia che investì la vetrata mi fece pensare (in quella
parte di mente ancora capace di pensare) che si sarebbe sicuramente infranta. Direttamente sopra di me saltò in aria una polveriera. E sotto di me
il mormorio delle conchiglie era diventato il bisbiglio di esseri morti che si
scambiano segreti con voci calcinate. Com'era possibile che non lo avessi
udito prima? Esseri morti, sì! Una nave era giunta fin lì, una nave di morti
con le vele marce, e da essa erano sbarcati cadaveri viventi. Erano sotto la
casa e la tempesta li aveva resuscitati. Li sentivo aprirsi un varco nell'ossario di conchiglie, pallidi ectoplasmi con i capelli verdi e occhi da gabbiano,
che si camminavano addosso nel buio, uno sull'altro, e parlavano, parlavano, parlavano. Sì! Perché avevano molto da recuperare e chi poteva dire
quando sarebbe arrivato il prossimo temporale a svegliarli di nuovo?
Io intanto dipingevo. Lo feci nel terrore e nel buio, muovendo il braccio
su e giù cosicché, per qualche tempo, sembrò che stessi dirigendo la tempesta. Non avrei potuto fermarmi. E a un certo momento Wireman guarda
a ovest fu completato. Me lo disse il braccio destro. Vergai le mie iniziali EF - nell'angolo inferiore sinistro, quindi spezzai in due il pennello, usando
entrambe le mani. Lasciai cadere i pezzi per terra. Mi allontanai barcollando dal cavalletto gridando a qualunque cosa fosse di fermarsi. E si sarebbe
fermato, per forza, ormai il quadro era finito e sicuramente ora si sarebbe
fermato.
Giunsi in cima alle scale e guardai giù e là sotto c'erano due piccole sagome gocciolanti. Pensai: Mela, arancia. Pensai: Vinco io, vinci tu. Poi balenò il lampo e vidi due bambine di circa sei anni, certamente gemelle, certamente le sorelle annegate di Elizabeth Eastlake. Avevano i vestiti appiccicati al corpo. Avevano i capelli appiccicati alle guance. I loro faccini erano due pallidi orrori.
Sapevo da dove arrivavano. Erano uscite da sotto le conchiglie.
Cominciarono a salire le scale verso di me, mano nella mano. Nell'alto
del cielo esplose un tuono. Cercai di urlare. Non ci riuscii. Pensai: Non lo
sto vedendo. Pensai: Invece sì.
«Lo posso fare», disse una delle bambine. Parlava con la voce delle conchiglie.
«Era rossa», disse l'altra bambina. Parlò con la voce delle conchiglie.
Ormai erano a metà delle scale. Le loro teste erano poco più che crani con
i capelli bagnati che pendevano da una parte e dall'altra.
«Siediti sulla zanna», dissero insieme, come cantilenando al ritmo di un
salto della corda... ma parlarono con la voce delle conchiglie. «Siediti sulla
canna.»
Allungarono verso di me dita orribilmente spaventose.
Svenni in cima alle scale.
20
Stava squillando il telefono. Quello fu il mio Inverno Telefonico.
Aprii gli occhi e cercai a tentoni la lampada sul comodino: volevo subito
una luce dopo aver avuto l'incubo più spaventoso della mia vita. Invece di
trovare la lampada, le mie dita urtarono un muro. Contemporaneamente mi
resi conto di avere la testa ripiegata contro quello stesso muro, in una posizione innaturale e dolorosa. Brontolò un tuono, ma debole e sordo, il suono di un temporale che ormai si allontana, e tanto mi bastò per far riaffiorare tutto con orribile e dolorosa chiarezza. Non ero a letto. Ero nella Little
Pink. Ero svenuto perché...
Spalancai gli occhi. Avevo il sedere sul pianerottolo e le gambe sulle
scale. Pensai alle due bambine annegate - no, fu di più, fu un'evocazione
istantanea di preciso, intenso realismo - e balzai in piedi senza sentire minimamente l'anca infortunata. La mia concentrazione era tutta rivolta ai tre
interruttori in cima alle scale, ma mentre li trovavo con le dita già pensavo:
Non funzioneranno, il temporale avrà fatto saltare la corrente.
Invece la corrente c'era e scacciò il buio dallo studio e dal vano delle
scale. Vissi ancora un momento di panico nel vedere sabbia e acqua ai piedi del primo gradino, ma la luce si estendeva abbastanza perché potessi notare immediatamente che la porta d'ingresso era stata aperta dal vento.
Di sicuro era stato il vento.
In soggiorno il telefono smise di squillare e si inserì la segreteria. La mia
voce registrata invitò chi chiamava a lasciare un messaggio dopo il segnale
acustico. A chiamarmi era Wireman.
«Edgar, dove sei?» Ero troppo disorientato per capire se nella sua voce
sentivo eccitazione, sgomento o terrore. «Chiamami, ho bisogno che mi
chiami subito!» E poi uno scatto.
Scesi a passi incerti, un gradino per volta, come un vecchietto, avendo
come priorità le luci: soggiorno, cucina, entrambe le camere, la Florida
room. Accesi persino la luce nei bagni, allungando il braccio nell'oscurità a
cercare l'interruttore, preparandomi a denti stretti al contatto con qualcosa
di freddo e bagnato e vestito di alghe. Non c'era niente. Con tutte le lampade accese, mi rilassai abbastanza da sentire che avevo di nuovo fame.
Molta. Fu l'unica volta in cui mi sentii famelico dopo aver lavorato al ritratto di Wireman... ma naturalmente quell'ultima sessione era stata impetuosa.
Mi chinai a esaminare la sporcizia entrata dalla porta spalancata dal vento. Solo sabbia e acqua e quest'ultima già si separava in gocce sulla cera
con cui la mia domestica lucidava il parquet. C'era dell'umidità sui gradini
più bassi, che erano rivestiti dalla moquette, ma altro non era, semplice
umidità.
Non avrei mai confessato a me stesso che stavo cercando delle impronte.
Andai in cucina, mi preparai un sandwich con del pollo e lo divorai in
piedi. Lo innaffiai con una birra presa dal frigo. Finito il sandwich, mangiai l'avanzo di insalata del giorno prima, che praticamente ormai galleggiava nel suo condimento. Poi andai in soggiorno a telefonare a El Palacio.
Wireman rispose al primo squillo. Mi ero preparato a dirgli che ero fuori a
controllare che il temporale non avesse provocato danni alla casa, ma Wireman era ben lontano dall'interessarsi a dove mi trovassi al momento della
sua telefonata. Piangeva e rideva.
«Ci vedo! Meglio di prima! L'occhio sinistro è di nuovo limpido. Non
riesco a crederci, ma...»
«Rallenta, Wireman, non riesco a starti dietro.»
Lui non rallentò. Forse non poteva. «Nel colmo della bufera ho sentito
un dolore nell'occhio malato... un dolore che non ci crederesti... come un
ferro rovente... ho pensato che fossimo stati colpiti da un fulmine, Dio mi
perdoni... mi sono strappato via la pezza... e ci vedevo! Capisci quello che
ti sto dicendo? Ci vedo!»
«Sì», risposi. «Capisco. È fantastico.»
«Sei stato tu? Perché sei stato tu, vero?»
«Forse. Probabilmente. Ho un dipinto da darti. Te lo porto domani.» Ebbi un'esitazione. «Io lo terrei da conto, amigo. Non credo che abbia importanza che fine fanno dopo che sono finiti, ma credevo anche che Kerry avrebbe battuto Bush.»
Rise sguaiatamente. «Oh, verdad, questa l'avevo sentita. È stata dura?»
Mi venne un'idea prima di poter rispondere. «Come ha preso il temporale Elizabeth?»
«Male, molto. La spaventano sempre, ma questa volta... era autentico
terrore. Si è messa a strillare delle sue sorelle. Tessie e Lo-Lo, quelle annegate negli anni Venti. Ha contagiato persino me per un po'... ma è passata. E tu? È stata dura sì o no?»
Guardai la sabbia sparsa sul pavimento tra la porta d'ingresso e le scale.
No, niente impronte. Se avevo l'impressione di vedere qualcosa di più di
semplice sabbia, allora era solo la mia fottuta immaginazione artistica.
«Un po'. Ma ora è tutto finito.»
Speravo che fosse vero.
21
Parlammo ancora per cinque minuti... o per meglio dire fu Wireman a
parlare. A delirare, più che altro. Per ultimo dichiarò di aver paura di andare a dormire. Aveva paura di svegliarsi nuovamente cieco dall'occhio sinistro. Gli dissi che non aveva motivo di preoccuparsi, gli augurai buonanotte e riappesi. Ciò che preoccupava me era svegliarmi nel cuore della notte
e ritrovarmi Tessie e Laura - Lo-Lo per Elizabeth - sedute sul mio letto,
una di qui e una di là.
Una delle due, forse, con Reba posata nel grembo bagnato.
Presi un'altra birra e tornai di sopra. Mi avvicinai al cavalletto a testa
bassa, guardandomi i piedi, poi alzai gli occhi di scatto, come nella speranza di cogliere il ritratto di sorpresa. Parte di me, una parte razionale, si
aspettava di vederlo sfigurato da schizzi per dritto e per traverso, un Wireman parziale, imbrattato dai colori che avevo scagliato sulla tela durante
il temporale, quando la mia sola luce reale era stata quella dei fulmini.
L'altra parte di me la sapeva più lunga. L'altra parte di me sapeva che avevo dipinto assistito da un'altra luce (giusto come i lanciatori di coltelli bendati lasciano che a guidare le loro mani sia un'altra sensibilità). Quella parte sapeva che Wireman guarda a ovest era riuscito a dovere e quella parte
aveva ragione.
Da un certo punto di vista era l'opera migliore che avessi prodotto a
Duma Key, perché era il mio lavoro più razionale: fino alla fine, non dimentichiamo, Wireman guarda a ovest era stato dipinto alla luce del giorno. E da un uomo in possesso delle proprie facoltà mentali. Il fantasma che
aleggiava nella mia tela era diventato un volto amabile, giovane e calmo e
vulnerabile. I capelli erano di un bel nero lucente. Un sorrisetto si annidava
negli angoli della bocca e negli occhi verdi. Le sopracciglia erano folte ed
eleganti. La fronte sopra di esse era ampia, una finestra aperta da dove
quell'uomo rivolgeva i suoi pensieri al Golfo del Messico. In quel cervello
visibile non c'erano pallottole. Avrei potuto altrettanto facilmente far
scomparire un aneurisma o un tumore maligno. Il prezzo per portare a
compimento il lavoro era stato alto, ma il conto era stato saldato.
Il temporale si era ridotto a sporadici brontolii sulla lingua di terra della
Florida. Pensai che avrei potuto dormire e avrei potuto farlo anche con la
lampada accesa, se così avessi voluto; Reba non lo avrebbe raccontato a
nessuno. Avrei potuto persino dormire tenendomela accoccolata tra moncherino e fianco. Non sarebbe stata la prima volta. E Wireman vedeva bene di nuovo. Ma in quel momento mi sembrava una circostanza seconda-
ria. Quel che contava era che avevo finalmente dipinto qualcosa di grande.
Ed era mio.
Su quello pensavo di poter dormire.
Come fare un disegno (VI)
Tenere saldo l'obiettivo. È la differenza tra un quadro riuscito e un'immagine qualsiasi, come le tante che già ingombrano il mondo.
Quanto a non perdere di vista l'obiettivo Elizabeth Eastlake era un demonio; non dimentichiamo che si era letteralmente ridisegnata al mondo.
E quando la voce dentro Noveen le parlò del tesoro, si concentrò su di esso e ne disegnò gli oggetti sparsi sul fondo sabbioso del Golfo. E dopo che
era stato dissepolto dalla tempesta, l'accattivante ammasso era affiorato
dal fondale abbastanza vicino alla superficie perché a mezzogiorno il sole
ne rivelasse i luccichii, barlumi che avrebbero cercato di risalire fino alla
superficie.
Voleva far felice suo padre. Per sé voleva solo la bambola di porcellana.
Papà dice: Se c'è una bambola è tua, per diritto di salvataggio, e che Dio
l'aiuti per questo.
Scese nell'acqua con lui, fino alle ginocchia carnose, puntando il dito,
dicendo: È laggiù. Nuota finché te lo dico io.
Papà s'inoltrò nell'acqua mentre lei si fermò lì e quando lui si allungò
nell'onda abbandonando il corpo al caldo, agli occhi di Elizabeth le sue
pinne sembrarono grandi come barchette. Più tardi è così che le avrebbe
disegnate. Papà sputò nella maschera, la sciacquò e la indossò. Prese tra
le labbra l'estremità del boccaglio. Si spinse con le pinne al largo, nell'azzurro scintillante, con la faccia nell'acqua e il corpo che si fondeva con il
movimento delle scintille di sole che doravano la superficie riflettente delle onde.
Tutto questo, io lo so. In parte lo ha disegnato Elizabeth e in parte l'ho
disegnato io.
Vinci tu, vinco io.
Nell'acqua fino alle ginocchia con Noveen stretta sotto il braccio, lei restò a guardare finché Tata Melda, preoccupata per la corrente, le gridò di
tornare a quella che chiamavano Shade Beach. Poi guardarono insieme
restando in piedi sulla spiaggia. Elizabeth gridò a John di fermarsi. Videro le sue pinne sollevarsi nella prima immersione. Restò sotto forse una
quarantina di secondi, poi riemerse in uno spruzzo sputando il boccaglio.
Dice: Che mi venga un colpo se là sotto non c'è davvero qualcosa!
E quando tornò dalla piccola Libbit, la strinse la strinse la strinse.
Io lo sapevo. Io l'ho disegnato. Con la cesta rossa da picnic su una coperta stesa lì accanto e la pistola subacquea posata sulla coperta.
John si tuffò di nuovo e la volta successiva tornò con un carico di antichità tenute alla bell'e meglio contro il petto. In seguito avrebbe cominciato a usare la cesta di Tata Melda, con un piombo sul fondo per poterla calare più agevolmente. Più tardi ancora ci fu una foto pubblicata sul giornale con gran parte degli oggetti ritrovati, il «tesoro», sparsi davanti a un
John Eastlake sorridente e alla sua figliola, quella bambina così dotata e
così tenace. Ma niente bambola di porcellana in quella foto.
Perché la bambola di porcellana era speciale. Apparteneva a Libbit.
Era il suo diritto di salvataggio.
Fu l'essere-bambola a condurre Tessie e Lo-Lo alla loro morte? A creare quello grosso? A quel punto, quanta parte aveva avuto Elizabeth? Chi
era l'artista, chi la superficie bianca?
Ci sono interrogativi ai quali non ho mai trovato una risposta soddisfacente, ma ho disegnato anch'io e so che quando si tratta di arte, si può
giustamente parafrasare Nietzsche: se tieni saldo il tuo obiettivo, alla lunga il tuo obiettivo terrà te qualche volta senza libertà condizionale.
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La vista da Duma
1
L'indomani mattina, sul presto, io e Wireman eravamo nel Golfo - freddo da farti venir fuori gli occhi - con l'acqua ai polpacci. Lui era entrato e
io l'avevo seguito. Senza una parola. Ciascuno con la sua tazza di caffè.
Wireman era in pantaloncini corti; io mi ero brevemente attardato per rimboccare i miei calzoni fino alle ginocchia. Dietro di noi, in fondo alla passerella, Elizabeth sedeva scomposta sulla sua sedia a rotelle a guardare
torva l'orizzonte borbottando tra sé. La sua prima colazione era ancora
quasi tutta sul vassoio. Aveva mangiato qualcosa, sparpagliato il resto. La
brezza calda che proveniva da sud le sollevava i capelli sciolti.
L'acqua si muoveva intorno a noi sollevandosi e abbassandosi. Una volta
abituatomi, trassi piacere dalla carezza di seta di quell'andirivieni: prima la
spinta verso l'alto che mi dava l'impressione di aver magicamente perso
cinque o sei chili; poi il riflusso che trascinava la sabbia in granulosi rivoletti tra le dita dei piedi facendomi il solletico. Una settantina di metri davanti a noi due grassi pellicani tracciarono una linea attraverso il mattino.
Poi ripiegarono le ali e precipitarono come pietre. Uno riemerse senza
niente, ma l'altro aveva la sua colazione nel becco. Il pesciolino scomparve
nella sua gola quando ancora il pellicano stava riprendendo quota. Era una
danza antica, ma non per questo meno bella. A sud, sulla terraferma, dove
sorgeva il groviglio verde, un altro uccello gridava a ripetizione «Oh-oh!
Oh-oh!»
Wireman si girò verso di me. Non aveva venticinque anni, ma non lo
avevo mai visto così ringiovanito. Nemmeno una traccia di rossore nell'occhio sinistro, che aveva perso anche quell'aria disarticolata da decido-iodove-guardare. Non avevo dubbio che stesse vedendo me; che mi stesse
vedendo molto bene.
«Qualsiasi cosa possa mai fare per te», disse. «In qualsiasi momento. Per
tutta la vita. Tu chiami, io vengo. Tu chiedi, io faccio. È un assegno in
bianco. Ti è chiaro?»
«Sì», risposi. Mi era chiaro anche qualcos'altro: quando qualcuno ti offre
un assegno in bianco, non lo devi mai e poi mai incassare. Non era un concetto che avevo elaborato. Certe volte una verità scavalca il cervello e
giunge direttamente dal cuore.
«Allora siamo d'accordo», concluse. «È tutto quello che ho da dire.»
Sentii russare. Mi voltai e vidi che il mento di Elizabeth le era ricaduto
sul petto. Stringeva in una mano un pezzo di pane tostato. I capelli le roteavano intorno alla testa.
«Sembra più magra», commentai.
«Ha perso sette chili da Capodanno. Io le rifilo tutti i giorni quei maxibeveroni, quelli che si chiamano Ensure, ma lei non sempre li butta giù. E
tu? È solo il troppo lavoro a darti quella brutta cera?»
«Quale cera?»
«Quella di uno si è appena fatto strappar via mezzo sedere dal Mastino
dei Baskerville. Se ti sei spremuto troppo, forse faresti bene a sospendere e
tirare un po' il fiato.» Si strinse nelle spalle. «'Questa è la nostra opinione,
attendiamo la vostra', come dicono a Channel 6.»
Io assaporai la sensazione di sollevamento e ricaduta che mi trasmettevano le onde mentre pensavo a che cosa rispondere a Wireman. Pensavo a
quanto potevo confidare a Wireman. La soluzione mi apparve in tutta la
sua ovvietà: o tutto o niente.
«Credo che per prima cosa debba metterti al corrente di quanto è successo ieri sera. Devi solo promettermi di non chiamare quelli in camice bianco.»
«Va bene.»
Gli raccontai come avessi finito il suo ritratto dipingendo soprattutto al
buio. Gli raccontai d'aver visto il mio braccio e la mano destra. Poi di aver
visto le due bimbe morte ai piedi delle scale e di aver perso i sensi. Mentre
io raccontavo, uscimmo dall'acqua e tornammo da Elizabeth che russava.
Wireman cominciò a pulire il suo vassoio, facendo cadere gli avanzi in un
sacchetto che prese da un marsupio appeso a un bracciolo della carrozzella.
«Nient'altro?» chiese.
«Non ti basta?»
«Giusto per sapere.»
«Nient'altro. Ho dormito come un bambino fino alle sei. Poi ti ho messo
in macchina e sono venuto qui. Cioè, ho messo in macchina il tuo ritratto.
Quando sei pronto a vederlo, a proposito...»
«Ogni cosa a suo tempo. Pensa a un numero tra uno e dieci.»
«Cosa?»
«Fammi contento, muchacho.»
Pensai un numero. «Okay.»
Lui rimase in silenzio per un momento guardando il Golfo. Poi disse:
«Nove?»
«No. Sette.»
Annuì. «Sette.» Si tamburellò con le dita sul petto per qualche istante,
poi si lasciò ricadere la mano in grembo. «Ieri ci avrei azzeccato. Oggi non
più. La mia telepatia, quel mio ghiribizzo, non c'è più. Uno scambio più
che equo. Wireman è come Wireman era e Wireman dice muchas gracias.»
«Dove vuoi arrivare? Se da qualche parte volevi arrivare.»
«Volevo. Quello che ti sto dicendo è che non stai diventando pazzo, se è
questo che temi. A Duma Key le persone menomate sono persone speciali.
Quando cessano di essere menomate, cessano di essere speciali. Io sono
guarito. Tu sei ancora menomato, quindi sei ancora speciale.»
«Non sono sicuro di seguirti.»
«Perché stai cercando di rendere complicata una cosa difficile. Guarda
davanti a te, muchacho, e dimmi che cosa vedi.»
«Il Golfo. Quello che chiamate il caldo largo.»
«E che cosa dipingi quasi tutto il tempo?»
«Il Golfo. Tramonti sul Golfo.»
«E che cos'è dipingere?»
«Dipingere è vedere, suppongo.»
«Senza supporre. E che cos'è vedere a Duma Key?»
Sentendomi come un bambino che recita una lezione che non ha capito
fino in fondo, risposi: «Vedere speciale?»
«Sì. Allora, tu cosa pensi, Edgar? Ieri sera quelle bambine morte c'erano
o no?»
Avvertii un brivido freddo nella schiena. «Probabilmente sì.»
«Lo penso anch'io. Io penso che tu abbia visto i fantasmi delle sorelle.»
«Mi fanno paura.» Lo dissi a voce bassa.
«Edgar... non credo che i fantasmi possano fare del male alle persone in
carne e ossa.»
«Forse non a persone normali in un posto normale», obiettai.
Lui annuì, seppure a malincuore. «D'accordo. Dunque cosa vuoi fare?»
«Quello che non voglio fare è andarmene. Non ho ancora finito.»
Non stavo pensando solo alla mostra, alla bubble reputation. C'era di
più. Solo che non sapevo che cosa fosse il di più. Non ancora. Se avessi
cercato di tradurlo in parole sarebbe venuta fuori qualche stupidaggine,
come quelle cose scritte sui biscotti della fortuna. Qualcosa con dentro la
parola fato.
«Vuoi trasferirti qui al Palacio? Venire a stare da noi?»
«No.» Pensavo che potesse persino peggiorare la situazione. E poi Big
Pink era casa mia. Me ne ero innamorato. «Invece, Wireman, non è che
vorresti cercare notizie sulla famiglia Eastlake in generale e quelle due
bambine in particolare? Tutto quello che riesci? Se puoi leggere di nuovo,
allora potresti forse frugare in rete...»
Mi afferrò il braccio. «Frugherò e scaverò come un assatanato. Forse
puoi fare del bene anche in quella direzione. Ti farai intervistare da Mary
Ire, giusto?»
«Sì. Mi hanno fissato un incontro per la settimana dopo la mia cosiddetta conferenza.»
«Chiedile degli Eastlake. Magari fai centro. Ai suoi tempi la signorina è
stata una importante mecenate.»
«Va bene.»
Prese i manici della sedia a rotelle con l'anziana signora addormentata e
la ruotò dalla parte della casa con i tetti arancione. «E adesso andiamo a
vedere il mio ritratto. Sono curioso di sapere che faccia avevo ai tempi in
cui credevo ancora che Jerry Garcia avrebbe salvato il mondo.»
2
Avevo lasciato la macchina in cortile, accanto alla Mercedes-Benz argentata di Elizabeth Eastlake, una vettura dei tempi della guerra del Vietnam. Estrassi il ritratto dalla mia molto più umile Chevrolet, lo raddrizzai e
lo sostenni perché Wireman potesse guardarlo. Mentre lui lo contemplava
in silenzio, mi sovvenne un pensiero strano: ero come un sarto accanto a
uno specchio in un negozio di abbigliamento per uomo. Presto il mio cliente mi avrebbe detto se gli piaceva il vestito che avevo cucito per lui, oppure avrebbe scosso con rimpianto la testa per dirmi che non andava bene.
A sud, in lontananza, dove c'era quella che per me stava diventando la
Giungla di Duma, quell'uccello riprese a lanciare il suo avvertimento:
«Oh-oh!»
Poi non ce la feci più. «Di' qualcosa, Wireman. Di' una cosa qualunque.»
«Non posso. Sono senza parole.»
«Tu? Assurdo.»
Ma quando staccò gli occhi dal ritratto mi accorsi che era vero. Aveva
l'espressione di qualcuno che aveva preso una martellata in testa. Avevo
ormai compreso che quello che facevo aveva influenza sul prossimo, ma
nessuna reazione è paragonabile a quella di Wireman in quel mattino di
marzo.
A scuoterlo fu finalmente un tonfo secco. Era Elizabeth. Era sveglia e
batteva sul suo vassoio. «Fumo!» strillò. «Fumo! Fumo!» A quanto pare
certe cose sopravvivono persino nelle nebbie di Alzheimer. L'angolo del
suo cervello che sentiva bisogno di nicotina non degenerava. Fumò fino alla fine.
Wireman si tolse di tasca un pacchetto di American Spirits, ne fece uscire una scrollandola e l'accese. Poi la porse alla sua padrona. «Se le lascio
fare da sé, si appiccherà fuoco, signorina Eastlake?»
«Fumo!»
«Questo non è molto incoraggiante.»
Ma le diede lo stesso la sigaretta e, Alzheimer o no, lei la maneggiò da
professionista, traendo una boccata profonda ed emettendola dalle narici.
Poi tornò a sistemarsi bene sulla sua sedia e per un momento non sembrò
più il comandante Bligh sul cassero di poppa, ma il presidente Roosevelt al
passaggio della sfilata. Le mancava solo un bocchino da stringere tra i denti. E un po' di denti, ovviamente.
Wireman riportò la sua attenzione sul ritratto. «Non avrai seriamente intenzione di separartene, spero. Non puoi. Quest'opera è incredibile.»
«È tuo», dissi. «Niente discussioni.»
«Devi esporlo alla mostra.»
«Non so se è una grande idea...»
«Tu stesso hai detto che quando sono finiti, quello che fanno al soggetto
probabilmente è concluso...»
«Infatti, probabilmente.»
«A me basta probabilmente e alla Scoto è più al sicuro che in questa casa. Edgar, questo merita di essere visto. Anzi, diavolo, è indispensabile che
sia visto.»
«Sei tu, Wireman?» domandai con sincera curiosità.
«Sì. No.» Lo fissò per qualche istante. Poi si girò verso di me. «È come
avrei desiderato essere. Forse è come ero nei momenti migliori dei miei
anni migliori.» Poi, quasi riluttante, aggiunse: «I miei anni più idealistici».
Per un po' non parlammo, guardammo solo il ritratto mentre Elizabeth
sbuffava come un trenino. Un vecchio trenino.
«Ci sono molte cose che non capisco, Edgar», disse finalmente Wireman. «Da quando sono venuto a Duma Key, ho più domande di un bambino di quattro anni all'ora della nanna. Una cosa che però capisco benissimo
è perché tu vuoi restare qui. Se io fossi capace di fare una cosa del genere,
vorrei restarci per sempre.»
«L'anno scorso di questi tempi scarabocchiavo sul block notes del telefono quando mi facevano aspettare», commentai.
«Così hai detto. Dimmi qualcos'altro, muchacho. Guardando questo... e
pensando a tutti gli altri che hai fatto da quando hai cominciato... cambieresti l'incidente che ti è costato il braccio? Saresti disposto a cambiarlo se
potessi?»
Pensai a me stesso che dipingevo nella Little Pink mentre The Bone
pompava hard rock un pezzo via l'altro. Pensai alle Grandi Camminate.
Pensai persino al più grande dei Baumgarten che mi gridava: Yo, signor
Freemantle, bel colpo quando gli rilanciavo il frisbee. Poi pensai a quando
mi ero svegliato in quel letto di ospedale, al caldo spaventoso che sentivo,
a come erano dispersi i miei pensieri, a come talvolta non riuscivo a ricordare nemmeno il mio nome. La collera. La graduale presa di coscienza
(avvenne durante The Jerry Springer Show) che un pezzo del mio corpo
non c'era più. Mi ero messo a piangere e non ero riuscito a fermarmi.
«Lo cambierei», risposi, «a precipizio.»
«Ah», fece lui. «Mi chiedevo.» E si voltò per sfilare la sigaretta dalle dita di Elizabeth.
Lei tese subito le mani come un bambino piccolo a cui hanno portato via
il giocattolo. «Fumo! Fumo! FUMO!» Wireman schiacciò il mozzicone sul
tacco del suo sandalo e un momento dopo lei si calmò, sigaretta dimenticata ora che la carenza di nicotina era stata appagata.
«Resta con lei mentre io porto il quadro in casa, vuoi?» mi chiese Wireman.
«Certo», risposi. «Wireman, volevo solo dire...»
«Lo so. Il braccio. Il dolore. Tua moglie. È stata una domanda stupida. È
ovvio. Lasciami mettere al sicuro questo quadro, d'accordo? Poi, la prossima volta che passa da te Jack, mandamelo qui. Lo impacchettiamo ben
bene e glielo do da portare alla Scoto. Ma, prima che parta per Sarasota,
scriverò che non è in vendita su tutto l'imballo. Se tu lo regali a me, questo
gioiellino è mio. Niente equivoci.»
Nella giungla a sud l'uccello riattaccò il suo grido ansioso: «Oh-oh! Ohoh! Oh-oh!»
Avrei voluto dirgli qualcos'altro, spiegargli, ma ora era frettoloso. E poi
la domanda era stata sua. La sua stupida domanda.
3
L'indomani Jack Cantori portò Wireman guarda a ovest alla Scoto e, appena ebbe liberato il dipinto dalle protezioni di cartone, Dario mi telefonò.
Dichiarò di non aver mai visto niente del genere e che voleva fare di quello
e della serie Bambina e nave il nucleo centrale della mostra. Lui e Jimmy
erano dell'opinione che il fatto stesso che quelle opere non fossero in vendita avrebbe sollecitato il massimo interesse. Gli risposi che a me andava
bene. Mi chiese se mi stavo preparando per la mia conferenza e gli risposi
che ci stavo pensando. Commentò che era un bene, perché l'evento stava
già suscitando un «interesse non comune», quando le circolari non erano
ancora state distribuite.
«E naturalmente manderemo anche immagini digitalizzate all'elenco dei
nostri corrispondenti in rete», aggiunse.
«Ottimo», mi felicitai, ma senza sincero entusiasmo. Durante quei primi
dieci giorni di marzo mi aveva preso una curiosa fiacchezza. Senza che avesse effetti sul lavoro: dipinsi un altro tramonto e un altro Bambina e nave. Ogni mattina camminavo in spiaggia con la mia sacca in spalla in cerca
di conchiglie e di qualunque altro interessante relitto il Golfo potesse aver
spinto a riva. Trovai un gran numero di lattine di birra e analcolici (quasi
tutte levigate e bianche come amnesie), qualche preservativo, una pistola a
raggi di plastica, e lo slip di un bikini. Palline da tennis zero. Bevvi tè verde con Wireman sotto l'ombrellone a strisce. Persuasi Elizabeth a mangiare
la pasta al tonno abbondantemente condita con la maionese; la obbligai a
sorbire i suoi «frullati» Ensure con una cannuccia. Un giorno mi sedetti alla sua sedia in fondo alla passerella e le rimossi dai vecchi piedoni l'eccesso di pelle gialla e indurita.
Quello che non feci fu scrivere appunti per la mia presunta «conferenza
sull'arte» e, quando Dario mi chiamò per informarmi che era stata spostata
nell'auditorium della biblioteca pubblica, con duecento posti a sedere, mi
complimentai con me stesso per la disinvoltura della mia reazione che non
lasciò minimamente trasparire fino a che punto mi si fosse gelato il sangue
nelle vene.
Duecento persone significava quattrocento occhi, tutti fissi su di me.
Altra cosa che non feci fu scrivere inviti, prendere iniziative per prenotare stanze per le notti del 15 e del 16 aprile al Ritz-Carlton di Sarasota, o
noleggiare un Gulfstream per trasportare a sud una comitiva di amici e parenti dal Minnesota.
L'idea che qualcuno di loro avesse voglia di vedere i miei scarabocchi
cominciava a sembrarmi una follia.
L'idea che Edgar Freemantle, che un anno prima aveva lottato con la
commissione al piano urbanistico di St. Paul sulla modalità delle perforazioni per l'analisi del sottosuolo, potesse tenere un discorso sull'arte di
fronte a una schiera di autentici mecenati mi sembrava pazzia da manicomio.
I dipinti al contrario mi sembravano più reali che mai e il lavoro era...
Dio, il lavoro era fantastico. Quando sostai davanti al mio cavalletto nel
tramonto della Little Pink, vestito solo dei miei calzoncini da ginnastica,
nella musica trasmessa da The Bone, a guardare Bambina e nave no. 7 emergere dal bianco a incredibile velocità (come uno scafo che sbuca da un
banco di nebbia), mi sentii totalmente presente e vivo, un uomo precisamente al posto giusto nel momento precisamente giusto, un tassello perfettamente inserito nel mosaico dell'universo. La nave fantasma aveva acqui-
stato un po' più di consistenza; sembrava che il suo nome fosse Perse. Per
capriccio lo cercai con Google e trovai una sola voce isolata, probabilmente un record mondiale. Perse era una scuola privata in Inghilterra, dove gli
ex alunni venivano chiamati Vecchi Perseani. Nessun accenno a una Nave
Scuola, con tre o più o meno alberi.
In quell'ultima versione la bambina sulla barca a remi indossava un vestito verde con le spalline che le si incrociavano sulla schiena nuda e intorno a lei, a galleggiare sull'acqua incupita, c'erano rose. Un'immagine inquietante.
Passeggiando sulla spiaggia, consumando la mia colazione e bevendo la
birra, con Wireman o da solo, ero felice. Quando dipingevo i miei quadri
ero felice. Più che felice. Quando dipingevo mi sentivo completo e pienamente realizzato a un livello elementare che prima di Duma Key non avevo mai compreso. Ma quando pensavo alla mostra alla Scoto e a tutto quello che richiedeva assicurare il successo all'esposizione delle opere di un
esordiente, la mia mente andava in blocco. Non era semplice panico da
palcoscenico, era semplice panico e basta.
Mi dimenticavo le cose, come per esempio aprire le e-mail che mi spedivano Dario, Jimmy o Alice Aucoin della Scoto. Se Jack mi domandava
se fossi emozionato per «il mio numero» al Geldbart Auditorium della
Selby Library, gli rispondevo oh-sì, poi gli chiedevo di fare il pieno a Osprey e mi dimenticavo che cosa voleva sapere. Quando Wireman mi chiese se mi fossi già accordato con Alice Aucoin su come disporre le varie serie dei miei quadri nelle sale della galleria, gli proposi qualche tiro sul
campo da tennis, visto che a Elizabeth faceva piacere guardare.
Poi, circa una settimana prima della conferenza, Wireman mi disse che
voleva mostrarmi qualcosa che aveva fatto. Un lavoretto artigianale. «Magari puoi darmi la tua opinione da artista», commentò.
Sul tavolino protetto dall'ombrellone a strisce (Jack aveva riparato lo
strappo con un pezzo di nastro isolante) c'era una cartelletta nera. L'aprii e
vi trovai quella che sembrava una brochure in carta lucida. Sul fronte c'era
una delle mie prime fatiche, Tramonto con sophora, e mi stupii di quanto
sembrasse professionale. Sotto la riproduzione c'era scritto:
Cara Linnie: ecco che cosa faccio in Florida,
e sebbene sappia che sei molto occupata...
Sotto molto occupata c'era una freccia. Alzai gli occhi su Wireman, che
mi stava guardando impassibile. Dietro di lui Elizabeth contemplava il
Golfo. Non sapevo se mi sentissi adirato o risollevato dalla sua arrogante
ingerenza. In verità provavo entrambi i sentimenti. E non ricordavo di avergli mai detto che qualche volta chiamavo la mia figlia più grande Linnie.
«Puoi anche cambiare lo stile del carattere», disse. «Questo per i miei
gusti è un po' femminile, ma alla mia collaboratrice piace. E naturalmente
il nome del destinatario è intercambiabile. Questo è il bello di fare cose così al computer.»
Io non risposi, mi limitai ad aprire la brochure. Dentro c'erano Tramonto
con erba panica su un lato e Bambina e nave no. 1 dall'altro. Sotto le immagini c'era questa scritta:
...spero che tu possa presenziare all'inaugurazione di una mostra
dei miei lavori la sera del 15 aprile, alla Scoto Gallery di Sarasota, Florida, 19.00-22.00. Ho prenotato un posto a tuo nome in
prima classe sul volo 22 dell'Air France, partenza da Parigi il 15
alle 08.25 e arrivo a New York alle 10.15; hai anche una prenotazione sul volo Delta 496 in partenza dal JFK di New York il
giorno 15 alle 13.20 con arrivo a Sarasota alle 16.30. Troverai in
attesa una limousine che ti porterà al Ritz-Carlton, dove mi sono
permesso di fissarti una camera dal 15 al 17 aprile.
Sotto c'era un'altra freccia. Guardai Wireman confuso. Lui era sempre
imperterrito, ma notai la vena che gli pulsava sulla tempia destra. Più tardi
avrebbe detto: «Sapevo che mettevo a repentaglio la nostra amicizia, ma
qualcuno doveva pur fare qualcosa e ormai mi era chiaro che quel qualcuno non saresti stato tu».
Passai alla sezione successiva della brochure. Altre due di quelle incredibili riproduzioni: Tramonto con conchiglia sulla sinistra e a destra uno
schizzo della mia cassetta per la corrispondenza senza titolo. Era uno dei
miei primi disegni, eseguito con le matite colorate, ma mi piaceva il fiore
che cresceva di fianco al paletto di legno, una margherita nera e giallo vivo, e persino il disegno risultava accattivante nella riproduzione, come se
la mano che lo aveva tracciato sapesse il fatto suo. O stesse cominciando a
saperlo.
Qui la scritta era breve.
se non puoi venire, avrai tutta la mia comprensione - Parigi non è
dietro l'angolo! - ma spero proprio che tu ce la faccia.
Ero in collera ma non ero uno stupido. Qualcuno doveva prendere un'iniziativa. Evidentemente Wireman aveva deciso che fosse compito suo.
Ilse, pensai. Dev'essere stata Ilse ad aiutarlo.
Mi aspettavo di trovare un'altra riproduzione sopra il testo scritto anche
in ultima pagina, ma mi sbagliavo. Quello che vi trovai mi colpì il cuore di
sorpresa e amore. Melinda era sempre stata la mia ragazza difficile, il mio
progetto, ma non per questo le avevo voluto meno bene, e l'amore che provavo per lei era più che evidente nella foto in bianco e nero, increspata al
centro e con le orecchie in due dei quattro angoli. Aveva il diritto di essere
così sciupata, perché la Melinda che c'era accanto a me non poteva avere
più di quattro anni. L'istantanea di conseguenza era almeno vecchia di diciotto. Era in jeans, Melinda, stivaletti da cowboy, camicia in stile western
e cappello di paglia. Eravamo appena rientrati da Pleasant Hill Farms, dove alle volte andava a montare un pony Shetland di nome Sugar? Così mi
sembrava. Eravamo comunque sul marciapiede davanti alla nostra prima
piccola casa a Brooklyn Park. Io ero in jeans scoloriti, con una maglietta
bianca di cui avevo arrotolato le maniche corte, e avevo i capelli pettinati
all'indietro e impomatati come un italiano. In una mano tenevo una lattina
di Grain Belt e guardavo l'obiettivo sorridendo. Linnie teneva una mano
agganciata alla tasca dei miei jeans, con un'espressione di amore - quanto
amore - sul faccino rivolto all'insù, che mi provocò un dolore in gola. Io
sorrisi come si fa quando si è a un centimetro dallo scoppiare in lacrime.
Sotto la fotografia c'era scritto:
Se vuoi essere aggiornata sulle novità future, puoi chiamare me
al 941-555-6166, o Jerome Wireman al 941-555-8191, o tua madre. A proposito, lei verrà con il gruppo del Minnesota e ti incontrerà all'albergo.
Spero che tu possa venire, un bacio affettuoso comunque sia,
pony girl,
papà
Chiusi la lettera che era anche una brochure che era anche un invito e
per qualche momento rimasi a guardarla in silenzio. Non mi fidavo molto
a parlare.
«È solo una bozza, s'intende.» Wireman era sulle spine. In altre parole,
non era lui stesso. «Se proprio ti fa schifo, la butto via e ci riprovo. Non mi
offendo.»
«Non hai avuto quella foto da Ilse», dissi.
«No, muchacho. L'ha trovata Pam in uno dei suoi vecchi album.»
A un tratto all'improvviso tutti i conti tornarono.
«Quante volte le hai parlato, Jerome?»
Fece una smorfia. «Questo fa male, ma non posso darti torto. Cinque o
sei volte, direi. Ho cominciato dicendole che quaggiù ti stavi mettendo in
un guaio e che stavi trascinando con te un sacco di altra gente...»
«Ma che cazzo!» esplosi.
«Gente che ha investito in te molte speranze e fiducia, per non parlare
del denaro...»
«Sono perfettamente in grado di risarcire tutto il denaro che quelli della
Scoto possano aver messo in gioco su...»
«Piantala», mi zittì e mai avevo sentito tanto gelo nella sua voce. Né visto nei suoi occhi. «Non sei un coglione, muchacho, allora non comportarti
da coglione. Sei in grado di risarcire la loro fiducia? Puoi risarcire il loro
prestigio, se un grande artista esordiente che loro hanno promesso ai loro
clienti non si presenta alla conferenza o alla mostra?»
«Wireman, la mostra la posso fare, è solo quella maledetta conferenza...»
«Ma questo loro non lo sanno!» gridò. Aveva un fior di voce, un autentico ruggito da aula di giustizia. Elizabeth non reagì, ma i peep si alzarono
in un lenzuolo marrone dalla linea della risacca. «Si sono messi in testa
questa buffa idea che forse il quindici aprile ci sarà una non mostra, o che
addirittura ti riprenderai tutta la tua roba e loro si ritroveranno con le sale
vuote nel pieno della stagione turistica, quando sono soliti rastrellare un
terzo del loro incasso annuale.»
«Non hanno motivo di pensare così», cercai di protestare, ma mi pulsava
la faccia come un mattone incandescente.
«Ah no? Che cosa pensavi tu di questo genere di comportamento nella
tua altra vita, amigo? Che conclusioni traevi su un fornitore che ti prometteva cemento e poi non si faceva vivo? O una ditta di impianti idraulici che
doveva venire a installare le tubature in una banca nuova e il giorno dell'inizio dei lavori non manda al cantiere nemmeno un garzone? Ti veniva
voglia di avere, come dire, una grande fiducia in persone che si comportavano così? Credevi alle loro giustificazioni?»
Io non dissi niente.
«Dario ti manda e-mail chiedendoti di prendere decisioni e tu non gli rispondi. Lui e gli altri ti telefonano e ottengono solo risposte vaghe come 'ci
penserò'. Questo comportamento li renderebbe nervosi se tu fossi Jamie
Wyeth o Dale Chihuly, e tu non lo sei. Fondamentalmente tu sei solo un tizio spuntato dal nulla. Così loro chiamano me e io faccio del mio meglio,
del resto sono il tuo agente del cazzo, ma io non sono un artista e non lo
sono nemmeno loro, non proprio. Noi siamo come un gruppo di tassisti
che cercano di far venire al mondo un nascituro.»
«Ho capito», mormorai.
«Chissà.» Sospirò. Un grosso sospiro. «Tu dici che riguardo alla conferenza il tuo è solo panico da palcoscenico e che invece la mostra non ti
provoca problemi. Sono sicuro che in certa misura lo credi anche tu, ma,
amigo, lasciami dire che penso che ci sia una parte di te che non ha intenzione di farsi vedere alla Scoto Gallery il quindici aprile.»
«Wireman, questa è solo...»
«Una stronzata? Davvero? Chiamo il Ritz-Carlton e chiedo se un certo
signor Freemantle ha prenotato delle camere per la metà di aprile e mi becco un bel No, no, Nanette. Così prendo fiato e contatto la tua ex. Non è più
sulla guida, ma, quando le dico che si tratta di un'emergenza, la tua immobiliarista mi dà il numero. E subito scopro che a Pam stai ancora a cuore.
Vorrebbe telefonarti per dirtelo, ma ha paura che tu la respinga.»
Lo guardo a bocca aperta.
«La prima cosa che stabiliamo, dopo le presentazioni, è che Pam Freemantle non sa un fico secco di un'importante mostra d'arte a cinque settimane da oggi in cui verranno esposte le opere del suo ex marito. La seconda cosa - fa una telefonata mentre Wireman se ne sta in attesa a compilare
le parole crociate grazie alla sua vista ritrovata - è che il suo ex non ha alzato un solo ditino per fissare un aereo, almeno non con la compagnia che
conosce lei. Il che ci conduce a discutere se, sotto sotto, Edgar Freemantle
non abbia deciso che quando verrà il momento, per dirla nel linguaggio
della mia gioventù bruciata, manderà tutti affanculo e nasconderà la testa
nella sabbia.»
«No, hai preso un granchio», dissi, ma il tono stesso della mia voce era
così spento da non riuscire a essere per niente convincente. «È solo che
tutti questi imbrogli organizzativi mi fanno impazzire e così ho continuato... sai, a rimandare.»
Wireman era un mastino. Se fossi stato sul banco dei testimoni, credo
che a quel punto di me ci sarebbe stata solo una pozzanghera di lipidi e lacrime; il giudice avrebbe sospeso l'udienza per dare tempo a un inserviente
di tirarmi su con uno spazzolone o lucidarmi con un panno. «Pam dice che
se si cancellassero gli edifici della Freemantle Company dallo skyline di
St. Paul, sembrerebbe di essere a Des Moines nel millenovecentosettantadue.»
«Pam esagera.»
Non mi ascoltò. «Dovrei credere che un uomo che è stato capace di organizzare un'impresa di così ingenti dimensioni non è capace di organizzare qualche biglietto d'aereo e una decina di camere d'albergo? Specialmente quando ha a che fare con persone che sarebbero solo felici se si mettesse
in contatto con loro.»
«Loro non... io non... non possono...»
«Ti stai arrabbiando?»
«No.» E invece sì. La vecchia collera era riapparsa con una gran voglia
di alzare la voce fino a urlare forte come Axl Rose su The Bone. Mi portai
le dita appena sopra l'occhio destro, dove si andava formando un dolore.
Non avrei dipinto quel giorno e sarebbe stata colpa di Wireman. La responsabilità era di Wireman. Per un momento desiderai che fosse cieco.
Non a metà, ma cieco cieco, e mi venne in mente che avrei potuto dipingerlo così. Fu allora che la mia collera svanì.
Wireman mi vide portare la mano alla testa e assunse un tono meno feroce. «Ascolta, quasi tutte le persone che ha contattato in via ufficiosa
hanno già detto sì, che diamine, naturalmente, sarebbero lusingati. Il tuo
vecchio capocantiere, Angel Slobotnik, ha detto a Pam che ti porterebbe
un vaso di sottaceti. La tua ex mi ha detto che era al settimo cielo.»
«Non sottaceti, uova in carpione», corressi io e il faccione largo, piatto e
sorridente di Big Ainge fu per un momento così vicino da poterlo toccare.
Angel, che era stato il mio braccio destro per vent'anni fino al giorno in cui
un infarto grave non lo aveva spedito in tribuna. Angel, la cui puntuale risposta a qualsiasi richiesta, per quanto scandalosa, era Si può fare, boss.
«Alle prenotazioni dei voli abbiamo pensato io e Pam», riprese Wireman. «Non solo per quelli dell'area Minneapolis-St. Paul, ma anche da altri
posti.» Batté il dito sulla brochure. «I voli Air France e Delta menzionati
qui dentro sono veri e tua figlia Melinda ha veramente un posto prenotato
su entrambi. Sa cosa sta succedendo. Lo sa anche Ilse. Aspettano solo un
invito ufficiale. Ilse voleva telefonarti e Pam le ha chiesto di aspettare. Dice che sei tu a dover premere il grilletto su questa faccenda e non ne avesse
pure azzeccata una in tutti gli anni del vostro matrimonio, muchacho, su
questo ha ragione.»
«D'accordo, ti ascolto.»
«Bene. Ora voglio parlarti della conferenza.»
Io gemetti.
«Se mi fai un bunk alla conferenza, ti sarà due volte più difficile presentarti al vernissage...»
Lo guardai incredulo.
«Cosa c'è?» chiese. «Non sei d'accordo?»
«Se faccio un bunk?» ribattei. «Cosa cazzo sarebbe un bunk?»
«Se gliela dai buca», sbuffò lui, un po' sulle sue. «Slang britannico. Vedi
per esempio Evelyn Waugh, Ufficiali e gentiluomini, millenovecentocinquantacinque.»
«Vedi il mio culo e la tua faccia», risposi. «Edgar Freemantle, in data
odierna.»
Lui mi mostrò il dito medio e di punto in bianco fra noi era tutto di nuovo quasi normale.
«Hai mandato le foto a Pam, vero? I file jpg, voglio dire.»
«Sì.»
«Come ha reagito?»
«È cascata, muchacho.»
Tacqui cercando di immaginare Pam così scossa da cadere. Ci riuscii,
ma il viso che vidi illuminarsi di sorpresa e stupore era più giovane. Erano
passati parecchi anni da quando ero ancora in grado di generare un vento
così forte.
Elizabeth si stava assopendo, ma i capelli le svolazzavano contro le
guance e lei continuava ad agitare le mani come se fosse tormentata dagli
insetti. Mi alzai, scovai un elastico nel marsupio appeso al bracciolo della
sua sedia - ce n'erano sempre in buon numero, di molti colori vivaci - e le
raccolsi i capelli in una coda di cavallo. Il ricordo di quando lo facevo a
Melinda e Ilse fu dolce e terribile.
«Grazie, Edgar. Grazie, mi amigo.»
«Come faccio, allora?» chiesi. Avevo il palmo posato sul lato della testa
di Elizabeth e gustavo la liscezza dei suoi capelli come spesso avevo accarezzato quella delle mie figlie dopo che se li erano lavati; quando la memoria ha il sopravvento il nostro corpo diventa un fantasma e ci insidia con i
gesti di un nostro io più giovane. «Come parlo di un processo che è almeno in parte soprannaturale?»
Ecco. L'avevo detto. Il nocciolo della questione.
Eppure Wireman non si scompose. «Edgar!» esclamò.
«Edgar cosa?»
E quella canaglia ebbe la faccia tosta di ridere. «Se lo dici a loro... ti
crederanno.»
Aprii la bocca per respingere quell'assurdità. Pensai al lavoro di Dalí.
Pensai a quello splendido quadro di Van Gogh, Notte stellata. Pensai a certi dipinti di Andrew Wyeth, non Il mondo di Christina, ma i suoi interni:
stanze secondarie dove la luce è insieme giusta e strana, come se provenisse contemporaneamente da due direzioni diverse. Chiusi di nuovo la bocca.
«Non posso essere io a imboccarti», disse Wireman, «ma ti posso dare
qualcosa come questo.» Mi mostrò la sua brochure/invito. «Ti posso dare
un campione di riferimento.»
«Sarebbe d'aiuto.»
«Sì? Allora ascolta.»
Ascoltai.
4
«Pronto?»
Ero sul divano nella Florida room. Il cuore mi batteva forte. Era una di
quelle telefonate - tutti ne fanno qualcuna - in cui speri che l'altro risponda
subito, così ti togli il pensiero, e simultaneamente speri di no, così puoi rimandare ancora per un po' una conversazione difficile e probabilmente dolorosa.
A me toccò l'Opzione Uno; Pam rispose al primo squillo. A questo punto mi restava solo da sperare che la nostra conversazione andasse meglio
dell'ultima volta. Delle ultime due, per la precisione.
«Ciao Pam, sono Edgar.»
«Salve Edgar», rispose lei diffidente. «Come stai?»
«Sto... sto bene. Sì. Ho parlato con il mio amico Wireman. Mi ha mostrato l'invito che avete architettato voi due.» Che avete architettato voi
due. Non era molto carino. C'era l'eco di un complotto. Ma in che altro
modo dovevo metterla?
«Sì?» Impossibile interpretare il tono della sua voce.
Trassi un respiro e mi lanciai. Dio odia i vigliacchi, dice Wireman. Tra
le altre cose. «Ho chiamato per ringraziarti. Mi stavo comportando da per-
fetto imbecille. Avevo proprio bisogno che intervenissi tu di peso.»
Il silenzio fu abbastanza lungo da farmi temere che a un certo punto avesse riattaccato senza farsi sentire. Poi disse: «Sono ancora qui, Eddie. Mi
sto solo rialzando da terra. Non credo di ricordare l'ultima volta che ti sei
scusato con me».
Mi ero scusato? Be'... pazienza. Forse ci ero andato vicino. «Allora mi
spiace anche per quello», aggiunsi.
«Ti devo delle scuse anch'io», ribatté lei, «dunque penso che con questo
abbiamo sistemato tutto.»
«Tu? Di che cosa ti dovresti scusare?»
«Mi ha chiamato Tom Riley. Giusto due giorni fa. Sta prendendo di
nuovo le sue medicine. Andrà, cito le sue parole, di nuovo a 'vedere qualcuno' - immagino che intenda uno psichiatra - e telefonava per ringraziarmi di avergli salvato la vita. Ti è mai capitato che qualcuno ti telefonasse
per ringraziarti di una cosa così?»
«No.» Sebbene di recente qualcuno mi avesse telefonato per ringraziarmi di avergli salvato la vista, perciò sapevo pressappoco di che cosa stava
parlando.
«È un'esperienza strana. 'Se non fosse per te, ora sarei morto.' Queste
sono state le sue parole precise. E non potevo dirgli che doveva ringraziare
te, perché sarebbe sembrato pazzesco.»
Fu come se qualcuno mi avesse improvvisamente tagliato di dosso una
cintura troppo stretta. Alle volte le cose girano per il verso giusto. Alle
volte sì. «È molto bello, Pam.»
«Ho parlato con Ilse di questa tua mostra.»
«Sì, io...»
«Be', anche con Lin, ma quando ho parlato con Ilse ho dirottato la conversazione su Tom e ho capito subito che non sapeva niente di quello che
c'era stato tra noi due. Mi ero sbagliata anche lì. Trovando per giunta l'occasione di mettere in mostra un lato molto sgradevole della mia personalità.»
Mi accorsi, con allarme, che stava piangendo. «Pam, ascoltami.»
«Ho mostrato molti lati sgradevoli di me a molte persone da quando mi
hai lasciato.»
Io non ti ho lasciata! per poco non gridai. E ci andai vicino. Abbastanza
vicino da farmi affiorare sudore sulla fronte. Non ti ho lasciata io, sei stata
tu a chiedere il divorzio, tu sorca traduttrice!
Ciò che dissi fu: «Pam, basta così».
«Ma era così difficile da credere, anche dopo che mi hai telefonato e mi
hai raccontato tutte quelle altre cose. Sai, del mio nuovo televisore. E di
Puffball.»
Stavo per domandarle chi fosse Puffball, quando ricordai il gatto.
«Sono migliorata, però. Ho ripreso ad andare in chiesa. Ci credi? E da
una psicologa. La vedo due volte la settimana.» Fece una pausa, poi riprese tutto d'un fiato: «È in gamba. Dice che una persona non può sbattere la
porta in faccia al passato, può solo fare ammenda e andare avanti. È una
cosa che ho capito, ma non sapevo come cominciare a fare ammenda con
te, Eddie».
«Pam, tu non mi devi...»
«La mia terapeuta dice che non si tratta di quello che pensi tu, ma di
quello che penso io.»
«Vedo.» In quelle parole ritrovavo molto della vecchia Pam, dunque forse aveva trovato la terapeuta giusta.
«Poi mi ha chiamato il tuo amico Wireman e mi ha detto che avevi bisogno di aiuto... e mi ha mandato quelle foto. Sono ansiosa di vedere i quadri
veri. Cioè, sapevo che del talento l'avevi, mi ricordo quell'anno che Lin era
così malata e tu le disegnavi quei libricini...»
«Ah sì?» Ricordavo l'anno della malattia di Melinda, un'infezione dopo
l'altra culminate in una spaventosa diarrea, provocata probabilmente
dall'eccesso di antibiotici, che l'avevano costretta a una settimana di ospedale. Aveva perso quattro chili quella primavera. Non fosse stato per le vacanze estive, senza parlare della sua media altissima, avrebbe dovuto ripetere la seconda elementare. Non ricordavo però di aver disegnato libricini.
«Il Pesce Piero? Il Granchio Gracco? Ciro il Cervo Timido?»
Ciro il Cervo Timido non mi suonava del tutto nuovo, risvegliava un'eco
in profondità, ma... «No», dissi.
«Angel pensava che avresti dovuto cercare di farli pubblicare, rammenti? Ma questi... mio Dio. Sapevi di esserne capace?»
«No. Ho cominciato a pensare che fosse una strada che potevo battere
quand'ero alla casa al lago, ma sono andato molto oltre quello che immaginavo.» Mi vennero in mente Wireman guarda a ovest e il volto di Candy
Brown senza bocca e senza naso e conclusi di aver appena battuto il record
degli eufemismi.
«Eddie, vuoi lasciarmi fare gli altri inviti come quello che ho preparato
come campione? Li personalizzo, li rendo carini.»
«Pa...» Quasi Panda di nuovo. «Pam, non posso chiedertelo.»
«Ma io lo voglio fare.»
«Davvero? Allora va bene.»
«Li scrivo e li mando via e-mail al signor Wireman. Così tu puoi controllarli prima che lui li stampi. È un vero tesoro, il tuo signor Wireman.»
«Sì, lo è. Vedo che voi due avete fatto proprio comunella alle mie spalle.»
«Sì, eh?» Sembrava divertita. «Ne avevi bisogno. Solo che tu devi fare
qualcosa per me.»
«Cosa?»
«Devi chiamare le ragazze perché stanno impazzendo, Ilse in particolare.
D'accordo?»
«D'accordo. E...»
«Cosa, caro?» Sono sicuro che lo disse sovrappensiero, senza rendersi
conto del male che avrebbe fatto. Ah, be', lo stesso dolore che aveva probabilmente provato lei quando aveva sentito il mio vezzeggiativo arrivarle
dalla Florida, diventando più gelido per ogni chilometro di trasferimento
da sud a nord.
«Grazie», dissi.
«L'accetto con molto piacere.»
Erano solo le undici meno un quarto quando ci salutammo. Quell'inverno il tempo non passò mai tanto velocemente come durante le mie serate
nella Little Pink - in piedi al mio cavalletto mi domandavo come potessero
i colori a occidente spegnersi così in fretta - e mai tanto lentamente come
quella mattina, quando feci le telefonate che avevo continuato a rimandare.
Le mandai giù una dopo l'altra come medicine.
Guardai il cordless che avevo in grembo. «'Fanculo, telefono», ringhiai e
composi un nuovo numero.
5
«Scoto Gallery, sono Alice.»
Una voce gioiosa che in quegli ultimi dieci giorni avevo imparato a conoscere bene.
«Salve, Alice, sono Edgar Freemantle.»
«Sì, Edgar?» La gioia si trasformò in prudenza. C'era forse sempre stata?
Ero io che l'avevo ignorata?
«Se hai un paio di minuti», dissi, «vorrei discutere l'ordine delle dia per
la presentazione.»
«Sì, Edgar, subito.» Il sollievo era palpabile. Mi fece sentire un eroe. Naturalmente mi fece sentire anche un topo di fogna.
«Hai un blocco sottomano?»
«Può scommetterci la coda!»
«Benissimo. Fondamentalmente vogliamo che siano in ordine cronologico...»
«Ma io non conosco la cronologia, ho cercato di dirglielo...»
«Lo so, e ho telefonato proprio per questo, però sta' a sentire, Alice: la
prima dia non sarà in ordine cronologico. La prima deve essere Rose che
crescono da conchiglie. Ci sei?»
«Rose che crescono da conchiglie. Ce l'ho.» Era solo la seconda volta da
quando ci eravamo conosciuti che Alice si dimostrava sinceramente contenta che stessimo parlando.
«Ora veniamo ai disegni a matita.»
Parlammo per mezz'ora.
6
«Oui, allò?»
Per un momento non dissi niente. Il francese mi aveva un po' disorientato. Il fatto che la voce fosse giovane sì, ma maschile, mi aveva disorientato
di più.
«Allô, allô?» Ora impaziente. «Qui est à l'appareil?»
«Mmm, forse ho sbagliato numero», dissi, sentendomi non solo un coglione, ma un coglione americano monolingue. «Stavo cercando Melinda
Freemantle.»
«D'accord, il numero è giusto.» Poi, un po' distante dal ricevitore: «Melinda! C'est ton papa, je crois, chérie».
Il telefono fu posato con un tonfo. Per un attimo mi apparve davanti agli
occhi - molto nitida, molto politicamente scorretta e molto probabilmente
in conseguenza dell'accenno fatto da Pam ai libricini di vignette che avevo
disegnato molti anni prima per una bambina malata - l'immagine di una
grossa puzzola parlante con il basco in testa, Monsieur Pepe Le Pew, che
girava impettito per la pension di mia figlia (se così si chiama un monolocale a Parigi) rilasciando ondate di aroma nella forma di linee sinuose dalla
schiena con la striscia bianca.
Poi venne in linea Melinda, insolitamente agitata. «Papà? Papà? Tutto
bene?»
«Sì, tutto bene», risposi. «Era il tuo coinquilino, quello?» Era una battuta, ma dal suo silenzio capii di aver messo un piede in fallo. «Ehi, Linnie,
guarda che stavo solo...»
«... facendo il cretino, sì.» Impossibile capire se era divertita o seccata. Il
collegamento era buono ma non fino a quel punto. «Ed è il mio compagno
di stanza.» Il sottinteso mi giunse forte e chiaro: vuoi farne una questione?
Meno che mai volevo farne una questione. «Be', sono contento che ti sia
fatta un amico. Gira con il basco?»
Con mio immenso sollievo, rise. Con Lin era impossibile prevedere come avrebbe preso una spiritosaggine perché il suo senso dell'umorismo era
inaffidabile quanto un pomeriggio d'aprile. Chiamò: «Ric! Mon papa...»
Qualcosa che non colsi, poi: «... si tu portes un béret!»
Udii in lontananza una risata maschile. Ah, Edgar, pensai. Anche da oltreoceano li stendi dal ridere, père fou.
«Papi no, ma stai davvero bene?»
«Sì. Come va la gola?»
«Molto meglio, grazie.»
«Ho appena finito di parlare al telefono con tua madre. Ti arriverà un invito ufficiale a questa mostra che faccio dei miei quadri, ma mi dice che tu
verrai e io sono molto felice.»
«Tu sei felice? Mamma mi ha mandato alcune foto e non vedo l'ora.
Quando hai imparato?»
Era diventata la domanda d'attualità. «Qui.»
«Sono incredibili. Anche gli altri sono così belli?»
«Dovrai venire a vederlo da te.»
«Può venire Ric?»
«Ha il passaporto?»
«Sì...»
«Promette di non prendere per il sedere il tuo vecchio?»
«Porta il massimo rispetto per quelli più grandi di lui.»
«Allora posto che non abbiano venduto tutti i biglietti d'aereo e che non
ti dispiaccia dormire in due nella stessa stanza, ma presumo che questo
non sia un problema, certamente può venire.»
Strillò così forte da farmi dolere il timpano, ma non allontanai il ricevitore dall'orecchio. Era passato un tempo immemorabile dall'ultima volta
che avevo detto o fatto qualcosa che spingesse Linnie Freemantle a strillare così. «Grazie, papà, è bellissimo!»
«Sarà bello conoscere Ric. Magari gli rubo il basco. In fondo adesso so-
no un pittore.»
«Glielo dico, sai, che hai detto così?» Poi il suo tono cambiò. «Hai già
sentito Ilse?»
«No, perché?»
«Quando la senti, non dirle niente di Ric, va bene? Lascialo fare a me.»
«Non ne avevo intenzione.»
«Perché lei e Carson... mi ha detto di avertene parlato...»
«Infatti.»
«Be', io sono sicura che c'è un problema. Illy dice che 'sta riflettendo'.
Parole testuali. Ric non è sorpreso. Dice che non bisogna mai fidarsi di una
persona che prega in pubblico. Io so solo che l'ho sentita molto cresciuta
rispetto alla sorellina di una volta.»
Lo stesso vale per te, Lin, pensai. Ricordai per un istante com'era a sette
anni, quando stava così male che io e Pam avevamo temuto che potesse
morire, anche se non lo avevamo mai detto a voce alta. Melinda era tutta
occhioni neri, guance pallide e capelli spenti. Ricordo di aver pensato una
volta: Teschio su una pertica e di essermi odiato per quello. E di essermi
odiato ancora di più perché sapevo, nei recessi profondi del cuore, che se
una di loro avesse dovuto ammalarsi fino a quel punto, ero contento che
fosse lei. Mi sono sforzato sempre di credere di voler bene a entrambe le
mie figlie con la stessa intensità, ma non era vero. Forse è così per certi
genitori, credo che lo sia stato per Pam, ma non lo è mai stato per me. E
Melinda lo sapeva?
Ma certo.
«Ti stai prendendo cura di te stessa?» le domandai.
«Sì, papà.» Quasi la vidi alzare gli occhi al soffitto.
«E continua a farlo. Ti aspetto quaggiù.»
«Papà?» Una pausa. «Ti voglio bene.»
Sorrisi. «Quante ciocche?»
«Un milione e una da sotto il tuo cuscino», rispose lei con il tono di chi
accontenta il capriccio di un bambino. Ma pazienza. Rimasi seduto per un
po' a contemplare l'acqua strofinandomi distrattamente gli occhi, poi feci
quella che speravo fosse l'ultima telefonata di quel giorno.
7
Era mezzogiorno ormai e non mi aspettavo veramente di trovarla; pensavo che fosse fuori a colazione con gli amici. Invece, come già Pam, ri-
spose al primo squillo. Il suo pronto fu stranamente cauto e io ebbi un'improvvisa e precisa intuizione: pensava che fosse Carson Jones che le telefonava per pregarla di dargli un'altra occasione o per giustificarsi. Spiegarsi di nuovo. È un'intuizione che non potei mai verificare, ma è anche vero
che non ne ho mai avuto bisogno. Certe cose uno semplicemente le sa.
«Ehi, If-So-Girl, come butta?»
La sua voce si ravvivò all'istante. «Papà!»
«Come stai, cara?»
«Bene, papà, ma non bene quanto te. Ti avevo detto che erano belli?
Cioè, te l'avevo detto, sì o no?»
«Me l'avevi detto», ammisi sorridendo mio malgrado. Era sembrata cresciuta a Lin, ma dopo quel pronto titubante, a me sembrava di ascoltare la
vecchia Illy di sempre, spumeggiante e gorgogliante come un bicchiere di
gelato annegato nella Coca-Cola.
«Mamma dice che la stavi tirando per le lunghe ma che aveva intenzione
di allearsi con il tuo amico laggiù e metterti in moto. Mi è piaciuto da matti! Mi sembrava di sentire la mamma di una volta!» Fece una pausa per
prendere fiato e quando parlò di nuovo il tono era meno entusiasta. «Be'...
non del tutto, ma ci si può accontentare.»
«So cosa vuoi dire, pasticchina.»
«Papà, sei così incredibile. La tua non è una rentrée normale, è una e
mezza.»
«Tutto questo zucchero quanto mi verrà a costare?»
«Milioni», esclamò lei e rise.
«Hai sempre in progetto di fare un'improvvisata nella tournée dei Colibrì?» domandai cercando di sembrare candidamente interessato. Non particolarmente preoccupato della vita sentimentale della mia quasi ventenne
figliola.
«No», rispose, «credo che non se ne farà niente.» Poche parole e tutte
corte, ma in quelle poche parole sentii la Illy diversa, quella più grande,
quella che in un futuro non molto lontano sarebbe stata a suo agio in un
completo giacca e pantaloni con i collant e scarpe di vernice con pratici
tacchi bassi, che avrebbe forse portato i capelli raccolti sulla nuca durante
il giorno e avrebbe forse percorso i corridoi degli aeroporti con una ventiquattrore invece di uno zaino sulle spalle. Non più una If-So-Girl; era
un'immagine da cui era stato cancellato l'if. E anche girl.
«Non se ne fa niente di tutto quanto o...»
«Questo resta da vedere.»
«Non voglio essere invadente, tesoro. È solo che i papà curiosi...»
«... vogliono sapere, lo so, ma questa volta non ti posso aiutare. Ora come ora so solo che gli voglio ancora bene, o almeno così credo, e che mi
manca, ma deve fare una scelta.»
A questo punto Pam avrebbe chiesto: Tra te e la ragazza con cui canta?
Quello che chiesi io fu: «Mangi?»
Scoppiò in una risata di cuore.
«Rispondi, Illy.»
«Come una porcella!»
«Allora perché adesso non sei fuori a pranzo?»
«Perché abbiamo in programma un picnic al parco, ecco perché. Con
contorno di appunti di antropologia e frisbee. Io devo portare il formaggio
e il pane francese. E sono in ritardo.»
«Okay. Basta che mangi e che non stai ad arrovellarti.»
«Mangio molto, mi arrovello moderatamente.» Il suo tono cambiò di
nuovo, diventò quello adulto. Questi bruschi cambi di rotta mi disorientavano. «Qualche volta sto sdraiata sveglia per un po' e allora penso a te laggiù. Tu resti sveglio sdraiato?»
«Qualche volta. Non molto adesso.»
«Papà, sposare la mamma è stato un errore che hai fatto? O che ha fatto
lei? O è stato solo un incidente?»
«Non è stato un incidente e non è stato un errore. Ventiquattro begli anni, due splendide figlie e ci parliamo ancora. No, Illy, non è stato un errore.»
«Tu non lo cambieresti?»
Mi facevano tutti quella domanda. «No.»
«Se potessi tornare indietro... lo faresti?»
Feci una pausa, ma non lunga. Certe volte non c'è tempo per decidere
quale sia la risposta migliore. Certe volte si può solo dare una risposta sincera. «No, tesoro.»
«D'accordo. Però mi manchi, papà.»
«E tu manchi a me.»
«Alle volte ho nostalgia del passato, di quando le cose erano meno complicate.» S'interruppe. Avrei potuto parlare io, avrei voluto, invece tacqui.
Talvolta è meglio il silenzio. «Papà, le persone meritano mai una seconda
occasione?»
Pensai alla mia seconda occasione. A come fossi sopravvissuto a un incidente che avrebbe dovuto uccidermi. E non mi ero limitato a esserci, a
quel che sembrava. Fui colto da uno slancio di gratitudine. «Sempre.»
«Grazie, papà. Non vedo l'ora di riabbracciarti.»
«Altrettanto qui. Presto riceverai un invito ufficiale.»
«Okay. Ora devo proprio andare. Ti voglio bene.»
«Ti voglio bene anch'io.»
Dopo che ebbe riappeso rimasi per un momento con il ricevitore all'orecchio ad ascoltare il nulla. «Fatti il giorno e che il giorno faccia te», dissi. Poi subentrò il segnale di libero e decisi che, alla fine, avevo ancora una
telefonata da fare.
8
Questa volta, quando rispose al telefono, Alice Aucoin era assai più
briosa e molto meno diffidente. Lo giudicai un cambiamento positivo.
«Alice, non abbiamo mai parlato di un titolo per la mostra», dissi.
«Ah, davo più o meno per scontato che volesse intitolarla Rose che crescono da conchiglie», rispose lei. «È bello. Molto evocativo.»
«Vero», le concessi levando lo sguardo al Golfo, dietro i vetri della Florida room. L'acqua era una brillante tavola bianca e blu; il riverbero mi costrinse a socchiudere gli occhi. «Ma non è giusto.»
«Ha qualcosa di meglio, allora?»
«Sì, credo di sì. Voglio intitolarla La vista da Duma. Che cosa te ne pare?»
La sua reazione fu immediata. «Suona bene.»
Anche a me.
9
L'efficiente impianto di condizionamento d'aria di Big Pink non mi aveva evitato di inzuppare di sudore la mia maglietta con la scritta PERDILA
NELLE ISOLE VERGINI e mi sentivo più stremato di quanto fossi ormai
dopo una sgambata ad andatura sostenuta fino a El Palacio e ritorno. L'orecchio mi scottava e pulsava per la lunga sessione telefonica. Ero in pensiero per Ilse - come sono sempre in pensiero i genitori quando i loro figli
hanno dei problemi, immagino, dopo che sono diventati troppo grandi per
essere richiamati in casa quando comincia a far buio e l'acqua già scorre
nella vasca da bagno - ma mi sentivo anche soddisfatto per il lavoro svolto,
la stessa soddisfazione che provavo dopo una buona giornata a sgobbare al
cantiere.
Non avevo molto appetito, ma mi obbligai a mandar giù qualche cucchiaio di insalata di tonno con della lattuga e a bere un bicchiere di latte.
Latte intero, quello che fa male al cuore e fa bene alle ossa. Se piace pensarlo a te, avrebbe detto Pam. Accesi il televisore in cucina e venni a sapere che la moglie di Candy Brown aveva querelato l'amministrazione locale
di Sarasota per la morte del marito con l'accusa di negligenza. Buona fortuna, bella mia, pensai. Il nostro meteorologo diceva che quell'anno la stagione degli uragani sarebbe potuta essere più precoce che mai. E i Devil
Rays si erano fatti fare il loro sedere da quattro soldi dai Red Sox in una
partita-esibizione: benvenuti nel baseball reality show, ragazzi.
Considerai un dessert (avevo Jell-O Pudding, noto anche come L'ultima
risorsa del Maschio Single), ma poi posai il piatto nel lavello e salii in camera da letto a dormire un po'. Stavo per puntare la sveglia, ma lasciai
perdere, probabilmente avrei solo sonnecchiato. Anche se avessi dormito
davvero, di lì a un'ora sarei stato svegliato dalla luce quando, scendendo
nel quadrante occidentale del cielo, il sole avesse diretto i suoi raggi obliqui sulla finestra della camera da letto.
Così riflettendo, mi sdraiai e dormii fino alle sei di sera.
10
Non presi nemmeno in considerazione la cena. Sotto di me le conchiglie
bisbigliavano dipingi, dipingi.
Salii nella Little Pink come muovendomi in un sogno, vestito solo di un
paio di boxer, accesi la radio già sintonizzata su The Bone, appoggiai
Bambina e nave no. 7 al muro e piazzai sul cavalletto una tela nuova, non
grande come quella che avevo usato per Wireman guarda a ovest, ma di
dimensioni interessanti. Mi prudeva il braccio mancante, ma ormai non mi
angustiava più come all'inizio; la verità è che ero diventato quasi ansioso
di sentire quel fastidio.
Alla radio c'era Shark Puppy in Dig. Un pezzo eccellente. Testo eccellente. La vita è più di amore e piacere.
Ricordo bene la sensazione che tutto il mondo stesse aspettando di vedermi cominciare, tale era l'energia che sentivo scorrere dentro di me mentre le chitarre stridevano e le conchiglie mormoravano.
Sono venuto a scavare un forziere.
Un tesoro, sì. Bottino.
Dipinsi fino a quando il sole se ne andò e la luna gettò la sua amara buccia di luce bianca sull'acqua e poi scomparve dal cielo anche lei.
E la notte seguente.
E quella dopo.
E quella dopo.
Bambina e nave no. 8.
Se vuoi giocare devi pagare.
Avevo sturato.
11
La vista di Dario in giacca e cravatta, con la lussureggiante chioma domata e pettinata all'indietro a lasciar scoperta la fronte, mi spaventò più del
pubblico che colmava della sua presenza e del suo brusio il Geldbart
Auditorium, dove le luci erano state abbassate... eccetto per il proiettore
che illuminava il leggio al centro del palco. Il fatto che Dario stesso fosse
nervoso - andando al podio aveva quasi lasciato cadere per terra i suoi appunti - mi spaventò ancora di più.
«Buonasera, il mio nome è Dario Nannuzzi», cominciò. «Sono il cocuratore e principale responsabile degli acquisti alla Scoto Gallery in Palm
Avenue. Ma soprattutto faccio parte della comunità artistica di Sarasota da
trent'anni e spero che mi vorrete perdonare se mi lascio andare per un attimo a quella che qualcuno potrebbe definire una Bobbiteria dicendo che
non c'è miglior comunità artistica in tutta America.»
Questo scatenò un applauso entusiasta da parte del pubblico che, come
avrebbe notato in seguito Wireman, conosceva forse la differenza tra un
Monet e un Manet, ma evidentemente non aveva idea della differenza che
passa tra George Babbit e John Bobbit. In attesa dietro le quinte, a patire il
purgatorio che solo gli oratori principali terrorizzati sperimentano nell'ascoltare i loro presentatori snocciolare un lento e peristaltico preambolo, io
non me ne accorsi neppure.
Dario passò in fondo al mazzo il primo foglio dei suoi appunti, rischiando nuovamente di lasciarsi scappare tutto di mano, si riprese e alzò nuovamente gli occhi sul pubblico. «Non so da dove cominciare, ma per mia
fortuna ho molto poco da dire, perché il talento autentico sboccia a quanto
pare dal nulla e si presenta da sé.»
Detto questo, per i dieci minuti successivi parlò di me, che aspettavo poco distante con la mia singola, misera pagina di appunti stretta nell'unica
mano che avevo. Sfilarono nomi come carri in un corteo. Alcuni li conoscevo, come Edward Hopper e Salvador Dalí; altri, come Yves Tanguy e
Kay Sage, mi erano ignoti. Ogni nome sconosciuto mi faceva sentire di più
come un impostore. La paura che provavo non era più mentale, ora mi
stringeva le viscere in un crampo crudele e bastardo. Sentivo il bisogno di
lasciar uscire gas, ma avevo paura di farmela invece nelle mutande. E non
era ancora il peggio. Tutte le parole che mi ero preparato mi erano uscite di
mente eccetto la primissima riga, così orribilmente appropriata: Il mio nome è Edgar Freemantle e non ho idea di come sia finito qui. L'intenzione
era di strappare un sorriso. Non sarebbe successo, ormai lo sapevo, ma almeno era la verità.
Mentre Dario parlava - Joan Miró qui, il Manifesto surrealista di Breton
lì - un atterrito ex costruttore aspettava con la sua patetica paginetta stretta
in un pugno semicongelato. La mia lingua era una lumaca morta che avrebbe forse fatto rumore ma non avrebbe pronunciato nessuna parola coerente, non a duecento esperti di arte, molti dei quali con più di una laurea,
alcuni dei quali erano professori, che cazzo. Peggio di tutto era il mio cervello. Si era trasformato in uno spazio vuoto in attesa di essere riempito di
ingiustificata, concitata collera: le parole non sarebbero venute, ma l'ira
non mancava mai.
«Basta così!» esclamò allegramente Dario, conficcando terrore fresco
nel mio cuore in tumulto e spedendomi un crampo attraverso le miserabili
regioni basse: terrore di sopra, merda trattenuta a stento sotto. Che bella
combinazione. «Da quindici anni non accadeva che la Scoto aggiungesse
un artista nuovo al suo affollato calendario primaverile e mai ne abbiamo
presentato uno che avesse già suscitato un così vivo interesse. Credo che le
diapositive che state per vedere e le parole che state per ascoltare spiegheranno il perché del nostro interesse e della nostra soddisfazione.»
Fece una pausa drammatica. Io sentii spuntarmi sulla fronte una rugiada
velenosa di sudore e mi asciugai. Il braccio che sollevai mi parve pesasse
venti chili.
«Signore e signori, il signor Edgar Freemantle, fino a poco tempo fa di
Minneapolis-St. Paul, ora di Duma Key.»
Applaudirono. Mi sembrò uno sbarramento di artiglieria. Ordinai a me
stesso di darmela a gambe. Ordinai a me stesso di svenire. Non feci né l'uno né l'altro. Come in sogno, ma non di quelli belli, uscii sul palco. Tutto
sembrò avvenire lentamente. Vidi che tutti i posti erano occupati ma che
nessun posto era occupato perché erano tutti in piedi, mi tributavano una
standing ovation. In alto sopra di me, sul soffitto a volta, gli angeli volavano in altero disprezzo delle sottostanti cose terrene e Dio sa quanto desiderai essere uno di loro. Dario era di fianco al podio con la mano protesa. Era
quella sbagliata. Nel suo nervosismo aveva alzato la mano destra, cosicché
la stretta che scambiai con lui fu goffa e ribaltata. Il foglio dei miei appunti
finì per un attimo accartocciato fra le nostre mani, poi si strappò. Guarda
cosa hai fatto, coglione, pensai... e per un momento terribile temetti di averlo detto a voce abbastanza alta perché il microfono trasmettesse le mie
parole a tutta la sala. Quando Dario mi abbandonò sul mio solitario trespolo illuminato dall'occhio di bue mi resi conto di quanto intensa fosse quella
luce. Il microfono sul suo sostegno flessibile somigliava a un cobra che si
alza dalla cesta di un incantatore di serpenti. Vidi spiccare i punticini di luce sulla sua superficie cromata e sul bordo del bicchiere d'acqua e sul collo
della bottiglia di Evian di fianco al bicchiere. Sentii che l'applauso cominciava ad affievolirsi; presto sarebbero tornati tutti a sedere. Presto un attento silenzio avrebbe sostituito l'applauso. Avrebbero aspettato che cominciassi. Solo che io non avevo niente da dire. Persino la mia frase iniziale
mi aveva abbandonato. Loro avrebbero aspettato e il silenzio si sarebbe
protratto. Ci sarebbe stato qualche nervoso colpo di tosse, poi sarebbe cominciato il mormorio. Perché erano degli stronzi. Nient'altro che un branco
di idioti curiosi con il collo di gomma. E se fossi riuscito a spiccicare qualcosa, sarebbe stato un rabbioso turpiloquio simile allo sfogo di una persona
affetta dalla sindrome di Tourette.
Avrei chiesto che fosse proiettata la prima foto. Forse quello sarei riuscito a fare e le dia mi avrebbero sostenuto. Potevo solo affidarmi a quella
speranza. Solo quando guardai la mia pagina di appunti mi resi conto che
non solo era strappata in due, ma che il mio sudore aveva sbavato quel che
avevo scritto al punto da renderlo illeggibile. O quella sventura o lo stress
avevano provocato un corto circuito tra i miei occhi e il mio cervello. Qual
era mai la prima dia della serie? Un quadro della cassetta per la corrispondenza? Tramonto con sophora? Ero quasi certo che non fosse né uno né
l'altro.
Ora erano tutti seduti. L'applauso era finito. Era ora che il Primitivo
Americano aprisse la bocca e si mettesse a ululare. Tre file più indietro,
seduta dalla parte del corridoio, c'era quella sega impicciona di Mary Ire
con qualcosa di simile a uno stocco bleno aperto in grembo. Cercai Wireman. Era stato lui a cacciarmi in quel guaio, ma non gli contavo fetore.
Volevo solo scusarmi con gli occhi per quello che stavo per fare.
Sarò in prima fila, aveva detto. Al centro preciso.
E lì era. Alla sua destra c'erano Jack, la mia domestica Juanita, Jimmy
Yoshida e Alice Aucoin. E alla sua sinistra, dalla parte del corridoio...
L'uomo seduto là doveva essere un'allucinazione. Sbattei le palpebre, ma
lui c'era ancora. Una faccia larga, scura e placida. Un corpo così incastrato
nell'elegante poltroncina dell'auditorium che ci sarebbe voluto un piede di
porco per scalzarlo: Xander Kamen, che mi guardava attraverso gli enormi
occhiali con la montatura di corno, mai tanto dio minore come in quel
momento. L'obesità lo aveva privato di un grembo, ma in bilico sulla curva
del ventre aveva una scatola da regalo lunga un metro e ornata da un fiocco. Vide la mia sorpresa - il mio choc - e fece un gesto: non un saluto, ma
piuttosto uno strano segno di benedizione, portandosi la punta delle dita
prima alla vasta fronte, poi alle labbra, infine piegando la mano verso di
me con le dita divaricate. Vidi la pelle chiara del suo palmo. Mi sorrise
come se la sua presenza lì, nella prima fila del Geldbart Auditorium di
fianco all'amico Wireman fosse la cosa più naturale del mondo. I suoi labbroni formarono tre parole, una dopo l'altra: lo puoi fare.
E forse aveva ragione. Se da quel momento avessi rivolto altrove la
mente. Se avessi dirottato i pensieri.
Pensai a Wireman, a Wireman che guardava a ovest, per essere più preciso, e mi tornò alla mente l'incipit.
Annuii a Kamen. Kamen annuì a me. Poi guardai il pubblico e vidi che
erano solo persone. Tutti gli angeli erano sopra le nostre teste e ora volavano nel buio. Quanto ai demoni, probabilmente erano per lo più nella mia
testa.
«Salve...» cominciai e subito indietreggiai colto alla sprovvista dal rimbombo della mia voce dal microfono. I presenti risero, ma senza che questo mi facesse arrabbiare, come sarebbe successo un minuto prima. Erano
solo risa e benevole.
Lo posso fare.
«Salve», dissi di nuovo. «Il mio nome è Edgar Freemantle e probabilmente non me la caverò molto bene. Nella mia altra vita ero nel settore
edilizio. Sapevo di essere bravo nel mio lavoro perché ottenevo commissioni. Nella mia vita attuale dipingo quadri. Ma nessuno mi aveva avvertito di discorsi in pubblico.»
Questa volta le risa furono un po' più disinvolte e generalizzate.
«Avevo intenzione di cominciare dicendo che non ho idea di come sia
finito qui, ma invece lo so. Ed è un bene perché è tutto quello che ho da
raccontarvi. Vedete, io non so niente di storia dell'arte, teoria o pratica e
anche di giudizi estetici. Alcuni di voi probabilmente conoscono Mary Ire.»
Questo suscitò qualche risolino, come se avessi detto: Qualcuno di voi
può aver sentito parlare di Andy Warhol. Lei si guardò intorno, un po'
compiaciuta, schiena dritta come un manico di scopa.
«La prima volta che sono stato alla Scoto Gallery a mostrare alcuni dei
miei quadri, la signora Ire li ha visti e mi ha definito un primitivo americano. Un po' ci sono stato male, perché mi cambio la biancheria intima tutte
le mattine e mi lavo i denti tutte le sere prima di andare a letto...»
Altre risa. Le mie gambe erano di nuovo gambe, non blocchi di cemento, e ora che sarei stato in grado di scappare, non avevo più voglia o bisogno di farlo. Poteva darsi che a loro non piacessero i miei quadri, ma non
mi importava, perché io non avevo niente contro di loro. Che ridessero pure, fischiassero, che si lasciassero pure sfuggire il loro piccolo gemito di
ribrezzo (o il loro piccolo sbadiglio), se così desideravano; quando fosse
finita, potevo tornarmene a casa e riprendere a dipingere.
E se mi avessero apprezzato? Idem come sopra.
«Ma se intendeva dire che sono una persona che fa qualcosa che non capisce, che non è in grado di esprimere a parole perché nessuno gli ha mai
insegnato i termini giusti, allora ha ragione.»
Kamen annuiva e sembrava soddisfatto. E altrettanto, Dio mio, Mary Ire.
«Dunque tutto quello che rimane è la storia di come sono arrivato qui, il
racconto del ponte che ho attraversato dalla mia altra vita a quella che vivo
oggi.»
Kamen batteva silenziosamente le manone. Mi diede animo. Averlo lì
mi dava animo. Non so come sarebbe andata senza di lui, ma credo che sarebbe stato quello che Wireman definisce muy feo, molto brutto.
«Ma devo ridurre il mio racconto all'osso, perché il mio amico Wireman
dice che quando attingiamo al passato le nostre scelte sono prevenute e io
credo che sia vero. A lasciarsi andare nei particolari ci si ritrova... mmm...
non so... a raccontare il passato che si era desiderato.»
Abbassai lo sguardo e vidi che Wireman annuiva.
«Sì, è così che penso, il passato che uno avrebbe voluto. Dunque per farla semplice, è andata così: ho avuto un incidente in un cantiere. Un incidente grave. Una gru in movimento ha schiacciato il pick-up su cui mi trovavo e ha schiacciato anche me. Ho perso il braccio destro e per poco non
ho perso la vita. Ero sposato, ma il mio matrimonio è andato a monte.
Mentalmente ero agli sgoccioli. Questa è una cosa che vedo più chiaramente ora; all'epoca sapevo solo di sentirmi molto, molto male. Un altro
amico, un uomo di nome Xander Kamen, mi chiese un giorno se c'era
qualcosa che mi facesse felice. Era un concetto...»
M'interruppi. Kamen mi guardava con attenzione dalla prima fila con
quel lungo pacco regalo in bilico sul suo non-grembo. Lo ricordai quel
giorno al lago Phalen, la sua cartella consumata, le strisce diagonali del
freddo sole autunnale sul pavimento del soggiorno. Ricordai di aver pensato al suicidio e alla miriade di strade che portano al buio: autostrade e strade secondarie e umili viottoli dimenticati.
Il silenzio si stava prolungando, ma io non ne ero più intimorito e al mio
pubblico sembrava non importare. Era naturale che la mia mente vagasse.
Ero un artista.
«Il concetto di felicità, almeno in quanto applicato a me, era rimasto da
molto tempo fuori dei miei pensieri», dissi. «Pensavo a sostenere la mia
famiglia e, dopo aver avviato la mia azienda, pensavo a dare sicurezza alle
persone che lavoravano per me. Pensavo anche al successo, e molto ho lavorato per raggiungerlo, soprattutto perché erano così numerose le persone
che si aspettavano di vedermi fallire. Poi ci fu l'incidente. Tutto cambiò.
Scoprii di non avere...»
Cercai la parola che mi serviva, annaspando con entrambe le mani, sebbene loro ne vedessero una sola. E, forse, un sussulto del moncherino dentro la sua manica appuntata.
«Di non avere risorse di scorta. Quanto alla felicità...» Alzai le spalle.
«Risposi all'amico Kamen che una volta disegnavo, ma che non lo facevo
più da molto tempo. Mi suggerì di riprendere e, quando gli chiesi perché,
disse che avevo bisogno di siepi per difendermi dalla notte. Lì per lì non
capii che cosa intendesse, perché ero smarrito e confuso e in preda al dolore fisico. Lo comprendo meglio ora. La gente dice che la notte cade, qui
invece si leva. Si leva dal Golfo dopo il tramonto. Vederlo accadere mi ha
stupefatto.»
Ero anche stupefatto dalla mia imprevista eloquenza. Il braccio destro se
ne stette sempre tranquillo. Il braccio destro era solo un moncherino dentro
una manica appuntata.
«Si potrebbero abbassare le luci? Compresa la mia, per favore?»
Era Alice a fare da tecnico delle luci e non perse tempo. L'occhio di bue
proiettato su di me si affievolì in un lumicino. L'auditorium fu ingoiato
dall'oscurità.
«Ciò che ho scoperto attraversando il ponte tra le mie due vite», ripresi,
«è che talvolta la bellezza sboccia contro tutte le nostre aspettative. Questa
però non è un'idea molto originale, giusto? È una banalità, se vogliamo, un
po' come un tramonto in Florida. Non di meno si dà il caso che sia la verità
e la verità merita di essere espressa... se sai esprimerla in un modo nuovo.
Io ho cercato di metterla in un quadro. Alice, vuoi mostrare la prima dia,
per piacere?»
Apparve sul grande schermo alla mia destra, tre metri per due: un terzetto di rose rigogliose e gigantesche che crescevano da un letto di conchiglie
rosa scuro. Erano scure perché si trovavano sotto la casa, all'ombra della
casa. I presenti trattennero il fiato, un suono come un breve ma forte soffio
di vento. Lo udii e seppi che a capire non erano solo Wireman e quelli della Scoto. A vedere. Il pubblico trattenne il fiato come si fa quando si viene
colti alla sprovvista da qualcosa di assolutamente inatteso.
Poi cominciarono ad applaudire. Durò quasi un minuto intero. Io ero là,
con la mano stretta sul lato sinistro del podio, ad ascoltare, stordito.
Il resto della presentazione durò meno di mezz'ora, ma ne ricordo assai
poco. Per me tutto si svolse come in un sogno. Continuavo a pensare che
da un momento mi sarei svegliato nel mio letto di ospedale, accaldato e
straziato dal dolore, a urlare che mi dessero della morfina.
12
Quella sensazione di vivere un sogno persistette per tutto il ricevimento
alla Scoto, dopo la presentazione. Non avevo praticamente finito il primo
bicchiere di champagne (più grande di un ditale, ma non molto), che già ne
a'avevo uno nuovo in mano. Brindavano al mio nome persone che non conoscevo. C'erano grida di «Udite, udite!» e una volta sentii gridare «Maestro!» Cercavo con lo sguardo i miei nuovi amici e non li trovavo mai.
Non che avessi molto tempo per cercarli. Le congratulazioni erano interminabili, sia per la mia conferenza, sia per le diapositive. Per fortuna
non dovetti vedermela con elaborate critiche della mia tecnica, perché i
quadri veri e propri (più alcuni disegni a matita) erano al sicuro, sotto
chiave in due delle grandi sale sul retro. E stavo scoprendo che il segreto
per non venir travolti a un ricevimento in proprio onore, quando si ha un
braccio solo, era di stringere sempre tra le dita della mano restante un
gamberetto avvolto in una strisciolina di bacon.
Mary Ire mi si avvicinò per chiedermi se fossi sempre dell'idea di rila-
sciarle un'intervista.
«Sicuro», risposi. «Anche se non so che cos'altro potrei raccontarle.
Credo di aver già detto tutto questa sera.»
«Oh, qualcosa troveremo», ribatté lei e che il diavolo mi porti se non mi
strizzò l'occhio da dietro gli occhiali di Strass stile anni Cinquanta mentre
restituiva il suo calice di champagne a uno dei camerieri. «Dopodomani. À
bientôt, monsieur.»
«Senz'altro», dissi trattenendo l'impulso di aggiungere che se aveva intenzione di parlare francese, allora avrebbe dovuto aspettare che indossassi
il mio basco da Manet. Veleggiò via, baciando Dario su una guancia prima
di uscire nella fragrante notte di marzo.
Arrivò Jack, sgraffignando un paio di calici mentre passava accanto a un
cameriere. Con lui c'era Juanita, la mia donna di servizio, molto chic in un
vestitino rosa. Prese un gamberetto infilzato in uno stuzzicadenti ma rifiutò
lo champagne. Jack offrì il bicchiere a me aspettando che deglutissi il mio
antipasto per poterlo prendere. Allora lo feci tintinnare contro il suo.
«Congra, capo, li hai lasciati con un palmo di becco.»
«Grazie, Jack. Un critico che riesco veramente a capire.» Mandai giù lo
champagne (ce n'era un sorso per calice e non di più) e mi rivolsi a Juanita.
«La trovo splendida.»
«Gracias, signor Edgar», rispose lei e si guardò intorno. «Questi quadri
sono belli, ma i suoi lo sono molto di più.»
«Grazie.»
Jack porse a Juanita un altro gamberetto. «Ci vuole scusare un paio di
secondi?»
«Ma certo.»
Jack mi condusse al riparo di una vistosa scultura di Gerstein. «Il signor
Kamen ha chiesto a Wireman se potevano trattenersi ancora un po' in libreria dopo che il pubblico se n'era andato.»
«Davvero?» Provai una punta di apprensione. «Come mai?»
«Be', per venire qui ha viaggiato quasi tutto il giorno e ha detto che non
ha un buon rapporto con le toilette degli aerei.» Jack fece un sorriso malizioso. «Ha detto a Wireman che per tutto il giorno era rimasto seduto su
qualcosa e che voleva disfarsene in pace.»
Scoppiai a ridere. Con una certa compassione, però. Non poteva essere
facile per un uomo della mole di Kamen viaggiare sui trasporti pubblici...
e, a ben pensarci, doveva essere impossibile per lui sedersi in una di quelle
minuscole toilette a bordo degli aerei. Stare in piedi per orinare, forse sì, a
malapena. Ma sedersi... mai più. Non ci stava.
«In ogni caso Wireman pensava che il signor Kamen avesse diritto di
prendersi una pausa. Ha detto che avresti capito.»
«Infatti», confermai e richiamai Juanita con la mano. Mi faceva un po'
pena tutta sola in quello che era probabilmente il suo vestito migliore mentre intorno a lei svolazzavano e fluttuavano gli avvoltoi della cultura. La
strinsi in un abbraccio e lei mi sorrise. Poi, quando finalmente la stavo
convincendo ad accettare un bicchiere di champagne (l'uso del vocabolo
pequeño per dire piccolo la fece ridere, dal che presumo che non fosse
molto giusto), entrarono Wireman e Kamen, quest'ultimo sempre con il
suo regalo. Il suo viso s'illuminò nel vedermi e questo mi fece bene più dei
ripetuti applausi, persino di quello che mi avevano tributato in piedi.
Acchiappai un calice da un vassoio di passaggio, mi feci largo tra la gente e andai a portarglielo. Poi gli feci scivolare il braccio intorno al corpaccione fin dove arrivavo e lo strinsi. Lui ricambiò strappando un grido alle
mie costole ancora delicate.
«Edgar, sei stato straordinario. Sono così contento. Dio è buono, amico
mio. Dio è buono.»
«Lo sei anche tu», risposi. «Com'è che sei qui a Sarasota? È stato Wireman?» Mi girai verso il mio compadre dell'ombrellone a strisce. «Sì, vero?
Gli hai telefonato e gli hai chiesto di fare da Ospite Misterioso alla mia
conferenza.»
Wireman scosse la testa. «Io ho telefonato a Pam. Ero nel panico, muchacho, perché vedevo che stavi per far andare tutto all'aria. Lei mi ha detto che dopo il tuo incidente, quando ti rifiutavi di dare retta a tutti gli altri,
prestavi però orecchio al dottor Kamen. Così gli ho telefonato. Mai mi sarei aspettato che ce l'avrebbe fatta con un così scarso preavviso, invece...
eccolo qui.»
«Non solo sono qui, ma ti ho portato anche un regalo da parte delle tue
figlie», disse Kamen porgendomi la scatola. «Ma dovrai accontentarti di
quello che avevo a disposizione, perché mi mancava il tempo di andare per
negozi. Temo che potresti restare deluso.»
All'improvviso seppi che cos'era il regalo e mi si seccò la bocca. Ciononostante sciolsi il fiocco e strappai la carta. Registrai solo meccanicamente
Juanita che me la prendeva dalla mano. La scatola di cartone dentro la carta da regalo sembrava una piccola bara per neonati. Ovviamente. A cos'altro sarebbe potuta somigliare? Sul coperchio c'era stampigliato MADE IN
THE DOMINICAN REPUBLIC.
«Complimenti per lo stile, dottore», commentò Wireman.
«Non avevo niente di meglio», si giustificò Kamen.
Sentivo le loro voci giungere da molto lontano. Juanita tolse il coperchio. Credo che lo prese Jack. Dopodiché ci fu Reba a guardarmi, questa
volta in un vestito rosso invece che blu, ma con gli stessi pallini; anche le
scarpette nere e lucide che aveva ai piedi erano le stesse, ed erano gli stessi
gli inanimati capelli rossi e gli occhi azzurri che dicevano Uuuh, cattivo!
M'hai lasciato qui dentro per tutto questo tempo!
Sempre da molto lontano Kamen stava dicendo: «È stata Ilse a chiamarmi per suggerirmi una bambola. Questo dopo che ne aveva parlato per
telefono con sua sorella».
Naturale che sia stata Ilse, pensai. Sentivo in sottofondo l'incessante
mormorio delle conversazioni, come il macinare delle conchiglie sotto Big
Pink. Avevo ancora stampato sulla bocca il mio sorriso da Oh, ma che bella, ma se qualcuno mi avesse urtato la schiena in quel momento è probabile che avrei cacciato un grido. Ilse è quella che è stata a Duma Key. Che
ha conosciuto la strada che passa oltre El Palacio.
Per quanto perspicace e abile, non credo che Kamen avesse idea che c'era qualcosa che non andava; d'altra parte aveva viaggiato tutto il giorno e
non era certo al meglio. Wireman viceversa mi osservava con la testa leggermente inclinata sulla spalla e la fronte corrugata. E credo che ormai Wireman mi conoscesse meglio del dottor Kamen.
«Sapeva che ne hai già una», stava dicendo Kamen. «Ha pensato che se
ne avessi avuta un'altra avresti ricordato entrambe le tue figlie e Melinda
era d'accordo. Ma naturalmente io ho solo delle Lucy...»
«Lucy?» s'incuriosì Wireman prendendo la bambola. Le sue gambette
rosa ballonzolarono. Gli occhi vacui rimasero vacui.
«Somigliano a Lucilie Ball, non trova? Le regalo ad alcuni dei miei pazienti e naturalmente loro scelgono un nome nuovo. Tu come hai chiamato
la tua, Edgar?»
Per un momento mi calò sul cervello la vecchia brina e pensai: Rhonda
Robin Rachel, prendi la socia, porta la serva, mettiti su quella fottuta
ZANNA. Poi ho pensato: Era ROSSA.
«Reba», dissi. «Come la cantante country.»
«E ce l'hai ancora?» volle sapere Kamen. «Ilse mi ha detto di sì.»
«Sì, certo», confermai e pensai a Wireman che mi parlava del Powerball,
del suono che si sentiva a occhi chiusi dei numeri che cadevano: clic e clic
e clic. Mi sembrava di sentirlo in quel momento. La notte in cui avevo fini-
to Wireman guarda a ovest, avevo avuto dei visitatori a Big Pink, piccole
profughe in cerca di riparo dalla tempesta. Le sorelle annegate di Elizabeth, Tessie e Laura Eastlake. Ora si voleva che a Big Pink avessi di nuovo
due gemelle... e perché?
Perché qualcosa aveva vibrato, ecco perché. Qualcosa aveva vibrato e
messo quell'idea in testa a mia figlia. Quello era il clic successivo della
ruota, la successiva pallina da pingpong che cadeva dal bussolotto.
«Edgar?» intervenne Wireman. «Tutto bene, muchacho?»
«Sì», risposi e sorrisi. Riapparve il mondo, in tutti i suoi colori e le sue
luci. Presi con un certo sforzo la bambola dalle mani di Juanita, che la stava contemplando perplessa. Mi fu difficile, ma ci riuscii. «Grazie, dottor
Kamen. Xander.»
Lui strinse le spalle e aprì le mani. «Ringrazia le tue ragazze, in particolare Ilse.»
«Lo farò. Chi è pronto per un altro bicchiere di champagne?»
Lo erano tutti. Riposi la mia bambola nuova nella sua scatola ripromettendomi due cose. Una era che le mie figlie non venissero mai a sapere
quanto mi avesse spaventato quel dannato pupazzo. L'altra era che conoscevo due sorelle - due sorelle viventi - che mai e poi mai avrebbero messo
piede su Duma Key contemporaneamente. E nemmeno in separata sede, se
fossi riuscito a evitarlo.
Quella fu una promessa che mantenni.
12
Un'altra Florida
1
«Bene, Edgar, direi che abbiamo quasi finito.»
Forse notò qualcosa sul mio volto, perché rise. «È stato così orribile?»
«No», risposi e non lo era stato, in realtà, sebbene le domande di Mary
sulla mia tecnica pittorica mi avessero messo a disagio. Guardavo un soggetto e sbattevo colori sulla tela, questa era la mia tecnica in poche parole.
E le influenze? Che cosa potevo dire? La luce. Era sempre una questione
di luce, alla fine, sia nei quadri che mi piaceva guardare, sia in quelli che
mi piaceva dipingere. Che effetto aveva sulla superficie degli oggetti e che
cosa sembrava lasciar intuire riguardo al loro contenuto, a caccia di una via
per emergere. Ma a me non sembrava alta erudizione; alle mie orecchie
suonava come bassa idiozia.
«D'accordo», disse lei, «ultimo argomento: quanti altri dipinti ci sono?»
Eravamo seduti nell'attico di Mary Ire a Davis Islands, una sofisticata
enclave di Tampa che a me sembrava la capitale art déco del mondo. Il
soggiorno era uno spazioso salone quasi vuoto con un divano a un'estremità e due sedie a sdraio all'altra. Non c'erano libri, ma è anche vero che non
c'era nemmeno la TV. Alla parete ovest, quella che veniva illuminata dalla
luce dell'alba, era appeso un grande David Hockney. Io e Mary sedevamo
agli angoli opposti del divano. Sulle ginocchia aveva il suo blocco da stenografa. Teneva un posacenere appollaiato sul bracciolo del divano. Fra di
noi c'era un grosso registratore Wollensak metallizzato. Doveva essere
vecchio di cinquant'anni, ma le bobine giravano senza far rumore. Ingegneria tedesca, baby.
Mary non si era truccata, ma aveva sulle labbra uno strato di gloss trasparente che le faceva brillare. Aveva raccolto i capelli in un approssimativo nodo ritorto e mezzo sfatto che dava una sensazione simultanea di eleganza e sciatteria. Fumava Ovals inglesi e sorseggiava quello che mi sembrava scotch liscio da un tumbler Waterford (mi offrì un drink e parve delusa quando optai per dell'acqua minerale). Indossava calzoni sportivi di
cotone di sartoria. Il suo viso era vecchio, logoro e sexy. Il fiore dei suoi
anni doveva corrispondere più o meno all'epoca in cui al cinema davano
Bonnie and Clyde, ma i suoi occhi ti toglievano ancora il fiato, anche con
le rughe agli angoli, le screpolature sulle palpebre e nessun cosmetico ad
abbellirli. Erano gli occhi di Sophia Loren.
«Alla Selby hai mostrato ventidue dia. Nove erano di disegni a matita.
Molto interessanti, ma piccoli. E undici dipinti, perché di Wireman guarda
a ovest ce n'erano tre, due particolari e il quadro intero. Dunque, quanti altri dipinti ci sono? Quanti ne metterai in mostra il mese prossimo alla Scoto?»
«Be'», risposi, «non saprei dirlo con certezza, perché dipingo in continuazione, ma direi che al momento ce ne sono... un'altra ventina.»
«Venti», disse lei a un volume sommesso e in un tono meccanico. «Altri
venti.»
Qualcosa nel modo in cui mi stava guardando mi mise a disagio e reagii
muovendomi. Il divano scricchiolò. «Credo che il numero preciso possa
essere ventuno.» Naturalmente c'erano alcuni quadri che non mettevo nel
conto. Amici dispensatori, per esempio. Quello che ogni tanto intitolavo
mentalmente Candy Brown perde il fiato. E lo schizzo della figura in tuni-
ca rossa.
«Perciò più di trenta in tutto.»
Calcolai a mia volta e cambiai ancora una volta posizione sul divano.
«Direi di sì.»
«E tu non hai idea di quanto sia sorprendente. Lo vedo dalla tua faccia
che non ne hai idea.» Si alzò, rovesciò il posacenere nel cestino di fianco
al divano, poi rimirò l'Hockney con le mani affondate nelle tasche dei suoi
eleganti calzoni. Il quadro mostrava un cubo di casa e una piscina blu. Di
fianco alla piscina c'era una formosa adolescente in un costume intero nero. Era tutta seno e lunghe gambe abbronzate e capelli bruni. Indossava
occhiali scuri nelle cui lenti brillavano soli minuscoli.
«È un originale?» domandai.
«Ma certamente», mi rispose senza voltarsi. «Anche la ragazza in costume da bagno è un originale. Mary Ire, millenovecentosessantadue circa.
Gidget a Tampa.» Si girò verso di me, mi piantò addosso occhi duri. «Spegni quel registratore, l'intervista è finita.»
Lo spensi.
«Voglio che mi ascolti. Va bene?»
«D'accordo.»
«Ci sono artisti che faticano per mesi su un singolo dipinto senza arrivare nemmeno a metà della qualità del tuo lavoro. Naturalmente molti di loro
consumano la mattina solo per riprendersi dagli eccessi della notte prima.
Ma tu... tu produci queste opere come lavorando alla catena di montaggio.
Come un illustratore o un... non so... un disegnatore di fumetti!»
«Mi sono formato sulla convinzione che una persona debba lavorare
senza risparmiarsi, credo che sia tutto qui. Quando avevo la mia azienda
lavoravo per più ore al giorno del normale, perché non c'è al mondo un
principale più esigente di se stessi.»
Lei annuì. «Non è vero per tutti, ma quando è vero, è veramente vero.
Lo so.»
«Ho semplicemente trasferito quel... come dire, quell'etica... in ciò che
faccio ora. E mi ci ritrovo. Anzi, diamine, ci sto proprio bene. Accendo la
radio... è come se entrassi in una trance... e dipingo...» Stavo arrossendo.
«Non che stia cercando di stabilire il record mondiale di velocità o...»
«Questo lo so», m'interruppe lei. «Dimmi una cosa, hai traguardato?»
«Traguardato?» Conoscevo il termine in un contesto topografico, ma per
il resto brancolavo nel buio. «In che senso?»
«Non fa niente. In Wireman guarda a ovest, che a proposito è un'opera
straordinaria, quel cervello... ebbene, come hai stabilito la posizione dei
tratti del viso?»
«Con delle foto», risposi.
«Di questo ero certa, caro, ma quando ti sei preparato a dipingere il ritratto, come hai disposto la fisionomia?»
«Io... be', non...»
«Hai usato la regola del terzo occhio?»
«Regola del terzo occhio? Non ho mai sentito parlare di una regola del
terzo occhio.»
Mi rivolse un sorriso benevolo. «Per ottenere la giusta distanza tra gli
occhi del soggetto, spesso i pittori immaginano o addirittura traguardano
un terzo occhio tra i due che devono disegnare. E la bocca? L'hai centrata
usando le orecchie?»
«No... cioè, non sapevo che si dovesse fare così.» Adesso la sensazione
era che stessi arrossendo dalla radice dei capelli fino alla punta dei piedi.
«Rilassati», ribatté lei. «Non ti sto suggerendo di metterti ad applicare
una serie di stupide norme scolastiche dopo che le hai ignorate ottenendo
risultati così spettacolari. È solo...» Scosse la testa. «Trenta dipinti da novembre? No, anche da meno, perché non hai cominciato a dipingere subito.»
«Certo che no, prima ho dovuto procurarmi gli attrezzi», risposi e Mary
rise fino a farsi venire un accesso di tosse che sedò con un sorso di scotch.
«Se farsi schiacciare fin quasi a rimanerci è quello che ci vuole per tirar
fuori trenta dipinti in tre mesi», commentò lei quando poté parlare di nuovo, «forse farei bene a trovarmi una gru.»
«Non credo proprio», obiettai. «Fidati.» Mi alzai, andai alla finestra e
contemplai Adalia Street. «Bel posticino che hai quassù.»
Lei mi raggiunse e restammo a guardare insieme. Il caffè all'aperto di
fronte a noi e sette piani più in basso poteva essere stato trasferito lì da
New Orleans. O Parigi. Una donna passò sul marciapiede sgranocchiando
quella che sembrava una baguette, e l'orlo della sottana rossa assecondava
il suo passo. Da qualche parte qualcuno suonava un blues e ci giungeva
limpida ogni singola nota della sua chitarra. «Dimmi, Edgar: quando guardi qui fuori, quello che vedi ti interessa come artista o come il costruttore
che sei stato?»
«Entrambe le cose», risposi.
Rise. «Comprensibile. Davis Islands è una creazione totalmente artificiale, il parto intellettuale di un uomo di nome Dave Davis. Era il Jay Gatsby
della Florida. Ne hai mai sentito parlare?»
Scrollai la testa.
«A dimostrazione che la fama è evanescente. Nei ruggenti anni Venti,
qui sulla costa del sole Davis era un dio.»
Aprì la mano in direzione dell'intrico di vie sottostanti; i pendagli dei
braccialetti sul suo polso magro tintinnarono; in lontananza la campana di
una chiesa batté le due.
«Bonificò le paludi alla foce dell'Hillsborough River. Convinse i notabili
di Tampa a trasferire qui l'ospedale e la stazione radio, ancora ai tempi in
cui la radio era più importante della salute. Costruì strani ed eleganti centri
residenziali in un'epoca in cui il concetto di condominio era sconosciuto.
Edificò alberghi e prestigiosi night club. Distribuì denaro a destra e a manca, sposò una reginetta di bellezza, divorziò da lei, la risposò. Valeva milioni all'epoca in cui un milione di dollari ne valeva dodici di oggi. E uno
dei suoi migliori amici abitava a Duma Key. John Eastlake. Un nome che
non ti è nuovo, vero?»
«Certo. Ho conosciuto sua figlia. Il mio amico Wireman si occupa di
lei.»
Mary si accese un'altra sigaretta. «Be', Dave e John erano ricchi come
Creso, Dave grazie ai suoi terreni e alle sue speculazioni immobiliari, John
grazie alle sue fabbriche, ma Davis era un pavone ed Eastlake era qualcosa
di più di uno scricciolo comune. Buon per lui, perché sai che cosa succede
ai pavoni, no?»
«Si ritrovano con la ruota tagliata?»
Tirò una boccata dalla sigaretta, poi rivolse verso di me le dita tese tra
cui stringeva la sigaretta mentre soffiava fumo dalle narici. «La risposta è
esatta. Nel millenovecentoventicinque il crack immobiliare si abbatté sulla
Florida come un mattone che cade su una bolla di sapone. Dave Davis aveva investito praticamente tutti i suoi averi in quello che vedi qui fuori.»
Indicò le vie a zigzag e gli edifici rosa. «Nel millenovecentoventisei Davis
era esposto per quattro milioni di dollari in una serie di riuscite imprese
commerciali e ne ricavò solo qualcosa come trentamila.»
Era passato parecchio tempo da quando avevo cavalcato la tigre - l'espressione con cui mio padre definiva la situazione in cui ti ritrovi a superare i tuoi limiti al punto da dover cominciare a passare la palla tra i tuoi
creditori e diventare creativo con i tuoi libri contabili - e comunque non mi
ero mai spinto fino a quel punto, nemmeno nei primi giorni disperati della
Freemantle Company. Provai compassione e solidarietà verso Dave Davis,
che l'anima sua riposasse in pace.
«Quanto dei suoi debiti riuscì a coprire? Almeno una parte?»
«All'inizio in qualche modo se la cavò. Erano anni di boom in altre parti
della nazione.»
«Ti vedo ben preparata sull'argomento.»
«L'arte locale è la mia passione, Edgar, la storia locale è il mio hobby.»
«Capisco. Dunque Davis sopravvisse al crack.»
«Per un po' sì. Immagino che coprì le prime perdite vendendo le sue azioni quando il mercato era ancora florido. E ricevette aiuto da alcuni amici.»
«Eastlake?»
«John Eastlake fu il suo angelo principale e questo a prescindere da
quanto alcol di contrabbando Dave potesse aver nascosto sulla key di tanto
in tanto.»
«Faceva anche quello?» chiesi.
«Ne ho parlato in via ipotetica, se hai notato. Stiamo raccontando di
un'altra Florida in un'altra epoca. A vivere qui si ascoltano storie colorite
di ogni genere sui traffici di contrabbando durante il Proibizionismo. Che
Davis ne fosse coinvolto o no, è certo che senza John Eastlake prima della
Pasqua del ventisei sarebbe stato sul lastrico. John non era un playboy, non
frequentava i night club e i bordelli come Davis e alcuni dei suoi amici, ma
era vedovo dal millenovecentoventitré e suppongo che il buon Dave abbia
trovato all'amico le dolci compagnie di cui potesse aver avuto bisogno di
tanto in tanto quando si sentiva troppo solo. Ma a metà del ventisei i debiti
di Dave erano semplicemente eccessivi. Nemmeno i vecchi amici poterono
salvarlo.»
«Così in una notte buia scomparve.»
«Scomparve, ma non con il favore delle tenebre. Non era nel suo stile.
Nell'ottobre del millenoceventoventisei, meno di un mese dopo che l'uragano Esther aveva raso al suolo il lavoro della sua intera vita, partì in nave
per l'Europa con una guardia del corpo e la sua dolce compagna, la quale a
proposito era una bellezza al bagno di Mack Sennett. L'amichetta e la
guardia del corpo sbarcarono nella Gaia Parigi, ma Dave Davis no. Scomparve in mare senza lasciare traccia.»
«È tutta vera la storia che mi stai raccontando?»
Levò la mano nel saluto dei Boy Scout, un'immagine lievemente intorbidita dalla sigaretta che continuava a consumarsi tra indice e medio. «Assolutamente. Nel novembre del ventisei si celebrò una commemorazione
proprio laggiù.» Indicò il punto in cui il Golfo scintillava tra due costruzioni rosa in art déco. «Vi presenziarono almeno quattrocento persone,
molte delle quali, da quel che mi si dice, erano quel genere di donne che
hanno un debole per le piume di struzzo. Fra gli oratori ci fu anche John
Eastlake. Che lanciò nell'acqua una corona di fiori tropicali.»
Sospirò e io colsi una zaffata del suo alito. Non dubitavo che la signora
sapesse reggere l'alcol; non dubitavo nemmeno che quel pomeriggio fosse
ormai in vista di una sbornia, più o meno pesante.
«Eastlake era senz'altro triste per la scomparsa dell'amico», riprese, «ma
scommetto che si felicitava anche con se stesso per essere sopravvissuto a
Esther. Scommetto che era un sentimento condiviso da tutti. Certo non poteva aspettarsi che di lì a pochi mesi avrebbe gettato in acqua altre ghirlande di fiori. Non una figlia, ma due. Tre, immagino, volendo contare la più
grande. Quella fuggita con l'amante ad Atlanta. Fuggita con un caporeparto
di una delle fabbriche di papà, se la memoria non m'inganna. Ma certo
questo non è lo stesso che perdere due figlie nel Golfo. Dio, se dev'essere
stata dura.»
«Scomparse», dissi io ricordando il titolo citatomi da Wireman.
Mi scoccò un'occhiata come un fendente. «Vedo che hai fatto ricerche
anche per conto tuo.»
«Non io, Wireman. Voleva togliersi qualche curiosità sulla donna per
cui lavorava. Non credo che sappia dei legami con Dave Davis.»
«Chissà quanto ricorda Elizabeth», commentò lei pensierosa.
«Di questi tempi non ricorda nemmeno come si chiama», replicai.
Mary mi rivolse un'altra occhiata, poi tornò al suo posacenere a spegnere
la sigaretta. «Alzheimer? Ho sentito qualcosa.»
«Sì.»
«Sono dispiaciuta. È da lei che ho avuto i particolari più scabrosi della
vicenda di Dave Davis, sai? In tempi in cui era più lucida. La incontravo
sempre nel nostro giro. E ho intervistato quasi tutti gli artisti che hanno abitato a Salmon Point. Che tu però chiami in un modo diverso, giusto?»
«Big Pink.»
Sorrise. «Sapevo che era un nome simpatico.»
«Quanti artisti ci hanno abitato?»
«Parecchi. Alcuni venuti per tenere conferenze a Sarasota o a Venice, altri per dipingere un po', ma in generale quelli che stavano a Salmon Point
non si davano molto da fare. Per gli ospiti di Elizabeth il soggiorno a Duma Key era poco più di una vacanza gratuita.»
«Metteva a disposizione la casa gratuitamente?»
«Oh sì», rispose lei con un sorriso alquanto ironico. «La commissione
delle Belle Arti di Sarasota pagava per le conferenze e di solito Elizabeth
metteva a disposizione l'alloggio, Big Pink, née Salmon Point. Tu no, però,
vero? Magari la prossima volta. Specialmente dato che tu ci lavori davvero. Potrei farti i nomi di una mezza dozzina di pittori che hanno abitato in
casa tua e non hanno mai sporcato un solo pennello.» Tornò al divano a
passi di marcia, prese il bicchiere e bevve un sorso. No, lo trangugiò.
«Elizabeth ha un disegno che Dalí ha fatto a Big Pink», le dissi. «Quello,
l'ho visto con i miei occhi.»
Gli occhi di Mary scintillarono. «Oh, sì, certo. Dalí. A Dalí è piaciuto da
matti, ma nemmeno lui è rimasto a lungo... anche se prima di andarsene,
quel bastardo mi ha palpato il sedere. Sai che cosa mi ha detto Elizabeth
dopo?»
Scossi la testa. Naturalmente non lo sapevo, ma volevo sentire.
«Ha detto che la casa era 'troppo'. Condividi, Edgar?»
Sorrisi. «Secondo te perché Elizabeth ha trasformato Big Pink in un rifugio per artisti? È sempre stata una mecenate?»
Parve sorpresa. «Il tuo amico non ti ha detto niente? Forse non lo sa. Secondo la leggenda di qui, anche Elizabeth è stata un'artista di una certa notorietà.»
«Come sarebbe a dire secondo la leggenda di qui?»
«Si dice, ma per quel che ne so io è pura invenzione, che sia stata una
bambina prodigio. Che quand'era molto piccola dipingesse splendidamente
e che poi un giorno abbia semplicemente smesso.»
«Tu lo hai mai chiesto a lei?»
«Ma certo, sciocco. Fare domande alla gente è il mio mestiere.» Ora
dondolava un po' sui piedi, gli occhi di Sophia Loren erano decisamente
arrossati.
«Cosa ti ha risposto?»
«Che era tutta una montatura. Mi ha detto: 'Quelli che possono, lo fanno.
E quelli che non possono sostengono quelli che possono. Come noi,
Mary'.»
«Mi sembra accettabile», commentai.
«Sì, era così anche per me», ribatté lei prima di bere un altro sorso.
«L'unico problema è che non le ho mai creduto.»
«Perché?»
«Non lo so, così. Avevo una vecchia amica, Aggie Winterborn, che te-
neva una rubrica di consigli per cuori infranti sul Trib di Tampa, e una volta mi è capitato di accennare a questa storia. È stato ai tempi in cui Dalí
onorava la costa del sole con la sua presenza, forse il millenovecentoottanta. Eravamo in non so quale bar, a quei tempi eravamo sempre in qualche
bar, e ci eravamo ritrovate a commentare su come nascono le leggende.
Così io, per portare un esempio, parlai della storia secondo cui Elizabeth
sarebbe stata una piccola Rembrandt e Aggie, che ci ha lasciati da tempo,
Dio abbia cura di lei, disse che non pensava che si trattasse di una leggenda, che secondo lei era tutto vero, almeno nell'essenza. Disse di aver letto
un articolo su un giornale.»
«E tu hai mai controllato?»
«Ma certo. Non scrivo tutto quello che so...» Mi strizzò l'occhio. «... ma
mi piace sapere tutto.»
«E cos'hai scoperto?»
«Niente. Né sul Tribune né sui giornali di Sarasota e Venice. Dunque
forse si trattava veramente di una semplice diceria. Che ne so, magari era
tutto inventato anche quel che si raccontava di suo padre che nascondeva a
Duma Key il whisky prodotto clandestinamente da Dave Davis. Ma... sulla
memoria di Aggie Winterborn sono pronta a scommettere. E quando l'ho
chiesto a Elizabeth, aveva una strana espressione negli occhi.»
«Che tipo di espressione?»
«Quella del non-lo-vengo-a-raccontare-a-te. Ma questo è successo secoli
fa, ne è passato di whisky sotto i ponti da allora, e oggi non le si può più
chiedere niente, vero? Non se è così grave come mi dici.»
«Sì, ma potrebbe riprendersi. Wireman dice che è già successo.»
«Speriamo», disse Mary. «Elizabeth è una rarità, sai? La Florida è piena
di vecchietti, non per niente chiamano questo stato la sala d'aspetto di Dio,
ma sono davvero pochi quelli che sono nati e cresciuti qui. La costa del sole che ricorda Elizabeth, quella che ricordava, era veramente un'altra Florida. Non il caos tumultuoso che abbiamo adesso, con i palazzetti dello
sport da cinquantamila posti e le autostrade che vanno dappertutto; e non
era nemmeno quella in cui sono cresciuta io. La mia era la Florida di John
D. MacDonald, ai tempi in cui nei quartieri di Sarasota ci si conosceva tutti e la Tamiami Trail era una mulattiera. A quei tempi capitava di tornare a
casa dalla chiesa e trovare un alligatore nella piscina e una lince a rovistare
nelle immondizie.»
Era davvero molto ubriaca, mi accorsi... ma non per questo meno interessante.
«La Florida in cui sono cresciute Elizabeth e le sue sorelle era quella
successiva alla scomparsa degli indiani, ma precedente a quando il viso
pallido avesse pienamente conscio... consolidato il suo dominio. La tua isoletta era completamente diversa. Ho visto le foto. Era tutta palmette coperte da ficus strangolatori, gumbo limbo e pini dei Caraibi nell'entroterra;
era tutta lecci e mangrovie nei pochi punti in cui il terreno era umido. La
vegetazione bassa era formata da alberi corallo e agrifoglio, ma non c'era
niente della giungla che ci cresce ora. Le spiagge sono l'unica cosa che non
è cambiata, e l'uniola, naturalmente... come l'orlo di una gonna. All'estremità nord c'era il ponte levatoio, ma sull'isolotto c'era una sola casa.»
«Che cosa ha provocato la crescita di tutta quella vegetazione?» domandai. «Hai qualche idea? Si è presa tre quarti dell'isola.»
Forse non aveva sentito. «Solo quell'unica casa», ripeté. «Su quel cucuzzolo a sud, una di quelle ville che ti aspetteresti di vedere in un giro delle
dimore storiche a Charleston o a Mobile. Colonnato e vialetto di ghiaia.
Una grandiosa veduta del Golfo a ovest, una grandiosa veduta della costa
della Florida a est. Non che ci fosse molto da vedere, c'era solo Venice. Il
villaggio di Venice. Un paesino sonnacchioso.» Si accorse di biascicare le
parole e si ricompose. «Scusami, Edgar. Ti prego. Non faccio così tutti i
giorni. Davvero, dovresti prendere la mia... la mia emozione... come un
complimento.»
«È quello che faccio.»
«Vent'anni fa avrei cercato di portarti a letto invece di rimbambirmi bevendo. Forse anche dieci anni fa. Da come si è messa ora, posso solo sperare di non averti fatto venire la voglia di non rivedermi mai più.»
«Ti è andata male.»
Rise, un verso insieme secco e allegro. «Allora spero che tornerai presto.
So cucinare un red gumbo di quelli che uccidono. Ora come ora però...»
Mi passò un braccio intorno alle spalle e mi condusse alla porta. Era magra
e calda e dura come pietra dentro i vestiti. Camminava dritta solo a malapena. «Ora come ora credo sia bene che tu vada e che io faccia la mia siesta. Mi spiace dover dire che ne ho bisogno.»
Io uscii sul pianerottolo e mi voltai. «Mary, hai mai sentito Elizabeth
parlare della morte delle sorelle gemelle? Doveva avere quattro o cinque
anni. Abbastanza da ricordare un fatto così traumatico.»
«Mai», mi rispose. «Non una volta.»
2
C'erano alcune sedie allineate appena fuori del portone, in una sottile ma
confortevole striscia d'ombra alle due e un quarto del pomeriggio. Erano
occupate da alcuni anziani, seduti sul marciapiede a guardare il traffico di
Adalia Street. C'era anche Jack lì, ma non guardava il traffico e non ammirava le signore di passaggio. Aveva le spalle appoggiate allo stucco rosa
del muro e leggeva Scienza mortuaria per principianti. Appena mi vide
mise un segno e si alzò.
«Ottima scelta per il posto», commentai indicando con un cenno della
testa il libro.
«Un giorno o l'altro dovrò pure intraprendere una carriera», spiegò, «e
da come ti muovi da qualche tempo a questa parte non credo che il mio lavoro attuale durerà ancora a lungo.»
«Non farmi fretta», lo ammonii tastandomi la tasca per assicurarmi di
avere il mio flaconcino di aspirine. C'era.
«Per la verità è proprio la mia intenzione», ribatté lui.
«Hai qualche appuntamento urgente?» chiesi incamminandomi con lui
nel sole. Faceva caldo. Sulla costa occidentale della Florida esiste anche la
primavera, ma si ferma solo a bere un caffè prima di proseguire verso nord
a fare il lavoro pesante.
«No, sei tu ad avere un appuntamento alle quattro con il dottor Hadlock
a Sarasota. Credo che possiamo ancora farcela, se il traffico ci assiste.»
Lo fermai con una mano sulla spalla. «Il dottore di Elizabeth? Di che
stai parlando?»
«Una visitina. Circola voce che tu la stia tirando un po' per le lunghe,
capo.»
«È stato Wireman», borbottai passandomi una mano tra i capelli. «Wireman che odia i medici. Giuro che gliela faccio pesare da asfissiarlo. Mi
sei testimone, Jack, giuro che...»
«Aveva detto che te la saresti presa con lui», mi interruppe Jack. Poi mi
tirò per la manica. «Andiamo, andiamo, se non ci sbrighiamo finiamo imbottigliati nell'ora di punta.»
«Chi allora? Se non è stato Wireman a fissarmi l'appuntamento, chi è
stato?»
«L'altro tuo amico. Quello nero grande e grosso. Tosto, mi è piaciuto un
sacco.»
Avevamo raggiunto la Malibu e Jack mi aprì lo sportello, ma io sostai
per un momento guardandolo sbalordito. «Kamen?»
«Già. Dopo la conferenza, ha scambiato quattro chiacchiere con il dottor
Hadlock al ricevimento e gli ha espresso la sua preoccupazione perché ancora non ti eri sottoposto a un controllo come gli avevi promesso. Così il
dottor Hadlock si è offerto di visitarti.»
«Si è offerto», ripetei.
Jack annuì sorridendo nel sole forte della Florida. Impossibilmente giovane, con una copia giallo canarino di Scienza mortuaria per principianti
sotto il braccio. «Hadlock ha detto al dottor Kamen che non potevano
permettere che accadesse qualcosa a un importante talento appena scoperto. E, per la cronaca, io mi sono trovato d'accordo.»
«Grazie un fracco e una sporta, Jack.»
Rise. «Sei uno giusto, Edgar.»
«Devo dedurne che sono tosto anch'io?»
«Sì, con la crosta tutta bruciacchiata. Sali, che attraversiamo il ponte
prima che si blocchi tutto.»
3
Arrivammo allo studio del dottor Hadlock in Beneva Road alle quattro
in punto. Il Teorema di Freemantle sulle Attese Ambulatoriali stabilisce
che per calcolare l'ora precisa in cui si viene visitati, bisogna aggiungere
mezz'ora all'ora dell'appuntamento. In quel caso fui piacevolmente sorpreso. La receptionist chiamò il mio nome quand'erano passati solo dieci minuti e mi scortò in un'allegra saletta medica dove da una parte c'era un manifesto con un cuore che affogava nel grasso e a destra quella di un polmone che doveva essere stato cotto alla griglia. Mi fu di sollievo la tabella per
l'esame oculistico, anche se non riuscivo a decifrare un granché sotto la sesta riga.
Entrò un'infermiera, m'infilò un termometro sotto la lingua, mi prese il
polso, mi allacciò al braccio un manicotto per la pressione del sangue, lo
gonfiò, studiò il manometro. Quando le domandai com'ero andato, fece un
sorriso evasivo e disse: «Passato». Poi mi prelevò il sangue. Dopodiché mi
ritirai in bagno con un bicchierino di plastica a inviare accidenti a Kamen
mentre mi aprivo la patta. Anche un uomo con un braccio solo può fornire
un campione di orina, ma le possibilità di incidenti per lui sono grandemente amplificate.
Quando tornai di là, l'infermiera non c'era più. Aveva lasciato una cartelletta con il mio nome. Accanto alla cartelletta c'era una penna rossa. Il mio
moncherino ebbe un guizzo. Senza pensarci, presi la penna e me la infilai
in tasca. Nel taschino della camicia avevo una Bic blu. La tolsi e la posai
al posto della penna rossa.
E che cosa dirai quando tornerà? chiesi a me stesso. Che è venuta la fatina delle penne e ha deciso di fare uno scambio?
Prima che potessi rispondere alla mia domanda, o riflettere sul perché
avessi rubato la penna rossa, entrò Gene Hadlock con la mano tesa. La sinistra... che nel mio caso era quella giusta. Scoprii che mi era molto più
simpatico quando non era in compagnia di Principe, il neurologo con il
pizzetto. Era sulla sessantina, un tantino rotondetto, con baffetti bianchi
del tipo spazzolino da denti e i suoi modi, benché professionali, erano affabili. Mi fece spogliare e, quando restai in mutande, mi esaminò abbastanza a lungo la gamba e il fianco destri. Mi tastò qua e là informandosi
sul livello di dolore che provavo. Mi chiese che tipo di antidolorifici prendevo e parve sorpreso quando gli risposi che mi limitavo all'aspirina.
«Voglio esaminare il suo moncherino», disse. «Qualcosa in contrario?»
«No. Solo faccia piano.»
«Starò attento.»
Restai seduto con la mano sinistra appoggiata sulla coscia a guardare il
tabellone oculistico mentre lui mi afferrava la spalla con una mano e posava l'altra a coppa sul mio moncherino. Le lettere della settima riga formavano qualcosa come UNDIODICE. Un dio dice cosa? mi domandai.
Molto lontano avvertii una lieve pressione. «Male?»
«No.»
«Okay. Ora, non guardi giù, tenga la testa alta. Sente la mia mano?»
«Mmm. Lontanamente. Pressione.» Ma niente formicolio. Perché avrei
dovuto sentirlo? Il braccio che non c'era più aveva voluto la penna e la
penna era nella mia tasca, perciò ora il braccio dormiva di nuovo.
«E adesso, Edgar? Posso chiamarla Edgar?»
«A suo agio. Lo stesso. Pressione. Lieve.»
«Ora può guardare.»
Guardai. Mi teneva ancora una mano sulla spalla, ma l'altra era abbandonata lungo il suo fianco. Neppure nelle vicinanze del moncherino.
«Ops.»
«Nient'affatto, le sensazioni fantasma nel moncherino di un arto amputato sono normali. Mi sorprende invece la velocità della guarigione. E la
mancanza di dolore. All'inizio ho schiacciato con molta forza. Va molto
bene.» Mi prese di nuovo il moncherino nella mano e spinse verso l'alto.
«Questo le fa male?»
Sì, una scintilla fioca, una vaga sensazione di calore. «Un po'», risposi.
«Se così non fosse mi sarei preoccupato.» Mi lasciò andare. «Torni a
guardare il tabellone, d'accordo?»
Feci come mi aveva chiesto e conclusi che la roboante settima riga diceva UNDIGBJCE. Il che aveva molto più senso perché non aveva senso.
«Con quante dita la sto toccando, Edgar?»
«Non so.» Non avvertivo nessun contatto.
«Ora?»
«Non so.»
«E ora?»
«Tre.» Era arrivato quasi alla clavicola. E mi venne il sospetto - folle ma
molto concreto - che, se fossi stato in una delle mie smanie pittoriche, avrei percepito il contatto delle sue dita su qualunque punto del moncherino. Sarei stato addirittura in grado di sentire le sue dita nell'aria sotto il
moncherino. E ho idea che lui sarebbe stato in grado di sentire me... al che
senza dubbio il buon dottore se la sarebbe data a gambe urlando.
Proseguì, prima la gamba, poi la testa. Mi auscultò il cuore, mi guardò il
fondo degli occhi ed eseguì una serie di altre operazioni cliniche.
Quand'ebbe concluso, mi pregò di rivestirmi e di aspettarlo nel suo ufficio
in fondo al corridoio.
Era un piccolo ambiente simpaticamente caotico. Hadlock prese posto
alla scrivania e si appoggiò allo schienale della poltrona. Su una parete c'erano delle fotografie. Alcune erano probabilmente ritratti di famiglia, ma
c'erano anche immagini di lui che stringeva la mano a George Bush Primo
e a Maury Povich (intellettualmente equivalenti, secondo il mio registro), e
un'altra in cui era in compagnia di una Elizabeth Eastlake bella e incredibilmente tonica. Impugnava una racchetta da tennis e riconobbi il campo.
Era quello di El Palacio.
«Immagino che non veda l'ora di tornare a Duma e scendere da quell'anca, vero?» mi apostrofò Hadlock. «A quest'ora deve far male e scommetto
che quando c'è brutto tempo è peggio delle tre streghe del Macbeth. Se
vuole una prescrizione di Percocet o Vicodin...»
«No, vado bene con l'aspirina», declinai. Avevo faticato per staccarmi
dai farmaci pesanti e non ci sarei tornato a questo punto, con o senza dolore.
«Il suo recupero è fantastico», dichiarò Hadlock. «Non credo che ci sia
bisogno che sottolinei quanto è stato fortunato a non trovarsi ora su una
sedia a rotelle per il resto della sua vita, manovrandola molto probabilmente soffiando in una cannuccia.»
«Sono fortunato a essere vivo, se è per questo», risposi. «Posso dedurre
che non ha trovato niente di particolare?»
«In attesa di sangue e orina, direi che è tutto a posto. Sono pronto a ordinarle una radiografia del suo fianco destro e della testa, se avverte sintomi che la preoccupano, ma...»
«Nessun sintomo.» Ne avevo, invece, e mi preoccupavano, ma non pensavo che una radiografia ne avrebbe individuato la causa. O le cause.
Lui annuì. «Il motivo per cui ho esaminato con particolare attenzione il
suo moncherino è che lei non indossa una protesi. Pensavo che potesse esserci dell'ipersensibilità. O qualche segno di infezione. Invece sta benissimo.»
«Credo di non sentirmi ancora pronto.»
«Nessun problema. Assolutamente. Considerato il lavoro che fa, direi
che nel suo caso si può applicare benissimo il principio del 'se non è rotto,
non ripararlo'. I suoi dipinti... straordinari. Sono ansioso di vederli esposti
alla Scoto. Ci vengo con mia moglie. È già molto eccitata.»
«Bene», dissi. «Grazie.» Sembrò anche a me una reazione un po' opaca,
almeno alle mie orecchie, ma non avevo ancora imparato a come rispondere a quei complimenti.
«Il fatto che lei si trovi a Salmon Point come inquilino pagante è insieme
triste e ironico», commentò Hadlock. «Per anni, come forse sa, Elizabeth
ha riservato quella casa agli artisti. Poi, dopo che si è ammalata, ha lasciato
che venisse gestita come tutte le altre sue proprietà in locazione, con la sola clausola precisa che chiunque l'affittasse la prendesse come minimo per
tre mesi. Questo per evitare che venisse invasa da ragazzoni chiassosi. Non
dove avevano posato il loro capo leggendario personaggi come Salvador
Dalí e James Bama.»
«Non posso dire che la biasimo. È un posto speciale.»
«Sì, ma pochi degli artisti celebri che hanno soggiornato lì hanno fatto
qualcosa di speciale. Poi arriva il secondo inquilino 'normale', un costruttore edile di Minneapolis in convalescenza da un brutto incidente e... be', Elizabeth deve sentirsi gratificata.»
«Nel nostro mestiere, questo lo chiamiamo metterla giù a colpi di cazzuola, dottor Hadlock.»
«Gene», mi corresse lui. «E quelli che hanno assistito alla sua presentazione non la pensano così. È stato meraviglioso. Mi spiace solo che non sia
potuta venire Elizabeth. Quanto avrebbe gongolato.»
«Forse riuscirà a esserci per il vernissage.»
Molto lentamente Gene Hadlock scosse la testa. «Ne dubito. Ha combattuto l'Alzheimer con unghie e denti, ma arriva il momento in cui la malattia semplicemente vince. Non perché il paziente sia debole, ma perché è
una realtà clinica, come nella sclerosi multipla. O il cancro. Una volta che i
sintomi si manifestano, di solito con una perdita di memoria corta, entra in
funzione un orologio. Temo che per Elizabeth sia scoccata la sua ora e me
ne dispiaccio molto. Mi è chiaro, penso peraltro che sia stato chiaro a tutti
quelli che erano alla sua conferenza, che tutto questo clamore la mette a
disagio...»
«Può dirlo forte.»
«... ma se ci fosse stata, Elizabeth avrebbe provato piacere per lei. La
conosco praticamente da sempre e le assicuro che avrebbe diretto le operazioni fin nei minimi particolari, compresa la disposizione di ogni singolo
quadro in galleria.»
«Mi sarebbe piaciuto conoscerla quando stava bene», dissi.
«Era fantastica. Quando lei aveva quarantacinque anni e io venti, vincemmo il titolo del doppio misto al torneo di tennis per dilettanti di Colony
sulla Longboat Key. Io ero a casa dal college per la pausa di fine semestre.
Ho ancora la coppa. Immagino che lei abbia ancora la sua da qualche parte.»
Questo mi fece pensare a una cosa - la troverai, ne sono sicura - ma
prima che potessi inseguire il ricordo fino alla sua fonte, mi sovvenne
qualcos'altro. Qualcosa di molto più recente.
«Dottor Hadlock... Gene... sa se Elizabeth ha mai dipinto se stessa? O
disegnato?»
«Elizabeth? Mai.» E sorrise.
«È molto sicuro.»
«Per forza. Una volta gliel'ho chiesto e ricordo molto bene l'occasione.
C'era in città Norman Rockwell per una conferenza. E non alloggiava a casa sua, era al Ritz. Norman Rockwell, con tanto di pipa!» Gene Hadlock
scosse la testa, sorridendo questa volta con più sentimento. «Dio del cielo,
sapesse che controversia ne nacque, il baccano quando la commissione
annunciò l'arrivo di mister Saturday Evening Post. L'idea era stata di Elizabeth, la quale si beò del bailamme che aveva provocato, diceva che avrebbero potuto riempire il Ben Hill Griffin Stadium...» Notò la mia espressione smarrita. «Università della Florida. 'La palude da cui solo i Ga-
tors escono vivi'?»
«Se stiamo parlando di football, il mio interesse comincia dai Vikings e
finisce ai Packers.»
«Comunque, per tornare a noi, durante la visita di Rockwell e tutto il
trambusto che ne era seguito, e davvero fece il tutto esaurito, non alla Geldbart, ma al City Center, fatto sta che le chiesi del suo talento artistico. Elizabeth scoppiò a ridere e disse che non sapeva nemmeno disegnare pupazzetti con stecchini per braccia e gambe. Usò in verità una metafora
sportiva ed è forse per questo che ho pensato ai Gators. Disse che si considerava come un tipico facoltoso ex alunno di college, con la differenza che
era appassionata di arte e non di football. 'Se non puoi essere un atleta, fai
il tifoso', mi disse. 'E se non puoi essere un artista, sfamali, curali e assicurati che abbiano un tetto sotto cui rifugiarsi quando piove.' Ma quanto a talento artistico suo? Assolutamente nulla.»
Pensai di dirgli di Aggie Winterborn, l'amica di Mary Ire. Poi toccai la
penna rossa che avevo in tasca e tenni la bocca chiusa. Sentii che quello
che desideravo più di tutto era tornare a Duma Key e mettermi a dipingere.
Bambina e nave no. 8 era il pezzo più ambizioso della serie, anche il più
grande, il più complesso, ed era quasi finito.
Mi alzai e gli offrii la mano. «Grazie di tutto.»
«Non c'è di che. E se cambiasse idea e volesse qualcosa di un po' più
forte per il dolore...»
4
Il ponte levatoio era alzato per permettere il passaggio dall'oceano aperto
al Golfo del giocattolo di qualche riccone. Seduto al volante della Malibu,
Jack aspettò ammirando la ragazza in bikini verde che prendeva il sole a
prua. La radio era sintonizzata su The Bone. Finì la pubblicità di un concessionario di motociclette (The Bone andava forte su motociclette e mutui
finanziari) e attaccarono gli Who con Magic Bus. Il mio moncherino cominciò a formicolare, quindi a prudere. E il prurito si diffuse lentamente
verso il basso, sonnolento ma profondo. Molto profondo. Alzai il volume
di una tacca, poi mi tolsi di tasca la penna rubata. Non blu; non nera; era
rossa. L'ammirai per qualche istante nel sole del pomeriggio inoltrato. Poi
aprii il portaoggetti e mi misi a frugare.
«T'aiuto a trovare qualcosa, boss?»
«No. Tu tieni gli occhi sulla strada. Me la cavo da solo.»
Tirai fuori un buono per un hamburger: MANGIA! esortava il coupon.
Lo rovesciai. Sull'altro lato non c'era niente. Disegnai in fretta e senza pensare. Finii prima io della canzone. Sotto il mio disegnino vergai cinque lettere. Il disegno era simile agli scarabocchi che facevo nella mia altra vita
quando contrattavo al telefono. Le lettere erano PERSE, il nome della mia
nave misteriosa. Solo che non pensavo che si pronunciasse così. Avrei potuto aggiungere un accento sull'ultima E, ma nemmeno quello mi suonava
giusto.
«Che cos'è?» volle sapere Jack allungando il collo dalla mia parte. Poi si
rispose da sé. «Una piccola cesta da picnic rossa. Carina. Ma è una sola,
perché 'perse' al plurale?»
«È un nome.»
«Prendo per buona la tua parola.» La sbarra dalla nostra parte del ponte
si alzò e Jack ripartì.
Io guardai il cestino rosso che avevo disegnato - solo che pensavo che
quel genere di contenitore, quello fatto di vimini, si chiamasse paniere - e
mi domandai perché mi fosse così famigliare. Poi mi resi conto che non lo
era. Era la frase a essermi famigliare. Cerca la cesta da picnic di Tata
Qualcuno, aveva detto Elizabeth la sera in cui avevo riportato a casa Wireman dall'ospedale. L'ultima volta in cui l'avevo vista compos mentis, mi
resi conto in quel momento. È in soffitta, ne sono sicura. È rossa. E: La
troverai. E poi: Sono là dentro. Ma quando le avevo chiesto di spiegarsi
meglio, non era stata capace di venirmi incontro. Se n'era andata di testa.
È in soffitta. È rossa.
«Naturale», dissi. «Tutto è rosso.»
«Cosa, Edgar?»
«Niente», risposi guardando la penna rubata. «Pensavo a voce alta.»
5
Bambina e nave no. 8 - l'ultimo della serie, ne ero quasi certo - era in realtà compiuto, tuttavia io mi attardai a osservarlo nella luce che si andava
allungando, a torso nudo e nel rimbombo di Copperhead Road trasmessa
da The Bone. Vi avevo lavorato più a lungo che a tutti gli altri dipinti - ero
giunto alla conclusione che per molti versi li riassumeva - ed era inquietante. Per questo alla fine di ogni sessione lo coprivo con un lenzuolo. Ora,
guardandolo con un occhio che speravo fosse spassionato, mi resi conto
che inquietante non era probabilmente la definizione giusta; quel quadro
era terrificante, altro che cazzi. Sembrava di guardare una mente messa per
traverso.
E forse non sarebbe mai stato completamente finito. Di sicuro c'era ancora spazio per un paniere rosso. Avrei potuto appenderlo in punta a Perse.
Perché no, diamine? Quel coso dannato era pieno zeppo di figure e particolari già così. C'era sempre spazio per un'aggiunta.
Gli stavo avvicinando un pennello carico di quello che sarebbe potuto
sembrare sangue per apportare giusto quella modifica, quando squillò il telefono. Per poco non lasciai perdere e senz'altro lo avrei fatto se fossi stato
in uno dei miei slanci pittorici, ma non lo ero. La cesta avrebbe avuto un
valore solo ornamentale, e già avevo introdotto altri oggetti a quello scopo.
Posai il pennello e sollevai il ricevitore. Era Wireman ed era eccitato.
«Ha avuto un momento di lucidità questa sera, Edgar! Può non significare nulla, cerco di non alimentare troppe speranze, ma è già successo. Prima
uno sprazzo breve, poi un altro, poi un altro, finché cominciano a legarsi
insieme ed è di nuovo se stessa, almeno per un po'.»
«Sa chi è? Dove si trova?»
«Ora no, ma per mezz'ora, a partire dalle cinque e mezzo, non solo lo
sapeva, ma sapeva anche chi sono io. Sentimi, muchacho: si è accesa da
sola una sigaretta!»
«Non mancherò di riferire al ministro della Salute», risposi, ma stavo
pensando. Cinque e mezzo. Nel momento in cui, cioè, io e Jack stavamo
aspettando al passaggio a livello del ponte. Nel momento in cui avevo sentito il bisogno di disegnare.
«Ha chiesto niente a parte la sigaretta?»
«Di mangiare. Ma prima ha chiesto di andare dalle porcellane. Voleva le
sue statuine, Edgar! Hai idea di quanto tempo è passato dall'ultima volta?»
Per la verità sì. Ed era bello sentirlo così emozionato per lei.
«Però quando ce l'ho portata ha cominciato ad appannarsi di nuovo. Si è
guardata intorno e mi ha chiesto dov'era Percy. Ha detto che voleva Percy,
che Percy doveva andare nella scatola dei biscotti.»
Io guardai il mio dipinto. La mia nave. Ora era mia, pacifico. La mia
Perse. Mi passai la lingua sulle labbra, che mi si erano seccate all'improvviso. Come mi succedeva sempre nei primi tempi dopo l'incidente quando
mi risvegliavo. Quando spesso non ricordavo chi ero. Sapete dove sta il
colmo della stranezza? Ricordare di dimenticare. È come guardarsi intorno
nella casa degli specchi. «Qual è Percy?»
«Sa il cielo. Quando vuole che butti la scatola nella vasca dei pesci insi-
ste sempre perché ci metta dentro una bambina. Di solito una pastorella
senza faccia.»
«Ha detto nient'altro?»
«Che voleva mangiare, te l'ho detto. Passato di pomodoro. E pesche. Ma
poi ha smesso di guardare le statuine e ha cominciato ad avere di nuovo la
mente confusa,»
La confusione nasceva forse dal fatto che Percy non c'era? O la Perse?
Era possibile... ma se mai aveva avuto una nave di porcellana, io non l'avevo vista. Pensai, non per la prima volta, che Perse era un nome strano.
Di cui era bene non fidarsi. Continuava a cambiare.
«A un certo punto mi ha detto che la tavola perdeva», aggiunse Wireman.
«Ed era vero?»
Ci fu una breve pausa. Poi, non troppo divertito, disse: «Stiamo facendo
gli spiritosi ai danni di Wireman, mi amigo?»
«No, sono curioso. Che cosa ha detto? Di preciso?»
«Solo questo. 'La tavola perde.' Ma le sue miniature sono su un tavolotavolo, come ben sai, non su una tavola da mettere in acqua.»
«Calmati. Non perdere il tuo buonumore.»
«Ci sto provando, ma devo ammettere che mi sembri un po' fuori sintonia, Edster.»
«Non chiamarmi Edster, sembra il nome di una Ford d'epoca. Le hai
portato la sua minestra e lei era... cosa? Andata di nuovo?»
«Parecchio, sì. Aveva buttato per terra un paio delle sue statuine rompendole, un cavallo e una ragazza da rodeo.» Sospirò.
«Quella cosa sulla tavola che perde, l'ha detta prima o dopo che le hai
portato da mangiare?»
«Dopo, prima, che differenza fa?»
«Non lo so. Ma era prima o dopo?»
«Prima. Credo. Sì, prima. Dopo ha praticamente perso interesse per tutto, non ha più tirato fuori nemmeno la scatola di Sweet Owen da gettare
nella vasca dei pesci. Le ho portato la minestra nella sua tazza preferita,
ma lei mi ha scacciato con violenza, tanto da versarsela sul braccio. Ma è
sembrato che non sentisse niente. Edgar, perché tutte queste domande?
Che cosa sai?» Passeggiava con il cellulare all'orecchio. Me lo vedevo.
«Niente. Sto annaspando nel buio, santa miseria.»
«Ah sì? E con quale braccio?»
Mi colse in contropiede, ma avevamo compiuto troppa strada insieme e
condividevamo troppe cose perché potessi mentirgli, anche quando la verità era follia. «Quello destro.»
«Va bene», disse. «Va bene, Edgar. Mi piacerebbe solo sapere che cosa
sta succedendo, nient'altro. Perché qualcosa c'è.»
«Forse c'è qualcosa. Come sta adesso?»
«Dorme. E io ti ho interrotto. Tu stai lavorando.»
«No», risposi abbandonando il pennello. «Credo che sia finito e credo di
aver chiuso anch'io per un po'. Da oggi fino all'inaugurazione della mostra
solo camminate e raccolta di conchiglie.»
«Nobili aspirazioni, ma non credo che tu lo possa fare. Non uno stacanovista come te.»
«Mi sa che ti sbagli.»
«D'accordo, mi sbaglio. Non sarà la prima volta. Vieni a trovarci domani? Se torna tra noi, vorrei che la vedessi.»
«Contaci. E già che ci siamo potremmo fare tue tiri a tennis.»
«Mi sta bene.»
«C'è un'altra cosa, Wireman. Sai se Elizabeth ha mai dipinto?»
Rise. «Chi lo sa. Una volta gliel'ho chiesto e mi ha risposto che non è
capace nemmeno di disegnare pupazzetti con gli stecchini per braccia e
gambe. Mi ha detto che la sua passione per l'arte non è molto diversa dalla
passione che hanno certi ricchi ex alunni per il football e il basket. Ci ha
scherzato sopra, ha detto...»
«Che se non puoi essere un atleta, fai il tifoso.»
«Proprio così. Come lo sai?»
«È vecchia», risposi. «Ci vediamo domani.»
Riattaccai e rimasi dov'ero a guardare la luce lunga della sera incendiare
un tramonto sul Golfo che non sentivo il desiderio di dipingere. Erano le
stesse parole che aveva usato con Gene Hadlock. Ed ero certo che se avessi chiesto ad altri avrei ascoltato lo stesso aneddoto una o due o anche una
decina di volte: Ha detto che non sa disegnare nemmeno i pupazzetti con
gli stecchini per gambe e braccia, ha detto: se non puoi essere un atleta,
fai il tifoso. E perché? Perché una donna onesta può anche di tanto in tanto
stravolgere la verità, ma una brava bugiarda non cambia mai la sua versione.
Non gli avevo chiesto della cesta rossa da picnic, ma mi consolai pensando che se era nella soffitta di El Palacio, ci sarebbe stata anche il giorno
dopo e quello dopo ancora. Dissi a me stesso che c'era tempo. È quello che
ci diciamo sempre, no? Non immaginiamo che il tempo si esaurisca e Dio
ci punisce per quello che non immaginiamo.
Guardai Bambina e nave no. 8 con uno stato d'animo che si avvicinava
al ribrezzo e vi buttai sopra il lenzuolo. Non appesi mai il paniere rosso da
picnic alla punta della prua; non posai più le setole di un pennello su quel
dipinto in particolare, l'ultimo folle discendente del primo disegno che avevo fatto a Big Pink, quello che avevo intitolato Ciao. Il no. 8 era forse la
cosa migliore che avessi mai fatto, ma stranamente quasi me ne dimenticai. Fino alla mostra. Dopo non ho potuto scordarlo mai più.
6
La cesta da picnic.
Quella dannata cesta rossa piena dei suoi disegni.
Come mi tormenta.
Ancora oggi, quattro anni dopo, mi ritrovo a giocare al gioco dell'e-se,
chiedendomi quanto tutto sarebbe cambiato se avessi messo da parte tutto
il resto e fossi andato a cercarla. Fu trovata, poi, da Jack Cantori, ma ormai
era troppo tardi.
E forse, non lo posso affermare con certezza, ma forse avrebbe cambiato
tutto, perché c'era una forza al lavoro, sia su Duma Key sia dentro Edgar
Freemantle. Posso dire che quella forza mi aveva portato lì? No. Posso dire
che non lo fece? No, nemmeno questo. Ma mentre marzo lasciava il passo
ad aprile aveva cominciato a intensificarsi e, in una maniera sottilmente
furtiva, a estendere la sua influenza.
Quella cesta.
La dannata cesta da picnic di Elizabeth.
Era rossa.
7
La speranza di Wireman che Elizabeth ritrovasse la presenza di spirito
cominciò a sembrare ingiustificata. Se ne restò semiaccasciata a borbottare
sulla sua sedia a rotelle, rianimandosi di tanto in tanto solo per chiedere
una sigaretta gracchiando come un vecchio pappagallo. Wireman si assicurò i servizi di Annmarie Whistler perché andasse al Palacio ad aiutarlo
quattro giorni alla settimana. L'aiuto supplementare poteva avergli alleggerito le fatiche quotidiane, ma poco era servito a consolarlo; aveva il cuore
in pena.
Sono tuttavia circostanze che, mentre sopraggiungeva aprile solatio e
caldo, registravo solo con la coda dell'occhio. Perché, a proposito di caldo... aveva cominciato a scottare anche il mio nome.
Dopo che Mary Ire ebbe pubblicato l'intervista, divenni una celebrità locale. Inevitabile. «Artista» andava bene, specialmente nell'area di Sarasota.
«Artista un tempo costruttore di banche che ha rinunciato a mammona»
andava meglio. «Artista monco di abbagliante talento» era il massimo del
minimo. Dario e Jimmy mi fissarono una serie di ulteriori interviste, compresa una con Channel 6. Emersi dal loro studio di Sarasota con un mal di
testa accecante e un adesivo omaggio con la scritta CHANNEL 6 SUNCOAST WEATHER-WATCHER, che finii per incollare su una delle transenne dei CANI CATTIVI. Non chiedetemi perché.
Assunsi anche la direzione sul fronte Florida delle operazioni di viaggioe-ospitalità. Wireman era ormai troppo preso a cercare di evitare che Elizabeth ingerisse solo ed esclusivamente fumo di sigarette. Io mi ritrovai a
consultarmi con Pam ogni due o tre giorni sulla lista degli invitati dal
Minnesota e le prenotazioni necessarie per il trasferimento di persone provenienti da altre parti del paese. Ilse chiamò due volte. Ebbi l'impressione
che facesse uno sforzo per sembrare su di morale, ma potrei essermi sbagliato. I miei tentativi di sapere come stesse progredendo la sua vita sentimentale vennero educatamente ma fermamente respinti. Mi telefonò Melinda per chiedermi, pensa un po', che misura di cappello portavo. Quando
le chiesi perché, non volle spiegarmelo. Quindici minuti dopo aver riappeso, ci arrivai da solo: lei e il suo ami francese avevano veramente intenzione di comprarmi un dannato basco. Scoppiai a ridere.
Un reporter dell'AP scese da Tampa a Sarasota. Avrebbe voluto venire a
Duma, ma a me non andava che un giornalista si aggirasse per Big Pink e
sentisse quelle che ormai per me erano diventate le mie conchiglie. Mi intervistò invece alla Scoto, mentre un fotografo riprendeva tre quadri accuratamente selezionati, Rose che crescono da conchiglie, Tramonto con sophora e Duma Road. Io indossavo una T-shirt della Casey Key Fish House
e la mia foto - berretto da baseball al contrario e solo un pezzettino di
braccio dentro una manica corta - fu pubblicata da tutti i giornali della nazione. Dopodiché il mio telefono non smise più di squillare. Mi chiamò
Angel Slobotnik e parlò per venti minuti. A un certo punto dichiarò di aver
sempre saputo del mio talento nascosto. «Cosa?» mi sorpresi. La sua risposta fu: «Balle, boss» e ridemmo come matti. Chiamò Kathi Green; venni a sapere del suo nuovo fidanzato (non un granché) e del suo nuovo pro-
gramma di tecniche di autostima (un granché). Io le raccontai di Kamen,
comparso alla mia conferenza per salvarmi il culo. Alla fine di quella telefonata Kathi piangeva dicendo di non aver mai avuto un paziente con tanto
fegato e tanta forza per riprendere a vivere come me. Poi aggiunse che
quando mi avesse rivisto mi avrebbe detto di stendermi per terra e fare
cinquanta flessioni. E quella era la mia vecchia e brava Kathi. Come ciliegina sulla torta, Todd Jamieson, il chirurgo che probabilmente mi aveva
salvato da dieci o vent'anni di esistenza da vegetale umano, mi inviò una
bottiglia di champagne con un biglietto su cui aveva scritto: Aspetto con
ansia di vedere il suo lavoro.
Se Wireman avesse scommesso con me che presto o tardi mi sarei annoiato e avrei rimesso mano ai pennelli prima della mostra, avrebbe perso.
Quando non ero occupato nei preparativi per il mio gran momento, passeggiavo, leggevo o dormivo. Gliene accennai in uno dei rari pomeriggi in
cui ci trovammo insieme in fondo alla passerella di El Palacio a bere tè
verde sotto l'ombrellone a strisce. Fu una settimana prima dello show.
«Sono contento», commentò semplicemente. «Avevi bisogno di riposare.»
«E tu, Wireman? Come va?»
«Non benissimo, ma sopravviverò: Gloria Gaynor, millenovecentosettantotto. È tristezza soprattutto.» Sospirò. «Sto per perderla. Ho voluto illudermi che forse sarebbe tornata, ma... la perderò. Non è come è stato per
Julia ed Esmeralda, grazie al cielo, ma mi pesa lo stesso.»
«Mi spiace.» Posai la mano sulla sua. «Per lei e anche per te.»
«Grazie.» Si mise a guardare le onde. «Alle volte penso che non morirà
mai.»
«No?»
«No. Penso che invece verranno a prenderla il Tricheco e il Carpentiere.
Se la porteranno via come fecero con quelle ostriche ingenue. La porteranno in fondo alla spiaggia. Ricordi che cosa dice il Tricheco?»
Scossi la testa.
«'È un peccato giocar loro questo brutto tiro, Dopo che han fatto tutta
questa strada, Scoprire che le abbiam prese in giro.'» Si passò il braccio sul
viso. «Guardami, muchacho, guardami piangere come il Tricheco. Sono
proprio stupido.»
«No», dissi.
«Fatico ad affrontare l'idea che questa volta se ne sia andata per sempre,
che la miglior parte di lei se ne sia andata via per la spiaggia con il Triche-
co e il Carpentiere e che qui sia rimasto solo un pezzo di vecchio strutto
che semplicemente non ha ancora dimenticato del tutto come si respira.»
Io non dissi niente. Si asciugò di nuovo gli occhi con l'avambraccio e
trasse un respiro lungo e tremulo. «Ho fatto qualche ricerca sulla storia di
John Eastlake», riprese poi, «e sulle figlie annegate e quello che successe
dopo... Ricordi di avermelo chiesto?»
Sì, ma mi sembrava che fossero passati secoli e che l'argomento fosse di
scarsa importanza. Quello che penso ora è che qualcosa volesse che io avessi quella sensazione.
«Sono andato un po' in giro in Internet e ho raccolto una buona messe
dai quotidiani locali e da un paio di autobiografie scaricabili. Una, e guarda che non ti sto cacciando balle, muchacho, si intitola Gite in barca e cera d'api, l'infanzia di una bambina a Nokomis, di Stephanie Weider GraveMiller.»
«Dev'essere un bel viaggio sul viale delle rimembranze.»
«Lo è. Parla dei 'neri felici che raccolgono arance e cantano semplici inni con le loro voci melodiose'.»
«Dopo è arrivato Jay-Z.»
«L'hai detto. Meglio ancora, ho parlato con Chris Shannington, giù a Casey Key, l'hai visto quasi certamente. Un vecchiaccio pittoresco che gira
sempre con questo nodoso bastone di radica lungo quasi quanto lui e un
cappellone di paglia in testa. Ellis Shannington, suo padre, era il giardiniere di John Eastlake. Secondo Chris fu Ellis a riportare alla Braden School
Maria e Hannah, le due sorelle più grandi di Elizabeth, dieci giorni dopo
l'annegamento. 'Quelle povere bimbe avevano il cuore spezzato per le piccole scomparse' ha detto.»
Non so perché, ma a me venne da pensare di nuovo al Tricheco e il Carpentiere che camminavano per la spiaggia con le piccole ostriche. La sola
parte che ricordavo chiaramente della poesia era quando il Carpentiere dice loro che si sono fatte una bella camminata, ma naturalmente le ostriche
non risposero, perché ormai anche l'ultima era già stata mangiata.
«Vuoi sentire la storia adesso?» chiese Wireman.
«Hai tempo di raccontarmela adesso?»
«Sì. Annmarie è in servizio fino alle sette, anche se all'atto pratico, di solito ci dividiamo i compiti. Perché non entriamo? Ho un fascicolo. Non c'è
molto, ma ho almeno una foto che vale la pena vedere. La conservava
Chris Shannington in una scatola di effetti appartenuti al padre. Sono andato con lui in biblioteca e l'ho fotocopiata.» Fece una pausa. «È una foto
della Heron's Roost.»
«Com'era all'epoca, vuoi dire?»
Ci eravamo incamminati sulla passerella, ma Wireman si fermò. «No,
amigo, hai frainteso. Sto parlando della Heron's Roost originale. El Palacio è la seconda Roost, costruita quasi venticinque anni dopo la scomparsa
delle bambine. I dieci o venti milioni che aveva John Eastlake prima della
guerra erano diventati centocinquanta o giù di lì. 'La guerra è un buon affare, investici tuo figlio'.»
«Movimento di protesta contro la guerra nel Vietnam, millenovecentosessantanove», recitai. «Spesso visto in coppia con 'una donna ha bisogno
di un uomo come un pesce ha bisogno di una bicicletta'.»
«Bravo, amigo», si complimentò Wireman. Indicò il coacervo di vegetazione che cominciava poco a sud di noi. «La prima Heron's Roost era laggiù, quando il mondo era giovane e le maschiette dicevano poop-oopiedoop.»
Pensai a Mary Ire, non solo alticcia o brilla, ma ubriaca, che diceva: Solo
quell'unica casa, su quel cucuzzolo a sud, una di quelle ville che ti aspetteresti di vedere in un giro delle dimore storiche a Charleston o a Mobile.
«Che fine ha fatto?» domandai.
«Per quel che ne so è semplicemente decaduta con il tempo», rispose lui.
«Quando rinunciò a sperare di recuperare i corpi delle gemelle, John Eastlake rinunciò anche a Duma Key. Licenziò gran parte della servitù, fece i
bagagli, prese le tre figlie che gli restavano, salì sulla sua Rolls-Royce - ne
aveva davvero una - e partì. Un romanzo che F. Scott Fitzgerald non scrisse mai, così si è espresso Chris Shannington. Mi ha detto che Eastlake non
trovò la pace fino a quando Elizabeth non lo riportò qui.»
«Tu credi che sia qualcosa che Shannington sappia sul serio o piuttosto
una storia che si è abituato a sentirsi raccontare?»
«Quién sabe», ribatté Wireman. Sostò di nuovo e indicò il lato sud di
Duma Key. «Non c'era tutta quella roba. La casa originale si vedeva dalla
terraferma e viceversa. E per quel che ne so, amigo, la casa c'è ancora.
Quel che ne resta. È laggiù a marcire.» Arrivò alla porta della cucina e mi
guardò, molto serio. «Quello sarebbe un bel soggetto da dipingere, no?
Una nave fantasma in secca.»
«Forse», risposi. «Forse sì.»
8
Mi fece strada nella biblioteca con l'armatura nell'angolo e la collezione
di armi da museo appese alla parete. Lì, sul tavolo del telefono, c'era una
cartelletta con la scritta JOHN EASTLAKE/HERON'S ROOST I. L'aprì e
ne tolse una fotografia in cui si vedeva una costruzione indubbiamente simile a quella in cui ci trovavamo, una somiglianza, come dire, da cugini di
primo grado. C'era tuttavia una differenza fondamentale tra le due e i punti
in comune - in generale lo stesso impianto, mi parve, e lo stesso tetto di tegole arancione - non facevano altro che sottolinearla.
Il Palacio attuale si nascondeva al mondo dietro un alto muro interrotto
solo da un unico cancello; non c'era nemmeno un'entrata di servizio. Vantava uno splendido cortile che poche persone avevano l'onore di vedere,
tolti Wireman, Annmarie, l'addetta alla pulizia della piscina e il giardiniere
nelle sue visite bisettimanali; era come il corpo di una splendida donna celato da un indumento informe.
La prima Heron's Roost era molto diversa. Come la magione nella Porcy
Town di Elizabeth, era ornata da un ampio pronao con la copertura sorretta
da sei colonne. Il largo viale d'accesso divideva in due quasi un ettaro di
prato. Il fondo del viale non era di ghiaia come mi aveva detto Mary Ire,
ma di conchiglie rosa sbriciolate. L'originale invitava il mondo a entrare. Il
suo successore, El Palacio, diceva al mondo di starsene ben alla larga. Ilse
se n'era accorta subito, e anch'io, ma quel giorno guardavamo la casa dalla
strada. Da allora la mia prospettiva era cambiata e con ragione: mi ero abituato a vederlo dalla spiaggia. Ad arrivarci dal suo lato disarmato.
La prima Heron's Roost era anche più alta, tre piani davanti e quattro sul
retro, così, se davvero era stata costruita su un rilievo, come mi aveva detto
Mary, chi si fosse trovato sul piano superiore avrebbe goduto di una vista
mozzafiato a trecentosessanta gradi del Golfo, la terraferma, Casey Key e
Don Pedro Island. Non male. Ma il prato era maltenuto, incolto, e c'erano
dei vuoti nelle file di palme ornamentali che danzavano l'hula ai lati della
casa. Osservai meglio la foto e notai che alcune delle finestre dei piani superiori erano sbarrate con delle assi. Anche la linea del tetto aveva qualcosa di pencolante. Mi ci volle un secondo per capire perché. All'estremità
est c'era un comignolo. Ce ne sarebbe dovuto essere un altro all'estremità
opposta, ma non c'era.
«Questa è stata scattata dopo che se ne erano andati?» domandai.
Lui scosse la testa. «Secondo Shannington, fu scattata nel marzo millenovecentoventisette, prima che le bambine annegassero, quando tutti erano
ancora felici e contenti. Quello che vedi non è degrado, sono i danni dell'u-
ragano. Di un'Alice.»
«Che sarebbe?»
«Quaggiù la stagione degli uragani inizia ufficialmente il quindici giugno e dura circa cinque mesi. Le tempeste fuori stagione con venti forti e
piogge torrenziali... nel gergo dei vecchi residenti sono tutte Alice. Come
l'uragano Alice. È una specie di gioco.»
«Te lo stai inventando.»
«Tutt'altro. Esther, quello tremendo del ventisei, se ricordi, mancò completamente Duma, ma l'Alice del marzo del ventisette lo prese in pieno.
Poi proseguì verso la terraferma e si spense nelle Glades. Provocò i danni
che vedi in questa foto, niente di clamoroso, per la verità, abbatté qualche
palma, fracassò qualche vetro, strappò l'erba del prato. Ma in un certo senso i suoi effetti si sentono ancora. Perché sembra accertato che fu Alice a
determinare la tragica fine di Tessie e Laura e a dare origine a tutto il resto.
Compreso il fatto che ora tu e io ci troviamo qui.»
«Spiega.»
Prese un'altra foto dal fascicolo e certamente la ricordavo. Quella grande
era sul primo pianerottolo della scala padronale. Quella che mi mostrava
era una copia più piccola e più nitida. Era la famiglia Eastlake, con John
Eastlake nel suo costume nero simile a un attore hollywoodiano di film di
seconda categoria specializzato forse in polizieschi e avventure nella giungla. Reggeva Elizabeth. Una mano sotto il suo rotondo sederino. L'altra
che stringeva la pistola subacquea e una maschera con il boccaglio.
«Volendo giudicare solo da Elizabeth, direi che questa è stata presa intorno al millenovecentoventicinque», calcolò a voce alta Wireman. «Dimostra due anni, quasi tre. E Adriana...» Batté il dito sulla maggiore. «...
ne dimostra diciassette quasi trentaquattro, non ti pare?» Mi pareva. Diciassette e con un corpo maturo nonostante quel costume da bagno che nascondeva praticamente tutto.
«Ha anche già acquisito quell'espressione scontrosa e ingrugnita del voglio-essere-in-un-altro-posto», aggiunse Wireman. «E chissà la faccia che
ha fatto suo padre quando ha preso su ed è scappata con uno dei suoi capireparto. E chissà che, sotto sotto, non fosse contento di vederla andare.»
Imitò l'accento del Sud di Chris Shannington. «Fuggita ad Atlanta con un
ragazzo in cravatta e visiera.» Smise subito. Immaginai che parlare di
bambine morte, anche se scomparse ottant'anni prima, gli mettesse addosso lo stesso una certa commozione. «Tornò, la ragazza, venne giù con suo
marito, ma ormai si stavano solo cercando i corpi.»
Io indicai la tata nera imbronciata. «Questa chi è?»
«Melda o Tilda o magari addirittura Ecuba, che Dio ci assista, secondo
Chris Shannington. Suo padre lo sapeva, ma Chris non lo ricorda più.»
«Bei braccialetti.»
Lui li guardò con scarso interesse. «Se lo dici tu.»
«Forse John Eastlake andava a letto con lei», dissi. «Forse i braccialetti
erano un piccolo presente.»
«Quién sabe? Vedovo ricco, giovane donna... un classico.»
Allora io battei il dito sulla cesta da picnic che la giovane nera reggeva
in entrambe le mani, con i muscoli delle braccia tese come se fosse pesante. Più pesante di quanto potessero giustificare pochi sandwich, si penserebbe... ma forse là dentro c'era un pollo intero. E forse anche qualche bottiglia di birra per ole massa, il vecchio mister, una piccola ricompensa per
quando avesse finito le immersioni. «Secondo te di che colore potrebbe essere quel paniere? Marrone scuro? O è rosso?»
Wireman mi rivolse un'occhiata strana. «In una fotografia in bianco e
nero è difficile dirlo.»
«Raccontami come la tempesta avrebbe portato alla morte delle bambine.»
Lui aprì di nuovo la cartelletta e mi porse un vecchio articolo di giornale
con fotografia. «Questo è preso dal Gondolier di Venice, ventotto marzo
millenovecentoventisette. Ho trovato le informazioni originali in rete. Jack
Cantori ha telefonato in redazione e ha trovato qualcuno che gli facesse
una fotocopia e me la spedisse via fax. Jack è fantastico, a proposito.»
«Su questo non si discute», convenni. Studiai la foto. «Chi sono queste
ragazzine? No... non dirmelo. Quella alla sua sinistra è Maria. Quella a destra è Hannah.»
«Sette più. Hannah è quella con le tette. Nel ventisette aveva quattordici
anni.»
Osservammo il fax in silenzio per qualche istante. Il foglio era attraversato da seccanti righe verticali che sporcavano un po' della scritta, ma il titolo era più che chiaro: TEMPESTA RIVELA TESORO A SUB DILETTANTE. Ed era nitida anche la foto. L'attaccatura dei capelli di Eastlake
era regredita un po'. Come per compensazione i suoi baffetti da direttore di
banda erano ora più simili a quelli di un tricheco. E sebbene lo indossasse
ancora, il vecchio costume nero era ora in uno stato di grave stress... e addirittura strappato sotto un braccio, mi sembrava, sebbene la risoluzione
dell'immagine non mi fosse di molto aiuto. Dunque tra il 1925 e il 1927
papà Eastlake aveva messo su qualche chilotto: l'attore di B-movie avrebbe
faticato a trovare delle parti se non avesse cominciato a saltare i dessert e a
lavorare di più in palestra. Le ragazze che erano con lui non avevano la
sensualità conturbante della sorella maggiore - guardavi Adriana e pensavi
a caldi pomeriggi in un fienile, guardavi le altre due e ti chiedevi se riuscissero a star dietro alle lezioni a scuola - ma erano carine in un certo modo un po' straniato e la loro eccitazione traboccava dalla foto. Per forza.
Perché, sparso davanti a loro sulla sabbia, c'era un tesoro.
«Non riesco a distinguere molto e questa dannata didascalia è tutta strisciata», mi lamentai.
«Nella scrivania c'è una lente di ingrandimento, ma ti risparmio la fatica.» Prese una penna e mi indicò gli oggetti con la punta. «Quello è un flacone di un medicinale e quella è una palla da moschetto, o almeno così sostiene Eastlake nell'articolo. Maria ha una mano posata su quello che sembra uno stivale... o quel che ne resta. Di fianco allo stivale...»
«Un paio di occhiali», dissi io. «E... una collana a maglie di catena?»
«L'articolo dice che sarebbe un braccialetto. Non so. È comunque un
cerchio metallico di qualche genere tutto incrostato. Ma quello che tiene in
mano la ragazza più grande è certamente un orecchino.»
Diedi una scorsa all'articolo. In aggiunta agli oggetti visibili, Eastlake
aveva trovato vari utensili da tavola... quattro tazze che definiva «di provenienza italiana»... un sottopentola... una scatola di ingranaggi (non meglio definiti)... e un certo numero di chiodi. Aveva trovato anche un uomo
di porcellana, del quale però non era data alcuna descrizione. Secondo l'articolo, Eastlake si tuffava da quindici anni sull'erosa barriera corallina a
ovest di Duma Key, alle volte per pescare, alle volte solo per sport. Diceva
di aver trovato ogni genere di oggetti, ma mai niente di interessante. Diceva che Alice (così chiamava l'uragano) aveva generato un notevole movimento delle acque e le onde avevano spostato la sabbia all'interno della
barriera scoprendo quello che definiva «un luogo di scarico».
«Non parla di un relitto», osservai.
«Non c'era», rispose Wireman. «Nessuno scafo. Non lo trovò lui e non
lo trovarono le decine di persone che lo aiutarono a cercare i corpi delle
sue bambine. Solo detriti. Se ci fosse stato un relitto da trovare, lo avrebbero trovato. Le acque a sud ovest della key non sono profonde più di dieci
metri arrivando fino ai resti del Kitt Reef, e sono limpide ancora oggi. A
quei tempi erano una lastra di vetro turchese.»
«Qualche teoria su come quella roba sia finita lì?»
«Sicuro. La migliore è che un'imbarcazione che stava per naufragare abbia superato la barriera spinta dal vento cento o due o trecento anni prima.
Nella bufera ha perso vettovaglie e oggetti vari, o forse l'equipaggio gettava pesi fuori bordo per tenere la nave a galla. Passata la tempesta hanno riparato lo scafo e sono ripartiti. Si spiegherebbe allora perché Eastlake ha
trovato oggetti di vario genere, ma anche niente di particolarmente prezioso. Se un tesoro c'era, sarebbe rimasto a bordo.»
«E il reef non avrebbe squarciato il fondo di uno scafo che fosse stato
spinto fin qui nel millesettecento? O milleseicento?»
Wireman si strinse nelle spalle. «Chris Shannington dice che nessuno sa
quale fosse la morfologia del Kitt Reef centocinquant'anni fa.»
Io tornai a guardare il bottino sparso sulla spiaggia. Le figlie sorridenti.
Il papà sorridente, che presto avrebbe dovuto comprarsi un costume da bagno nuovo. E all'improvviso conclusi che non andava a letto con la tata.
No. Anche un'amante gli avrebbe detto che non poteva farsi fotografare
per un giornale in quel vecchio straccio. Avrebbe trovato una motivazione
diplomatica, ma quella reale era davanti ai miei occhi, dopo tutti quegli
anni; la vedevo bene nonostante la meno che perfetta funzionalità del mio
occhio destro. Era troppo grasso. Solo che lui non lo vedeva e non lo vedevano neppure le sue figlie. Gli occhi amorevoli non vedono.
Troppo grasso. C'era qualcosa lì, no? Una A che praticamente reclamava
una B.
«A me sorprende che abbia rivelato pubblicamente di aver trovato qualcosa», commentai. «Se qualcuno ripescasse oggetti come quelli oggi e poi
ne parlasse a Channel 6, arriverebbe un'intera flotta di piccoli putt-putt da
mezza Florida, tutti a caccia di dobloni e pezzi da otto con i metal
detector.»
«Ah, ma quella era un'altra Florida», ribatté Wireman e io sentii l'eco
delle parole di Mary Ire. «John Eastlake era un uomo ricco e Duma Key
era la sua riserva privata. E poi non c'erano né dobloni né pezzi da otto, solo cianfrusaglia di moderato interesse disseppellita da una tempesta anomala. Per settimane continuò a immergersi dove c'erano quei detriti sparpagliati sul fondo del Golfo e non doveva nemmeno andare al largo, secondo Shannington; con la marea bassa, ci si arrivava praticamente a piedi.
È presumibile che cercasse soprattutto oggetti preziosi. Era ricco, sì, ma
non credo che questo basti a vaccinare una persona contro il fascino delle
cacce al tesoro.»
«No, sono sicuro che non basta.»
«Nelle sue spedizioni era sempre accompagnato dalla tata. C'erano anche le tre figlie che vivevano ancora con lui, le gemelle ed Elizabeth. Maria e Hannah erano tornate al collegio a Bradenton e la sorellona era scappata ad Atlanta. È pensabile che Eastlake consumasse dei picnic in spiaggia con le sue bimbe.»
«Quanto spesso?» Cominciavo a vedere dove stavamo andando a parare.
«Spesso. Forse tutti i giorni per tutto il periodo in cui c'era ancora qualcosa da recuperare. Finirono per scavare un sentiero da casa fino a quella
che chiamavano Shade Beach. Meno di un chilometro.»
«Un sentiero che due bambine avventurose avrebbero potuto percorrere
da sole.»
«E un giorno lo hanno fatto. Per lo strazio dei sopravvissuti.» Ripose le
foto nella cartelletta. «C'è una storia qui, muchacho, e suppongo che sia un
tantino più interessante di una bambina che ingoia una bilia, ma una tragedia è una tragedia e alla fine tutte le tragedie sono stupide. Chiedi a me e
tra Sogno di una notte di mezza estate e Amleto sceglierò sempre la prima.
Qualunque idiota con le mani ferme e un buon paio di polmoni può edificare una casa di carte e poi buttarla giù soffiandoci sopra, ma per far ridere
la gente ci vuole un genio.»
Per qualche istante rimase assorto nei suoi pensieri.
«Quello che è avvenuto con tutta probabilità è che un giorno dell'aprile
millenovecentoventisette, quando sarebbero dovute essere a nanna, Tessie
e Laura decisero di scendere di nascosto a Shade Beach per andare a caccia
del tesoro. Probabilmente la loro intenzione era di immergersi solo fino alle ginocchia, cioè per quanto era loro consentito fare. Su questo punto uno
degli articoli riporta parole precise di John Eastlake, confermate da Adriana.»
«La figlia sposata che era tornata a casa.»
«Infatti. Arrivò con il marito un giorno o due prima che la ricerca dei
corpi venisse ufficialmente sospesa. Questo secondo Shannington. Comunque, può darsi che una delle bimbe abbia visto luccicare qualcosa un
po' più al largo e abbia perso contatto con il fondo. Poi...»
«Poi la sorella ha cercato di salvarla.» Sì, lo vedevo. Solo che vedevo
Lin e Ilse quando avevano l'età delle gemelle. Non lo erano anche le mie
figlie, ma per tre o quattro anni d'oro furono quasi inseparabili.
Wireman annuì. «Poi un'onda se le è prese tutte e due. Non può essere
andata che così, amigo. È per questo che i corpi non sono stati ritrovati. Il
risucchio se le è portate via, le ha trascinate nel caldo largo.»
Aprii la bocca per domandargli che cosa intendesse per risucchio, poi ricordai un dipinto di Winslow Homer, romantico ma di innegabile presa:
Flutto di ritorno.
Il segnale dell'interfono ci fece trasalire entrambi. Nella fretta di voltarsi,
Wireman urtò la cartelletta con il braccio spedendo fotocopie e fax dappertutto.
«Signor Wireman!» Era Annmarie Whistler. «Signor Wireman, è lì?»
«Sono qui.»
«Signor Wireman?» Era molto agitata. Poi, come parlando a se stessa:
«Gesù, ma perché non risponde?»
«Il cazzo di bottone», brontolò lui quasi correndo all'apparecchio a muro. Schiacciò il pulsante. «Sono qui. Cosa c'è? È successo qualcosa? È caduta?»
«No!» esclamò Annmarie. «È sveglia! È sveglia e lucida! Ha chiesto di
lei! Può venire?»
«Arrivo subito», rispose Wireman e si girò verso di me con un sorriso
smagliante. «Hai sentito, Edgar? Vieni!» Vide che non reagivo. «Cosa stai
guardando?»
«Queste», dissi e gli mostrai le due foto di Eastlake nel suo costume da
bagno: quella in cui era circondato da tutte le figlie e quella scattata due
anni più tardi, in cui era affiancato solo da Maria e Hannah.
«Lascia perdere adesso, non hai sentito? La signorina Eastlake è tornata!» Partì in direzione della porta. Io lasciai cadere il fascicolo sul tavolo e
lo seguii. Avevo trovato il nesso, ma solo perché da qualche mese coltivavo l'arte di vedere. La coltivavo con impegno.
«Wireman!» chiamai. Aveva attraversato l'atrio interno ed era a metà
delle scale. Io lo inseguivo zoppicando e ce la stavo mettendo tutta, ma
perdevo terreno lo stesso. Mi aspettò, con non molta pazienza. «Chi gli ha
detto che doveva andare a cercare proprio lì?»
«Chi, Eastlake? Avrà trovato il posto per caso mentre faceva le sue immersioni.»
«Io non credo. Era da un bel pezzo che non indossava quel costume.
Forse le immersioni erano state il suo hobby agli inizi degli anni Venti, ma
credo che intorno al millenovecentoventicinque avesse trasferito sulla
buona tavola il suo interesse e la sua passione. Dunque chi glielo ha detto?»
Annmarie uscì dalla porta in fondo al pianerottolo. Il sorriso incredulo e
un po' ebete che aveva sulle labbra la ringiovaniva di una buona metà dei
suoi quarant'anni.
«Venite», ci esortò. «È fantastico.»
«È...»
«Sono», gli rispose la roca ma inconfondibile voce di Elizabeth. «Entra,
Wireman, e lascia che veda la tua faccia quando la riconosco ancora.»
9
Mi attardai in corridoio con Annmarie, non sapendo bene che cosa fare.
Mi misi a guardare le suppellettili e il grande Frederick Remington appeso
in fondo: indiani a cavallo. Poi Wireman mi chiamò. Il tono era impaziente
e la voce un po' rotta dal pianto.
La stanza era in penombra, le tende pesanti erano accostate. Sopra di noi
sussurrava un condizionatore. Accanto al suo letto c'era un tavolino con
una lampada. Il paralume era di vetro verde. Il letto era di quelli regolabili
da ospedale, con una parte sollevata, cosicché Elizabeth era quasi seduta.
L'abat-jour creava intorno a lei un alone di luce soffusa che le accarezzava
i capelli sciolti sulle spalle di una vestaglia rosa. Wireman le sedeva accanto e le teneva le mani. Sopra il letto c'era l'unico quadro presente nella
stanza, una raffinata stampa di Undici del mattino, di Edward Hopper, un
archetipo di solitudine alla finestra in paziente attesa di un cambiamento,
qualsiasi cambiamento.
Si sentiva ticchettare un orologio.
Lei mi guardò e sorrise. Vidi tre cose sul suo volto. Mi colpirono una
dopo l'altra come sassi, ciascuno più pesante di quello precedente. La prima fu quanto era dimagrita. La seconda che sembrava terribilmente stanca.
La terza che non le restava molto da vivere.
«Edward», disse.
«No...» cominciai, ma quando lei alzò la mano (al di sopra del gomito la
carne le pendeva in una sacca bianca come neve), mi zittii subito. Perché
c'era una quarta cosa da vedere e fu quella che mi colpì con maggior violenza, non un sasso ma un masso. Stavo guardando me stesso. Ecco quello
che avevano visto gli altri all'indomani del mio incidente, quando cercavo
di rimettere insieme i poveri pezzetti sparsi della mia memoria, tutto quel
tesoro che, quand'era disseminato in tanti nudi e disordinati brandelli,
sembrava solo un cumulo d'immondizia. Pensai a come avessi dimenticato
il nome della mia bambola e intuii che cosa stava per succedere.
«Lo posso fare», disse.
«Lo so», dissi io.
«Hai riportato a casa Wireman dall'ospedale», disse lei.
«Sì.»
«Avevo tanta paura che lo trattenessero. E io sarei stata sola.»
A quelle parole non risposi.
«Sei Edmund?» chiese timidamente.
«Signorina, non si sforzi», intervenne dolcemente Wireman. «Lui è...»
«Zitto, Wireman», gli intimai. «Lo può fare.»
«Tu dipingi», disse Elizabeth.
«Sì.»
«Hai già dipinto la nave?»
Al mio stomaco accadde una cosa curiosa. Non tanto sprofondò, quanto
mi diede la sensazione di scomparire lasciando un vuoto tra il mio cuore e
le viscere. Le ginocchia cercarono di cedermi. Il ferro che avevo nell'anca
si arroventò. La nuca mi si congelò. E una lingua di fuoco formicolante e
caldo mi percorse il braccio che non c'era.
«Sì», risposi. «In continuazione.»
«Tu sei Edgar», dichiarò lei.
«Sì, Elizabeth. Sono Edgar. Brava, cara.»
Sorrise. Chissà da quanto tempo nessuno la chiamava più cara. «La mia
mente è come una tovaglia con dentro un grande buco bruciato.» Si rivolse
a Wireman. «Muy divertido, sí?»
«Lei ha bisogno di riposare», disse lui. «Anzi, ha bisogno di dormir como una piedra.»
Lei gli rispose con un debole sorriso. «Come un sasso. Sì. E credo che
quando mi sveglierò, sarò ancora qui. Per un po'.» Gli prese le mani, se le
portò alle labbra e le baciò. «Ti voglio bene, Wireman.»
«Come io voglio bene a lei, signorina Eastlake», rispose Wireman. Buon
per lui.
«Edgar?... Il nome è Edgar?»
«Lei cosa dice, Elizabeth?»
«Sì, certo che è Edgar. Terrai una mostra? È così che eravamo rimasti
prima del mio ultimo...» Abbassò le palpebre come per mimare il sonno.
«Sì, alla Scoto Gallery. Lei ha veramente bisogno di riposare.»
«Sarà tra poco? La tua mostra?»
«Meno di una settimana.»
«I tuoi dipinti... i dipinti della nave... sono sulla terraferma? In galleria?»
Scambiai un'occhiata con Wireman. Lui alzò le spalle.
«Sì», risposi.
«Bene.» Elizabeth sorrise. «Allora riposo. Tutto il resto può aspettare...
fin dopo che avrai avuto la tua mostra. Il tuo momento al sole. Li vendi? I
dipinti della nave?»
Io e Wireman ci scambiammo un'altra occhiata e il messaggio nei suoi
occhi era più che chiaro: Non metterla in ansia.
«Sono contrassegnati come NIV, Elizabeth. Vuol dire...»
«So cosa vuol dire, Edgar, non sono cascata dall'albero ieri.» Dentro le
loro profonde sacche di rughe, su quel volto che si andava spegnendo, i
suoi occhi mandarono un lampo. «Vendili. Tutti quanti, pochi o molti, devi
venderli. E non importa quanto ci soffri. Spezzali, gettali ai quattro venti.
Mi hai sentito?»
«Sì.»
«Lo farai?»
Non sapevo se lo avrei fatto o no, ma riconobbi dal mio non lontano
passato i sintomi di un'agitazione crescente. «Sì.» A quel punto le avrei
promesso di saltare sulla luna negli stivali delle sette leghe, se fosse servito
a calmarla.
«Anche così potrebbe non bastare», commentò lei con una voce che vibrava di un'emozione molto vicina all'orrore.
«Su, da brava», dissi io accarezzandole la mano. «Smetta di pensarci ora.»
«Va bene. Ne parleremo dopo la tua mostra. Noi tre. Allora sarò più forte... più lucida... e tu, Edgar, potrai prestarmi attenzione. Hai delle figlie?
Mi sembra di ricordare di sì.»
«Sì e restano sulla terraferma con la mamma. Al Ritz. È già tutto organizzato.»
Sorrise, ma gli angoli delle sue labbra si ripiegarono quasi subito verso il
basso. Fu come se le si stesse sciogliendo la bocca. «Abbassami, Wireman.
Sono stata nella palude... quaranta giorni e quaranta notti... così mi sento...
e sono stanca.»
Wireman abbassò la sezione del letto mentre entrava Annmarie con
qualcosa in un bicchiere su un vassoio. Nessuna speranza che Elizabeth lo
bevesse, si era già assopita. Sopra di lei, la fanciulla più sola al mondo sedeva a guardare per sempre dalla finestra, il volto nascosto dalla cascata
dei capelli, nuda eccetto che per un paio di scarpe.
10
Quella sera faticai a prendere sonno. Mi assopii quando era ormai passata la mezzanotte. La marea si era ritirata e le conversazioni sommesse sotto
la casa erano cessate. Questo però non fermò le voci che bisbigliavano nella mia testa.
Un'altra Florida, sussurrava Mary Ire. Quella era un'altra Florida.
Vendili. Tutti quanti. Quella era Elizabeth, naturalmente.
L'Elizabeth adulta. Io però udivo un'altra versione di Elizabeth e poiché
ero stato io a inventare la sua voce, quella che sentivo era la voce di Ilse da
bambina.
C'è un tesoro, papà, diceva questa voce. Puoi prenderlo se ti metti la
maschera e il boccaglio. Io posso mostrarti dove guardare.
Ho fatto un disegno.
11
Fui in piedi all'alba. Pensavo che avrei potuto dormire ancora, ma non
prima di aver preso una delle poche pillole di Oxy-Contin che avevo tenuto da parte e non prima di aver fatto una telefonata. Presi la pillola, poi
chiamai la Scoto e mi rispose la segreteria telefonica: alla galleria non ci
sarebbe stato nessuno in carne e ossa ancora per ore. Nel mondo dell'arte
non c'è gente mattiniera.
Composi l'11 per collegarmi con l'interno di Dario Nannuzzi e, dopo il
segnale acustico, dissi: «Dario, sono Edgar. Ho cambiato idea sulla serie di
Bambina e nave. Ho deciso che li metto in vendita, va bene? L'unica avvertenza è che dovrebbero andare tutti a persone diverse, se possibile. Grazie».
Riattaccai e tornai a letto. Per una manciata di minuti guardai le pale del
ventilatore girare pigramente sul soffitto e ascoltai il bisbiglio delle conchiglie sotto di me. La pillola faceva effetto, ma io non avevo sonno. E sapevo perché.
Sapevo benissimo perché.
Mi alzai di nuovo, schiacciai il tasto di ripetizione della chiamata, ascoltai il messaggio registrato, poi mi collegai di nuovo al numero di Dario. La
sua voce mi invitò a lasciare un messaggio al segnale acustico. «Eccetto il
numero otto», aggiunsi. «Quello no, quello resta NIV.»
E perché era NIV?
Non perché fosse un'opera geniale, anche se così la consideravo io.
Neppure perché quando lo guardavo, per me era come ascoltare la parte
più oscura del mio cuore raccontare la sua storia. Era perché avevo la sensazione che qualcosa mi avesse concesso di vivere solo per dipingerlo e
che venderlo sarebbe stato negare la mia stessa vita e tutto il dolore che
avevo sopportato per pretenderla.
Sì, questo.
«Quello è mio, Dario», finii.
Poi tornai a letto e questa volta dormii.
Come fare un disegno (VII)
Ricordate che «vedere è credere» mette il carro davanti ai buoi. L'arte è
il concreto articolo di fede e aspettativa, la realizzazione di un mondo che
altrimenti sarebbe poco più di un velo di inutile consapevolezza teso su un
golfo di mistero. E poi, se non credete a quel che vedete, chi crederà alla
vostra arte?
Il problema dopo il tesoro era tutto in ciò che si crede. Elizabeth aveva
un talento straordinario, ma era solo una bambina e per i bambini la fede
è un dato di fatto. Rientra nell'equipaggiamento standard. Né i bambini,
anche quelli di talento (specialmente quelli di talento), sono nel pieno possesso delle loro facoltà. La loro ragione dorme ancora e il sonno della ragione genera mostri.
Ecco un quadro che non ho mai dipinto.
Gemelle identiche in vestitini identici, solo che uno è rosso con una L
sul davanti e l'altro è blu con una T. Corrono tenendosi per mano per il
sentiero che porta a Shade Beach. La chiamano così perché per quasi tutta la giornata è nell'ombra di Hag's Rock. I loro faccini pallidi e rotondi
sono rigati dalle lacrime, ma presto non ci saranno più perché ormai sono
troppo terrorizzate per piangere.
Se potete credere questo, potete vedere il resto.
Le sorvola lentamente un corvo gigantesco, rovesciato, ad ali tese. Parla loro con la voce di papà.
Lo-Lo cade e si taglia le ginocchia sulle conchiglie. Tessie l'aiuta a rialzarsi. Riprendono a correre. Non è il corvo parlante che vola rovesciato a
far loro paura, neppure il modo che ha il cielo di passare talvolta dal blu
al rosso del tramonto prima di ridiventare blu; è la cosa dietro di loro.
Quello grosso.
Anche se ha le zanne somiglia un po' a quelle buffe rane che si divertiva
a disegnare Libbit, ma questo è tanto più grande e abbastanza reale da
proiettare un'ombra. Abbastanza reale da puzzare e da far tremare il terreno a ogni balzo. Da quando papà ha trovato il tesoro sono molte le cose
che le hanno impaurite e Libbit dice che di notte non devono uscire dalla
loro stanza e nemmeno guardare dalla loro finestra, ma questo è giorno e
la cosa dietro di loro è troppo reale per non crederci e sta guadagnando
terreno.
Poco dopo è Tessie a cadere ed è Lo-Lo a tirarla su, lanciando uno
sguardo atterrito dietro di sé alla cosa che le insegue. È circondata da un
muro di insetti che talvolta acchiappa al volo con la lingua. Lo-Lo vede
Tessie in un occhio idiota e sporgente. Vede se stessa in quell 'altro.
Sbucano ansanti e sfiatate sulla spiaggia e ora non c'è nessun altro posto dove andare se non nell'acqua. Ma forse no, perché la nave è tornata,
quella che in quelle ultime settimane hanno visto sempre più spesso. Libbit
dice che la nave non è quello che sembra, ma in quel momento è un galleggiante bianco sogno di salvezza e comunque... non c'è scelta. Quello
grosso le ha quasi raggiunte.
È uscito dalla piscina quando avevano appena finito di giocare alle
Nozze di Adie in Rampopo, la casetta ai bordi del prato (oggi è toccato a
Lo-Lo interpretare Adie). Certe volte Libbit riesce a far andar via queste
cose orribili disegnando sul suo album, ma adesso Libbit dorme, ultimamente ha passato molte notti agitate.
Quello grosso salta dal sentiero sulla spiaggia sollevando sabbia tutt'intorno. Gli occhi sporgenti sono fissi sulla preda. Il suo fragile ventre bianco, così pieno di perniciose budella, è gonfio. Gli pulsa la gola.
Le due bambine, con la mano stretta nella mano e i piedi immersi nella
schiuma corrente di quella che papà chiama la piccola risacca, si guardano. Poi guardano la nave, che dondola all'ancora con le vele ripiegate e
lucenti. Sembra ancora più vicina, quasi che si fosse spostata per soccorrerle.
Lo-Lo dice: Dobbiamo.
Tessie dice: Ma io non so NUOTARE!
Sai nuotare a cagnolino!
Quello grosso spicca un salto. Quando atterra sentono lo sciacquio delle sue budella. È il rumore di immondizia umida in un barile di acqua. Il
blu scompare dal cielo e poi il cielo sanguina rosso. Poi, lentamente,
cambia di nuovo al blu. È quel tipo di giorno. E non è forse vero che ave-
vano sempre saputo che quel tipo di giorno sarebbe arrivato? Non lo avevano visto negli occhi spiritati di Libbit? Tata Melda lo sa; persino papà
lo sa, e lui non c'è sempre. Oggi è a Tampa e, quando guardano l'orrore
bianco e verdastro che sta piombando loro addosso, sanno che Tampa potrebbe anche essere sull'altra faccia della luna. Sono sole.
Tessie afferra la spalla di Lo-Lo con le dita fredde. E il risucchio?
Ma Lo-Lo scuote la testa. Il risucchio ci salverà! Il risucchio ci porterà
alla nave!
Non c'è più tempo per parlare. La cosa-batrace si prepara a saltare di
nuovo. E le bambine capiscono che, anche se non può essere reale, a suo
modo lo è. Può ucciderle. Meglio rischiare l'acqua. Si girano, sempre tenendosi per mano, e si gettano nel caldo. Tengono gli occhi fissi sulla linea slanciata e bianca che dondola all'ancora poco distante. Verranno
certamente issate a bordo e qualcuno userà la radio di bordo per chiamare la Roost. «Abbiamo pescato un paio di sirene», diranno. «Nessuno che
le vuole?»
Il flusso di ritorno separa le loro mani. È spietato e Lo-Lo è in effetti la
prima ad annegare perché è quella che lotta con più accanimento. Tessie
la sente gridare due volte. Prima per invocare aiuto. Poi, arrendendosi,
per invocare il nome di sua sorella.
Intanto un capriccio della corrente sta trascinando Tessie direttamente
alla nave e contemporaneamente la sostiene. Per pochi magici momenti
sembra quasi che sia su una tavola da surf e il suo debole annaspare a cagnolino sembra spingerla come un motore fuoribordo. Poi, un istante prima che una corrente più fredda salga ad avvinghiarle le caviglie, vede la
nave cambiare in...
Ecco un quadro che ho dipinto, non una volta ma di nuovo e di nuovo e
di nuovo.
Il bianco dello scafo non è che proprio scompaia, ma viene risucchiato
in dentro come sangue che defluisce dalle guance di un uomo terrorizzato.
Le cime si sfilacciano. Gli ottoni si opacizzano. I vetri delle finestre della
cabina di poppa esplodono. Sulla tolda compare un guazzabuglio di rottami che materializzandosi rotolano da prua a poppa. Solo che ci sono
sempre stati. Tessie non li aveva visti. Ora vede.
Ora crede.
Da sottocoperta emerge una creatura. Si trascina al parapetto da dove
guarda la bambina nell'acqua. È una forma molle in una tunica nera con
il cappuccio. Intorno alla faccia disciolta le dondolano capelli inerti che
potrebbero non essere capelli. Mani gialle afferrano il vecchio legno
scheggiato e imputridito. Poi, una si alza lentamente.
E saluta la bambina che presto sarà SCOMPARSA.
Dice: Vieni da me, bimba.
E, mentre annega, Tessie Eastlake pensa: È una DONNA!
Affonda. E non ha forse la sensazione di mani ancora calde, quelle della
sorella appena morta, che le afferrano le caviglie e la trascinano giù?
Sì, certo. Certo che le sente.
Credere è anche sentire.
Qualunque artista ve lo potrebbe dire.
13
La mostra
1
Un giorno, se vivrete a lungo e i vostri meccanismi pensanti funzioneranno ancora, ricorderete l'ultima cosa bella che vi è capitata. Non è pessimismo, è solo logica. Io spero di non avere esaurito le cose buone - non
ci sarebbe scopo nel vivere se lo credessi - ma certo di tempo ne è passato
molto. Ricordo chiaramente l'ultima. Accadde poco più di quattro anni fa,
la sera del 15 aprile, alla Scoto Gallery. Fu tra le sette e tre quarti e le otto
di sera e in Palm Avenue le ombre cominciavano ad assumere le prime
lievi sfumature di azzurro. So che ora era perché continuavo a guardare l'orologio. La Scoto era già gremita, ai limiti della legalità e probabilmente
un po' oltre, ma i miei non erano arrivati. Avevo visto Pam e Illy qualche
ora prima e Wireman mi aveva assicurato che il volo di Melinda era in orario, ma fino a quel momento di loro non c'era stata traccia. E nemmeno una
telefonata.
Nello spazio alla mia sinistra, dove il bar e otto dei miei Tramonto con
avevano attirato una piccola folla, un trio del locale conservatorio strimpellava una versione funeraria di My Funny Valentine. Mary Ire (con un bicchiere di champagne ma fino a quel momento ancora sobria) si dilungava
su non so quale argomento artistico attentamente ascoltata da un piccolo
gruppo di persone. A destra c'era una sala più grande con il buffet. Lì erano esposti Rose che crescono da conchiglie e un dipinto intitolato Vedo la
luna su una parete; su un'altra tre vedute di Duma Road. Avevo notato alcune persone scattare fotografie con il loro telefonino, sebbene su un trep-
piede appena oltre la soglia un cartello avvisasse che fotografare era verboten.
Ne accennai di passaggio a Jimmy Yoshida, il quale annuì, più perplesso
che contrariato. «Ci sono un gran numero di persone qui che o non appartengono alla scena artistica locale o non riconosco affatto», commentò.
«L'enormità di questa folla trascende la mia esperienza.»
«È un male?»
«Dio, no! Ma dopo aver lottato per anni per restare a galla, fa un effetto
strano cavalcare così la cresta dell'onda.»
Il salone centrale della Scoto era spazioso, il che era un bene per una serata come quella. Nonostante i rinfreschi e la musica nelle sale più piccole,
sembrava che prima o poi la maggioranza dei visitatori gravitasse lì. La serie di Bambina e nave era stata sospesa con fili quasi invisibili al centro
esatto del salone. Sulla parete in fondo c'era Wireman guarda a ovest. Quel
dipinto e Bambina e nave no. 8 erano i soli sui quali avevo fatto applicare
l'etichetta di NIV, nel caso di Wireman perché apparteneva a lui, nel caso
del numero otto perché semplicemente non potevo venderlo.
«La stiamo tenendo in piedi, boss?» mi apostrofò Angel Slobotnik, insensibile come sempre alla gomitata della moglie.
«No», risposi. «Non mi sono mai sentito tanto sveglio in vita mia, solo
che...»
Mi tese la mano un individuo dentro un abito che doveva essere costato
almeno duemila dollari. «Henry Vestick, signor Freemantle, First Sarasota
Bank and Trust. Settore privati. Sono semplicemente meravigliosi. Sono
sbalordito. Sono stordito.»
«Grazie», dissi, pensando che si fosse dimenticato di aggiungere «E non
deve smettere». «Molto gentile.»
Tra le sue dita comparve un biglietto da visita. Fu come vedere un ambulante fare un trucco di magia. O così sarebbe stato, se gli ambulanti indossassero abiti firmati Armani. «Se c'è niente che possa fare... dietro le ho
scritto i miei numeri di telefono, casa, cellulare, ufficio.»
«Molto gentile», ripetei. Non mi veniva in mente altro. Che cosa pensava che avrei fatto, il signor Vestick? Chiamarlo a casa per ringraziarlo
nuovamente? Chiedergli un prestito e offrirgli un dipinto in garanzia?
«Va bene se più tardi le presento mia moglie?» chiese... e io vidi qualcosa nei suoi occhi. Non era lo stesso sguardo di Wireman quando si era reso
conto che avevo messo una croce su Candy Brown, ma ci andava vicino.
Come se Vestick avesse un po' paura di me.
«Naturalmente», risposi e lui si allontanò.
«Una volta lei costruiva filiali di banca per tizi come quello e poi doveva
litigarci quando si rifiutavano di pagare la differenza se i costi avevano
sforato il preventivo», osservò Angel. Indossava un completo blu da grandi
magazzini e sembrava sul punto di esploderne fuori in nove direzioni diverse, come l'Incredibile Hulk. «A quei tempi l'avrebbe considerata solo
un trafficone che cercava di spremerlo un po'. Ora la guarda come se lei
cacasse fibbie d'oro.»
«Angel, per piacere!» esclamò Helen Slobotnik, rifilandogli un'altra gomitata e contemporaneamente cercando di afferrare il suo bicchiere di
champagne. Che lui spostò serenamente fuori della portata di lei.
«Le dica che è la verità, boss!»
«Non lo posso negare», risposi.
E a guardarmi con quegli occhi non c'era solo il bancario. Le donne...
mamma mia. Quando incrociavo lo sguardo con loro coglievo un intenerimento, un'incertezza, come se si domandassero come avrei potuto coccolarle con un braccio solo. Sarà anche un'idea folle, però...
Fui afferrato da tergo, quasi sollevato di peso. Avrei versato lo champagne se Angel non fosse stato lesto ad acchiappare il mio bicchiere. Mi girai
e mi trovai faccia a faccia con Kathi Green che mi sorrideva. Per una sera
almeno si era decisamente spogliata dei panni da fisioterapista della Gestapo: indossava un corto e luccicante vestito verde che aderiva a ogni suo
ben tenuto centimetro e, con i tacchi alti, mi arrivava quasi alla fronte. Di
fianco a lei, imponente, c'era Kamen. I suoi occhi enormi galleggiavano
benevoli dentro la pesante montatura degli occhiali.
«Gesù, Kathi!» proruppi. «Cosa avresti fatto se mi avessi buttato in terra?»
«Te ne avrei fatte fare cinquanta», rispose lei con un sorriso smagliante.
Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Ti avevo avvertito per telefono. Guarda
che abbronzatura, bel ragazzone.» Le lacrime traboccarono e Kathi mi abbracciò.
Io ricambiai, poi strinsi la mano a Kamen. La sua fagocitò completamente la mia.
«Il tuo aereo è quello che ci vuole per far volare persone della mia stazza», commentò e la gente si girò verso di lui. Aveva una di quelle voci
profonde alla James Earl Jones che trasformano nel Libro di Isaia gli avvisi dagli altoparlanti dei supermercati. «Me la sono goduta un mondo, Edgar.»
«Non è proprio mio, ma grazie lo stesso», replicai. «Non è che per caso
qualcuno di voi due ha...»
«Signor Freemantle?»
Era una bella rossa il cui generoso seno lentigginoso era a rischio di scivolare fuori dall'orlo di un fragile vestito rosa. Aveva grandi occhi verdi.
Doveva essere più o meno coetanea di mia figlia Melinda. Prima che potessi aprire bocca, mi prese dolcemente le dita.
«Volevo solo toccare la mano che ha dipinto questi quadri», disse.
«Questi splendidi, inquietanti quadri. Dio, lei è straordinario.» Sollevò la
mia mano e la baciò. Poi se la premette sul seno. Sentii la durezza del capezzolo attraverso il sottile chiffon. Poi scomparve nella folla.
«Succede spesso?» s'informò Kamen e contemporaneamente Kathi domandò: «Allora, Edgar, come te la cavi da divorziato?» Si guardarono per
un istante e scoppiarono a ridere.
Sapevo di che cosa ridevano, dell'«Elvis moment» di Edgar, ma io mi
sentivo fuori posto. Le sale della Scoto cominciarono ad assomigliare un
po' alle camere di una caverna sottomarina e sentii che avrei potuto dipingerle così: grotte sommerse con dei dipinti sulle pareti, dipinti che venivano contemplati da banchi di persone con branchie e pinne mentre il Trio
Nettuno gorgogliava Octopus's Garden.
Troppo fuori posto. Volevo Wireman e Jack, anche loro assenti, ma ancora di più volevo i miei. Illy soprattutto. Se ci fosse stato qualcuno di famiglia, forse tutto sarebbe tornato più simile alla realtà. Lanciai un'occhiata alla porta.
«Se stai cercando Pam e le ragazze, saranno qui tra poco», intervenne
Kamen. «Melinda ha avuto un problema con il vestito ed è risalita a cambiarsi all'ultimo minuto.»
Melinda, pensai. Ovvio che sia stata Mel...
E in quel momento le vidi farsi strada nella folla di curiosi, così sfacciatamente nordiche e fuori luogo in mezzo a tutte quelle abbronzature. A fare
loro da retroguardia, entrambi in abito scuro, c'erano Tom Riley e William
Bozeman III. Si fermarono a guardare tre dei miei primi disegni, che Dario
aveva sistemato in un trittico nell'ingresso. Fu Ilse la prima a vedermi.
«PAPÀ!» esclamò e partì fendendo la folla come un motoscafo con la sorella al seguito. Lin si tirava dietro un giovanotto di alta statura. Pam salutò con la mano e s'incamminò a sua volta venendo verso di me.
Io abbandonai Kamen, Kathi e gli Slobotnik, lasciando ad Angel il mio
bicchiere. Qualcuno cominciò: «Scusi, signor Freemantle, mi domandavo
se potessi chiederle...» Non gli diedi retta. In quel momento vedevo solo
gli occhi gioiosi e il volto lucente di Ilse.
Ci incontrammo davanti al cartello con la scritta LA SCOTO GALLERY PRESENTA «LA VISTA DA DUMA», DIPINTI E DISEGNI DI
EDGAR FREEMANTLE. Notai che indossava un vestito color carta da
zucchero che non le avevo mai visto prima e che, con i capelli raccolti dietro la testa a rivelare un collo che mi parve lungo come quello di un cigno,
sembrava incredibilmente adulta. Ebbi coscienza di un amore per lei che
era immenso, quasi soverchiante, e della gratitudine che traevo dal sapere
che lei provava lo stesso sentimento per me: lo vedevo nei suoi occhi. Poi
ci abbracciammo.
Un istante dopo Melinda ci aveva raggiunti con il suo ragazzo alle spalle
(e sospeso sopra la sua testa come un lampadario, spilungone com'era). Io
non avevo un secondo braccio anche per lei, ma ne aveva lei uno per me;
mi afferrò e mi baciò su uno zigomo. «Bonsoir, papà, congratulazioni!»
Infine davanti a me comparve Pam, la donna che non molto tempo prima
avevo chiamato trota traditrice. Era in giacca e pantaloni blu scuro, camicetta di seta celeste, ornata da un filo di perle. Orecchini ragionevoli. Scarpe eleganti ma con tacchi pratici, non troppo alti. Più Minnesota di così si
moriva. Era evidentemente atterrita da tutta quella gente e dall'ambiente
estraneo, ma aveva lo stesso un sorriso speranzoso sulle labbra. Nel corso
del nostro matrimonio Pam era stata molte cose, ma priva di speranza mai.
«Edgar?» mi chiese con un filo di voce. «Siamo ancora amici?»
«Vorrei ben vedere che non lo fossimo», le risposi. La baciai solo di
sfuggita, ma l'abbracciai con tutta l'intensità possibile per un uomo con un
braccio solo. Ilse mi cingeva da un lato; Melinda si era impossessata
dell'altro e mi stringeva forte abbastanza da farmi male, ma non mi importava. I presenti si lasciarono andare a un applauso spontaneo, ma per me fu
come se giungesse da molto lontano.
«Ti trovo bene», mi bisbigliò all'orecchio Pam. «Anzi, ti trovo ultrabene.
Non so se ti avrei riconosciuto incrociandoti per la strada.»
Io indietreggiai di mezzo passo per guardarla meglio. «Sei in gran forma
anche tu.»
Rise, arrossì, un'estranea con cui una volta passavo le notti. «Il trucco
riesce a nascondere una moltitudine di peccati.»
«Papà, questi è Ric Doussault», disse Melinda.
«Bonsoir e congratulazioni, monsieur Freemantle», mi salutò Ric. Aveva tra le mani una semplice scatola bianca. Me la porse. «Da parte mia e di
Linnie. Un cadeau. Regalo?»
Sapevo che cos'era un cadeau, naturalmente; la vera rivelazione fu il sapore erotico che il suo accento conferiva al diminutivo di mia figlia. Fu
quello più di ogni altra cosa a farmi capire che ora era più sua che mia.
Ebbi l'impressione che la maggior parte delle persone presenti in galleria
mi si raccogliesse intorno per guardarmi aprire il mio regalo. Tom Riley
era quasi arrivato alle spalle di Pam. Accanto a lui c'era Bozie. Da dietro di
loro Margaret Bozeman mi inviò un bacio dal palmo della mano. Di fianco
a lei c'era Todd Jamieson, il medico che mi aveva salvato la vita... due
schiere di zie e zii... la mia ex segretaria Rudy Rudnick... Kamen, ovviamente, impossibile non vederlo... e Kathi al suo fianco. Erano venuti tutti,
tutti salvo Wireman e Jack, e cominciavo a domandarmi se non fossero
stati trattenuti da qualche intoppo. Ma in quel momento era secondario.
Pensai al mio risveglio in un letto d'ospedale, confuso e separato da tutto
eccetto che da un dolore ininterrotto, poi contemplai la scena intorno a me
e mi chiesi come fosse possibile un cambiamento così assoluto. Tutte quelle persone erano tornate per una sera nella mia vita. Non volevo piangere,
ma ero più che certo che non mi sarei trattenuto; sentivo che stavo cominciando a dissolvermi come un fazzoletto di carta in un acquazzone.
«Aprilo, papà!» mi incalzò Ilse. Sentivo il suo profumo, qualcosa di dolce e fresco.
«Regalo! Regalo!» Voci allegre dal branco che ci circondava.
Aprii la scatola. Ne tolsi della carta velina e scoprii quello che mi ero
aspettato... anche se mi ero aspettato qualcosa di scherzoso e invece era
molto serio. Il berretto che Melinda e Ric mi avevano comprato in Francia
era di velluto rosso scuro e liscio come seta al tatto. Non era costato poco.
«È troppo bello», mormorai.
«No, papà», obiettò Melinda. «Non è abbastanza bello. Speriamo che ti
vada bene.»
Lo tolsi dalla scatola e lo tenni in alto. Il pubblico si unì in un oooh di
apprezzamento. Melinda e Ric si scambiarono un'occhiata soddisfatta e
Pam - che era dell'opinione che non avessi tributato a Lin la sua giusta dose di affetto o approvazione (e probabilmente aveva ragione) - mi rivolse
uno sguardo decisamente raggiante. Allora mi misi il basco in testa. Mi
andava alla perfezione. Melinda me lo aggiustò giusto un tantino, si girò
verso il pubblico, girò i palmi verso di me e disse: «Voici mon pére, ce
magnifique artiste!» Altro applauso e grida di Bravo. Ilse mi baciò. Rideva
e piangeva. Ricordo la candida vulnerabilità del suo collo e il contatto del-
le sue labbra, di fianco alle mie labbra.
Io ero la bella del ballo ed ero circondato dalla mia famiglia. C'erano luci e champagne e musica. Accadde quattro anni fa, la sera del 15 aprile, tra
le sette e tre quarti e le otto, mentre in Palm Avenue le ombre cominciavano ad assumere le prime lievi sfumature di azzurro. Questo è un ricordo
che conservo.
2
Guidai la mia famiglia in un giro delle sale, seguito da Tom, Bozie e gli
altri convenuti dal Minnesota. Molti dei presenti visitavano forse una galleria per la prima volta, ma ebbero la gentilezza di farci spazio.
Melinda sostò per un intero minuto davanti a Tramonto con sophora, poi
si girò verso di me con un'espressione che era quasi di accusa. «Papà, se
hai sempre avuto dentro di te questo dono, si può sapere in nome di Dio
perché hai buttato via trent'anni della tua vita a tirar su palazzi per la contea?»
«Melinda!» la riprese Pam, ma il tono era distratto. Guardava verso il
centro della sala, dove era sospesa nel vuoto la serie di Bambina e nave.
«Ma ho ragione o no?» protestò Melinda.
«Non lo sapevo, tesoro.»
«Com'è possibile che avessi dentro di te qualcosa di così grosso senza
che tu lo sapessi?»
Non avevo una risposta, ma mi soccorse Alice Aucoin. «Edgar, Dario
chiede se può fare un salto nell'ufficio di Jimmy per qualche minuto. Io intanto accompagno i suoi parenti nella sala principale e lei può raggiungerci
lì.»
«Va bene... Cosa vogliono?»
«Non si preoccupi, sono tutti sorridenti», rispose lei sorridendo a sua
volta.
«Vai, Edgar», mi esortò Pam. Poi si rivolse ad Alice: «Sono abituata alle
sue convocazioni. Quand'eravamo sposati le sue sparizioni erano il nostro
quotidiano».
«Papà, che cosa vuol dire quel bollino rosso sulla cornice?» volle sapere
Ilse.
«Che il quadro è venduto, cara», le spiegò Alice.
Indugiai mentre compivo il primo passo e... sì, sullo spigolo in alto a destra della cornice di Tramonto con sophora, c'era un bollino rosso. Era una
bella cosa, era un piacere sapere che quella moltitudine non era composta
solo da curiosi attratti dalla novità di un imbrattatele con un braccio solo,
però provai lo stesso una fitta e mi chiesi se fosse normale. Non avevo
modo di stabilirlo. Non conoscevo altri artisti a cui chiederlo.
3
In ufficio trovai Dario e Jimmy Yoshida in compagnia di una persona
che non conoscevo. Dario me la presentò come Jacob Rosenblatt, il commercialista che si preoccupava di tenere in ordine i libri contabili della galleria. Provai un piccolo tuffo al cuore mentre gli stringevo la mano, ruotando la mia perché mi aveva offerto quella sbagliata, come fanno in tanti.
Ah, ma è un mondo di destri.
«Qualche problema, Dario?» domandai.
Dario posò sulla scrivania di Jimmy un secchiello d'argento. Dentro, inclinata in un letto di ghiaccio tritato, c'era una bottiglia di Perrier-Jouët. Lo
champagne che servivano in galleria era di buona qualità, ma non fino a
quel punto. La bottiglia era stata stappata da poco e si vedeva ancora il diafano sospiro del vino uscire dall'imboccatura verde. «Ti sembra un problema?» mi apostrofò lui. «Avrei chiesto ad Alice di far venire qui anche
la tua famiglia, ma questo ufficio è troppo piccolo. Due persone che invece
dovrebbero essere qui in questo momento sono Wireman e Jack Cantori.
Dove diavolo sono finiti? Credevo che venissero insieme.»
«Anch'io. Hai provato a casa di Elizabeth Eastlake? Alla Heron's Roost?»
«Certamente», rispose lui. «Ho trovato solo la segreteria.»
«Nemmeno l'infermiera di Elizabeth? Annmarie?»
Scosse la testa. «Solo la segreteria telefonica.»
Cominciai ad avere visioni del Sarasota Memorial. «Non mi piace.»
«Forse sono per la strada tutti e tre», propose Rosenblatt.
«Lo trovo improbabile. Elizabeth è molto fragile e fa fatica a respirare.
Non usa più nemmeno il deambulatore.»
«Sono sicuro che la situazione si risolverà», disse Jimmy. «Intanto noi
dovremmo brindare.»
«Dobbiamo brindare, Edgar», corresse Dario.
«Grazie, ragazzi, siete molto gentili e io sarei ben felice di bere con voi,
ma fuori c'è la mia famiglia e, se non vi offendete, vorrei continuare il giro
con loro.»
«Comprensibile, ma...» cominciò Jimmy.
«Edgar», lo interruppe Dario in tono pacato, «i quadri stanno andando a
ruba.»
Lo guardai. «Scusa?»
«Pensavamo che non avessi avuto l'occasione di vedere tutti i bollini
rossi», rispose Jimmy. Sorrideva e il suo viso era così colorito che sembrava che stesse arrossendo. «Tutti i dipinti e i disegni in vendita sono stati
venduti.»
«Trenta dipinti e quattordici disegni», dichiarò Jacob Rosenblatt, il
commercialista. «Un record assoluto.»
«Ma...» Non avevo più sensibilità nelle labbra. Guardai Dario che si girava a prendere un vassoio di bicchieri da un ripiano dietro la scrivania. Il
disegno floreale dei calici era lo stesso della bottiglia di Perrier-Jouët. «Ma
per Bambina e nave no. 7 avete chiesto quarantamila dollari!»
Rosenblatt tolse dalla tasca della giacca nera una striscia di carta arrotolata che doveva essere il prodotto di una calcolatrice. «I dipinti hanno raccolto quattrocentottantasettemila dollari. Altri diciannovemila sono arrivati
dai disegni. Il totale supera di poco il mezzo milione. È l'incasso più alto
mai realizzato dalla Scoto dall'esposizione dei lavori di un solo artista. Un
colpo stupefacente. Complimenti.»
«Tutti?» domandai con un filo di voce così sottile che stentai a udirla io
stesso. Guardai Dario che mi metteva in mano un bicchiere di champagne.
Annuì. «Se avesse messo in vendita Bambina e nave no. 8, credo che
quello da solo sarebbe andato per almeno centomila dollari.»
«Il doppio», disse Jimmy.
«A Edgar Freemantle e all'inizio della sua brillante carriera!» proclamò
Rosenblatt alzando il bicchiere. Lo alzammo anche noi e bevemmo, senza
sapere che la mia brillante carriera, per ogni suo aspetto pratico, era alla fine.
Abbiamo vissuto un momento di gloria, muchacho.
4
Mentre passavo in mezzo alla gente per tornare dalla mia famiglia, sorridendo e scambiando convenevoli il più velocemente possibile, mi affiancò Tom Riley. «Boss, sono incredibili», disse, «ma mettono anche un certo
disagio addosso.»
«Immagino che sia un complimento», commentai. La verità è che mette-
va a disagio me parlare con Tom, sapendo che cosa avevo fatto.
«È senz'altro un complimento», confermò lui. «Senti, visto che stai tornando dalla tua famiglia, io vado a farmi un giro.» E si accinse ad allontanarsi, ma io lo afferrai per un braccio.
«Stammi appresso», gli chiesi. «Insieme possiamo respingere tutti gli arrembaggi. Da solo c'è il rischio che non arrivi da Pam e le ragazze prima
delle nove.»
Rise. Il vecchio Tommy era in forma. Dal giorno che l'avevo visto al lago Phalen, aveva messo su qualche chilo, ma avevo letto che è un effetto
non raro degli antidepressivi, specialmente sugli uomini. Su di lui qualche
chilo in più stava bene. Gli erano scomparse le occhiaie.
«Come va, Tom?»
«Be'... per la verità... sono depresso.» Agitò una mano come per respingere una parola di solidarietà che non gli avevo offerto. «È uno squilibrio
chimico e faccio fatica ad abituarmi alle pillole. All'inizio ti rimbambiscono... in ogni caso hanno rimbambito me. Per un po' avevo smesso, ma adesso ho ripreso e va molto meglio. O sono le false endorfine a darmi la
carica o è l'effetto della primavera nel Minnesota, la terra da un milione di
laghi.»
«E la Freemantle Company?»
«Il bilancio è in attivo, ma senza di te è tutta un'altra cosa. Sono venuto
giù con una mezza idea di convincerti a tornare. Poi ho dato un'occhiata a
quello che stai facendo e mi sono reso conto che i tuoi giorni nell'edilizia
sono probabilmente chiusi per sempre.»
«Già, lo penso anch'io.»
Indicò le tele del salone principale. «Ma cosa sono, di preciso? Sul serio.
Perché, e guarda che non sono disposto a confessarlo a molte persone, mi
ricordano com'era la vita dentro la mia testa quando non prendevo le mie
pillole.»
«Sono solo scene immaginarie», spiegai. «Ombre.»
«Le ombre sono una cosa che conosco», ribatté lui. «Bisogna solo stare
attenti a che non gli crescano i denti. Perché succede. Poi, un giorno o l'altro, quando fai per accendere la luce per farle scomparire, scopri che la luce non c'è.»
«Ma ora stai meglio.»
«Sì», affermò. «Molto lo devo a Pam. Posso dirti una cosa di lei che
probabilmente sai già?»
«Parla», lo esortai sperando che non volesse condividere con me il fatto
che alle volte rideva nel profondo della gola mentre veniva.
«Ha un grande intuito ma poca delicatezza», disse. «È una combinazione
crudele.»
Io tacqui... ma non necessariamente perché pensassi che si sbagliava.
«Non molto tempo fa mi ha tirato su di peso sulla necessità che mi prendessi cura di me stesso e ha fatto centro.»
«Ah sì?»
«Sì. E da come la vedo io, è possibile che abbia in serbo una chiacchierata anche per te, Edgar. E adesso mi sa che vado a caccia del tuo amico
Kamen e mi faccio uno scambio di vedute con lui. Ci si vede.»
Con le ragazze c'era Ric; osservavano Wireman guarda a ovest discutendo animatamente. Pam invece era a metà della fila dei dipinti di Bambina e nave, sospesi come locandine cinematografiche, e sembrava turbata.
Contrariata no, ma profondamente perplessa sì. Confusa. Mi fece cenno di
raggiungerla e, quando le fui vicino, non perse tempo.
«La bambina che c'è in questi quadri è Ilse?» Indicò il numero uno.
«All'inizio ho pensato che questa con i capelli rossi dovesse essere la bambola che ti ha regalato il dottor Kamen dopo l'incidente, ma Ilse aveva un
vestitino come questo, con le griglie del gioco del filetto, quand'era piccola. Gliel'avevo comprato io da Rompers. E questo...» Ora indicò il numero
tre. «Questo sono sicura che sia il vestito che aveva voluto che le comprassi assolutamente quando cominciò ad andare a scuola. Lo stesso che indossava quando si ruppe il braccio quella sera dopo la gara di stock car!»
Bene, allora. Io ricordavo l'incidente al braccio quando eravamo tornati a
casa dalla chiesa, ma questo era solo un minimo incespicamento nel gran
ballo della memoria. C'erano questioni più importanti. Una era che Pam si
trovava in una posizione privilegiata da cui vedere attraverso il gioco di
fumo e specchi che ai critici piace chiamare arte: lo era almeno nel mio caso. Da quel punto di vista e probabilmente anche da molti altri era ancora
mia moglie. Evidentemente, alla fine, solo il tempo può emettere un verdetto di divorzio. Un verdetto che anche nel migliore dei casi può essere
solo parziale.
La girai verso di me. Ci stavano guardando un gran numero di persone e
immagino che a loro il mio sembrasse un abbraccio. E in un certo senso lo
era. Scorsi per un istante i suoi occhi sgranati e sorpresi, poi cominciai a
parlarle all'orecchio.
«Sì, la bambina sulla barca è Ilse. Non ho mai avuto intenzione che fosse lei, perché non ho mai avuto intenzione di niente. Non sapevo nemmeno
che avrei dipinto questi quadri prima di aver cominciato. E siccome è girata dall'altra parte, nessuno lo saprà se non saremo tu o io a dirlo. E io non
lo dirò. Ma...» Mi ritrassi. Lei aveva ancora gli occhi sgranati e le labbra
socchiuse come per ricevere un bacio. «Che cosa ha detto Ilse?»
«Una cosa stranissima.» Mi prese per la manica e mi portò all'altezza
della settima e ottava tela della serie. In entrambi i quadri la bambina sulla
barca a remi indossava il vestito verde con le spalline che le si incrociavano sulla schiena nuda. «Ha detto che evidentemente le leggi nel pensiero,
perché proprio questa primavera ha ordinato un vestito come quello al Newport News.»
Osservò di nuovo i quadri. Io restai in silenzio e la lasciai fare.
«Non mi piacciono questi, Edgar. Non sono come gli altri e non mi
piacciono.»
Pensai a Tom Riley che diceva: Ha un grande intuito ma poca delicatezza.
Pam abbassò la voce. «Non è che sai di Illy qualcosa che non dovresti?
Come sapevi di...»
«No», risposi, ma ora la serie di Bambina e nave mi trasmetteva un'irrequietudine maggiore. In parte era vedere i quadri appesi tutti in fila, la
stranezza delle immagini in quella concentrazione era come un pugno.
Vendili. Tale era l'opinione di Elizabeth. Tutti quanti, pochi o molti, devi
venderli.
E capivo perché lo pensasse. Non mi andava di vedere mia figlia, nemmeno nelle forme della bambina che da tempo non era più, a così breve distanza da quel putrescente guscio galleggiante. E in un certo senso mi sorprendeva che Pam non provasse che perplessità e disagio. Ma naturalmente i dipinti non avevano ancora avuto la possibilità di penetrarle nell'animo.
E non erano più a Duma Key.
Arrivarono i giovani, Ric e Melinda tenendosi abbracciati. «Papà, sei
geniale!» decretò Melinda. «Lo pensa anche Ric, non è vero, Ric?»
«Per la verità sì», rispose lui. «Ero venuto preparandomi a essere... cortese. Invece non riesco a trovare le parole per esprimere il mio stupore.»
«Molto gentile», dissi. «Merci.»
«Sono fiera di te, papà», disse Illy e mi abbracciò.
Pam alzò gli occhi al soffitto e in quell'istante avrei potuto allegramente
mollargliene uno. Invece presi Ilse nel braccio e le baciai i capelli. In quel
preciso momento si levò da poco distante il grido arrochito dalle sigarette
di Mary Ire, colmo di puro sbalordimento. «Libby Eastlake! Non riesco a
credere ai miei occhi, che Dio m'assista!»
Io era alle orecchie che non credevo, ma quando dalla zona dell'ingresso,
dove gli aficionados autentici si erano raggruppati a chiacchierare prendendo un po' di aria fresca della sera, scaturì un applauso spontaneo, compresi perché Jack e Wireman avessero tardato tanto.
5
«Cosa?» volle sapere Pam. «Cosa?» Io spinsi delicatamente Illy e la mia
ex verso la porta; Linnie e Ric ci si accodarono. L'applauso s'intensificò. In
molti si girarono verso l'ingresso allungando il collo per cercare di vedere
qualcosa. «Chi è, Edgar?»
«Sono i miei migliori amici dell'isola.» Poi, rivolgendomi a Ilse: «C'è
anche la signora che abita più giù, ricordi? Si è scoperto che è la Figlia del
Padrino e non la Sposa. Si chiama Elizabeth Eastlake ed è una persona deliziosa».
Gli occhi di Ilse brillarono di eccitazione. «La nonna con gli scarponi
blu!»
I visitatori, molti dei quali stavano ancora battendo le mani, si spostarono per lasciarci passare e io li vidi nell'ingresso, dove erano stati allestiti
due tavoli per il punch. Cominciarono a bruciarmi gli occhi e mi salì un
groppo in gola. Jack indossava un completo grigio scuro. Con la zazzera
da surfer sempre ribelle così domata, faceva pensare o a un giovane dirigente della Bank of America o a un liceale dell'ultimo anno particolarmente alto che si è messo in tiro per la Giornata delle Carriere. Wireman, che
spingeva la sedia di Elizabeth, indossava un paio di jeans scoloriti senza
cintura e una camicia di lino bianca a girocollo che metteva in risalto la
sua bella abbronzatura. Si era ravviato i capelli all'indietro e mi accorsi per
la prima volta che aveva lo stesso fascino di Harrison Ford quarantenne.
Ma era Elizabeth a rubare la scena, Elizabeth ad accendere l'entusiasmo
generale spingendo ad applaudire anche quelli che non avevano idea di chi
fosse. Era in completo nero, giacca e pantaloni di cotone ruvido, indumenti
ampi ma eleganti. Aveva raccolto i capelli in una retina sottile i cui fili
scintillavano come diamanti sotto le plafoniere della galleria. Al collo aveva un pendaglio d'avorio lavorato a mano su una catenella d'oro e ai piedi
non portava le enormi scarpe blu da Frankenstein, ma un elegante paio di
scarpe da sera di un rosso plumbeo. Tra le dita contratte della mano sinistra stringeva un bocchino dorato in cui era inserita una sigaretta spenta.
Guardò a destra e a sinistra sorridendo. Quando Mary le si avvicinò, Wireman smise di spingere la sua sedia dando tempo alla giornalista di baciare Elizabeth su una guancia e bisbigliarle qualcosa all'orecchio. Elizabeth
ascoltò, annuì, poi le rispose qualcosa sottovoce. Mary lanciò una rauca risata, poi le accarezzò un braccio.
Qualcuno mi si strusciò addosso sorpassandomi. Era Jacob Rosenblatt, il
commercialista, con gli occhi umidi e il naso arrossato. Dietro di lui c'erano Dario e Jimmy. Rosenblatt si accosciò davanti alla sedia a rotelle e le
sue ginocchia schioccarono come pistolettate di uno starter. «Signorina
Eastlake!» proruppe. «Oh, signorina Eastlake, da quanto tempo... e ora...
oh, che sorpresa meravigliosa!»
«E tu, Jake», ribatté lei portandosi al seno la sua testa calva. Messa lì,
sembrava un uovo molto grosso. «Bello come Bogart!» Mi vide... e mi fece l'occhiolino. Io ricambiai, ma mi era difficile conservare l'espressione
lieta. Nonostante il sorriso la vedevo provata, spaventosamente stanca.
Alzai gli occhi in quelli di Wireman, che levò impercettibilmente le
spalle. Ha tanto insistito, mi stava comunicando. Io girai gli occhi su Jack
ed ebbi da lui pressoché la stessa risposta.
Frattanto Rosenblatt aveva cominciato a rovistarsi nelle tasche. Trovò
finalmente una bustina di fiammiferi così sgualcita che sembrava entrata
negli Stati Uniti senza passaporto a Ellis Island. L'aprì e ne strappò uno.
«Credevo che ora fosse proibito fumare in tutti questi locali pubblici»,
commentò Elizabeth.
Rosenblatt si strinse nelle spalle. Il rossore gli si arrampicò per il collo.
Quasi temetti che gli scoppiasse la testa. «'Fanculo i divieti, signorina Eastlake!» esclamò finalmente.
«BRAVISSIMO!» gridò Mary ridendo e proiettando le mani verso il soffitto, gesto con il quale innescò un'altra ovazione. Un applauso ancor più
assordante incorniciò il momento in cui Rosenblatt riuscì finalmente ad
accendere il vecchio fiammifero e a porgerlo a Elizabeth, che si portò il
bocchino alle labbra.
«Chi è in realtà, papà?» mi domandò sottovoce Ilse. «A parte la nonnina
che abita nella villa vicino a casa tua?»
«Le cronache raccontano», risposi, «che un tempo sia stata lei stessa la
scena artistica di Sarasota.»
«Non capisco perché mai questo le darebbe il diritto di insudiciare i nostri polmoni con la sua sigaretta», brontolò Linnie. Tra le sue sopracciglia
era riapparso il solco verticale.
Ric sorrise. «Oh, chérie, una sigaretta dopo tutti i bar dove...»
«Qui non è lì», protestò lei e il solco diventò più profondo e io pensai:
Ric, sarai anche francese, ma hai ancora molto da imparare su questa particolare donna americana.
Alice Aucoin sussurrò qualcosa a Dario, che si tolse di tasca una scatolina di Altoid. Si rovesciò le mentine nel palmo della mano e diede la scatoletta ad Alice. Alice la passò a Elizabeth, che la ringraziò e la usò come
posacenere.
Pam, che per un po' aveva osservato affascinata lo svolgersi della scena,
si girò verso di me. «Cosa pensa lei dei tuoi quadri?»
«Non lo so», risposi. «Non li ha visti.»
Elizabeth mi stava chiamando con la mano. «Vuoi presentarmi alla tua
famiglia, Edgar?»
Lo feci, cominciando da Pam e finendo con Ric. Anche Jack e Wireman
scambiarono una stretta di mano con Pam e le ragazze.
«Dopo tutte le telefonate, sono felice di conoscerti di persona», disse
Wireman a Pam.
«Altrettanto», rispose Pam osservandolo con occhio critico. Le piacque
evidentemente quello che vedeva, perché sorrise e fu un sorriso di quelli
veri, di quelli che le illuminavano tutto il viso. «Ce l'abbiamo fatta, vero?
Lui non ce l'ha resa facile, ma noi ce l'abbiamo fatta.»
«L'arte non è mai facile, ragazza mia», commentò Elizabeth.
Pam abbassò lo sguardo su di lei, sempre con quel suo sorriso vero,
quello di cui mi ero innamorato. «Ha idea da quanto tempo nessuno mi
chiamava più ragazza?»
«Ah, ma per me sei molto giovane e bella», ribatté Elizabeth... ed era
quella la stessa donna che solo una settimana prima borbottava fra sé e sé
accasciata sulla sua sedia a rotelle come un pezzo di stracchino? A vederla
così, era difficile crederlo. Per quanto stanca avesse la faccia, era impossibile crederlo. «Ma non tanto giovane e bella quanto le tue figlie. Figliole,
vostro padre è, da ogni punto di vista, un uomo di grande talento.»
«Siamo molto orgogliose di lui», dichiarò Melinda tormentando la collana.
Elizabeth le sorrise e si rivolse a me. «Mi piacerebbe vedere il lavoro e
giudicare da sola. Vuoi accontentarmi, Edgar?»
«Ne sarò felice.» Ero sincero, ma ero anche dannatamente nervoso. In
cuor mio avevo paura della sua opinione. Avevo paura che potesse scuotere la testa ed emettere il suo verdetto con l'impietosa franchezza a cui l'età
le dava diritto: Superficiale... colorito... certamente molta energia... ma
forse non un granché. Alla fine.
Wireman stava per afferrare i manici della carrozzella, ma lei scosse la
testa. «No, Wireman, lascia che mi spinga Edgar. Mi faccia lui da guida.»
Sfilò la sigaretta fumata a metà dal bocchino manovrando con sorprendente destrezza quelle dita deformi e la schiacciò sul fondo della scatoletta. «E
quella fanciulla ha ragione, credo che ne abbiamo avuto tutti abbastanza di
questo tanfo.»
Melinda ebbe la grazia di arrossire. Elizabeth porse la scatoletta a Rosenblatt, che la prese con un sorriso e un cenno affermativo del capo. Mi
chiedo fin da allora - so che è morboso, però è così, me lo chiedo - se ne
avrebbe fumato di più sapendo che sarebbe stata la sua ultima.
6
Anche coloro per cui la figlia superstite di John Eastlake era solo un'emerita sconosciuta capivano che era entrata in scena una Personalità e la
marea che si era mossa verso l'ingresso all'esuberante richiamo di Mary Ire, ora che cominciai a spingere la sedia verso la saletta in cui erano stati
esposti quasi tutti i tramonti, subito defluì in senso inverso. Wireman e
Pam camminavano alla mia sinistra; a destra c'erano Jack e Ilse, la quale
dava di tanto in tanto un colpetto al manico dalla sua parte per evitare che
sbandasse. Melinda e Ric erano dietro di noi; Kamen, Tom Riley e Bozie
dietro di loro. In coda mi sembrava che si fossero messi tutti gli altri presenti in galleria.
Temevo di non riuscire a passare tra il bar provvisorio e la parete, ma lo
spazio c'era, sebbene appena sufficiente. Cominciai a spingere, contento
che ci fossimo lasciati alle spalle almeno il grosso del seguito, quando Elizabeth esclamò: «Ferma!»
Ubbidii all'istante. «Tutto bene, Elizabeth?»
«Un momento, caro... silenzio.»
Sostammo lì a guardare i dipinti. Dopo un po' trasse un sospiro. «Wireman, non avresti un fazzoletto di carta?» chiese.
Ne aveva uno di cotone, che le porse dopo averlo dispiegato.
«Mettiti qui davanti, Edgar», mi invitò. «Dove possa vederti.»
Riuscii a passare tra la carrozzella e il bar, mentre il barista reggeva il
piano del suo tavolo provvisorio per evitare che lo rovesciassi.
«Sei in grado di abbassarti così ci guardiamo faccia a faccia?»
Ero in grado. Le mie Grandi Camminate in Spiaggia pagavano i dividendi. Elizabeth stringeva in una mano il bocchino, quell'oggetto insieme
così sciocco e a suo modo magnifico, e nell'altra il fazzoletto di Wireman.
Aveva gli occhi umidi.
«Tu mi leggevi le poesie perché Wireman non poteva. Ricordi?»
«Sì, signora.» Certo che ricordavo. Erano stati dolci interludi.
«Se io ti dicessi 'Parla, memoria', tu penseresti all'uomo... non ricordo
come si chiama, quello che ha scritto Lolita. Non è vero?»
Non sapevo di che cosa stesse parlando, ma annuii.
«C'è una poesia. Non ricordo chi l'ha scritta, ma comincia dicendo: 'Parla, memoria, che io non abbia a scordare il sapore delle rose o il rumore
delle polveri nel vento; Che io possa assaporare una volta ancora la coppa
verde del mare'. Ti commuove? Sì, vedo di sì.»
La mano con il bocchino si aprì. Poi si alzò e mi accarezzò i capelli. Mi
venne da riflettere (una considerazione che da allora è diventata ricorrente)
che l'intera mia lotta per vivere e riconquistare una sembianza di me stesso
possa essere stata ripagata da nient'altro che il tocco della mano di quella
vecchia. La liscezza irruvidita di quel palmo. La forza piegata di quelle dita.
«L'arte è memoria, Edgar. Non c'è modo più semplice di dirlo. Più è
limpida la memoria, migliore è l'arte. Più pura. Questi quadri... mi spezzano il cuore e poi me lo restituiscono rinnovato. Non sai quanto felice sono
che siano nati a Salmon Point. Comunque sia.» Levò la mano con cui mi
aveva accarezzato la testa. «Dimmi come hai intitolato quello.»
«Tramonto con sophora.»
«E questi sono... cosa? Tramonto con conchiglia dai numeri uno al quattro?»
Sorrisi. «Be', ce n'erano sedici, per la precisione, cominciando dai disegni a matita. Alcuni sono nell'ingresso. Per questa sezione ho scelto gli olii
migliori. Sono surreali, lo so, ma...»
«Non sono surreali, sono classici. Lo vedrebbe anche uno stolto. Contengono tutti gli elementi: terra... aria... acqua... fuoco.»
Lessi il muto labiale di Wireman: Non stancarla!
«Perché non facciamo un rapido giro di tutto il resto e poi le do da bere
qualcosa di fresco?» le proposi e allora Wireman mosse su e giù la testa in
segno di approvazione e unì pollice con indice. «Fa caldo qui dentro anche
con l'aria condizionata.»
«Bene», rispose lei. «In effetti sono un po' stanca. Però... Edgar?»
«Sì?»
«Tienimi per ultimi i quadri della nave. Dopo aver visto quelli avrò bisogno di qualcosa da bere. Magari in ufficio. Pochi sorsi, ma qualcosa di
più consistente di una Coca-Cola.»
«Intesi», dissi e tornai a prendere posizione dietro la sedia.
«Dieci minuti», mi sussurrò all'orecchio Wireman. «Non di più. Voglio
portarla via da qui prima che arrivi Gene Hadlock, se possibile. Se la trova
qui, mi spara fuori un mattone dal culo. E sai in testa a chi lo dà.»
«Dieci», promisi e condussi Elizabeth nella sala del buffet a guardare i
quadri esposti in quella sezione. La folla continuava a seguirci. Mary Ire
aveva cominciato a prendere appunti. Ilse mi prese a braccetto e mi sorrise.
Io sorrisi a lei, ma ero stato catturato di nuovo dalla sensazione di trovarmi
in un sogno. Di quelli che da un momento all'altro possono precipitarti in
un incubo.
Elizabeth ebbe esclamazioni per Vedo la luna e per la serie di Duma
Road, ma fu il modo in cui allungò le mani verso Rose che crescono da
conchiglie, come per abbracciarlo, a farmi venire la pelle d'oca. Riabbassò
le braccia e girò la testa verso di me. «Ne hai colto l'essenza», commentò.
«L'essenza di Duma. Perché quelli che ci sono vissuti per un po' non possono andarsene veramente mai più. Anche se la loro testa porta via i loro
corpi, i cuori restano.» Guardò di nuovo il quadro e annuì. «Rose che crescono da conchiglie. Molto giusto.»
«Grazie, Elizabeth.»
«No, Edgar, sono io che ringrazio te.»
Io lanciai un'occhiata a Wireman e lo vidi parlare con l'avvocato appartenuto alla mia altra vita. Sembrava se la intendessero alla grande. Speravo
solo che a Wireman non scappasse di chiamarlo Bozie. Poi tornai a occuparmi di Elizabeth. Stava ancora guardando Rose che crescono da conchiglie mentre si asciugava gli occhi.
«Bellissimo questo», disse, «ma dobbiamo proseguire.»
Dopo che ebbe visto gli altri quadri e disegni esposti nella sala del
buffet, quasi parlando tra sé mormorò: «Naturalmente sapevo che qualcuno sarebbe arrivato. Ma mai avrei immaginato che potesse essere una persona capace di produrre opere di tale intensità e dolcezza».
Jack mi toccò la spalla, poi allungò il collo per parlarmi all'orecchio. «È
arrivato il dottor Hadlock. Wireman desidera che allunghi il passo, se ti è
possibile.»
La sala principale, dov'erano appesi i dipinti di Bambina e nave, era sul-
la via dell'ufficio e, dopo essersi fatta il suo cicchetto, Elizabeth avrebbe
potuto dileguarsi uscendo dalla porta sul retro; sarebbe stato anche più
comodo per la sua sedia a rotelle. Hadlock avrebbe potuto accompagnarla,
se lo desiderava. Ma io avevo il terrore di spingerla davanti alla serie di
quei quadri, e non era più la sua opinione a preoccuparmi.
«Vieni», mi invitò facendo tintinnare l'ametista del suo anello sul bracciolo. «Andiamo a vedere gli altri. Non perdiamo tempo.»
«Subito», risposi cominciando a spingerla verso il salone.
«Stai bene, Eddie?» mi domandò sottovoce Pam.
«Sì.»
«Non è vero. Cosa c'è che non va?»
Mi limitai a scuotere la testa. Ora eravamo nella sala grande. I quadri erano sospesi a un'altezza di un paio di metri al centro di uno spazio vuoto.
Le pareti, rivestite di un tessuto grezzo e marrone che sembrava tela da
sacco, non avevano quadri esposti eccetto Wireman guarda a ovest. Spinsi
lentamente la sedia di Elizabeth. Le ruote girarono senza rumore sulla moquette celeste. Il brusio della folla dietro di noi o era cessato o era stato escluso dalle mie orecchie. Ebbi l'impressione di vedere i miei quadri per la
prima volta e mi parve di trovarmi di fronte a fotogrammi tratti da una pellicola cinematografica. Ciascuna immagine era un po' più chiara e un po'
più a fuoco, ma sempre fondamentalmente la stessa, sempre la nave che
avevo visto per la prima volta in un sogno. Era sempre il tramonto e la luce
che colmava l'occidente era sempre una titanica incudine rossa che spargeva sangue sull'acqua e infettava il cielo. La nave era un cadavere a tre alberi, una cosa giunta da una fossa comune di morti appestati. Le sue vele erano stracci. La sua tolda era deserta. In ogni sua riga si annidava qualcosa
di orribile e, sebbene fosse impossibile capire cosa fosse, si temeva per la
sorte della bambina tutta sola sulla sua barchetta, la bambina che compariva la prima volta in un vestitino con le griglie del gioco del filetto, una
bambina che galleggiava sulle acque rosso vino del Golfo.
In quella prima versione l'angolazione della nave mortuaria non permetteva di vedere niente del nome. In Bambina e nave no. 2 l'angolazione era
leggermente migliore ma la bambina (sempre con i finti capelli rossi e ora
anche con il vestitino a pois di Reba) lasciava scorgere solo la lettera P.
Nella numero tre la P era diventata PER e Reba, anche vista da tergo, si era
chiaramente trasformata in Ilse. Nella barca c'era anche la pistola subacquea di John Eastlake.
Elizabeth non diede segno di essersene accorta. La spinsi adagio lungo
la fila dei quadri esposti, in cui la nave incombeva sempre più grande e più
vicina, con gli alberi neri che torreggiavano come dita, le vele che pendevano come pelle morta. La fornace del cielo brillava attraverso gli strappi
nelle tele. Ora il nome sulla fiancata a prua era PERSE. Forse c'era qualcosa ancora, lo spazio non mancava, ma in tal caso restava nascosto dalle
ombre. In Bambina e nave no. 6 (ora la nave giganteggiava sopra la barchetta), la bambina indossava una canottiera blu con la scollatura bordata
di giallo. Lì i suoi capelli erano quasi arancione; era l'unica Bambina in
Barca della cui identità non ero certo. Forse era Ilse, visto che lo erano le
altre... ma non ne ero convinto del tutto. In quel quadro in superficie erano
cominciati a spuntare i primi petali di rosa (più un'isolata palla da tennis
giallo-verde su cui erano visibili le lettere DUNL) mentre sulla tolda della
nave erano ammonticchiati oggetti disparati: uno specchio alto (che, riflettendo il tramonto, sembrava traboccare di sangue), un cavallo a dondolo,
un baule, un cumulo di scarpe. Gli stessi oggetti ricomparivano nel numero
sette e numero otto, dove venivano affiancati da elementi nuovi: una bicicletta da bambina appoggiata all'albero di trinchetto, dei copertoni accatastati a poppa, una grande clessidra al centro. Quest'ultima rifletteva il sole
e sembrava fosse piena di sangue invece che sabbia. In Bambina e nave no.
8 c'erano un maggior numero di petali di rosa a galleggiare tra la barca e la
Perse. Erano aumentate anche le palline da tennis, almeno sei. E intorno al
collo del cavallo a dondolo ora c'era una corona di fiori marci. Quasi sentivo nell'aria immobile il fetore che emanavano.
«Dio mio», mormorò Elizabeth. «È cresciuta così forte.» Il poco colore
che aveva sul viso era completamente scomparso. Non dimostrava più ottantacinque anni, ne dimostrava duecento.
Chi? cercai di chiedere, ma dalla bocca non mi uscì niente.
«Signora... signorina Eastlake... non dovrebbe sforzarsi troppo», disse
Pam.
Mi schiarii la gola. «Puoi prenderle un bicchiere d'acqua?»
«Vado io, papà», si offrì Illy.
Elizabeth guardava ancora Bambina e nave no. 8. «Quanti di quei... di
quei souvenir... riconosci?» domandò.
«Io non... la mia immaginazione...» Chiusi la bocca. La bambina sulla
barchetta del numero otto non era un souvenir, ma era senz'altro Ilse. Il vestito verde, con la schiena nuda e le spalline che si incrociavano, era un elemento stridente, troppo sexy per una bambina, ma ora sapevo perché: era
il vestito che Ilse aveva comprato di recente per posta scegliendolo da un
catalogo e Ilse non era più una bambina. Le palline da tennis invece continuavano a essere un mistero, lo specchio non aveva alcun significato, né
mi era comprensibile la catasta di copertoni. E non avevo modo di pensare
che la bicicletta appoggiata al trinchetto fosse quella di Tina Garibaldi, ma
lo temevo... e il mio cuore ne era certo.
La mano di Elizabeth, orribilmente fredda, mi si posò sul polso. «Qui
non c'è nessun rullino.»
«Non capisco che cosa...»
La sua stretta aumentò. «Sì che capisci. Sai benissimo che cosa intendo.
Hai venduto tutto, Edgar, credi che sia cieca? Un rullino sulla cornice di
tutti i quadri che abbiamo visto, compreso il numero sei, quello con mia
sorella Adie sulla barca... ma qui non c'è!»
Mi girai a guardare il numero sei, quello dove la bambina aveva i capelli
arancione. «Quella è sua sorella?»
Non mi diede retta, credo che non mi avesse nemmeno udito. Tutta la
sua attenzione era rivolta a Bambina e nave no. 8. «Che cosa intendi farne?
Riportarlo a casa? Hai intenzione di riportarlo a Duma?» La sua voce vibrò alta nel silenzio della galleria.
«Signora... signorina Eastlake... davvero non dovrebbe agitarsi in questo
modo», intervenne Pam.
Gli occhi di Elizabeth lampeggiarono dall'ovale cadente del volto. Le
sue unghie penetrarono nella carne magra del mio polso. «Per farne cosa?
Metterlo di fianco a un altro che hai già cominciato?»
«Non ne ho cominciato un altro...» O sì? La memoria si era messa di
nuovo a giocare con me, come spesso accadeva nei momenti di stress. Se
in quel momento qualcuno mi avesse chiesto come si chiamava il ragazzo
francese di mia figlia maggiore, probabilmente avrei risposto René. Come
Magritte. Il sogno si era ribaltato, come previsto; ora cominciava l'incubo,
in orario perfetto.
«Quello dove la barca è vuota?»
Prima che potessi ribattere qualcosa, dalla folla sbucò a passi di marcia
Gene Hadlock, seguito da Wireman, seguito da Ilse con il bicchiere d'acqua.
«Elizabeth, dobbiamo andare», annunciò Hadlock.
Allungò la mano verso il suo braccio. Elizabeth gliela ricacciò indietro.
Nel completare il gesto urtò il bicchiere che Ilse stava cominciando a porgerle, facendolo volare contro una delle pareti spoglie dove andò in mille
pezzi. Qualcuno gridò e una donna, incredibilmente, rise.
«Vedi il cavallo a dondolo, Edgar?» Allungò la mano. Tremava a più
non posso. Aveva le unghie laccate color corallo, probabilmente da Annmarie. «Quello era delle mie sorelle, Tessie e Laura. Lo adoravano. Se lo
tiravano dietro dappertutto. Era davanti a Rampopo, la casetta di fianco al
prato, dopo che sono annegate. Mio padre non sopportava di vederlo. Alla
cerimonia funebre lo fece gettare nell'acqua. Con la corona di fiori. Quella
che ha al collo.»
Silenzio assoluto intorno al raspare del suo respiro. Mary Ire ascoltava
immobile, con tanto d'occhi, sospesa la sua ossessiva registrazione stenografica, il taccuino abbandonato nella mano ricaduta lungo il fianco. L'altra
mano, se l'era portata alla bocca. A quel punto Wireman indicò una porta
astutamente celata nel rivestimento di tessuto. Hadlock annuì. E all'improvviso si materializzò Jack e fu lui ad assumere il comando. «La porto
fuori in un lampo, Miz Eastlake», disse. «Nessun problema.» Afferrò i
manici della sua sedia.
«Guarda la scia della nave!» mi gridò Elizabeth mentre veniva sottratta
per l'ultima volta alla vista del pubblico. «Per l'amor del cielo, ma non vedi cos'hai dipinto?»
Guardai. Altrettanto fece la mia famiglia.
«Non c'è niente lì», osservò Melinda. Lanciò uno sguardo scettico in direzione della porta dell'ufficio che si stava chiudendo in quel momento alle
spalle di Jack ed Elizabeth. «È un po' suonata o cosa?»
Illy si era alzata sulla punta dei piedi e allungava il collo per guardare
meglio. «Papà», disse titubante, «quelle sono facce? Facce nell'acqua?»
«No», risposi sorpreso nell'udire la calma della mia voce. «Tutto quello
che vedi è solo un'idea che ti ha messo in testa lei. Ora volete scusarmi per
un minuto?»
«Ma certo», disse Pam.
«Posso essere d'aiuto, Edgar?» si offrì Kamen nel suo basso stentoreo.
Sorrisi. Anche quello mi sorprese, la facilità del mio sorriso. Lo choc ha
le sue strategie, a quanto pare. «No, grazie. C'è il suo dottore con lei.»
Allungai il passo verso la porta dell'ufficio resistendo al desiderio di voltarmi ancora una volta. Melinda non aveva visto; Ilse sì. La mia opinione
era che non molte persone se ne sarebbero accorte, anche se qualcuno glielo avesse indicato... e in ogni caso avrebbero in generale pensato a una
coincidenza o a un piccolo ammiccamento artistico.
Quelle facce.
Quei volti urlanti, annegati, nella scia della nave arrossata dal tramonto.
C'erano Tessie e Laura, quasi certamente, ma c'erano anche altri, appena
sotto di loro, dove il rosso si stemperava nel verde e il verde nel nero.
Una era forse una ragazza peldicarota in un antiquato costume intero:
Adriana, la sorella maggiore di Elizabeth.
7
Wireman le stava somministrando sorsi di quella che sembrava acqua
minerale mentre Rosenblatt si agitava accanto a lei torturandosi letteralmente le mani. Trovai l'ufficio pieno zeppo. Faceva più caldo che in galleria e la temperatura continuava ad alzarsi.
«Vi voglio tutti fuori!» esclamò Hadlock. «Tutti eccetto Wireman! Ora!
Subito!»
Elizabeth respinse il bicchiere con il dorso della mano. «Edgar», mi
chiamò con la voce roca e sfiatata. «Edgar, tu resta.»
«No, se ne va anche Edgar», insisté Hadlock. «Ti sei emozionata molto
più di quanto...»
Elizabeth gli afferrò la mano e gliela strinse. Con una certa forza, perché
Hadlock sgranò gli occhi.
«Lui resta.» Fu un bisbiglio, ma penetrante come un sibilo.
Gli altri cominciarono a uscire. Sentii Dario rassicurare le persone che si
raccoglievano appena oltre la soglia, la signorina Eastlake aveva avuto un
momento di debolezza ma con lei c'era il suo dottore e si stava già riprendendo. Stava uscendo anche Jack quando Elizabeth lo chiamò: «Giovanotto!» Lui si fermò girandosi.
«Non dimenticare», gli disse lei.
Lui fece un sorriso fugace accompagnandolo con un mezzo saluto militare. «No, signora, stia certa.»
«Avrei dovuto fidarmi di te fin dal principio», si rammaricò lei mentre
Jack usciva. Poi, abbassando la voce come le stessero cominciando a venir
meno le forze: «È un bravo ragazzo».
«Fidarsi per che cosa?» domandò Wireman.
«Perché cercasse in soffitta una certa cesta da picnic», rispose lei. «La
cesta che ha Tata Melda nella foto sul pianerottolo.» Mi rivolse uno sguardo di rimprovero.
«Mi spiace», mi scusai. «Mi ricordo che me ne aveva parlato, ma io...
stavo dipingendo... e...»
«Non ti biasimo», disse. Gli occhi le erano sprofondati nelle orbite. «A-
vrei dovuto saperlo. È la sua forza. La stessa forza che ti ha portato qui.»
Guardò Wireman. «E anche te.»
«Basta così, Elizabeth», intervenne Hadlock. «Voglio portarti in ospedale e sottoporti a delle analisi. Approfittandone per farti ristabilire l'equilibrio dei liquidi. Farti riposare...»
«Potrò riposare finché mi pare e piace fra non molto», sentenziò lei e
sorrise. Il sorriso mise in mostra una grande e abbastanza raccapricciante
dentiera. I suoi occhi si spostarono di nuovo su di me. «Trixie Pixie Nixie», disse. «Per lei è tutto un gioco. Peggio per noi. Ed è di nuovo sveglia.» La sua mano, freddissima, mi si posò sull'avambraccio. «Edgar, è
sveglia!»
«Chi? Elizabeth, mi dica chi? Perse?»
Rimbalzò all'indietro rabbrividendo. Fu come se avesse ricevuto una
scarica elettrica. La mano sul mio braccio si contrasse. Le sue unghie corallo mi intaccarono la pelle lasciandomi segni rossi. Aprì la bocca, mostrando questa volta la dentiera in un ringhio invece di un sorriso. Portò la
testa all'indietro e sentii uno schiocco.
«Ferma la sedia prima che si ribalti!» tuonò Wireman, ma io non potevo, avevo un braccio solo ed Elizabeth me lo stava trattenendo. Me lo aveva artigliato.
Hadlock afferrò uno dei manici e la sedia slittò lateralmente invece di
rovesciarsi all'indietro. Colpì la scrivania di Jimmy Yoshida. Ora Elizabeth
era nel pieno di un attacco di convulsioni e beccheggiava avanti e indietro
sulla sedia come una marionetta. La reticella si sciolse e cadde a terra veleggiando in una girandola di luccichii sotto la luce delle plafoniere. Uno
spasimo a una gamba la fece scalciare e la scarpa le volò via. Gli angeli
vogliono mettersi le mie scarpe rosse, pensai e, quasi che quelle parole lo
avessero evocato, le sprizzò sangue da naso e bocca.
«Tenetela!» gridò Hadlock e Wireman si buttò di traverso sui braccioli.
È stata lei, pensai freddamente. Perse. Chiunque sia.
«Ce l'ho!» gridò Wireman. «Chiami il 911, dottore, per l'amor di Dio!»
Hadlock corse alla scrivania, sollevò il ricevitore, compose il numero,
ascoltò. «Merda! Non funziona!»
Gli strappai il ricevitore dalla mano. «Bisogna prima pigiare il nove per
avere la linea esterna», dissi e lo feci con il ricevitore incastrato tra orecchio e spalla. E quando la misurata voce femminile all'altro capo mi chiese
la natura della mia emergenza, fui in grado di spiegarmi. Era l'indirizzo
che non ricordavo. Non ricordavo nemmeno il nome della galleria.
Passai il ricevitore a Hadlock e girai intorno alla scrivania per tornare da
Wireman.
«Gesù Cristo», gemette. «Sapevo che non dovevamo portarla qui, lo sapevo... ma ha piantato una di quelle grane...»
«Ha perso i sensi?» La guardai accasciata nella sua sedia. Aveva gli occhi aperti, ma erano fissi in un punto imprecisato dell'angolo più lontano.
«Elizabeth?» Non ebbi risposta.
«È stato un ictus?» chiese Wireman. «Non sapevo che potessero essere
così violenti.»
«Non era un ictus. Qualcosa è intervenuto a chiuderle la bocca. Vai in
ospedale con lei...»
«Certamente...»
«E se dice qualcos'altro, ascolta.»
Arrivò anche Hadlock. «In ospedale la stanno aspettando. Arriverà
un'ambulanza a momenti.» Guardò con durezza Wireman, poi cambiò espressione. «E va bene», disse.
«E va bene cosa?» ribatté Wireman. «Come sarebbe, e va bene?»
«Sarebbe che se una cosa di questo genere doveva succedere», rispose
Hadlock, «secondo lei dove avrebbe voluto che accadesse? A letto a casa
sua o in una delle gallerie dove ha trascorso tante giornate e serate felici?»
Wireman trasse un respiro profondo e vibrante, lo espulse, annuì, poi si
accosciò accanto a lei e cominciò a spazzolarle i capelli. Elizabeth aveva la
faccia gonfia e piena di chiazze, come per una forte reazione allergica.
Hadlock si chinò e le inclinò la testa all'indietro cercando di alleviare i
suoi terribili rantoli. Non molto dopo sentimmo la sirena dell'ambulanza.
8
Il vernissage si trascinò ancora per qualche tempo e io feci buon viso a
cattivo gioco, in parte per tutto il lavoro che ci avevano messo Dario,
Jimmy e Alice, ma soprattutto per Elizabeth. Pensavo che fosse quello che
avrebbe desiderato. Il mio momento al sole, lo aveva definito.
Non andai però alla cena celebrativa. Presentai le mie scuse e mandai
invece Pam e le ragazze con Kamen, Kathi e alcuni degli invitati giunti da
Minneapolis. Guardandoli andare via mi resi conto di non essermi organizzato per recarmi all'ospedale. Mentre ero lì davanti alla galleria a chiedermi se Alice Aucoin fosse già ripartita, accostò davanti a me una vecchia
Mercedes scalcagnata e il finestrino dalla mia parte si abbassò.
«Salta su», disse Mary Ire. «Se stai andando al Sarasota Memorial, ti ci
porto io.» Mi vide titubante e fece un sorriso storto. «Mary ha bevuto pochissimo questa sera, te lo giuro, e in ogni caso dopo le dieci il traffico di
Sarasota da congestionato che era si riduce a praticamente zero. I vecchietti bevono il loro scotch, prendono il loro Prozac e si raggomitolano a vedere Billy O'Reilly alla tivù.»
Salii. Quando la chiusi, la portiera sferragliò e per un momento fui preso
dal panico nella convinzione che il mio sedere sarebbe continuato a calare
fino a toccare il fondo stradale di Palm Avenue. Finalmente la mia discesa
si arrestò. «Ascolta, Edgar», cominciò lei, poi ebbe un'esitazione. «Va bene se ci diamo del tu?»
«Certo.»
Annuì. «Ottimo. Non ricordavo con molta chiarezza in che termini ci eravamo lasciati. Certe volte quando bevo troppo...» Scosse le spalle ossute.
«Siamo in ottimi rapporti», la rassicurai.
«Meglio così. Quanto a Elizabeth... non molto bene. Vero?»
Scrollai la testa, non mi fidavo a parlare. Le strade erano quasi deserte
come aveva preannunciato. I marciapiede erano un mortorio.
«Hanno avuto una storia, lei e Jake Rosenblatt. Abbastanza seria.»
«Cosa successe?»
Si strinse nelle spalle. «Non saprei. Se mi costringi a tirare a indovinare,
direi che alla fine era troppo abituata a essere la signora di sé per esserlo
anche di qualcun altro. Se non per periodi a tempo determinato. Ma a Jake
non è mai passata.»
Ricordai quando aveva gridato 'Fanculo i divieti, signorina Eastlake! e
mi domandai come la chiamava a letto. Certamente non signorina Eastlake. Ma la mia era una speculazione triste e sicuramente inutile.
«Forse è meglio così», commentò Mary. «Stava farneticando. Se l'avessi
conosciuta nei suoi anni d'oro, Edgar, sapresti che non è il tipo di donna
che vorrebbe andarsene così.»
«Mi spiace non averla conosciuta nei suoi anni d'oro.»
«Posso fare qualcosa per la tua famiglia?»
«No», risposi. «Sono a cena con Dario, Jimmy e tutto lo stato del Minnesota. Li raggiungerò più tardi se ci riesco, magari per il dessert, ma ho
una stanza prenotata al Ritz, dove stanno anche loro. Nella peggiore delle
ipotesi li vedrò domattina.»
«Ottimo. Una bella famiglia, la tua. Persone piacevoli e... comprensive.»
In effetti Pam sembrava più comprensiva ora che prima del divorzio.
Naturalmente ora io ero laggiù a dipingere e non lassù a prenderla a male
parole. O a cercare di pugnalarla con un crotalino da burro.
«Sperticherò lodi per la tua mostra, Edgar. Dubito che questo significhi
molto per te stasera, ma forse varrà per dopo. I tuoi quadri sono semplicemente straordinari.»
«Grazie.»
Nel buio davanti a noi ammiccavano le luci dell'ospedale. Subito accanto c'era un botteghino di cialde. Faceva probabilmente buoni affari con il
personale di Cardiologia.
«Vuoi trasmettere a Libby tutto il mio affetto? Posto che sia in condizione di riceverlo?»
«Certamente.»
«E ho qualcosa per te. È nel cassettino del cruscotto. Una busta. Avevo
intenzione di servirmene come esca per una seconda intervista, ma pazienza.»
Ebbi qualche difficoltà con il pulsante del vecchio stipetto, ma finalmente lo sportellino si aprì come la bocca di un cadavere. C'era assai più di una
busta là dentro, un geologo avrebbe potuto prelevare campioni risalenti
probabilmente fino al 1965, ma la busta era davanti a tutto il resto e c'era
sopra il mio nome.
Mentre si fermava davanti all'ospedale in un posto contrassegnato con
SOSTA CONSENTITA PER 5 MINUTI, Mary disse: «Preparati a una
sorpresa. Lo è stata per me. Una mia vecchia amica redattrice lo ha scovato
per me. È più vecchia di Libby, ma ancora molto sveglia».
Aprii la busta e ne estrassi due fotocopie di un vecchissimo articolo di
giornale. «È del Weekly Echo di Port Charlotte», mi informò Mary. «Giugno millenovecentoventicinque. Dev'essere la storia che mi aveva raccontato Aggie, e il motivo per cui io non l'ho mai trovato è che non ho mai
cercato fino a Port Charlotte. E poi il Weekly Echo ha tirato le cuoia nel
millenovecentotrentuno.»
Il lampione sotto il quale si era fermata non diffondeva abbastanza luce
per la scritta in piccolo, ma potei leggere il titolo e vedere la foto. Guardai
a lungo.
«Significa qualcosa per te, vero?» domandò.
«Sì. Solo che non so cosa.»
«Se risolvi il mistero, me lo dirai?»
«D'accordo», accettai. «Potresti addirittura crederci. Però, Mary... questa
è una storia che non pubblicherai mai. Grazie per il passaggio. E grazie per
essere venuta alla mia mostra.»
«Piacere mio in entrambi i casi. Ricordati di portare il mio messaggio a
Libby.»
«Non dimenticherò.»
Ma non lo feci. Avevo visto Elizabeth Eastlake per l'ultima volta.
9
A Terapia intensiva la caposala mi informò che Elizabeth era in Chirurgia. Quando le chiesi per che cosa, non seppe rispondermi. Mi guardai intorno.
«Se sta cercando il signor Wireman, credo che sia andato alla caffetteria», mi disse. «È al terzo piano.»
«Grazie.» Mi allontanai di un passo e tornai a girarmi. «Sa se il dottor
Hadlock è nell'équipe medica?»
«Non credo», rispose, «ma è presente.»
La ringraziai di nuovo e andai in cerca di Wireman. Lo trovai nell'angolo lontano della caffetteria, seduto davanti a un bicchiere di carta grande
come un'ogiva da mortaio della seconda guerra mondiale. A parte i pochi
infermieri e inservienti e un gruppo di famiglia in evidente stato di apprensione, la sala era tutta per noi. La maggior parte delle seggiole era a gambe
all'aria sui tavoli e una donna dall'aria stanca, in tuta rossa, stava lavando il
pavimento. Tra i seni le pendeva un iPod.
«Hola, mi vato», mi salutò Wireman con un sorriso triste. I capelli, così
ben pettinati all'indietro quando aveva fatto il suo ingresso con Elizabeth e
Jack, gli erano ricaduti sulle orecchie e ora aveva ombre nere sotto gli occhi. «Perché non ti prendi un caffè? Fa schifo ma riesce a tener su le palpebre.»
«No, grazie. Prenderò in prestito un sorso del tuo.» Avevo tre aspirine in
tasca. Le feci fuori mandandole giù con un po' del caffè di Wireman.
Lui arricciò il naso. «In saccoccia assieme a tutti i tuoi spiccioli pieni di
germi. Brutta storia.»
«Ho un forte sistema immunitario. Come sta?»
«Non bene.» Mi rivolse uno sguardo dispiaciuto.
«È tornata in sé sull'ambulanza? Ha detto nient'altro?»
«Sì.»
«Cosa?»
Dalla tasca della camicia tolse uno degli inviti alla mia mostra, con la
scritta LA VISTA DA DUMA. Sull'altro lato aveva scarabocchiato qualcosa. La scritta era tutta altalenante, a causa dei movimenti dell'ambulanza,
immaginai, ma le parole erano leggibili.
La tavola perde.
Vorrai ma non devi.
Annegala a dormire.
Erano tutte frasi sinistre, ma l'ultima mi fece drizzare i peli del braccio.
«Nient'altro?» domandai restituendogli l'invito.
«Ha pronunciato due volte il mio nome. Mi riconosceva. E ha pronunciato il tuo, Edgar.»
«Guarda qui», dissi spingendo verso di lui la mia busta.
Mi chiese da dove provenisse e glielo spiegai. Osservò che giungeva un
po' troppo a proposito e io mi strinsi nelle spalle. Stavo ricordando una cosa che mi aveva detto Elizabeth: L'acqua scorre più veloce ora. Presto arriveranno le rapide. Ebbene, le rapide c'erano. Avevo la sensazione che
fossimo solo all'inizio della turbolenza.
L'anca stava migliorando, i suoi singhiozzi di tarda serata si erano ridotti
a un semplice piagnucolio. La saggezza popolare vuole che il cane sia il
miglior amico dell'uomo, ma io sono pronto a votare per l'aspirina. Trasportai la mia seggiola dall'altra parte del tavolo e mi accomodai di fianco
a Wireman, da dove potevo leggere il titolo: UNA BAMBINA PRODIGIO
A DUMA KEY? Sotto c'era una foto. In essa c'era un uomo che conoscevo
bene in un costume da bagno che conoscevo bene: John Eastlake nella sua
versione più snella e tonica. Sorrideva tenendo in braccio una bambina sorridente. La bimba era Elizabeth, più o meno all'età che aveva nel ritratto di
famiglia, solo che qui mostrava all'obiettivo un disegno reggendolo in entrambe le mani e aveva una benda intorno alla testa. Nella foto c'era anche
un'altra ragazzina, molto più grande, la sorella Adriana, e, sì, poteva essere
una peldicarota, ma all'inizio io e Wireman non badammo a lei. E nemmeno a John Eastlake. E neanche alla bambina con la testa bendata.
«Santa miseria», mormorò Wireman.
Il disegno era di un cavallo che sporgeva la testa da uno steccato. Tendeva le labbra in un sorriso poco probabile (e poco equino). In primo piano, di schiena, c'era una bambina con una massa di riccioli dorati, che porgeva al cavallo sorridente una carota grossa come un fucile da caccia. Ai
lati del disegno, come le tende aperte di un palcoscenico, c'erano delle
palme. Sopra c'erano soffici nuvolette bianche e un sole grandissimo che
sparava tutt'intorno gioiosi raggi di luce.
Era un disegno da bambino. Ma il talento che lo aveva originato era fuori discussione. Il cavallo mostrava una joie de vivre che faceva del suo sorriso la battuta finale di una barzelletta divertente. Anche a raccogliere dieci
studenti d'arte invitandoli a disegnare un cavallo felice, sarei stato pronto a
scommettere che nessuno avrebbe ottenuto un risultato così vincente come
quello rappresentato dall'opera di quella bimba. Persino la carota sproporzionata non sembrava un errore, bensì parte dello scherzo, un intensificatore, uno steroide artistico.
«Non sono uno scherzo», commentai sottovoce chinandomi a cercare di
guardare meglio... solo che chinarmi non serviva. Guardavo quel disegno
attraverso quattro livelli di offuscamento: la fotografia, la riproduzione
della stampa, la fotocopia della riproduzione della fotografia... e il tempo.
Più di ottant'anni, se facevo bene i conti.
«Che cosa non è uno scherzo?» volle sapere Wireman.
«L'esagerazione nelle dimensioni del cavallo, della carota, persino dei
raggi del sole. È il grido di gioia di un bambino, Wireman!»
«Un trucco, ecco cos'è. Non può essere altrimenti. Doveva avere... due
anni! Una bambina di due anni non è capace nemmeno di tirare delle righe, metterci sopra un circoletto e dire che sono mamma e papà.»
«Era un trucco quello che è successo a Candy Brown? O il proiettile che
avevi nel cervello? Quello che adesso non c'è più?»
Tacque.
Battei il dito su BAMBINA PRODIGIO. «Guarda, hanno persino usato
la definizione pulita. Pensi che se fosse stata povera e nera, l'avrebbero
chiamata CARBONCINO FENOMENO per poi esibirla in qualche baraccone? Perché io ho questo sospetto.»
«Se fosse stata povera e nera non sarebbe mai finita sul giornale. E tanto
per cominciare non sarebbe mai cascata fuori da un carretto giocattolo.»
«È questo che è succ...» Mi interruppi nuovamente richiamato dalla sfocata riproduzione della foto. Ora stavo guardando la sorella maggiore, Adriana.
«Cosa?» chiese Wireman e il suo tono era: Cosa c'è adesso?
«Il costume da bagno della ragazzina. Non ti ricorda niente?»
«Non si vede molto, solo la parte di sopra. Elizabeth la copre con il suo
disegno.»
«E la parte che vedi?»
La osservò a lungo. «Vorrei avere una lente d'ingrandimento.»
«Probabilmente peggiorerebbe la situazione invece di aiutarti.»
«E va bene, muchacho, ammetto che ha qualcosa di famigliare... ma può
essere solo un'idea che mi hai messo in testa tu.»
«Di tutti i dipinti della bambina con la nave c'è stata una sola bimba sulla barca di cui non sono mai stato del tutto sicuro, quella del numero sei.
La bambina con i capelli arancione, quella con la canotta blu e l'orlo giallo.» Posai il dito sull'immagine sfocata di Adriana nella fotocopia che mi
aveva procurato Mary Ire. «È questa. E il costume è lo stesso. Ne sono sicuro. E lo era anche Elizabeth.»
«Cosa stai dicendo?» sbottò Wireman. Scorreva gli occhi sull'articolo
massaggiandosi le tempie. Gli domandai se gli desse fastidio l'occhio.
«No. È solo che tutto questo è così... così dannatamente...» Alzò lo
sguardo su di me, con gli occhi quasi sbarrati, continuando a strofinarsi le
tempie. «Cadde da quel dannato carretto e batté la testa su una pietra o almeno così c'è scritto qui. Si è svegliata in ambulatorio quando si preparavano a trasportarla in ospedale a St. Pete. Poi cominciarono le convulsioni.
Qui dice: 'La piccola Elizabeth soffre ancora di convulsioni, ma solo moderate, e sembra che non le provochino danni duraturi'. E si è messa a disegnare!»
«L'incidente dev'essere avvenuto subito dopo aver posato per il ritratto
di famiglia», osservai io, «perché qui sembra esattamente la stessa, e a
quell'età cambiano velocemente.»
I pensieri di Wireman erano altrove. «Siamo tutti nella stessa barca»,
commentò.
Stavo per domandargli a che cosa si riferisse, ma non ce ne fu bisogno.
«Sí, señor», dissi invece.
«Lei è caduta battendo la testa. Io mi sono sparato in testa. Tu hai avuto
la testa schiacciata da un bulldozer.»
«Una gru.»
Scacciò la mia precisazione con un gesto della mano, non faceva differenza. Poi calò quella stessa mano sul mio polso superstite. Aveva le dita
fredde. «Ho delle domande, muchacho. Come mai lei ha smesso di dipingere? E come mai io non ho mai cominciato?»
«Non saprei dire perché lei abbia smesso. Forse ha dimenticato, ha rimosso, o forse ha volutamente mentito e negato. Quanto a te, il tuo talento
è l'empatia. E a Duma Key l'empatia matura in telepatia.»
«Questa è una grande stron...» Non finì.
Attesi.
«No», disse finalmente. «No. Non è così. Ma in ogni caso è un capitolo
chiuso. Vuoi sapere una cosa, amigo?»
«Ti ascolto.»
Indicò la famigliola che aspettava trepidante in fondo alla sala. Avevano
ripreso a discutere. Ora papà agitava il dito contro mamma. O forse era la
sorella. «Un paio di mesi fa avrei potuto dirti il motivo per cui quel tizio si
sta scaldando tanto. Ora al massimo potrei tirare a indovinare.»
«E probabilmente otterresti lo stesso risultato», obiettai. «Saresti disposto comunque a barattare l'uno per l'altro? La tua vista in cambio della capacità di catturare qualche sporadica onda cerebrale?»
«Mio Dio, no!» esclamò lui, poi si guardò intorno con un sorriso sbilenco, ironico e un po' smarrito. «Mi sembra impossibile che stiamo facendo
questa discussione, sai? Continuo a pensare che prima o poi mi sveglierò e
sarò richiamato all'ordine: 'Sull'attenti, soldato Wireman!'»
Lo guardai negli occhi. «Non accadrà.»
10
Secondo il Weekly Echo, l'impresa artistica di Baby Elizabeth (com'era
stata ribattezzata quasi sempre nell'articolo) aveva avuto inizio il giorno
stesso in cui era tornata a casa dall'ospedale in convalescenza. «Sotto gli
occhi del padre incredulo», proseguiva l'articolo, «ha affinato abilità e stile
a una velocità impensabile.» Aveva cominciato con le matite colorate («Ti
ricorda qualcosa?» mi domandò Wireman), prima di passare alla scatola di
acquerelli che un John Eastlake sempre più sconcertato le aveva comprato
a Venice.
Nei tre mesi successivi all'incidente, trascorsi prevalentemente a letto,
aveva eseguito letteralmente centinaia di acquerelli, sfornandoli a una velocità che metteva i brividi al padre e alle sorelle. (Eventuali, possibili reazioni di «Tata Melda» non erano riportate.) Eastlake aveva cercato di calmarla, per ordine del medico, ma il suo intervento era stato controproducente. Aveva provocato agitazione, crisi di pianto, insonnia, febbri improvvise. Quando non le era permesso di disegnare o dipingere, Baby Elizabeth si lamentava di «avere mal di testa». Suo padre affermava che
quando dipingeva, «mangiava come i cavalli che le piaceva disegnare». Il
firmatario dell'articolo, un certo M. Rickert, ne era intenerito. Ricordando i
miei attacchi di appetito, io trovai il fenomeno fin troppo famigliare.
Stavo rileggendo per la terza volta la scritta confusa della fotocopia, con
Wireman appoggiato al mio braccio destro, se avessi avuto un braccio de-
stro, quando la porta si aprì ed entrò Gene Hadlock. Indossava ancora la
cravatta nera sulla camicia rosa che gli avevo visto al vernissage, anche se
ora aveva allentato il nodo e slacciato il primo bottone del colletto. Sotto
indossava i soprapantaloni e le calzature verdi degli operatori di sala chirurgica. Si avvicinò a noi a testa bassa. Quando l'alzò, vidi una faccia lunga e triste come quella di un vecchio segugio.
«Ventitré e diciannove», disse. «Non c'è mai stata una vera speranza.»
Wireman si prese il volto nelle mani.
11
Arrivai al Ritz all'una meno un quarto, zoppicando per la stanchezza e
con una gran voglia di non essere lì. Volevo essere in camera mia a Big
Pink. Volevo sdraiarmi in mezzo al letto, spingere per terra quella strana
bambola nuova assieme ai cuscini ornamentali e stringermi al petto Reba.
Volevo starmene lì a guardar girare le pale del ventilatore. Soprattutto volevo ascoltare la conversazione sommessa delle conchiglie sotto la casa lasciandomi prendere dal sonno.
Invece dovevo vedermela con quella hall: troppi orpelli, troppa gente e
musica (piano bar persino a quell'ora), soprattutto troppa luce. Ma lì c'era
la mia famiglia. Avevo saltato la cena celebrativa. Non avrei mancato alla
prima colazione.
Chiesi la chiave all'impiegato. Me la diede insieme con un pacco di messaggi. Li aprii uno dopo l'altro. Soprattutto congratulazioni. Era diverso
quello di Ilse. Diceva: Stai bene? Se non ti vedo per le otto di domattina,
vengo a cercarti. Sei avvertito.
L'ultimo era di Pam. Una frase di sole quattro lettere: So che è morta.
Tutto quello che c'era ancora da dire era espresso dall'allegato. La chiave
della sua camera.
12
Sostai per cinque minuti con la chiave in mano davanti all'847. Avvicinavo la chiave alla serratura, poi alzavo il dito al pulsante del campanello,
poi mi giravo a guardare l'ascensore. Sarei rimasto a indugiare anche più a
lungo, troppo stanco per prendere una decisione, se non avessi udito la cabina dell'ascensore aprirsi su un suono di voci conviviali, scherzose e un
po' brille. Temetti che potesse essere qualcuno che conoscevo, Tom e Bo-
zie, o Big Ainge e sua moglie. Se non addirittura Lin e Ric. Del resto se
non avevo prenotato l'intero piano, ci ero andato vicino.
Infilai la chiave nella serratura. Era di quelle elettroniche che non era
nemmeno necessario girare. Si accese una spia verde e mentre le risa si facevano più vicine, scivolai all'interno.
Avevo ordinato una suite e il soggiorno era spazioso. Doveva esserci
stato un party pre-mostra, a giudicare dai due carrelli del servizio in camera e il gran numero di piatti su cui c'erano ancora gli avanzi degli antipasti.
Scorsi due, anzi tre, secchielli da champagne. Due delle bottiglie erano rovesciate, due soldati caduti. La terza sembrava ancora viva, ma a stento.
Così mi venne da pensare di nuovo a Elizabeth. La vidi seduta di fianco
alla sua Porcy Town, così somigliante a Katharine Hepburn in La donna
del giorno, che diceva: Guarda come ho messo i bambini davanti alla
scuola! Vieni a vedere!
Il dolore è la forza più potente dell'amore. Così dice Wireman.
Passai con cautela intorno alle sedie dove le persone a me più vicine e
più care avevano chiacchierato e scherzato e - ne ero certo - brindato al
mio duro lavoro e al mio successo. Presi la bottiglia dall'acqua rimasta nel
secchiello, l'alzai davanti alla grande vetrata che incorniciava Sarasota Bay
e dissi: «A te, Elizabeth. Hasta la vista, mi amada».
«Cosa significa amada?»
Mi voltai. C'era Pam ferma sulla soglia della camera da letto. Indossava
una camicia da notte blu che non ricordavo. Aveva sciolto i capelli. Non
erano stati così lunghi dai tempi in cui Ilse andava alle medie. Le toccavano le spalle.
«Vuol dire cara», risposi. «L'ho preso da Wireman. Era sposato a una
messicana.»
«Era?»
«È morta. Chi ti ha detto di Elizabeth?»
«Il ragazzo che lavora per te. Gli avevo chiesto di telefonarmi se c'erano
novità. Mi spiace tanto.»
Sorrisi. Cercai di riporre la bottiglia di champagne e mancai il secchiello. Anzi, diamine, mancai il tavolo. La bottiglia cadde e rotolò sulla moquette. Un tempo la Figlia del Padrino era stata una bambina e aveva mostrato il suo disegno di un cavallo che sorride alla macchina di un fotografo, probabilmente un tipo sgargiante in cappello di paglia e fermamaniche.
Poi era stata una vecchia a esalare farneticando il suo ultimo respiro su una
sedia a rotelle mentre la reticella le si scioglieva dai capelli e si staccava
dall'ultima molletta sotto le lampade fluorescenti dell'ufficio di una galleria
d'arte. E il tempo intercorso? Probabilmente era sembrato lungo quanto un
cenno della testa o della mano al cielo sereno. Alla fine ci schiantiamo tutti
al suolo.
Pam tese le braccia verso di me. Dalla vetrata entrava la luce della luna
piena nella quale vidi la rosa tatuata sul suo seno. Un'altra cosa nuova e
diversa... ma il seno no. Quello, lo conoscevo bene. «Vieni qui», disse.
Andai. Urtai uno dei carrelli con l'anca ferita, soffocai un gemito e le finii tra le braccia incespicando e pensando che era una gran bella rimpatriata, la nostra, destinati com'eravamo a finire sul pavimento, io sopra e lei
sotto. Magari già che c'ero potevo rimetterci anche un paio di costole. Era
certamente possibile: da quando mi ero trasferito a Duma Key ero ingrassato di sei o sette chili.
Ma lei era forte. Me l'ero scordato. Sostenne il mio peso, prima puntellandosi sullo stipite della porta della camera, poi raddrizzandosi con me tra
le braccia. Io le passai quello che avevo intorno alla schiena e le posai la
guancia sulla spalla, inalando il suo profumo.
Wireman! Mi sono svegliata presto e non sai quanto mi sono divertita
con le mie statuine!
«Vieni, Eddie, sei stanco. Vieni a letto.»
Mi condusse di là. La finestra della camera era più piccola, la luce della
luna meno intensa, ma i vetri erano aperti e sentivo il sospiro incessante
dell'acqua.
«Sei sicura...»
«Zitto.»
Sono sicura che mi hanno detto come ti chiami ma ora non mi viene in
mente, mi succede spesso ormai.
«Non ho mai voluto farti del male. Sono così mortificato...»
Lei mi posò due dita sulle labbra. «Non ti voglio mortificato.»
Ci sedemmo sul letto uno accanto all'altro, nell'oscurità. «E allora cosa
vuoi?»
Me lo mostrò con un bacio. Il suo alito era tiepido e sapeva di champagne. Per un po' dimenticai Elizabeth e Wireman, panieri da picnic e Duma
Key. Per un po' fummo solo lei e io, come ai vecchi tempi. I tempi di
quando avevo due braccia. Per un po', dopo, dormii... fino allo spuntare
delle prime luci. La perdita di memoria non è sempre il problema; certe
volte, forse addirittura spesso, è la soluzione.
Come fare un disegno (VIII)
Sii temerario. Non aver paura di disegnare le cose segrete. Nessuno ha
mai detto che l'arte sia sempre uno zefiro; certe volte è un uragano. Anche
così non devi esitare o cambiare strada. Perché se racconti a te stesso la
grande menzogna dell'arte cattiva - che sei tu a comandare - la tua occasione di verità andrà perduta. La verità non è sempre bella. Alle volte la
verità è quello grosso.
Le piccole dicono: È la rana di Libbit. Una rana con ienti.
E talvolta è qualcosa di ancora peggio. Qualcosa come Charley nelle
sue brache blu brillante.
Oppure è: LEI.
Abbiamo un'immagine della piccola Libbit con un dito alle labbra. Dice
Ssst. Dice Se parli ti sentirà, dunque ssst. Dice Possono succedere cose
brutte e gli uccelli parlanti a testa in giù sono solo la prima e più inoffensiva, perciò ssst. Se cerchi di scappare, qualcosa di orribile può saltar fuori
dai cipressi e il gumbo limbo e acchiapparti per la strada. Ci sono cose anche peggiori nell'acqua giù a Shade Beach, peggiori di quello grosso, peggiori di Charley che corre così veloce. Sono nell'acqua ad aspettare di annegarti. E annegare non è neppure la fine, no, non lo è. Dunque ssst.
Ma per l'artista vero, la verità regge. Libbit Eastlake può zittire se stessa, ma non i suoi pennelli e le sue matite.
C'è una sola persona con cui osa parlare e un solo posto dove può farlo,
un posto solo alla Heron's Roost dove la SUA presa sembra meno potente.
Chiede a Tata Melda di andarci con lei. E cerca di spiegare come è successo, come il talento ha preteso la verità e la verità le è sfuggita di mano.
Cerca di spiegare come i disegni si sono impossessati della sua vita e
quanto abbia finito per odiare la bambolina di porcellana che papà ha
trovato con il resto del tesoro, la donnina di ceramica che era il suo diritto
di salvataggio. Cerca di spiegare il suo timore più profondo: se non fanno
qualcosa, le gemelle potrebbero non essere le sole a morire, ma soltanto le
prime. E le morti potrebbero non esaurirsi a Duma Key.
Raccoglie tutto il suo coraggio (e per una bambina che è poco più di
un'infante, doveva averne davvero tanto) e racconta tutta la verità, per
quanto folle sia. Prima di come ha fatto l'uragano, ma quella non era un'idea sua, l'idea era di LEI.
Penso che Tata Melda le creda. Perché ha visto quello grosso? Perché
ha visto Charley?
Io credo che abbia visto entrambi.
La verità deve venire fuori, questo è alla base dell'arte. Ma ciò non significa che il mondo debba vederla.
Tata Melda dice: Dov'è ora la tua bambola nuova? La bambola di porcellana?
Libbit dice: Nella mia scatola speciale del tesoro. La mia scatola del
cuore.
Tata Melda dice: E come si chiama?
Libbit dice: Si chiama Perse.
Tata Melda dice: Percy è un nome da maschio.
E Libbit dice: Non posso farci niente. Si chiama Perse. È la verità. E dice: Perse ha una nave. Sembra bella ma non è bella. È brutta. Che cosa farai ora, Tata?
Tata Melda ci pensa mentre è con lei in quell'unico luogo sicuro. E io
credo che sapesse che cosa era necessario fare. Non era forse una critica
d'arte - non una Mary Ire - ma credo che sapesse. Il coraggio sta nel fare,
non nel mostrare. La verità può venire nascosta di nuovo, se è troppo terribile perché il mondo la veda. E accade. Sono sicuro che accada in continuazione.
Io credo che ogni artista degno di questo nome abbia una cesta rossa.
14
La cesta rossa
1
«C'è posto anche per me, mister?»
Era Ilse, in top e calzoncini verdi. Acqua e sapone, quella mattina, senza
trucco e con gli occhi ancora un po' gonfi di sonno. Si era fatta la coda di
cavallo, quella che portava a undici anni, e non fosse stato per la maturità
del seno, tanti ne avrebbe dimostrati.
«Senz'altro», risposi.
Si sedette di fianco a me sul bordo piastrellato della vasca. Eravamo più
o meno a metà del lato, dov'era segnata la profondità.
«Ti sei alzata presto», osservai, ma non ne ero sorpreso. Illy era sempre
stata la nostra piccola irrequieta.
«Ero in pensiero per te. Specialmente dopo che il signor Wireman ha
chiamato Jack per dirgli che quella nonnina era morta. È stato Jack a rife-
rirlo a noi. Eravamo ancora a cena.»
«Lo so.»
«Mi spiace molto.» Mi posò la testa sulla spalla. «E proprio nella tua sera speciale.»
Le passai il braccio intorno alle spalle.
«Comunque ho dormito solo un paio d'ore e poi mi sono alzata perché
c'era la luce. E quando ho guardato fuori chi vedo seduto in piscina se non
mio padre, solo soletto?»
«Non avevo più sonno. Spero solo di non aver svegliato tua ma...» M'interruppi davanti agli occhioni sgranati di Ilse. «Non farti venire delle idee,
Miss Biscottino. Si è trattato esclusivamente di consolazione.»
Non si era trattato esclusivamente di consolazione, ma in ogni caso non
ero preparato a esplorarlo con mia figlia. Neppure con me stesso, se è per
questo.
Lasciò ricadere le spalle, poi si raddrizzò e mi guardò con la testa inclinata e un inizio di sorriso agli angoli della bocca.
«Se hai delle speranze, sono affari tuoi», l'ammonii. «Ma ti consiglio di
non fomentarle troppo. Avrò sempre affetto per lei, ma certe volte le persone si allontanano troppo per poter tornare indietro. Credo... sono più che
sicuro che è il nostro caso.»
Lei tornò a guardare la superficie immobile dell'acqua nella vasca mentre il sorrisetto le moriva agli angoli della bocca. Mi addolorò vederlo
scomparire, ma forse era meglio così. «Va bene, allora.»
A quel punto fui libero di passare ad altro. Non avrei voluto, ma ero
sempre suo padre e per molti versi lei era ancora una bambina. Di conseguenza, per quanto male stessi quella mattina per Elizabeth Eastlake o per
quanto confuso mi sentissi per la mia situazione personale, avevo ancora
certi doveri da adempiere.
«Ho bisogno di chiederti qualcosa, Illy.»
«Sentiamo.»
«Non hai messo l'anello perché non vuoi che tua madre lo veda e dia
fuori di matto... cosa che comprenderei pienamente... o perché tu e Carson...»
«Gliel'ho rispedito», dichiarò lei in tono asettico. Poi fece un risolino e
una pietra mi rotolò via dal cuore. «Ma gliel'ho mandato con un corriere e
l'ho assicurato.»
«Dunque... è finita?»
«Be'... mai dire mai.» Aveva i piedi nell'acqua e cominciò a muoverli
adagio avanti e indietro. «Carson non vuole che sia finita, così sostiene.
Nemmeno io sono sicura di me stessa. Almeno non prima di averlo rivisto.
Il telefono o la posta elettronica non sono adatti a discutere questioni di
questo genere. E poi voglio vedere se provo ancora attrazione e in questo
caso fino a che punto.» Mi lanciò un'occhiata obliqua, un po' ansiosa.
«Non ti basta, vero?»
«No, cara.»
«Posso farti una domanda?»
«Sì.»
«Quante seconde occasioni hai dato a mamma?»
Sorrisi. «Nel corso del matrimonio? Diciamo duecento circa.»
«E lei quante ne ha date a te?»
«Più o meno lo stesso.»
«Tu hai mai...» Si fermò. «No, questo non te lo posso chiedere.»
Io guardai l'acqua, conscio del rossore molto piccolo borghese che mi
stava colorendo le guance. «Visto che facciamo questo colloquio alle sei
del mattino e non è ancora arrivato nemmeno il ragazzo della piscina e visto che credo di sapere quale sia il tuo problema con Carson Jones, puoi
chiedere. La risposta è no. Neanche una volta. Ma se devo essere onesto
fino in fondo, devo precisare che è stato più per caso che per rigida integrità morale. Ci sono stati momenti in cui ci sono arrivato vicino e una volta è
stata probabilmente la fortuna o il destino o la provvidenza a impedire che
accadesse. Non credo che il matrimonio sarebbe scoppiato se... l'incidente
fosse avvenuto, credo che ci siano offese più gravi nei confronti di un coniuge, ma non lo chiamano tradimento per niente. Una sbandata può essere
scusata con la fallibilità umana. Due possono essere giustificate con la fragilità umana. Ma più di così...» Mi strinsi nelle spalle.
«Lui dice che è stata una volta sola.» La sua voce era ridotta a poco più
di un bisbiglio. Il movimento dei suoi piedi era diventato un lento vagare
subacqueo. «Ha detto che lei ha cominciato a pressarlo. E alla fine... lo
sai.»
Come no? È sempre così che succede. Nei libri e nei film. Forse qualche
volta anche nella vita reale. Solo perché aveva tutta l'aria di una bugia in
autodiscolpa non significava che lo fosse.
«La ragazza con cui canta?»
Ilse annuì. «Bridget Andreisson.»
«Quella con l'alito cattivo.»
Un sorriso fugace.
«Mi sembra di ricordare che non molto tempo fa mi dicevi che doveva
prendere una decisione.»
Un lungo silenzio. Poi: «È complicato».
Lo è sempre. Chiedetelo a qualsiasi ubriaco in un bar che è stato buttato
fuori casa dalla moglie. Non dissi niente.
«Le ha detto che non vuole più vederla. E i duetti sono finiti. Lo so per
certo perché ho controllato le ultime recensioni dei loro concerti su
Internet.» Diede qualche segno di imbarazzo nel confessarmelo, ma io trovavo più che comprensivo che avesse guardato. Lo avrei fatto anch'io.
«Quando il signor Fredericks, che sarebbe il direttore della tournée, ha minacciato di rispedirlo a casa, Carson gli ha detto che poteva fare quello che
voleva ma lui con quella pia troia bionda non cantava più.»
«Sarebbero state queste le sue parole precise?»
Fece un sorriso brillante. «È un battista, papà. Sto interpretando. Comunque Carson ha tenuto duro e il signor Fredericks ha dovuto mollare.
Per me è un punto a suo favore.»
Già, pensai, però è uno che si fa chiamare Smiley e intanto ti mette le
corna.
Le presi la mano. «Qual è la tua prossima mossa?»
Sospirò. Con quella coda di cavallo aveva undici anni; con quel sospiro
ne dimostrava quaranta. «Non lo so. Sono confusa.»
«Allora lascia che ti aiuti. Vuoi?»
«Va bene.»
«Per adesso stai lontana da lui», cominciai e scoprii che era quello che
desideravo con tutto il cuore. Ma c'era di più. Quando pensavo ai dipinti di
Bambina e nave, specialmente alla bambina sulla barca a remi, mi veniva
voglia di raccomandarle di non rivolgere la parola agli sconosciuti, tenere
l'asciugacapelli lontano dalla vasca da bagno e andare a correre solo al
campo sportivo del college. Non attraversare mai il Roger Williams Park
dopo il calar del sole.
Lei mi osservava tra il curioso e il perplesso e io riuscii a rimettermi in
carreggiata. «Torna direttamente a scuola da qui...»
«Volevo parlarti di questo...»
Annuii, ma le strinsi il braccio per farle sapere che non avevo ancora
concluso. «Finisci il tuo semestre. Dai gli esami. Intanto lascia che Carson
finisca il tour. Esamina la tua situazione dalla giusta distanza e poi lo rivedi... Capisci che cosa ti sto dicendo?»
«Sì...» Capiva, ma non sembrava persuasa.
«Quando vi incontrate di nuovo, che sia in campo neutro. E non voglio
metterti in imbarazzo, ma visto che ci siamo ancora solo noi due, lo dirò
chiaro e tondo. Il letto non è un campo neutro.»
Si guardò i piedi che nuotavano sott'acqua. Io le presi il mento per girarle il viso verso di me.
«Quando ci sono problemi irrisolti, il letto è un campo di battaglia. Io
non ci andrei nemmeno a pranzo assieme prima di sapere com'è messa la
situazione con lui. Incontratevi a... non so... Boston. Trovatevi una panchina in un parco e sbrogliate la matassa. Chiarisciti con te stessa e assicurati
che lui faccia altrettanto. Poi andate a mangiare qualcosa. Andate a vedere
giocare i Red Sox. O andate a letto, se ti sembrerà giusto farlo. Solo perché
non voglio pensare alla tua vita sessuale non significa che pensi che tu non
debba averne una.»
Mi risollevò considerevolmente mettendosi a ridere. Sentendola, un cameriere che sembrava ancora mezzo addormentato uscì a chiederci se volevamo del caffè. Rispondemmo di sì. Quando rientrò per andare a prenderlo, Ilse disse: «D'accordo, papà. Ho capito. Stavo per dirti che rientro
comunque oggi pomeriggio. Alla fine della settimana ho un preliminare di
antropologia e partecipo a un piccolo gruppo di studio. Ci siamo battezzati
il Club dei Sopravvissuti». Mi spedì uno sguardo ansioso. «È un problema? So che avevi in programma un paio di giorni e adesso c'è questa cosa
con la tua amica...»
«No, cara, nessun problema.» Le baciai la punta del naso pensando che,
trovandomi così vicino, non avrebbe visto quant'ero felice: felice che fosse
venuta alla mostra, felice che quella mattina fossimo potuti stare un po' insieme, felice soprattutto perché quella sera, al tramontare del sole, sarebbe
stata a duemila chilometri a nord di Duma Key. Sempre che trovasse posto
in aereo. «E Carson?»
Rimase in silenzio forse per un minuto intero, muovendo i piedi avanti e
indietro nell'acqua. Poi si alzò e mi prese per il braccio aiutandomi a fare
altrettanto. «Credo che tu abbia ragione. Gli dirò che se è serio su noi due,
dovrà starsene buono e tranquillo fino al Quattro Luglio.»
Ora che aveva preso la sua decisione, i suoi occhi erano di nuovo luminosi.
«Così intanto io finisco il semestre e mi faccio anche un mese di vacanze. Lui intanto concluderà la sua tournée al Cow Palace e gli resterà ancora
tutto il tempo per decidere se con la sua bionda ha veramente chiuso come
pensa. Ti sta bene, papà caro?»
«In pieno.»
«Arriva il caffè. Ora la domanda è: quanto c'è da aspettare per fare colazione?»
2
Alla colazione del giorno dopo Wireman non era presente, ma aveva
prenotato la Bay Island room dalle otto alle dieci. Presiedetti a un gruppo
di una trentina tra amici e parenti, quasi tutti del Minnesota. Rappresentavo uno di quegli eventi che la gente ricorda e di cui parla per decenni, in
parte per aver incontrato tanti volti familiari in un ambiente esotico e in
parte perché l'atmosfera emotiva era così volatile.
C'era tuttavia la sensazione molto palpabile del «ragazzo di casa che ce
l'ha fatta». L'avevano percepita al vernissage della mostra e il loro giudizio
veniva confermato dai quotidiani di quel mattino. Sull'Herald Tribune di
Sarasota e il Gondolier di Venice le recensioni erano buone, ma brevi. Il
pezzo di Mary Ire per il Trib di Tampa, invece, occupava quasi una pagina
intera ed era lirico. Doveva averlo scritto quasi tutto in anticipo. Mi definiva «uno straordinario nuovo talento americano». Con questo e un diecino
ti ci puoi pulire il didietro al bacio, avrebbe detto mia madre, una malmostosa per natura. Naturalmente questo lo diceva quarant'anni fa, quando
con dieci centesimi si comprava molto più di oggi.
Quanto a Elizabeth, non c'era la notizia del suo decesso, ma sul quotidiano di Tampa, dov'era stato pubblicato l'articolo di Mary, avevano aggiunto un riquadro: NOTA MECENATE LOCALE VITTIMA DI MALORE ALLA MOSTRA DI FREEMANTLE. Il pezzo di soli due paragrafi
riferiva che Elizabeth Eastlake, per molti anni un'istituzione sulla scena artistica di Sarasota e residente a Duma Key, era stata apparentemente colpita da un attacco di apoplessia alla Scoto Gallery ed era stata trasportata in
ambulanza al Sarasota Memorial Hospital. Al momento di andare in stampa non c'erano notizie sulle sue condizioni.
I miei amici del Minnesota sapevano che la sera del mio trionfo era morta una persona a me molto cara. Ogni tanto qualcuno rideva e scherzava,
lanciando immediatamente un'occhiata nella mia direzione per vedere se
ne fossi disturbato. Alle nove e mezzo le uova strapazzate che avevo consumato mi si erano fermate sullo stomaco come un pezzo di piombo e mi
stava venendo uno dei miei mal di testa, il primo da quasi un mese.
Mi scusai e salii nella camera in cui non avevo dormito, ma dove avevo
lasciato un piccolo bagaglio. Nel nécessaire per la barba avevo alcune confezioni di Zomig, un medicinale contro l'emicrania. Non avrebbe arginato
una legnata Forza 5, ma di solito se ne prendevo una dose con sufficiente
anticipo a qualcosa serviva. Mandai giù una compressa con una Coca presa
dal frigorifero e, quando stavo per uscire, mi accorsi della spia che lampeggiava sul telefono. Quasi lasciai perdere, ma poi pensai che poteva essere un messaggio di Wireman.
Ce n'erano una mezza dozzina. I primi quattro erano ancora di congratulazioni, che piovvero sulla mia testa dolente come chicchi di grandine su
un tetto di lamiera. Prima di arrivare al messaggio di Jimmy, il quarto, avevo cominciato a schiacciare il 6, il tasto dell'avanzamento veloce. Non
ero in vena di lusinghe.
Il quinto era veramente di Jerome Wireman. La voce era stanca e stordita. «Edgar, so che ti sei ritagliato un paio di giorni per parenti e amici e mi
scoccia davvero chiedertelo, ma non è che potremmo vederci a casa tua
oggi pomeriggio? Dobbiamo parlare e non scherzo. Jack ha passato la notte qui con me a El Palacio, non voleva che restassi solo, è veramente un
gran bravo ragazzo. Ci siamo alzati di buon'ora e abbiamo cercato quella
cesta rossa e... be', l'abbiamo trovata. Meglio tardi che mai, giusto? Voleva
che l'avessi tu, così Jack l'ha portata a Big Pink. La porta non era chiusa a
chiave e, senti, Edgar... c'è stato qualcuno.»
Silenzio sulla linea, ma lo sentivo respirare. Poi: «Jack è parecchio scosso e sarà bene che ti prepari a uno choc anche tu, muchacho. Anche se forse hai già una mezza idea...»
Ci fu un bip, poi partì il sesto messaggio. Era sempre Wireman, ora molto contrariato, cosa che me lo rendeva molto più riconoscibile.
«'Sti nastri di merda che non durano un cazzo! Chinche pedorra! Ay!
Edgar, io e Jack stiamo per andare alla Abbot-Wexler. Sarebbe...» Una
breve pausa mentre si adoperava per trattenere la commozione. «... Sarebbe l'impresa di onoranze funebri che voleva lei. Sarò di ritorno per l'una.
Meglio che aspetti noi prima di entrare in casa tua. Nessuno te l'ha messa a
soqquadro, non è questo, ma voglio esserci anch'io quando guardi in quella
cesta e quando vedi che cosa c'è nel tuo studio al piano di sopra. Non mi
piace fare il misterioso, ma Wireman non inciderà questa cosa su un nastro
che potrebbe ascoltare chiunque. C'è anche la ciliegina finale. Mi ha chiamato uno dei suoi avvocati. Mi ha lasciato un messaggio in segreteria, perché ero ancora su in quella soffitta del cazzo con Jack. Dice che sono il suo
solo beneficiario.» Una pausa. «La lotena.» Una pausa. «Resta tutto a me.»
Una pausa. «'Fanculo a me.»
Fine del messaggio.
3
Premetti lo zero per parlare con la centralinista dell'albergo. Dopo una
breve attesa, mi diede il numero della Abbot-Wexler. Lo composi. Mi rispose una voce registrata che mi illustrò una gamma davvero impensabile
di servizi mortuari («Per la tipologia dei feretri, premere cinque»). Mi armai di pazienza: di questi tempi l'offerta per l'essere umano in carne e ossa
arriva sempre per ultima, premio di consolazione per gli sciocchi che non
sanno adattarsi al ventunesimo secolo. E mentre aspettavo ripensai al messaggio di Wireman. Non avevo chiuso a chiave? Sul serio? Dopo l'incidente la mia memoria era diventata inaffidabile, si sa, ma le abitudini no. Big
Pink non apparteneva a me e fin dalla prima infanzia mi era stato insegnato
a prendermi particolare cura dei beni altrui. Ero sicurissimo di aver chiuso
a chiave. Dunque, se era entrato qualcuno, come mai non aveva forzato la
porta?
Pensai per un istante a due bambine in abiti bagnati, bambine con i volti
decomposti che parlavano con la voce ruvida delle conchiglie sotto la casa,
e subito spinsi via quell'immagine con un brivido. Era tutta immaginazione, senza dubbio, la visione di una mente stremata. E anche se fossero state
qualcosa di più... i fantasmi non devono aprire le porte, giusto? Ci passano
semplicemente attraverso, o emergono attraverso i pavimenti.
«... Zero per eventuali richieste.»
Gesù, per poco lo mancavo. Schiacciai lo zero e dopo qualche nota di
qualcosa che somigliava vagamente a un inno, una suadente voce mi chiese in tono molto professionale se poteva aiutarmi. Repressi l'impulso irrazionale e molto forte a rispondere: È il mio braccio! Non ha mai avuto una
sepoltura decente! e riattaccare. Invece, incastrando il ricevitore sulla spalla per massaggiarmi la fronte sopra l'occhio destro, domandai se Jerome
Wireman fosse lì.
«Posso chiederle quale defunto rappresenta?»
Mi si dipinse davanti agli occhi un'immagine da incubo: una silenziosa
aula di tribunale piena di morti e Wireman che diceva Obiezione, vostro
onore!
«Elizabeth Eastlake», dissi.
«Ah, ma certo.» La voce si riscaldò, diventò provvisoriamente umana.
«È appena uscito con la persona che lo accompagnava. Per preparare il necrologio della signora Eastlake, credo. Potrei avere un messaggio per lei.
Vuole attendere?»
Attesi. Riprese l'inno. Si rifece viva Becky la Becchina: «Il signor Wireman le chiede di incontrarsi con lui e... ehm... il signor Candoori, se possibile, a casa sua, a Duma Key alle due di oggi pomeriggio. La prega di attendere fuori se dovesse arrivare prima di loro. È tutto chiaro?»
«Sì, grazie. Non sa se tornerà lì?»
«No, non ha detto niente.»
La ringraziai e riappesi. Se Wireman possedeva un cellulare, io non glielo avevo mai visto e non avevo comunque il suo numero, però ne aveva
uno Jack. Scovai il numero nel portafogli e chiamai. Fui dirottato a una casella vocale al primo squillo, dal che dedussi che il telefonino o era spento
o era defunto, o perché Jack si era dimenticato di caricarlo o perché non
aveva pagato il canone. Entrambe le ipotesi erano valide.
Jack è parecchio scosso e sarà bene che ti prepari a uno choc.
Voglio esserci anch'io quando guardi in quella cesta.
Ma io ero convinto di sapere molto bene che cosa c'era in quella cesta e
dubitavo che anche Wireman se ne fosse stupito.
Molto difficile.
4
Regnava il silenzio sul lungo tavolo della Bay Island room intorno al
quale sedeva Cosa Nostra, sezione del Minnesota, e ancor prima che Pam
si alzasse in piedi, capii che durante la mia assenza non si erano limitati a
parlare di me. Avevano tenuto consiglio.
«Noi ripartiamo», annunciò. «Molti di noi, per essere precisi. Gli Slobotnik avevano in programma di approfittare del viaggio per andare a Disney World, i Jamieson proseguono per Miami...»
«E noi andiamo con loro, papà», intervenne Melinda. Teneva a braccetto
Ric. «Da lì possiamo prendere un volo per Orly che costa in realtà un po'
meno di quello che ci hai prenotato tu.»
«Credo di potermi permettere la spesa», obiettai, ma sorridendo. Ero invaso da una strana mescolanza di emozioni, sollievo, delusione e paura.
Contemporaneamente sentii allentarsi e dissolversi i cerchi di ferro che mi
avevano stretto la testa. L'emicrania incipiente sparì di punto in bianco.
Improbabile che fosse lo Zomig, che non agisce così velocemente nemme-
no se aiutato da un po' di caffeina.
«Hai sentito il tuo amico Wireman stamattina?» domandò Kamen nella
sua voce rimbombante.
«Sì», risposi. «Mi ha lasciato un messaggio in segreteria.»
«E come sta?»
Be', quella era una storia lunghetta, no? «Se la cava, si sta occupando del
funerale... e Jack lo sta aiutando... ma è saldo come una roccia.»
«Vai ad aiutarlo», mi esortò Tom Riley. «Oggi è a lui che devi pensare.»
«Sì, è così», fece eco Bozie. «È un lutto che ha colpito anche te, Edgar.
Non è il momento di fare gli onori di casa.»
«Ho chiamato l'aeroporto», m'informò Pam come se avessi protestato,
cosa che non avevo fatto. «Il Gulfstream è pronto. E il concierge ci sta assistendo per le altre prenotazioni. Abbiamo comunque ancora la mattinata
a disposizione. Ci si domandava come impiegarla.»
Si finì per fare quello che avevo in mente io: una visita al John and Mable Ringling Museum of Art.
Io ci andai con il mio basco.
5
Nelle prime ore del pomeriggio mi ritrovai nel settore imbarchi della
Dolphin Aviation a scambiare con amici e parenti baci di saluto, o strette
di mano, o abbracci, o tutti e tre. Melinda, Ric e i Jamieson erano già partiti.
La regina della riabilitazione, Kathi Green, mi baciò con la solita ferocia. «Abbi cura di te, Edgar», mi raccomandò. «Sono entusiasta dei tuoi
dipinti, ma sono molto più orgogliosa di come cammini. Hai fatto progressi stupefacenti. Mi piacerebbe esibirti alla mia ultima generazione di frignoni.»
«Sei forte, Kathi.»
«Non così forte», mi contraddisse lei asciugandosi gli occhi. «La verità è
che sono una stupida sentimentalona.»
Poi incombette su di me Kamen. «Se hai bisogno d'aiuto, mettiti immediatamente in contatto.»
«Promesso, sarai il mio Telefono Amico.»
Kamen sorrise. Era come vedersi sorridere da Dio. «Credo che tu non sia
ancora completamente fuori, Edgar. Posso solo sperare che presto lo sarai.
Nessuno più di te merita di cadere con la parte lucida di sopra e quella di
gomma di sotto.»
Lo abbracciai. Un abbraccio con un braccio solo, ma ci pensò lui a compensare per la carenza.
Uscii sulla pista con Pam. Ci fermammo ai piedi della scaletta mentre gli
altri salivano. Lei mi tenne la mano in entrambe le sue guardandomi negli
occhi.
«Ti bacerò solo sulla guancia, Edgar. Illy sta guardando e non voglio che
si faccia l'idea sbagliata.»
Così fece. «Sono in pensiero per te», confessò poi. «Hai un biancore intorno agli occhi che non mi piace.»
«Elizabeth...»
Scosse un po' la testa. «C'era ieri sera, già prima che arrivasse lei alla
galleria. E quando eri al colmo della felicità. Un biancore. Non saprei come descriverlo meglio. L'avevo visto una sola volta in passato, ancora nel
millenovecentonovantadue, quando per qualche settimana sembrava che
non saresti riuscito a far fronte a quel mutuo spaventoso rischiando il fallimento.»
L'aereo scaldava i motori e l'aria le faceva svolazzare i capelli, sciogliendo i suoi bei riccioli da coiffeur in qualcosa di più giovane e più naturale. «Posso farti una domanda, Eddie?»
«Certamente.»
«Potresti dipingere dovunque? O dev'essere per forza qui?»
«Dovunque, credo. Ma se fossi altrove sarebbe diverso.»
Mi guardò nel fondo degli occhi. Con un'espressione quasi di supplica.
«Ciononostante un cambiamento potrebbe farti bene. Bisogna che quel
biancore sparisca. Non ti sto dicendo di tornare nel Minnesota, non necessariamente, ma di andare... da qualche altra parte. Ci penserai?»
«Sì.» Ma non prima di aver visto che cosa c'era nella cesta rossa. E non
prima d'aver compiuto un'ultima escursione all'estremità sud della key. E
pensavo di poterlo fare. Perché era stata Ilse a sentirsi male, non io. Io avevo subito solo uno di quei miei rossi flashback dell'incidente. E un attacco di quel prurito fantasma.
«Riguardati, Edgar. Non so bene che persona sei diventata, ma è rimasto
ancora abbastanza di quella che conoscevo a cui voler bene.» Si alzò sulla
punta dei piedi nei suoi sandaletti bianchi, senza dubbio acquistati specificamente per quel viaggio, e mi posò un altro bacio sulla barba lunga della
guancia.
«Grazie», le dissi. «Grazie per ieri sera.»
«Non c'è niente da ringraziare», rispose lei. «È stato dolce.»
Mi diede una stretta alla mano. Poi salì la scaletta e scomparve.
6
Di nuovo davanti agli imbarchi della Delta. Questa volta senza Jack.
«Tu e io soli, Miss Biscottino», dissi. «A quanto pare è ora di chiusura.»
Poi mi accorsi che piangeva e la cinsi con il braccio.
«Papà, vorrei tanto restare qui con te.»
«Torna a casa, cara. Studia per i tuoi esami e fagli vedere i sorci verdi.
Noi due saremo di nuovo presto assieme.»
Si staccò da me. Mi guardò con ansia. «Tu starai bene?»
«Sì. E starai bene anche tu.»
«Sì. Sì.» L'abbracciai di nuovo. «Vai. Comprati qualche rivista. Guarda
la CNN. Fai un buon viaggio.»
«Sì, papà. È stato fantastico.»
«Tu sei fantastica.» Mi schioccò un bacio impetuoso sulla bocca - in
cambio, forse, di quello che sua madre aveva trattenuto - e passò oltre le
porte scorrevoli. Si girò ancora una volta per salutarmi con la mano, quando era ormai solo una sagoma di ragazza dietro il vetro polarizzato. Non so
cosa darei per averla potuta vedere meglio, perché non la rividi mai più.
7
Dal Ringling Art Museum avevo mandato messaggi a Wireman, uno
all'impresa di onoranze funebri e l'altro alla segreteria telefonica di El Palacio, avvertendo che sarei tornato verso le tre e chiedendogli di incontrarmi lì. Lo invitai anche a dire a Jack che, se era abbastanza grande per
votare e per fare baldoria con le studentesse dell'università che frequentava, era anche abbastanza grande per aver cura del suo dannato cellulare.
Erano in realtà quasi le tre e mezzo quando tornai sulla key, ma nello
spiazzo dissestato a destra di Big Pink c'erano entrambe le macchine, quella di Jack e la Mercedes d'epoca di Elizabeth e i miei due amici erano seduti dietro casa a bere tè freddo. Jack indossava ancora il completo grigio,
ma i suoi capelli avevano ripreso il loro usuale aspetto disordinato e, sotto
la giacca, indossava una maglietta dei Devil Rays. Wireman era in jeans
neri e camicia bianca con il colletto slacciato; in testa portava a sghimbescio un berretto dei Nebraska Cornhuskers.
Parcheggiai, scesi e mi sgranchii cercando di rimettere in funzione l'anca
malconcia. Loro si alzarono e mi vennero incontro, nessuno dei due sorridendo.
«Partiti tutti, amigo?» mi chiese Wireman.
«Tutti eccetto zia Jean e zio Ben», risposi. «Sono due scrocconi incalliti,
abituati a spremere una cosa buona fino all'ultima goccia.»
Jack sorrise, ma solo con le labbra. «Ogni famiglia ha i suoi», sentenziò.
«Come stai?» domandai a Wireman.
«Quanto a Elizabeth sto bene. Hadlock sostiene che probabilmente è andata nel modo migliore e immagino che abbia ragione. Quanto al fatto che
mi abbia lasciato un patrimonio che, tra contanti, titoli e immobili si aggira
sui centosessanta milioni di dollari...» Scosse la testa. «È un'altra storia.
Forse un giorno godrò del lusso di cercare di far mente locale, ma ora come ora...»
«Ora come ora c'è qualcos'altro di cui occuparsi.»
«Sí, señor. Ed è molto strano.»
«Quanto hai raccontato a Jack?»
Wireman manifestò un certo imbarazzo. «Be', ti dirò, amigo, una volta
cominciato mi è stato dannatamente difficile trovare un punto dove mi potessi ragionevolmente fermare.»
«Mi ha raccontato tutto», disse Jack. «Almeno a sentire lui. Compreso
quello che pensa che tu abbia fatto per il suo occhio e quello che tu pensi
di aver fatto a Candy Brown.» Fece una pausa. «E le due bambine che hai
visto.»
«Hai qualcosa da dire su Candy Brown?» gli domandai.
«Fosse per me, ti darei una medaglia. E probabilmente i cittadini di Sarasota ti dedicherebbero un carro alla sfilata del Memorial Day.» Jack si
infilò le mani nelle tasche. «Ma se mi avessi detto in autunno che una cosa
del genere può succedere fuori di un film di M. Night Shyamalan, mi sarei
messo a ridere.»
«E la settimana scorsa?» chiesi.
Jack rifletté. Dall'altra parte di Big Pink le onde s'infrangevano a ritmo
costante. Sotto il mio soggiorno e la camera da letto le conchiglie stavano
sicuramente conversando. «No», rispose. «Probabilmente non mi sarei
messo a ridere. Fin da quando sei arrivato ho sentito che avevi qualcosa,
Edgar. Sei sceso quaggiù e...» Si intrecciò le dita delle mani. E io pensai
che era giusto. Così era stato. Come le dita di due mani che si intrecciano.
E il fatto che io ne avessi una sola non aveva mai contato.
Non lì.
«Cosa stai dicendo, hermano?» intervenne Wireman.
Jack si strinse nelle spalle. «Edgar e Duma. Duma e Edgar. È stato come
se si stessero aspettando a vicenda.» Era in imbarazzo, ma non insicuro.
Io indicai la casa. «Entriamo.»
«Digli prima della cesta», ribatté Wireman rivolgendosi a Jack.
«Trovarla è stato facile, nemmeno venti minuti. Era in fondo alla soffitta, su una vecchia cassettiera. La luce che entrava da una delle prese d'aria
le finiva dritto addosso. Come se volesse essere trovata.» Lanciò un'occhiata a Wireman, che annuì. «Comunque l'abbiamo portata giù, in cucina,
e ci abbiamo guardato dentro. Era pesante da far paura.»
Il commento di Jack sulla pesantezza del paniere mi fece ripensare a
Melda, la governante, nel ritratto di famiglia, in cui lo reggeva con i muscoli delle braccia contratti. Evidentemente era molto pesante anche allora.
«Wireman mi ha detto di portare la cesta qui per te, visto che ho una
chiave... solo che non ho avuto bisogno della chiave. La porta era aperta.»
«In senso letterale?»
«No, non era chiusa a chiave. La prima cosa che ho fatto è stata girare la
chiave nella serratura e di conseguenza l'ho chiusa io. Ci sono rimasto di
sasso.»
«Andiamo», tagliò corto Wireman avviandosi. «È l'ora delle carte in tavola.»
C'era un notevole quantitativo di detriti del Golfo sparsi sul parquet
dell'ingresso: sabbia, conchigliette, un paio di baccelli di sophora e steli di
cladium. C'erano anche impronte. Quelle di scarpe da tennis erano di Jack.
Furono le altre a farmi increspare la pelle. Ne distinsi tre serie, una di orme
grandi e due più piccole. Quelle piccole erano di bambini. Tutte erano di
piedi scalzi.
«Vedi come vanno su per le scale diventando sempre meno nitide?»
chiese Jack.
«Sì», dissi. Sentii la mia voce diafana e distante.
«Io ci ho camminato accanto perché non volevo confonderle», m'informò Jack. «Se avessi saputo prima quello che Wireman mi ha raccontato
mentre ti aspettavamo, non credo che sarei salito.»
«Ti capisco», commentai.
«Ma di sopra non c'era nessuno», continuò Jack. «Solo... be', vedrai da
te. Ma ti mostro una cosa.» Mi portò al lato della scala. Da lì avevamo il
nono gradino all'altezza degli occhi e con la luce che lo illuminava di sbie-
co vidi, appena accennate, le impronte di piccoli piedi rivolti verso il basso.
«A me sembra abbastanza chiaro come è andata», concluse Jack. «I
bambini sono saliti nel tuo studio e sono ridiscesi. L'adulto è rimasto alla
porta, probabilmente a montare di guardia... anche se doveva essere notte e
non c'era molto da cui guardarsi. Tu metti sempre l'allarme?»
«No», ammisi evitando i suoi occhi. «Non ricordo i numeri. Li tengo
scritti su un foglietto nel portafogli, ma ogni volta che varco quella soglia
la mia vita diventa una corsa contro il tempo, una gara tra me e quella dannata tastiera sul muro...»
«Non fa niente.» Wireman mi prese per una spalla. «Questi intrusi non
hanno preso niente. Hanno lasciato.»
«Non crederai davvero che le sorelle morte della signorina Eastlake siano venute a farti un'altra visita, vero?» chiese Jack.
«Per la verità credo di sì.» Pensavo che la mia risposta sarebbe suonata
stupida nella luce forte di quel pomeriggio di aprile con il sole che rovesciava i suoi raggi nel Golfo facendone risplendere la superficie. Ma non
fu così.
«In Scooby Doo, salterebbe fuori che era il bibliotecario pazzo», disse
Jack. «Sai, che cercava di farti scappare dalla key per poter tenere il tesoro
tutto per sé.»
«Sarebbe bello», commentai.
«Ammettendo che le impronte piccole siano state lasciate veramente da
Tessie e Laura Eastlake», disse Wireman, «di chi sono quelle grandi?»
Nessuno di noi rispose.
«Andiamo di sopra», proposi finalmente. «Voglio vedere cosa c'è in
quella cesta.»
Salimmo (evitando le impronte, non per preservarle ma semplicemente
perché nessuno di noi voleva calpestarle) ed entrammo nella Little Pink.
La cesta da picnic, tale e quale a quella che avevo disegnato con la penna
rossa rubata a Gene Hadlock, era posata sulla moquette, ma i miei occhi
andarono prima al cavalletto.
«Puoi capire come me la sia data a gambe quando ho visto quello», confessò Jack.
Potevo capire, ma io non provai lo stesso impulso. Anzi, tutto il contrario. Mi sentii piuttosto attratto, come da una calamita. Qualcuno aveva posato sul cavalletto una tela nuova e poi, in un momento imprecisato della
notte, forse mentre Elizabeth moriva, forse mentre io facevo sesso per l'ul-
tima volta con Pam, forse mentre dormivo al suo fianco, qualcuno aveva
intinto un dito in uno dei miei colori. Quale dito? Non so. Quale colore?
Quello era ovvio: rosso. Le lettere incerte e gocciolanti che erano state
tracciate sulla tela erano rosse. E accusatorie. Sembrava quasi che urlassero.
dove nostra
sorella
8
«Found art», dissi in una voce rinsecchita e vibrante che non somigliava
minimamente alla mia.
«Arte istintiva?» chiese Wireman.
«Certamente.» Mi sembrò che le lettere si muovessero e mi asciugai gli
occhi. «Arte rupestre. Alla Scoto ne andrebbero matti.»
«Sarà, ma a me fa star solo male», ribatté Jack. «Mi dà i brividi.»
Anche a me. Ed era il mio studio, dannazione. Il mio. La casa, l'avevo
affittata io. Tolsi con rabbia la tela dal cavalletto, aspettandomi per un
momento che mi bruciasse le dita. Non accadde. Era solo una tela, del resto, una di quelle che avevo teso io stesso. L'appoggiai al muro, girata
dall'altra parte. «Meglio?»
«Senz'altro», mi rispose Jack e Wireman annuì. «Edgar... se quelle bambine sono state qui... ma i fantasmi possono scrivere sulle tele?»
«Se possono muovere la planchette di una tavola Ouija e scrivere nella
condensa sui vetri delle finestre, immagino che possano scrivere su una tela», risposi. Poi, abbastanza a malincuore, aggiunsi: «Ma non vedo come
un fantasma potrebbe aprire la mia porta con una chiave. O posare una tela
sul cavalletto».
«Perché, non era già lì?» volle sapere Wireman.
«Sono matematicamente sicuro di no. Quelle nuove sono tutte nell'angolo.»
«Chi è la sorella?» domandò Jack. «Chi è la sorella di cui chiedono?»
«Dev'essere Elizabeth. L'unica sorella rimasta.»
«Sciocchezze», obiettò Wireman. «Se a girare vestite delle proverbiali
lenzuola erano Tessie e Laura, non avrebbero avuto alcuna difficoltà a trovare la sorella Elizabeth. È stata qui a Duma Key per oltre cinquantacinque
anni e Duma è l'unico posto che loro abbiano mai conosciuto.»
«E le altre?» chiesi.
«Maria e Hannah sono morte entrambe», disse Wireman. «Hannah negli
anni Settanta, nello stato di New York a Ossining, credo; e Maria nei primi
anni Ottanta, sulla costa occidentale, non so bene dove. Sposate tutte e due, Maria un paio di volte. Sono cose che ho saputo da Chris Shannington,
non dalla signorina Eastlake. Lei parlava qualche volta di suo padre, ma
mai delle sorelle. Quando ritornò a Duma con John nel millenovecentocinquantuno tagliò i ponti con il resto della famiglia.»
dove nostra sorella?
«E Adriana? Cosa sai di lei?»
Si strinse nelle spalle. «Quién sabe? Ingoiata dalla storia. Shannington
pensa che quando sospesero le ricerche delle bambine sia tornata ad Atlanta con il marito. Al servizio funebre non c'erano.»
«Può darsi che abbia ritenuto il padre responsabile dell'accaduto», ipotizzò Jack.
Wireman annuì. «O più semplicemente non se la sentiva di restare qui.»
Ricordai il muso lungo di Adriana, la sua espressione da vorrei-esserealtrove nel ritratto di famiglia e conclusi che Wireman poteva aver visto
giusto.
«In tutti i casi», continuò lui, «dev'essere morta anche lei. Se fosse viva,
dovrebbe avere quasi cento anni. Le probabilità sono abbastanza scarse.»
dove nostra sorella?
Wireman mi afferrò per il braccio costringendomi a girarmi verso di lui.
Aveva il volto teso, sembrava invecchiato. «Muchacho, se è vero che una
forza soprannaturale si è impossessata della signorina Eastlake per impedirle di parlare, forse faremmo bene a mangiare la foglia e filarcela da
Duma Key.»
«Io penso che potrebbe essere già troppo tardi», gli risposi.
«Perché?»
«Perché si è risvegliata. Così ha detto Elizabeth prima di morire.»
«Chi si è svegliato?»
«Perse», dissi.
«E chi sarebbe?»
«Non lo so. Ma credo che ci sia stato affidato il compito di rimetterla a
dormire annegandola.»
9
La cesta da picnic era stata rossa da nuova e nel corso della sua lunga vita si era scolorita molto poco, forse perché tanta parte di essa era trascorsa
nel buio della soffitta. Cominciai soppesando un manico. Era davvero pesante, se non arrivava a dieci chili ci mancava poco. I vimini del fondo, per
quanto saldamente intrecciati, avevano ceduto un po'. Posai nuovamente la
cesta sul pavimento, rovesciai all'infuori i sottili manici di legno e aprii il
coperchio, i cui cardini emisero un lieve cigolio.
C'erano matite colorate, quasi tutte ridotte a mozziconi. E c'erano disegni
eseguiti ben oltre ottant'anni prima da una certa bambina prodigio. Una
bambina che era caduta da un carretto giocattolo all'età di due anni e aveva
battuto la testa e si era svegliata in preda alle convulsioni e dotata di una
magica capacità artistica. Tutto questo mi era chiaro anche se il disegno sul
primo foglio non era nemmeno un disegno, non proprio, era solo:
Sollevai il foglio. Sotto c'era questo:
Dopodiché i disegni diventavano veri disegni, migliorando per tecnica e
composizione a una velocità impensabile. A meno di essere un certo Edgar
Freemantle, che non era stato capace di fare altro che scarabocchiare finché un certo incidente in un certo cantiere non lo aveva privato di un braccio e schiacciato il cranio spingendolo a un passo dalla morte.
Aveva disegnato campi. Palme. La spiaggia. Una gigantesca faccia nera,
rotonda come un pallone, con una sorridente bocca rossa: probabilmente
Melda, la tata, sebbene quella Melda sembrasse piuttosto una bambina cresciuta a dismisura e ritratta in un primo piano estremo. Poi animali, procioni, una testuggine, un cervo, una lince, tutti di dimensioni naturali, ma
disegnati o nell'atto di camminare sulle acque del Golfo o di volare nel cielo. Trovai un airone, squisitamente particolareggiato, sul parapetto del balcone della casa in cui era cresciuta. Subito dopo c'era un altro acquerello
dello stesso uccello, solo questa volta in volo, rovesciato, sopra la piscina.
I vivi occhi dell'airone avevano la stessa tinta dell'acqua della piscina. Fa-
ceva quello che ho fatto anch'io, pensai e cominciò a formicolarmi di nuovo la pelle. Cercava di reinventare l'ordinario rappresentandolo in una
dimensione onirica.
Come avrebbero reagito Dario, Jimmy e Alice se avessero visto quei disegni? Puro solluchero, ne ero certo.
Due bambine, certamente Tessie e Laura, con sorrisoni da zucca di Halloween che volutamente strabordavano dai volti.
Un papà più grande della casa di fianco alla quale sostava -doveva essere la prima Heron's Roost - intento a fumare un sigaro grosso come un dirigibile. La luna sopra di lui era inghirlandata da un anello di fumo.
Due bambine vestite di verde scuro su una sterrata con i libri di scuola in
bilico sulla testa come fanno certe giovani donne africane per trasportare i
loro recipienti: Maria e Hannah, senza dubbio. Dietro di loro una fila di
rane. In spregio della prospettiva, le rane diventavano più grandi invece
che più piccole.
Poi cominciava la fase dei cavalli sorridenti. Ce n'erano più di una decina. Li sfogliai, poi tornai indietro e mi fermai su uno in particolare. «Questo è quello che si vede nell'articolo.»
«Va' più avanti», mi esortò Wireman. «Ancora non hai visto niente.»
Altri cavalli... altri famigliari, disegnati a matita o a carboncino o in vivaci acquerelli, ritratti quasi sempre tenendosi per mano come figurine di
carta... quindi una tempesta, vento sferzante che sollevava onde nella vasca
della piscina e strapazzava le fronde di una palma.
C'erano ben più di cento disegni in tutto. Bambina o no, aveva sturato
anche lei. Altre due o tre rappresentazioni di tempesta, forse l'Alice che
aveva dissepolto il tesoro di Eastlake, forse solo un potente fortunale, impossibile dirlo con certezza... poi il Golfo... di nuovo il Golfo, questa volta
con pesci volanti grandi come delfini... il Golfo con pellicani con arcobaleni nel becco... il Golfo al tramonto... e...
Mi fermai con il fiato bloccato nella gola.
A confronto con molti di quelli che avevo appena passato, questo era
semplicissimo, nient'altro che la silhouette di una nave su uno sfondo di
luce morente, colta al confine tra il giorno e la notte, ma era la sua semplicità a dare al disegno la sua incredibile forza. Così avevo certamente pensato io nel disegnare la stessa nave la mia prima notte a Big Pink. C'era lo
stesso cavo, tirato tra la prua e quella che all'epoca di Elizabeth probabilmente chiamavano antenna Marconi, a creare un brillante triangolo arancione. C'era la stessa graduale mutazione della luce dal basso verso l'alto,
dall'arancione al blu. C'era la medesima ombreggiatura, solo apparentemente sbadata nel rispetto dei profili, a trasformare la nave, più stilizzata
della mia, in uno scafo fantasma in rotta verso nord.
«Questo disegno l'ho fatto anch'io», mormorai.
«Lo so», disse Wireman. «L'ho visto. Tu l'hai intitolato Ciao.»
Sfogliai in fretta la raccolta saltando un gran numero di acquerelli e disegni a matita. Sapevo che cosa avrei trovato prima o poi. E infatti, ormai
vicino alla fine, m'imbattei nel primo disegno della Perse. Solo che l'aveva
ricreata, uno scafo snello ed elegante, con tre alberi, a vele raccolte, nei
flutti verde-blu del Golfo sotto un classico sole alla Elizabeth Eastlake, di
quelli che sparano lunghi e gioiosi raggi di luce. Era un piccolo capolavoro
a cui mancava solo un calypso di sottofondo.
Ma a differenza dei suoi altri lavori, quello appariva falso.
«Avanti, muchacho.»
La nave... la nave... famiglia, quattro membri della famiglia, se non altro, sulla spiaggia, mano nella mano come figurine ritagliate, e quei grandi
sorrisi gioiosi alla Elizabeth... la nave... la casa, con quella che sembrava
una statuetta ornamentale nel prato, un negretto a testa in giù... la nave,
quel meraviglioso vascello bianco... John Eastlake...
John Eastlake che urlava... sangue che gli colava dal naso e un occhio...
Restai a fissarlo impietrito. Era l'acquerello di un bambino, ma eseguito
con maestria diabolica. Ritraeva un uomo impazzito di terrore o dolore o
entrambi.
«Mio Dio», mormorai.
«Ancora uno, muchacho», m'incalzò Wireman. «Uno solo.»
Passai oltre l'uomo urlante. I vecchi acquerelli crepitarono come ossa.
Sotto il padre atterrito c'era di nuovo la nave, solo che questa volta era veramente la mia, la mia Perse. Elizabeth l'aveva dipinta di notte e non con
un pennello: nelle volute di grigio e nero riconoscevo ancora l'impronta
rinsecchita dal tempo delle sue dita di bimba. Questa volta era come se avesse finalmente gettato lo sguardo dietro il travestimento della Perse. Le
assi erano scheggiate, le tele flaccide e piene di strappi. Intorno a lei, blu
nella luce della luna che non sorrideva e non proiettava raggi gioiosi, centinaia di braccia scheletriche emergevano dall'acqua in un gocciolante saluto. Eretta sul ponte di prua, c'era una forma pallida e cadente, vagamente
femminile, avvolta in un indumento marcescente che poteva essere una
mantella, un sudario... o una tunica. Era la donna in tunica rossa, la mia
donna in tunica rossa, vista però frontalmente. Dalla sua testa mi guarda-
vano tre orbite vuote e il sottostante sorriso traboccava dai lati del volto in
una caotica confusione di labbra e denti. Era molto più orrenda dei miei
dipinti di Bambina e nave perché andava diritto al cuore senza concedere
alla mente il tempo di prepararsi ad accettarlo. Questo è il colmo dell'orrore, diceva. Questo è tutto quello che hai sempre avuto il terrore di trovare
ad aspettarti nel buio. Guarda come il sorriso scorre dal suo volto nella
luce della luna. Guarda come lo riveriscono gli annegati.
«Cristo santo», gemetti alzando gli occhi su Wireman. «Quando, secondo te? Dopo che le sorelle?...»
«Dev'essere stato per forza dopo. Dev'essere stato il suo modo di rendere
accettabile la tragedia, non credi?»
«Non so», risposi. Da una parte cercavo di pensare alle mie figlie e
dall'altra mi sforzavo di non farlo. «Non so come un bambino, qualsiasi
bambino, possa concepire qualcosa come questo.»
«Memoria collettiva», disse Wireman. «Così la definirebbero gli junghiani.»
«E come mai io mi sono ritrovato a dipingere lo stesso vascello del cazzo? Forse addirittura questa stessa maledetta creatura, solo ritratta da dietro? Gli junghiani hanno qualche teoria anche su questo?»
«Sulla nave di Elizabeth non c'è Perse», commentò Jack.
«Doveva avere quattro anni», replicai. «Dubito che il nome avrebbe potuto colpirla.» Pensai ai suoi disegni precedenti, quelli in cui lo stesso scafo era un meraviglioso inganno in cui per un po' aveva creduto lei stessa.
«Specialmente dopo che ha visto che cos'era in realtà.»
«Ne parli come se fosse reale», osservò Wireman.
Non avevo più saliva in bocca. Andai in bagno a prendere dell'acqua. Ne
bevvi un bicchiere. «Non so nemmeno io che cosa credo», dichiarai, «ma
in generale mi affido a un concetto di logica elementare, Wireman. Se una
sola persona vede una cosa, può essere un'allucinazione. Se la vedono due
persone diverse, le probabilità che sia realtà aumentano in maniera esponenziale. In questo caso io ed Elizabeth abbiamo visto entrambi la Perse.»
«Nella vostra immaginazione», puntualizzò Wireman. «L'avete vista nella vostra fantasia.»
Io puntai l'indice sul suo occhio. «Hai visto da te che cosa è capace di fare la mia fantasia.»
Non rispose, ma annuì. Era molto pallido.
«Tu hai detto: Dopo che ha visto che cos'era in realtà», mi citò Jack.
«Se la nave che c'è in quel disegno è reale, che cosa sarebbe di preciso?»
«Io credo che tu lo sappia», gli rispose Wireman. «Credo che lo sappiamo tutti. È un po' difficile non vederlo. Solo che abbiamo paura di dirlo a
voce alta. Coraggio, Jack. Dio odia i vigliacchi.»
«E va bene, è un vascello di morti», disse Jack. La sua voce risuonò
piatta nell'ambiente lindo e ben illuminato del mio studio. Si portò le mani
alla testa e si passò lentamente le dita nei capelli, spettinandoli ancora di
più. «Ma vi dirò una cosa, ragazzi: se è quello che devo aspettarmi alla fine dei miei giorni, mi vien voglia di rimpiangere di essere mai nato.»
10
Posai sulla moquette i disegni e gli acquerelli, felice di non avere più
sotto gli occhi gli ultimi due. Poi guardai quello che si trovava sul fondo
della cesta a renderla così pesante.
Erano munizioni per la pistola subacquea. Presi uno dei dardi. Era lungo
un paio di spanne ed era molto pesante. L'asta era d'acciaio, non di alluminio; non ero nemmeno sicuro che l'alluminio fosse stato inventato negli
anni Venti. La punta era a tre ardiglioni, che, nonostante l'ossidazione, avevano l'aria di essere ancora molto affilati. Ne toccai uno con il polpastrello e sulla pelle apparve all'istante una minuscola gocciolina di sangue.
«Quella, è meglio che te la disinfetti», commentò Jack.
«Sì, certo», risposi. Mi rigirai l'arpione tra le mani e il sole del pomeriggio ne spedì i riflessi sulle pareti. Aveva una sua macabra bellezza, un paradosso riservato forse esclusivamente a certe armi di grande efficienza.
«Questo non potrebbe viaggiare molto in acqua», osservai. «È troppo
pesante.»
«Resteresti sorpreso», mi contraddisse Wireman. «La pistola non solo fa
scattare una molla, ma aziona anche una cartuccia di CO2. È una bella botta. E a quei tempi non era necessario tirare molto lontano. Il Golfo era pieno zeppo di pesci, anche sotto costa. Eastlake trovava facilmente prede da
poter centrare a uno o due metri di distanza.»
«Non capisco queste punte.»
«Nemmeno io», mi fece eco Wireman. «La signorina aveva almeno una
decina di arpioni, compresi i quattro montati in biblioteca, ma nessuno
come questi.»
Jack era andato in bagno ed era tornato con un flacone di acqua ossigenata. Ora prese l'arpione che avevo in mano e ne esaminò la punta a tre ardiglioni. «Cos'è? Argento?»
Wireman alzò il pollice e distese l'indice a mimare una pistola puntata su
di lui. «Non ti entusiasmare troppo, ma Wireman pensa che tu abbia fatto
centro, ragazzo mio.»
«E non ci arrivate?» ribatté lui.
Io e Wireman ci scambiammo un'occhiata perplessa.
«Non avete visto i film giusti», concluse Jack. «I proiettili d'argento servono per uccidere i lupi mannari. Non so se l'argento funzioni anche sui
vampiri, ma evidentemente qualcuno lo credeva. O sperava.»
«Se stai pensando che Tessie e Laura Eastlake siano dei vampiri», disse
Wireman, «devono aver sviluppato una sete bestiale dal millenovecentoventisette a oggi.» Mi guardò aspettandosi solidarietà.
«Io credo che Jack non abbia tutti i torti», commentai. Presi l'acqua ossigenata, vi immersi il dito che mi ero punto e agitai un paio di volte il flacone.
«Come fa il vero uomo», mi rimproverò Jack con una smorfia.
«Perché, avevi in mente di berla?» risposi e, dopo un momento di riflessione, scoppiammo a ridere insieme.
«Eh?» chiese Wireman. «Non capisco.»
«Lascia perdere», disse Jack ancora sorridendo. Poi ridiventò serio. «Ma
i vampiri non esistono, Edgar. Potrebbero essere fantasmi, fin qui te lo
posso concedere, credo che quasi tutti ammettano la possibilità dei fantasmi, ma i vampiri no, non esistono.» Un'idea gli illuminò gli occhi. «E poi
ci vuole un vampiro per fare un altro vampiro. Le gemelle sono annegate.»
Io raccolsi nuovamente il corto arpione e lo ruotai proiettando sul muro i
riflessi della punta ossidata. «Questo però dà da pensare.»
«Effettivamente...» convenne Jack.
«E anche la porta che avete trovato aperta quando avete portato qui la
cesta da picnic», aggiunsi. «Le impronte. La tela presa da quelle ancora intonse e posata sul cavalletto.»
«Vuoi dire che alla fine è stato proprio il bibliotecario pazzo, amigo?»
«No, dico solo...» Mi si increspò la voce, si ruppe. Dovetti bere un altro
sorso d'acqua prima di poter continuare. «Solo che forse dal mondo dei
morti non tornano solo i vampiri.»
«E cioè?» sbottò Jack. «Zombie?»
Io pensai alla Perse con le sue vele marce. «Diciamo disertori.»
11
«Sicuro di voler restare qui da solo questa notte, Edgar?» domandò Wireman. «Perché io non so se è una gran bell'idea. Specialmente avendo per
compagnia tutti quei vecchi disegni.» sospirò. «Sei riuscito a far venire a
Wireman un attacco di tremarella di prima classe.»
Eravamo nella Florida room a guardare il sole che iniziava il suo lungo,
lento declino verso l'orizzonte. Io avevo offerto formaggio e cracker.
«Dubito che funzionerebbe in altro modo», obiettai. «Vedimi come un
pistolero del mondo dell'arte. Io dipingo solo, socio.»
Jack mi lanciò un'occhiata da sopra un bicchiere appena riempito di tè
freddo. «Hai intenzione di dipingere?»
«Diciamo meglio di disegnare. Che è quello che so fare davvero.» E nel
ricordare un certo paio di guanti da giardinaggio -con MANI scritto sul
dorso di uno e GIÙ LE sul dorso dell'altro -mi sembrò che disegnare sarebbe stato sufficiente, specialmente se lo avessi fatto con le matite colorate della piccola Elizabeth Eastlake.
Mi rivolsi a Wireman. «Tu devi fare gli onori di casa in camera ardente
questa sera, giusto?»
Wireman controllò l'ora e sospirò. «Giusto. Dalle sei alle otto. Domani
ci sono altre visite in programma da mezzogiorno alle due. Parenti che
vengono da lontano a mostrare le zanne all'intruso usurpatore. Che sarei io.
Poi l'atto finale, dopodomani. La cerimonia sarà alla Unitarian Universalist
Church di Osprey. Alle dieci. Poi la cremazione all'Abbot-Wexler. Sfrigola
e scoppietta, au revoir, Elisabetta.»
Jack fece una smorfia. «Grazie per questa bella immagine stomachevole.»
Wireman annuì. «Ma la morte è stomachevole, figliolo. Ricordi cosa
cantavamo da bambini? 'Vermi e larve fanno il bis, dalla pancia soffia gas,
come crema scorre il pus.'»
«Fine», commentai.
«Già», convenne Wireman. Scelse un altro cracker, lo osservò, poi lo
scagliò violentemente sul vassoio. Il cracker rimbalzò cadendo sul pavimento. «È da matti. Tutto quanto.»
Jack raccolse il cracker, parve considerare se mangiarlo, poi preferì posarlo sul tavolo. Forse aveva concluso che mangiare cracker raccolti dal
pavimento della Florida room violava un'altra convenzione del codice del
vero uomo. Probabilmente era così. Ce ne sono talmente tante.
«Questa sera», chiesi a Wireman, «quando torni indietro, vieni a vedere
come sto?»
«Sì.»
«Se ti dico che va tutto bene e che puoi andare a casa, ci vai senza discutere.»
«Non ti devo interrompere se stai comunicando con la tua musa. O con
gli spiriti.»
Annuii, perché non ci era andato tanto lontano. Poi mi rivolsi a Jack. «E
tu resti a El Palacio mentre Wireman è alla camera ardente, d'accordo?»
«Certo, se è quello che volete.» Sembrava un po' a disagio, per la verità,
e non lo potevo biasimare. La casa era grande, Elizabeth ci era vissuta per
molto tempo ed era lì dove i ricordi di lei erano più vivi. Sarei stato sulle
spine anch'io se non fossi stato così sicuro che le entità maligne di Duma
Key si trovassero altrove.
«Se ti chiamo, vieni di corsa.»
«Senz'altro. Chiamami al numero di casa o sul mio cellulare.»
«Sicuro che il tuo cellulare funzioni?»
Mostrò un lieve imbarazzo. «La batteria era un po' giù. L'ho caricata in
macchina.»
«Mi piacerebbe tanto capire meglio perché sei così convinto di doverti
infognare in questa faccenda, Edgar», mi apostrofò Wireman.
«Perché non è finita. Lo era stato per anni. Per anni Elizabeth è vissuta
qui in serenità, prima con suo padre e poi da sola. Aveva le sue attività benefiche, aveva i suoi amici, giocava a tennis, giocava a bridge, così mi ha
riferito Mary Ire, e soprattutto aveva la scena artistica della costa del sole.
Era la vita tranquilla e gratificante di una donna anziana con un sacco di
soldi e pochi vizi a parte le sigarette. Poi la situazione ha cominciato a
cambiare. La lotería. L'hai detto tu stesso, Wireman.»
«Tu sei davvero convinto che ci sia qualcosa che manovra tutti questi
fenomeni», commentò lui. Non con incredulità; con apprensione.
«È quello che credi tu», replicai.
«Qualche volta sì. Non è quello che voglio credere. Che ci sia qualcosa
di così potente... con una vista così acuta da riuscire a vedere te... me... e
Dio sa chi o cos'altro ancora...»
«Non piace neppure a me», risposi, ma non ero molto sincero. Perché la
verità era che aborrivo quell'eventualità. «Non mi piace l'idea che qualcosa
sia intervenuto a impedire a Elizabeth di parlare uccidendola... forse spaventandola a morte.»
«E tu pensi di poter scoprire che cosa c'è dietro attraverso quei disegni.»
«Da alcuni di quei disegni, sì», confermai. «Fino a che punto riuscirò a
fare chiarezza lo saprò solo dopo aver tentato.»
«E poi?»
«Dipende. Quasi certamente una gita all'estremità sud della key. Ci sono
questioni rimaste in sospeso laggiù.»
Jack posò il suo bicchiere. «Quali questioni?»
Scossi la testa. «Non lo so. Forse me lo diranno i suoi disegni.»
«Basta che non ti spingi troppo al largo per poi scoprire di non poter più
tornare a riva», mi ammonì Wireman. «Che è quello che è successo a quelle due bimbe.»
«Lo so.»
Jack mi puntò il dito addosso. «Occhio alla penna. Come fa il vero uomo.»
Annuii e puntai a mia volta il dito su di lui. «Come fa il vero uomo.»
15
Intruso
1
Venti minuti più tardi sedevo nella Little Pink con il mio album da disegno sulle ginocchia e la cesta rossa da picnic al mio fianco. Direttamente
davanti a me, a colmare di luce la vetrata rivolta a occidente, c'era il Golfo.
Lontano, sotto di me, c'era il mormorio delle conchiglie. Avevo spostato il
cavalletto e coperto il mio tavolo da lavoro inzaccherato di colori con un
telo, su cui avevo disposto i resti delle matite colorate dopo averle ritemperate. Non rimaneva molto di quelle matite, che erano larghe e un po' antiquate, ma ritenevo che bastassero. Io ero pronto.
«Pronto un cazzo», brontolai. Non sarei mai stato pronto per una cosa
come quella e sotto sotto speravo che non accadesse nulla. Ma pensavo
che fosse inevitabile. Pensavo che fosse quello il motivo per cui Elizabeth
aveva voluto che trovassi i suoi disegni. Ma quanto rammentava veramente di ciò che si trovava dentro la cesta rossa? Secondo me Elizabeth aveva
dimenticato quasi tutto di quanto le era successo da bambina ancor prima
dell'avvento dell'Alzheimer a complicare le cose. Perché non sempre dimenticare è involontario. Alle volte è invocato.
Chi vorrebbe ricordare qualcosa di così orribile da far urlare il proprio
padre fino a farlo sanguinare? Meglio smettere del tutto di disegnare. Meglio piantarla lì di punto in bianco. Meglio dire a tutti di non essere capaci
nemmeno di disegnare pupazzetti, proclamare di essere, nei confronti
dell'arte, come certi ex alunni ricchi che sostengono le squadre del proprio
college: se non puoi fare l'atleta, fai il tifoso. Meglio espellerlo completamente dalla propria mente e, nella vecchiaia, lasciare che la senilità faccia
pulizia del resto.
Oh, può sempre rimanere qualcosa dell'antico talento, come tessuto cicatrizzato sulla dura madre del cervello dopo un vecchio infortunio (causato
dalla caduta da un carretto giocattolo, per esempio), e allora può essere necessario trovare il modo di farlo sfogare di tanto in tanto, esprimerlo come
un accumulo di pus di un'infezione che non guarirà mai veramente del tutto. Così ci si interessa all'arte altrui. Si diventa in pratica un patrono delle
arti. E se non bastasse ancora? Allora magari ci si mette a collezionare miniature di porcellana. Si comincia a fabbricarsi una Porcy Town. Nessuno
definirebbe arte la creazione di tableau di quel genere, ma è certamente un
esercizio immaginativo ed esercitare regolarmente l'immaginazione - il suo
aspetto visuale soprattutto - è sufficiente a fermarlo.
Fermare cosa?
Il prurito, naturalmente.
Quel dannato prurito.
Mi grattai il braccio destro, vi passai attraverso e per l'ennesima volta
trovai solo le costole. Aprii il mio album sul primo foglio.
Comincia con una superficie vuota.
Mi chiamava come ero sicuro che una volta fogli bianchi come quello
avevano chiamato lei.
Riempimi. Perché il bianco è l'assenza della memoria, il colore del non
ricordo. Fai. Mostra. Disegna. E quando lo fai, il prurito va via. Per un
po' la confusione si placa.
Ti prego, resta sulla key, aveva detto. Qualunque cosa accada. Abbiamo
bisogno di te.
Pensai che potesse aver detto il vero.
Disegnai alla svelta. Solo pochi tratti. Qualcosa che poteva essere una
carrozzella. O magari un carretto, fermo immobile in attesa di un cavalluccio.
«Vivevano qui abbastanza serenamente», dissi allo studio deserto. «Padre e figlie. Poi Elizabeth cadde dal carretto e cominciò a disegnare, l'uragano giunto fuori stagione disseppellì i rottami, le bambine annegarono.
Allora i superstiti si rifugiarono a Miami e i guai cessarono. E, quando tornarono quasi venticinque anni più tardi...»
Sotto il carretto scrissi BENE. Riflettei. Aggiunsi DI NUOVO. BENE
DI NUOVO.
Bene, sussurrarono le conchiglie sotto la casa. Bene di nuovo.
Sì, andava tutto bene, John ed Elizabeth stavano bene. E dopo la morte
di John, Elizabeth aveva continuato a vivere bene. Bene con le sue mostre
d'arte. Bene con le sue statuine. Poi per qualche ragione la situazione aveva cominciato a cambiare di nuovo. Non sapevo se la morte della moglie e
della figlia di Wireman rientrassero in quel mutamento, ma non lo escludevo. E quanto al suo e al mio arrivo a Duma Key pensavo che non ci fossero dubbi. Non avevo nessun motivo razionale per crederlo, ma me lo
sentivo.
Le condizioni su Duma Key erano state normali... poi strane... poi per un
lungo periodo erano ridiventate normali. E ora...
È sveglia.
La tavola perde.
Se volevo sapere che cosa stava accadendo, dovevo sapere che cosa era
accaduto. Pericoloso o no, era necessario.
2
Presi il suo primo disegno, che non era un vero disegno ma solo una riga
titubante tracciata attraverso il centro del foglio. Lo presi nella mia mano
sinistra, chiusi gli occhi e finsi di toccarlo con la destra, come avevo fatto
con i guanti da giardinaggio di Pam. Cercai di vedere le dita della destra
sfiorare quella riga esitante. Ci riuscii, più o meno, ma mi sentii invaso da
una certa disperazione. Avrei dovuto continuare così con tutti i disegni? Ce
ne saranno stati centocinquanta a volersi limitare a un calcolo prudente, e
poi non è che mi sentissi precisamente travolto da un'ondata di informazioni extrasensoriali.
Calma. Roma non fu costruita in un'ora.
Decisi che un po' di Radio Free Bone ci stava bene e forse mi sarebbe
stata d'aiuto. Mi alzai con il vecchio foglio di carta da disegno nella destra
e naturalmente il foglio cadde svolazzando per terra perché non c'era una
mano destra. Mi chinai per raccoglierlo pensando di aver ricordato male il
motto, non era ora ma giorno: Roma non fu costruita in un giorno.
Ma Melda dice ora.
Mi fermai con il foglio nella sinistra. La mano a cui la gru non era riuscita ad arrivare. Il mio era un vero ricordo, qualcosa che mi stava giun-
gendo dal disegno o semplicemente una mia invenzione? La mia mente
che cercava di sostenermi?
«Non è un disegno», dissi guardando quella traccia insicura.
No, ma cercava di esserlo.
Il mio sedere ricadde sulla seggiola con un tonfo. Non fu un atto volontario di sedermi, fu piuttosto un cedimento improvviso delle ginocchia.
Guardai la riga, poi fuori della finestra. Dal Golfo alla riga. Dalla riga al
Golfo.
Aveva cercato di disegnare l'orizzonte. Era stato il suo primo atto.
Sì.
Presi il mio album e afferrai una delle sue matite. Non aveva importanza
quale fosse, bastava che fosse sua. La sentii troppo grossa, troppo larga tra
le dita. La sentii anche assolutamente giusta. Cominciai a disegnare.
A Duma Key era la cosa che sapevo fare meglio.
3
Disegnai una bambina seduta su un vasino. Aveva la testa bendata. In
una mano teneva un bicchiere. L'altro braccio cingeva il collo del padre.
Lui indossava una canottiera e aveva del sapone da barba sulle guance.
Sullo sfondo, poco più di un'ombra, c'era la governante. Niente braccialetti
in quel disegno, perché non li portava sempre, ma aveva il fazzoletto ad
avvolgere i capelli con il nodo sul davanti. Tata Melda, quanto di più vicino a una madre Libbit avesse conosciuto.
Libbit?
Sì, è così che la chiamavano. Così che lei chiamava se stessa. Libbit, la
piccola Libbit.
«La più piccola di tutte», mormorai e girai il primo foglio dell'album. La
matita - troppo corta, troppo larga, inutilizzata per più di tre quarti di secolo - era lo strumento perfetto, il canale perfetto. Ricominciò a muoversi.
Disegnai la bambina in una stanza. Sulla parete dietro di lei apparvero
dei libri e la stanza fu uno studio. Lo studio di papà. La benda le si avvolse
intorno alla testa. Era a uno scrittoio. Indossava una sorta di vestaglia. In
mano aveva una
(ba-tita)
matita. Una di quelle colorate? Probabilmente no, non ancora, non allora, ma non aveva importanza. Aveva trovato la sua cosa, il suo obiettivo, il
suo métier. E che fame! Che buco allo stomaco!
Pensa: Ho bisogno di altra carta, per piacere.
Pensa: Io sono ELIZABETH.
«Si è letteralmente ritratta nel mondo», dissi e mi si accapponò la pelle
dalla testa ai piedi... Non avevo forse fatto lo stesso anch'io? Non avevo
fatto esattamente la stessa cosa, lì da Duma Key?
Avevo altro lavoro davanti a me. Pensai che sarebbe stata una sera lunga
ed estenuante, ma sentivo anche di essere sulla soglia di grandi scoperte e
lo stato d'animo che provavo non era paura, non in quel momento, bensì
un'emozione forte, di quelle che ti mettono un saporaccio in bocca.
Mi chinai a raccogliere il terzo disegno di Elizabeth. Il quarto. Il quinto.
Il sesto. Muovendomi a una velocità sempre crescente. Ogni tanto mi fermavo per disegnare, ma per lo più non ne avevo bisogno. Ora le immagini
mi si formavano nella testa e la ragione per cui non mi era necessario trasferirle sulla carta mi sembrava evidente: era un lavoro già svolto da Elizabeth molto tempo prima, quando si stava riprendendo dall'incidente che
per poco non l'aveva uccisa.
Nei giorni felici prima che Noveen cominciasse a parlare.
4
A un certo punto, durante la mia intervista, Mary Ire aveva detto che
scoprire nella mia mezza età di saper dipingere come artisti di riconosciuta
fama doveva essere stato come ricevere in regalo le chiavi di un'auto potente con il motore truccato: una Roadrunner o una GTO. Avevo risposto
di sì, era così. In un altro momento aveva detto che doveva essere stato
come ricevere le chiavi di una casa completamente arredata. Una villa signorile, per essere precisi. Avevo risposto di sì, era stato anche come quello. E se avesse proseguito? Se avesse detto che doveva essere stato come
ereditare un milione di azioni della Microsoft o essere eletto principe regnante a vita di un emirato arabo galleggiante su un mare di petrolio (e pacifico)? Avrei risposto di sì, certo, come no. Per farla contenta. Perché
quelle domande riguardavano lei. Mentre me le rivolgeva vedevo nei suoi
occhi la luce del sogno inattuabile. I suoi erano gli occhi di una bambina
che sa che la cosa più vicina a cui potrà sperare di giungere nella sua ambizione di esibirsi al trapezio sarà sedersi nella fila più alta delle tribune allo spettacolo del sabato pomeriggio. Lei era un critico e molti critici a cui
manca la vocazione per fare ciò di cui scrivono diventano gelosi e acidi e
gretti nella loro delusione. Mary non era così. Il suo amore per il talento
artistico era rimasto intatto. Beveva whisky da un bicchiere per l'acqua e
voleva sapere che effetto faceva quando dal nulla sbucava Campanellino e
ti batteva sulla spalla e tu scoprivi che, anche se eri ormai nell'ultimo quadrante dei cinquant'anni, avevi improvvisamente acquistato la capacità di
attraversare in volo la faccia della luna. Perciò anche se non era come entrare in possesso di un'automobile veloce o di una casa sfarzosa, io le rispondevo di sì. Perché non esiste un modo per spiegare al prossimo che effetto fa. Si può solo parlare fino a sfinire tutti quanti mentre intanto è venuta l'ora di andare a dormire.
Ma Elizabeth sapeva com'è.
Era nei suoi disegni prima e poi nei suoi dipinti.
È come ricevere in dono una lingua dopo che sei stato muto. E di più.
Meglio. Era come aver restituita la memoria e la memoria di una persona è
tutto, in verità. La memoria è la tua identità. Sei tu. Fin dalla prima riga quella prima linea così incredibilmente coraggiosa che voleva segnare il
punto in cui il Golfo entra in contatto con il cielo - aveva capito che vista e
memoria sono intercambiabili e si era lanciata nell'impresa di guarire se
stessa.
Perse non c'era. Non all'inizio.
Ne ero certo.
5
Per quattro ore non feci che entrare e uscire dal mondo di Libbit. Era un
luogo bellissimo e spaventoso. Qualche volta buttavo giù delle parole - il
dono ha sempre fame, comincia da ciò che sai - ma soprattutto disegnavo.
Il nostro vero linguaggio di comunicazione erano le immagini.
Assimilai la veloce parabola dei suoi famigliari dallo stupore all'accettazione alla noia. Era accaduto in parte perché la bimba era così prolifica,
forse più ancora perché era parte di loro, era la loro piccola Libbit, e c'è
sempre quella sensazione che niente di buono possa uscire da Nazareth,
non è vero? Ma la loro noia ebbe solo l'effetto di intensificare la sua fame.
Cercò modi nuovi per strabiliarli, cercò nuovi modi di vedere.
E li trovò, che Dio abbia misericordia di lei.
Disegnai uccelli che volavano rovesciati e animali che camminavano
sull'acqua della piscina.
Disegnai un cavallo con un sorriso così grande che gli usciva dai lati del
muso. Pensai che doveva essere stato più o meno in quel periodo che era
apparsa Perse. Solo...
«Solo che Libbit non sapeva che fosse Perse», dissi. «Pensava...»
Tornai indietro, fin quasi all'inizio della sua raccolta. Alla faccia nera e
tonda con la bocca sorridente. A un primo sguardo avevo distrattamente
giudicato che fosse il ritratto di Tata Melda, ma avrei dovuto insospettirmi:
era un viso di bimba, non di donna. Una faccia di bambola. All'improvviso
accanto a essa la mia mano si mise a incidere NOVEEN con tanta forza
che la vecchia matita giallo canarino di Elizabeth si spezzò sull'ultima asta
della seconda N. La lasciai cadere per terra e ne presi un'altra.
Era stato attraverso Noveen che Perse aveva parlato la prima volta, per
non spaventare il suo piccolo genio. Che cosa poteva esserci di meno minaccioso di una bambolina nera che sorrideva e portava un fazzoletto rosso
legato intorno alla testa proprio come l'amata Tata Melda?
Ed Elizabeth cadde forse in preda allo sgomento o al terrore quando la
bambola cominciò a parlare da sola? Io non lo credevo. Nonostante lo
straordinario talento nel campo specifico dell'espressione artistica, era pur
sempre una bambina di tre anni.
Noveen le disse che cosa doveva disegnare ed Elizabeth...
Tornai al mio album. Disegnai una torta sul pavimento. Spappolata sul
pavimento. La piccola Libbit aveva pensato che quello scherzo fosse un'idea di Noveen, ma era stata Perse che metteva alla prova i poteri di Elizabeth. Perse che sperimentava come avevo sperimentato io, tentando di definire quanto potente potesse essere quel nuovo strumento.
Poi era arrivata Alice.
Perché, aveva bisbigliato la sua bambola, c'era un tesoro e una tempesta
lo avrebbe dissepolto.
Dunque non era stata affatto un'Alice. E non era stata una Elizabeth,
perché ancora non era Elizabeth, non per la sua famiglia, non per se stessa.
La tempesta abbattutasi nel 1927 era stata l'Uragano Libbit.
Perché a papà avrebbe fatto piacere trovare un tesoro. E perché papà aveva bisogno di distogliere la mente da...
«Si è fatta il suo letto», dissi in una voce aspra irriconoscibile alle mie
stesse orecchie. «Che ci dorma dentro.»
...dalla cosa che tanto lo tormentava: Adie scappata con Emery, quel
Colletto di Celluloide.
Sì. Ecco com'era all'estremità sud di Duma Key nel 1927.
Disegnai John Eastlake, che però era solo un paio di pinne sullo sfondo
del cielo, la punta del suo boccaglio e un'ombra sottostante. John Eastlake
che s'immergeva per andare a caccia di un tesoro.
S'immergeva per cercare la nuova bambola della sua figlia minore, anche se probabilmente non ci credeva.
Accanto a una pinna scrissi: DIRITTO DI SALVATAGGIO.
Le immagini mi si formavano nella mente sempre più chiare, sempre più
precise, come se per tutti quegli anni non avessero fatto altro che attendere
di essere liberate, e mi venne da chiedermi per un istante se tutte le rappresentazioni figurative (e tutti gli strumenti usati per realizzarle), da quelle
sulle pareti delle grotte nell'Asia centrale fino alla Gioconda, custodissero
simili ricordi nascosti della propria esecuzione e dei propri esecutori, codificati nei tratti come DNA.
Nuota finché te lo dico io.
Al disegno del papà sub aggiunsi Elizabeth, scesa nell'acqua fino alle ginocchia cicciottelle, con Noveen stretta sotto il braccio. Sarebbe potuta
quasi essere la bambina-bambola nel disegno che Ilse aveva preteso in regalo, quello che avevo intitolato La fine della partita.
E dopo aver visto tutte quelle cose, mi strinse mi strinse.
Tracciai un frettoloso bozzetto di John Eastlake in quell'atto, con la maschera spinta sulla fronte. Poco distante c'era il paniere, su una coperta, e
su di esso era posata la pistola subacquea.
Mi strinse mi strinse mi strinse.
Disegnala, sussurrò una voce. Disegna il diritto di salvataggio di Elizabeth. Disegna Perse.
Ma non volevo. Temevo ciò che avrei potuto vedere. E ciò che avrebbe
potuto farmi.
E papà? John? Fino a che punto aveva saputo lui?
Cercai a ritroso tra i suoi disegni e ritrovai quello di John Eastlake che
urlava con il sangue che gli scorreva dal naso e da un occhio. Molte cose
aveva saputo. Probabilmente troppo tardi, ma sapeva.
E che cosa era accaduto di preciso a Tessie e Lo-Lo?
E a Perse, per essere rimasta reclusa per tanti anni?
Ma che cos'era, poi? Di certo non una bambola.
Avrei potuto continuare - un'immagine di Tessie e Lo-Lo che correvano
per un sentiero, un abbozzo di sentiero, mano nella mano, già chiedeva di
essere disegnata - ma stavo cominciando a riemergere dalla mia semitrance
ed ero quasi in preda al terrore. In ogni caso mi sembrava di saperne abbastanza per poter procedere; ero quasi sicuro che Wireman mi avrebbe aiutato a ricostruire il resto della storia. Chiusi il mio album. Posai la matita
marrone, un piccolo mozzicone di matita ormai, di quella bambina di un
tempo così lontano, e mi resi conto di avere fame. Una fame da lupo. Ma
quel genere di postumi non mi erano più nuovi e in frigorifero c'era da
mangiare in quantità.
6
Scesi adagio le scale con un turbinio di immagini nella testa - un airone
che volava rovesciato e aveva penetranti occhi blu, cavalli sorridenti, le
pinne ai piedi di papà, grandi come zattere - e non mi presi il disturbo di
accendere le luci del soggiorno. Non ce n'era bisogno: ora di aprile ero perfettamente in grado di percorrere nel buio più assoluto la rotta dalle scale
fino alla cucina. Era trascorso abbastanza tempo perché sentissi come casa
mia quella costruzione solitaria con il mento proteso sull'acqua e, nonostante tutto, non riuscivo a pensare di separarmene. A metà percorso mi
fermai a guardare il Golfo attraverso la Florida room.
Laggiù, all'ancora, a non più di cento metri dalla riva, stagliata e inconfondibile nella luce di un quarto di luna e di un milione di stelle, c'era la
Perse. Aveva le vele ripiegate, ma dai suoi alberi antichi pendevano le sartie a mazzi come ragnatele. Sudari, pensai. Quelli sono i suoi sudari. Dondolava come il giocattolo rotto di un bambino morto da tempo. La tolda
era deserta, per quel che riuscivo a vedere, priva di vita e souvenir, ma chi
sapeva che cosa potesse trovarsi sottocoperta?
Stavo per perdere i sensi. Nello stesso istante in cui mi rendevo conto di
questo, capii perché: avevo smesso di respirare. Ordinai a me stesso di inalare, ma per un terribile secondo non accadde nulla. Il mio petto rimase
piatto come una pagina dentro un libro chiuso. Quando finalmente si gonfiò, udii un suono di risucchio. Ero io che mi sforzavo di continuare a vivere in uno stato di coscienza. Espulsi l'aria che avevo appena inalato e respirai di nuovo, un po' meno rumorosamente. Le macchioline nere che mi
danzarono davanti agli occhi nella penombra si dissolsero. Attesi che la
nave alla fonda facesse lo stesso, non poteva non essere un'allucinazione,
invece rimase dov'era, lunga forse quaranta metri e larga una metà. A beccheggiare nel moto delle onde. A rollare anche un po' con il bompresso che
oscillava come un dito, quasi a dire Uuuh, cattivo, è arrivato il tuo mo...
Mi mollai uno schiaffo in faccia forte abbastanza da farmi lacrimare
l'occhio sinistro e il vascello rimase dov'era. Pensai che se fosse stato davvero lì, allora Jack doveva vederlo dalla passerella di El Palacio. In fondo
al soggiorno c'era un telefono, ma da dove mi trovavo io era più vicino
quello in cucina. Con il vantaggio di trovarsi proprio sotto gli interruttori.
Volevo della luce, specialmente quella in cucina, la luce di forti lampade al
neon. Uscii dal soggiorno camminando all'indietro, senza staccare gli occhi dal vascello e azionai tutti e tre gli interruttori con il dorso della mano.
Le luci si accesero e, nel loro bagliore senza mezzi termini, persi di vista il
vascello e con esso tutto quello che si trovava al di là della Florida room.
Allungai la mano verso il telefono e lì mi fermai.
Nella mia cucina c'era un uomo. Sostava davanti al frigorifero. Indossava stracci fradici che forse un tempo erano stati blue jeans e una di quelle
magliette con lo scollo a barchetta. Su gola, guance, fronte e avambracci
gli cresceva una sostanza che sembrava muschio. Aveva il lato destro del
cranio sfondato. Dalla chioma flaccida dei capelli scuri gli spuntavano petali di osso. Gli mancava un occhio, quello destro. Da quella parte aveva
solo un'orbita spugnosa. L'altro occhio era un demoralizzante, innaturale
lampo d'argento che non aveva niente di umano. I piedi erano nudi, gonfi,
lividi, e le carni squarciate lasciavano vedere le ossa delle caviglie.
Mi sorrise e le sue labbra si piagarono distendendosi su due file di denti
gialli che emergevano da vecchie gengive nere. Sollevò il braccio destro e
allora vidi quello che doveva essere un altro relitto della Perse. Era un
ceppo. Un vecchio cerchio di ferro arrugginito gli stringeva il polso. L'altro pendeva aperto come una bocca in attesa.
L'altro ceppo era per me.
Emise un sibilo indolente, forse tutto quello che erano in grado di produrre le sue decomposte corde vocali, e nella luce neutra e inflessibile delle lampade fluorescenti venne verso di me. Lasciava impronte sul pavimento. Proiettava un'ombra. Sentii un lieve crepitio e vidi che portava un
cinturone di cuoio bagnato, marcio, ma almeno per ora ancora intero.
Io ero bloccato da una strana forma di semiparalisi. Ero cosciente, ma
non sarei potuto scappare anche se comprendevo bene il significato di quel
ceppo aperto e sapevo che cos'era quell'essere: un marinaio addetto agli arruolamenti forzati. Mi avrebbe ammanettato e portato a bordo del vascello
alla fonda, fregata o goletta o brigantino o qualunque cosa fosse. Sarei stato aggregato alla ciurma. E se forse a bordo della Perse non c'erano mozzi
maschi, avevo il sospetto che ce ne fossero almeno due femmine, una di
nome Tessie e l'altra di nome Lo-Lo.
Devi scappare. Almeno mollagli una randellata con il telefono, per l'amor del cielo!
Ma non potevo. Ero come un uccellino ipnotizzato da un serpente. Il
meglio che mi riuscì fu di compiere un meccanico passo all'indietro nel
soggiorno... poi un altro... poi un terzo. Fui di nuovo nell'oscurità. Lui era
fermo sulla soglia della cucina con la luce bianca del neon che gli colpiva
lateralmente la faccia bagnata e putrefatta e proiettava la sua ombra sulla
moquette del soggiorno. Sorrideva ancora. Considerai se chiudere gli occhi
e cercare di scacciarlo con la forza della volontà, ma non avrebbe funzionato; sentivo il suo puzzo, come di un cassonetto dietro un ristorante specializzato in piatti di pesce. E...
«Ora di andare, Edgar.»
... poi parlava. La sua voce era come uno sciabordio, ma le parole erano
comprensibili. Avanzò di un passo nel soggiorno. Io indietreggiai di nuovo
meccanicamente, sapendo in cuor mio che non sarebbe servito, che mantenere le distanze in quel modo non bastava, che quando si fosse stancato di
giocare mi sarebbe semplicemente piombato addosso, mi avrebbe chiuso
quel ferro sul polso e mi avrebbe trascinato, urlante, sulla spiaggia, giù al
caldo largo, e l'ultimo suono che avrei udito sul lato vivo della mia esistenza sarebbe stato quello delle fruscianti conversazioni delle conchiglie sotto
la casa. Poi l'acqua mi avrebbe riempito le orecchie.
Indietreggiai lo stesso di un passo ancora, senza nemmeno essere sicuro
di muovermi davvero verso la porta, potendolo solo sperare, poi un altro...
e una mano mi cadde sulla spalla.
Urlai.
7
«E quello, cosa cazzo sarebbe?» mi bisbigliò all'orecchio Wireman.
«Non lo so», risposi e stavo singhiozzando. Singhiozzavo di paura. «Sì
che lo so. Lo so. Guarda fuori, Wireman.»
«Non posso. Non oso staccare gli occhi da quel coso.»
Ma ora il coso tra cucina e soggiorno aveva visto Wireman -entrato anche lui dalla porta aperta, Wireman sopraggiunto come la cavalleria in un
western con John Wayne - e si era fermato tre passi oltre la soglia della cucina, con la testa leggermente abbassata, il ceppo che dondolava avanti e
indietro sotto il braccio proteso.
«Cristo», mormorò Wireman. «Quella nave! Quella dei quadri!»
«Vattene», disse la cosa. «Tu non c'entri niente. Se te ne vai avrai salva
la vita.»
«Mente», dissi.
«Sai che novità», ribatté Wireman. Poi alzò la voce. Era alle mie spalle e
per poco non mi fece saltare il timpano. «Fuori! Stai violando una proprietà privata!»
Il giovane annegato non rispose, ma la sua mossa fu fulminea proprio
come avevo temuto. Un istante prima era appena oltre la soglia del soggiorno. Un attimo dopo ce lo avevo davanti agli occhi e del suo spostamento mi era rimasta solo un'impressione quanto mai vaga e fuggevole. Il
suo tanfo - marciume e alghe e pesci morti che si sciolgono in poltiglia nel
sole - esplose diventando insopportabile. Sentii le sue mani, gelide, chiudersi sul mio avambraccio e lanciai un grido di choc e orrore. Non fu tanto
il freddo, quanto la mollezza. Erano così disgustosamente flaccide.
Quell'unico occhio d'argento mi penetrò il cervello come un trapano e per
un momento ebbi la sensazione di venir riempito di pura tenebra. Poi il ferro mi si serrò sul polso con un pesante schiocco metallico.
«Wireman!» strillai, ma Wireman non c'era più. Stava correndo via, correva come un matto.
Io e l'annegato eravamo incatenati insieme. Mi trascinò verso la porta.
8
Wireman ricomparve un istante prima che il morto potesse tirarmi oltre
la soglia. Aveva in mano qualcosa che sembrava un pugnale spuntato. Per
un momento pensai che dovesse essere un arpione d'argento, ma era un'ipotesi dettata solo dalla vana speranza: gli arpioni erano di sopra con la cesta rossa. «Ehi!» gridò. «Ehi, tu! Sì, sto parlando a te! Cojudo de puta madre!»
Ruotò la testa di scatto, fulmineo come un serpente che sferra il suo attacco. Wireman fu quasi altrettanto veloce. Brandendola in entrambe le
mani, affondò la sua arma di fortuna nella faccia della cosa, colpendola
subito sopra l'orbita destra. La cosa strillò, un suono che mi attraversò la
testa come una scheggia di vetro. Vidi Wireman contrarre il volto in una
smorfia e vacillare all'indietro; lo vidi sforzarsi di mantenere la presa sulla
sua arma e lasciarla cadere nella sabbia che velava la soglia dell'ingresso.
Niente di grave, perché la cosa che era sembrata così solida si dissolse
nell'insostanzialità, svanì assieme agli indumenti e tutto il resto. Sentii perdere consistenza anche il ceppo che mi stringeva il polso. Lo vidi ancora
per un istante, poi fu solo acqua che mi gocciolava sulle scarpe e sulla mo-
quette. Là dove solo un secondo prima c'era il demone-marinaio ora c'era
una pozzanghera un po' più larga.
Io avvertii una sostanza calda sulla faccia e mi asciugai sangue dal naso
e dal labbro superiore. Wireman era inciampato e lo aiutai a rialzarsi. Sanguinava dal naso anche lui. Aveva anche un rivoletto rosso che gli scendeva dall'orecchio sinistro fino al mento. Il collo gli pulsava al ritmo serrato
del cuore.
«Cristo, quell'urlo...» mormorò. «Mi lacrimano gli occhi e mi fischiano
le orecchie da farmi scoppiare il cervello. Mi senti, Edgar?»
«Sì. Stai bene?»
«A parte il fatto che credo di aver appena visto un morto scomparirmi
davanti agli occhi, credo di sì.» Si chinò, raccolse l'oggetto da terra e lo
baciò. «Gloria a Dio per le cose variegate», recitò. Poi emise una risata
come un latrato. «Anche quando non sono variegate.»
Era un candeliere. L'estremità cava, dove s'infilano le candele, era scura,
come se avesse toccato qualcosa di ardente invece che qualcosa di freddo e
bagnato.
«In tutte le case della signorina Eastlake ci sono delle candele perché la
corrente salta in continuazione», spiegò Wireman. «Alla casa grande abbiamo un generatore, ma nelle altre no, nemmeno qui. Ma a differenza delle abitazioni più piccole, qui ci sono dei candelieri portati dalla casa padronale e si dà il caso che siano d'argento.»
«E tu te lo sei ricordato», commentai. Abbastanza meravigliato, devo dire.
Si strinse nelle spalle e si mise a guardare il Golfo. Lo feci anch'io. Non
c'era niente sull'acqua oltre alla luce della luna e delle stelle. Almeno in
quel momento.
Wireman mi afferrò il polso. Chiuse le dita nel punto in cui mi aveva
stretto il ferro e il mio cuore sobbalzò. «Cosa?» chiesi preoccupato dalla
rinnovata espressione di ansia che gli era apparsa sul viso.
«Jack», disse. «Jack è solo a El Palacio.»
Prendemmo la sua macchina. In preda al terrore, non mi ero mai accorto
dei fari, né l'avevo sentita fermarsi di fianco alla mia.
9
Jack stava bene. Erano arrivate telefonate da vecchi amici di Elizabeth,
ma l'ultima era giunta alle nove meno un quarto, un'ora e mezzo prima che
facessimo irruzione noi due, insanguinati e con gli occhi fuori delle orbite,
Wireman ancora con il candeliere stretto nella mano. A El Palacio non c'erano stati intrusi e Jack non aveva visto il vascello che per un po' si era ancorato nel Golfo davanti a Big Pink. Jack aveva mangiato popcorn fatti al
microonde e aveva guardato una vecchia cassetta di Beverly Hills Cop.
Ascoltò con crescente sgomento la nostra storia, ma non manifestò particolare incredulità; quel ragazzo, dovetti ricordare a me stesso, era cresciuto con programmi come X-Files e Lost. E comunque quanto gli riferivamo aveva coerenza con quello che gli avevamo confidato prima. Prese
quindi il candeliere da Wireman e ne esaminò l'estremità superiore, nera
come il filamento bruciato in una lampadina defunta.
«Perché non è venuto da me?» chiese. «Ero solo e del tutto impreparato.»
«Non vorrei ferire la tua autostima», gli risposi, «ma non credo che per
la persona o la cosa che sta dirigendo questo balletto tu rappresenti una
priorità.»
Jack stava guardando la stretta ecchimosi rossa che avevo sul polso. «Edgar, quello è...»
Annuii.
«Merda», mormorò Jack.
«Hai capito che cosa sta succedendo?» mi domandò Wireman. «Se ti ha
spedito contro quella cosa, evidentemente lei pensa di sì. O che almeno ci
sei vicino.»
«Io credo che nessuno saprà mai tutta la storia», gli risposi, «ma so chi
era quella cosa quando era ancora in vita.»
«Chi?» Jack mi fissava con gli occhi sgranati. Eravamo in cucina e Jack
aveva ancora in mano il candeliere. Ora lo posò su un mobiletto.
«Emery Paulson. Il marito di Adriana Eastlake. Dopo la scomparsa di
Tessie e Laura tornarono da Atlanta per partecipare alle ricerche, fin qui è
tutto vero, ma non sono più ripartiti da Duma Key. Fu Perse a impedirglielo.»
10
Ci trasferimmo nel salotto dove avevo conosciuto Elizabeth Eastlake. Il
lungo tavolo del plastico era ancora al suo posto, ma ora era vuoto. La sua
superficie lucida mi colpì come una perfetta derisione della vita.
«Dove sono?» chiesi a Wireman. «Dove sono tutte le statuine? Dov'è il
Villaggio?»
«Ho imballato tutto e l'ho messo nella cucina esterna», disse con una vaga indicazione della mano. «Nessun motivo preciso, solo che... solo che
non riuscivo... Muchacho, ti andrebbe del tè verde? O una birra?»
Chiesi dell'acqua. Jack disse che avrebbe gradito una birra, se non c'era
niente in contrario. Wireman si avviò. Quando arrivò al vestibolo cominciò
a piangere. Erano singhiozzi strazianti, di quelli che non puoi reprimere in
nessun modo.
Io e Jack ci scambiammo un'occhiata, poi guardammo altrove. In silenzio.
11
Restò via più a lungo di quanto è normalmente necessario per prendere
due lattine di birra e un bicchier d'acqua, ma quando tornò si era ricomposto.
«Scusate», disse. «Non mi capita spesso di perdere una persona cara e
ficcare un candeliere in faccia a un vampiro nella stessa settimana. Di solito è o uno o l'altro.» Scosse le spalle in un tentativo di nonchalance. Gli
riuscì male, ma ottenne la mia approvazione per averci provato. «Non sono
vampiri», dichiarai.
«Allora cosa sono?» domandò lui. «Elabora.»
«Posso dirti solo quello che ho visto nei suoi disegni. Devi ricordare che,
per quanto talento avesse, era ancora solo una bambina.» Esitai, poi scossi
la testa. «Nemmeno. Poco più di un'infante. Perse era... immagino di poter
dire che Perse fosse il suo spirito guida.»
Wireman strappò la linguetta alla sua lattina, bevve un sorso di birra e si
sporse verso di me. «E tu, allora? Perse fa da spirito guida anche a te?
Amplifica quello che fai tu?»
«Naturalmente», ammisi. «Ha messo alla prova i limiti delle mie capacità e li ha amplificati... Sono certo che sia andata così con Candy Brown. E
si intromette in quel che faccio. Questo spiega la serie di Bambina e nave.»
«E gli altri quadri?» chiese Jack.
«Farina del mio sacco, credo. Anche se in certi casi...» M'interruppi colpito a un tratto da un'idea tremenda. Posai il bicchiere e per poco non lo
rovesciai. «Oh, Cristo...»
«Cosa?» mi esortò Wireman. «Miseria santa, cosa c'è?»
«Devi prendere la tua agendina con i numeri di telefono. Subito.»
Ubbidì, me la portò e mi porse il cordless. Io rimasi per qualche istante
ancora con il telefono sulle ginocchia, non sapendo chi chiamare per primo. Poi capii. Ma nella vita moderna c'è una legge ancor più ferrea di
quella secondo cui non trovi mai uno sbirro quando ne hai bisogno: quando ti serve veramente un essere umano, ti becchi la segreteria telefonica.
Fu quello che mi successe al numero di casa di Dario Nannuzzi, a quello
di Jimmy Yoshida e a quello di Alice Aucoin.
«'Fanculo!» sbottai chiudendo la comunicazione con il pollice quando
sentii la voce registrata di Alice cominciare con: «Spiacente di non poter
rispondere in questo momento alla vostra telefonata, ma...»
«Staranno festeggiando ancora», commentò Wireman. «Dagli tempo,
amigo, e passerà.»
«Io non ho tempo!» esclamai. «Merda! Cazzo! Cazzo!»
Posò una mano sulla mia e mi parlò in tono conciliante. «Cosa c'è, Edgar? Di che si tratta?»
«I quadri sono pericolosi! Forse non tutti, ma alcuni certamente sì!»
Rifletté e finalmente annuì. «D'accordo. Ragioniamo. I più pericolosi
sono probabilmente quelli della serie Bambina e nave, vero?»
«Sì. Di questo sono sicuro.»
«Sono quasi certamente ancora alla galleria in attesa di essere incorniciati e spediti agli acquirenti.»
«Devo impedirlo.»
«Muchacho, quello che devi impedire è di lasciarti distrarre.»
Non capiva che non era una distrazione. Quando avesse voluto, Perse era
in grado di sollevare venti forti.
Ma aveva bisogno d'aiuto.
Trovai il numero della Scoto e lo composi. Pensavo che ci fosse almeno
una vaga possibilità di trovare qualcuno, anche alle undici e un quarto della notte dopo il grande evento. Ma la regola ferrea non fece eccezione e mi
rispose una macchina. Attesi con impazienza, poi premetti il 9 per lasciare
un messaggio generale.
«Ascoltate, ragazzi», dissi, «sono Edgar. Voglio che non spediate nessuno dei miei disegni e dipinti finché non ve lo dirò io, d'accordo? Nemmeno
uno. Tratteneteli per qualche giorno. Usate tutti i pretesti che servono, ma
fate come vi dico. Vi prego. È molto importante.»
Chiusi e guardai Wireman. «Lo faranno?»
«Considerato che per loro sei diventato la gallina dalle uova d'oro? Puoi
scommetterci. E ti sei risparmiato una lunga e complicata conversazione.
Ora vogliamo tornare a...»
«Non ancora.» I più vulnerabili sarebbero stati i miei famigliari e amici e
il fatto che si fossero dispersi in direzioni diverse non mi era di conforto.
Perse aveva già dimostrato di poter colpire a grande distanza. E io avevo
cominciato a intralciarla. Pensavo che fosse in collera con me, o che mi
temesse, o l'uno e l'altro insieme.
Il mio primo impulso fu chiamare Pam, ma poi ricordai che cosa aveva
detto Wireman sulla complicata conversazione che avevo evitato a me
stesso. Consultai la mia inaffidabile memoria invece dell'agendina di Wireman... e per una volta, messa sotto pressione, funzionò.
Ma mi risponderà la sua segreteria telefonica, pensai. E così fu, anche se
lì per lì non me ne resi conto.
«Salve, Edgar.» Era la voce di Tom Riley, ma non era la voce di Tom.
Era priva di emozioni. Sono le pillole che prende, conclusi... anche se alla
Scoto non aveva mostrato alcun sintomo di quel genere.
«Tom, ascoltami e non dire nien...»
Invece la sua voce proseguì. Quella voce defunta. «Ti ucciderà, sai? Ucciderà te e tutti i tuoi amici. Come ha ucciso me. Solo che io sono ancora
vivo.»
Ero in piedi e sentii che mi stavano cedendo le ginocchia.
«Edgar!» proruppe Wireman. «Edgar, cosa c'è?»
«Zitto, devo ascoltare.»
Sembrava che il messaggio fosse finito, eppure lo sentivo ancora respirare. Un respiro lento e superficiale che mi giungeva dal Minnesota. Poi
riprese.
«Meglio morti», disse. «Ora devo andare a uccidere Pam.»
«Tom!» urlai. «Tom, svegliati!»
«Dopo che saremo morti ci sposeremo. La cerimonia sarà celebrata a
bordo. Me lo ha promesso.»
«Tom!» Mi piombarono praticamente addosso Wireman e Jack insieme,
uno afferrandomi il braccio, l'altro stringendomi il moncherino. Non me ne
accorsi nemmeno.
E poi: «Lascia un messaggio al segnale acustico».
Venne il segnale e la comunicazione s'interruppe.
Non premetti il tasto, lasciai cadere il telefono. Mi girai verso Wireman.
«Tom Riley vuole uccidere mia moglie», dissi. Quindi, pronunciando parole che non sembravano mie, aggiunsi: «Potrebbe averlo già fatto».
12
Wireman non chiese spiegazioni, mi incitò solo a telefonarle. Io mi riportai il telefono all'orecchio, ma non riuscivo a ricordare il numero. Me lo
lesse Wireman, ma non ero in grado di digitarlo. Per la prima volta da molte settimane la parte difettosa della mia vista si era velata di rosso.
Jack compose il numero per me.
Ascoltai gli squilli del telefono a Mendota Heights aspettando di udire la
voce vivace e impersonale di Pam che mi parlava dalla segreteria telefonica: un messaggio che m'informava che si trovava in Florida e che presto
avrebbe risposto alle chiamate. Pam che non era più in Florida, ma che
forse giaceva morta in cucina, accanto a Tom Riley morto come lei. L'immagine era così realistica che vidi il sangue sui mobiletti e sul coltello nella mano di Tom che si andava irrigidendo.
Uno squillo... due... tre... il terzo avrebbe messo in funzione la macchina.
«Pronto?» Era Pam. Con il fiato un po' corto.
«Pam!» urlai. «Gesù, sei proprio tu? Rispondimi!»
«Edgar? Chi te lo ha detto?» Sembrava in preda allo sconcerto totale. E
ancora sfiatata. O forse no. Quella era una voce di lei che conoscevo: leggermente annebbiata, un po' come quando aveva il raffreddore, o quando
era...
«Pam, stai piangendo?» E poi, tardivo: «Detto cosa?»
«Di Tom Riley», rispose. «Pensavo che potesse essere suo fratello. O...
Dio, speriamo di no, ti prego... sua madre.»
«Cos'è successo a Tom?»
«Stava benissimo in viaggio», disse, «rideva e si faceva bello del suo disegno nuovo, ha giocato a carte in fondo all'aereo con Kamen e qualcun altro.» A quel punto cominciò davvero a piangere, grossi singhiozzi come
scariche di energia statica, che dissezionarono le frasi. Era un suono orribile, ma era anche bellissimo. Perché era vivo. «Stava benissimo. E poi, questa sera, si è ucciso. I giornali diranno probabilmente che è stato un incidente, ma è un suicidio. Così dice Bozie. Bozie ha un amico nella polizia
che gli ha telefonato. Poi lui ha chiamato me. Tom è andato a schiantarsi in
un muro di contenimento a più di cento all'ora. Niente segni di frenata. Era
sulla Route 23, il che significa che probabilmente stava venendo qui.»
Capii tutto e senza bisogno dell'aiuto di braccia fantasma. C'era qualcosa
che Perse voleva, perché era in collera con me. In collera? Furibonda. Solo
che Tom aveva avuto un momento di lucidità, un momento di coraggio, e
aveva velocemente sterzato per andare a schiantarsi in una massicciata.
Wireman gesticolava come una scimmia invitandomi a metterlo al corrente. Mi girai dall'altra parte.
«Panda, ti ha salvato la vita.»
«Cosa?»
«So quello che so», dissi. «Il disegno che mostrava a tutti in aereo... era
uno dei miei, vero?»
«Sì... era così orgoglioso... Edgar, cosa stai...»
«Aveva un titolo? C'era un nome sul disegno? Lo sai?»
«Si chiamava Ciao. Continuava a dire: 'Non somiglia molto al Minnesota'... sai, con quell'accento del Michigan che tirava fuori ogni tanto...»
Una pausa e io non intervenni perché stavo cercando di pensare. Poi: «È
qualcosa che sai in quel tuo modo speciale, vero?»
Ciao, stavo pensando io. Ma sì, certo. Il primo disegno che avevo fatto a
Big Pink era stato anche uno di quelli potenti. E lo aveva acquistato Tom.
Maledetto Ciao.
Wireman mi prese il telefono, con calma ma con fermezza.
«Pam? Sono Wireman. Cos'è successo a Tom?...» Ascoltò, annuì. Poi
parlò in un tono molto pacato, molto confortante. Era un tono che gli avevo sentito usare con Elizabeth. «D'accordo... sì... sì, Edgar sta bene, io sto
bene, quaggiù stiamo tutti bene. Mi spiace per il signor Riley, naturalmente. Solo che dovresti fare qualcosa per noi ed è di estrema importanza. Ti
metto in viva voce.» Premette un tasto che io non avevo nemmeno notato.
«Ci sei ancora?»
«Sì...» La voce di Pam era metallica ma forte. E si stava riprendendo.
«Quanti dei parenti e amici di Edgar hanno comprato dei quadri?»
Pam rifletté. «Nessuno della famiglia ha comprato un dipinto, di questo
sono sicura.»
Mi concessi un sospiro di sollievo.
«Credo che abbiano sperato, o forse l'espressione giusta sarebbe che abbiano messo in conto, che al momento buono... per il compleanno giusto o
magari a Natale...»
«Capisco. Dunque non hanno comprato niente.»
«Non ho detto questo. Anche il ragazzo di Melinda ha comprato un disegno. Ma che cosa c'è? Cosa non va nei quadri?»
Ric. Avvertii un tuffo al cuore. «Pam, sono Edgar. Sai se Melinda e Ric
hanno portato con sé il disegno?»
«Con tutti quegli aerei, compresa la traversata da qui in Europa? Ha
chiesto che glielo incorniciassero e spedissero. Credo che lei non ne sappia
niente. Era di fiori, uno di quelli a matita.»
«Dunque è ancora alla Scoto.»
«Sì.»
«E tu sei sicura che nessun altro della famiglia abbia acquistato dei dipinti.»
Ci mise forse dieci secondi per pensarci bene. Per me furono una dolorosa eternità. Finalmente disse: «Sì, ne sono certa». Voglio sperarlo, Panda, pensai. «Però Angel ed Helen Slobotnik ne hanno comprato uno. Cassetta con fiori, credo s'intitolasse.»
Sapevo qual era. Il nome giusto era Cassetta postale con margherite. E
ritenevo che quello fosse inoffensivo, che fosse probabilmente tutta opera
mia, ciononostante...
«Non l'hanno portato con sé, vero?»
«No, perché prima andavano a Orlando. Sarebbero tornati a casa da lì.
Anche loro hanno chiesto che glielo incorniciassero e spedissero.» Niente
più domande ora, solo risposte. La sentivo ringiovanita, la Pam che avevo
sposato, quella che nei giorni prima di Tom curava la mia contabilità. «Il
tuo chirurgo... non ricordo come si chiama...»
«Todd Jamieson», risposi automaticamente. Se mi fossi soffermato a riflettere, non lo avrei ricordato.
«Sì, lui. Ha comprato un dipinto e ha preso accordi per la spedizione.
Voleva uno di quelli un po' sinistri della serie Bambina e nave, ma erano
già prenotati. Così si è accontentato di uno di quelli con la conchiglia che
galleggia nell'acqua.»
Che poteva essere fonte di guai. Come tutti quelli surreali.
«Bozie ha comprato due disegni e uno lo ha comprato Kamen. Ne voleva uno anche Kathi Green, ma ha detto di non poterselo permettere.» Una
pausa. «Suo marito mi è sembrato bello scarso.»
Gliene avrei regalato uno se me lo avesse chiesto, pensai.
«Ascoltami adesso, Pam», intervenne Wireman. «C'è bisogno di te.»
«Va bene.» Ancora un velo nella sua voce, ma poca cosa. Era presente
quanto bastava.
«Devi telefonare a Bozeman e Kamen. Subito.»
«Va bene.»
«Di' loro di bruciare quei disegni.»
Una breve pausa, poi: «Bruciare i disegni, va bene».
«Appena abbiamo finito questa telefonata», aggiunsi io.
Un pizzico di irritazione: «Ho detto che va bene, Eddie».
«Di' loro che li risarcirò del doppio di quanto hanno pagato o darò loro
degli altri disegni, come preferiscono, ma quei disegni non sono sicuri.
Non sono sicuri. Hai capito bene?»
«Sì, lo faccio subito.» E finalmente fece una domanda. La domanda.
«Eddie, è stato quel quadro a uccidere Tom?»
«Sì.»
«Ho bisogno di un recapito.»
Le recitai il numero di telefono. Pam lo ripeté senza errori, nonostante
mi sembrasse che avesse ripreso a piangere.
«Grazie, Pam», disse Wireman.
«Sì», fece eco Jack. «Grazie, signora Freemantle.»
Pensai che avrebbe chiesto di chi fosse l'altra voce, ma non se ne preoccupò. «Edgar, mi giuri che le ragazze sono al sicuro?»
«Se non hanno portato con sé nessuno dei miei quadri, non corrono alcun pericolo.»
«D'accordo», ribatté lei. «I tuoi maledetti quadri. Ti richiamo.»
E chiuse senza salutare.
«Meglio?» chiese Wireman quando chiusi la comunicazione.
«Non so», risposi. «Dio sa quanto lo desidererei.» Mi premetti la base
del palmo sull'occhio sinistro, poi sul destro. «Ma non lo sento meglio.
Non sento di averla fermata.»
13
Rimanemmo muti per un minuto. Poi Wireman domandò: «Siamo proprio sicuri che Elizabeth cadde da quel carretto per puro caso? Tu cosa dici?»
Io cercai di schiarirmi le idee. Anche quella era una circostanza importante da valutare con attenzione.
«Secondo me fu un incidente. Quando riprese conoscenza, soffriva di
amnesia e afasia e Dio solo sa che cos'altro ancora in conseguenza di
traumi cerebrali che nel millenovecentoventicinque nessuno era capace di
diagnosticare come si deve. Dipingere non fu solo la sua terapia. Era davvero una bambina prodigio e lei stessa è stata il suo primo grande capolavoro. La governante, Tata Melda, ne rimase sbalordita. Ci fu quell'articolo
sul giornale e c'è da credere che tutti quelli che lo lessero rimasero sbalor-
diti mentre facevano colazione... ma si sa come vanno queste cose...»
«Quello che ti sbalordisce a colazione è dimenticato a pranzo», sentenziò Wireman.
«Gesù», esclamò Jack, «se invecchiando devo diventare cinico come voi
due, preferisco morire giovane.»
«Ti meriti un bel Gesù-Krispies, figliolo», lo apostrofò Wireman. Poi rise. Fu una risata un po' stordita, ma risata fu. E fu confortante.
«L'interesse della gente cominciò a spegnersi», ripresi. «E probabilmente fu lo stesso anche per Elizabeth. In fondo chi si stufa di qualcosa più velocemente di un bambino di tre anni?»
«Solo i cuccioli e i pappagalli», disse Wireman.
«Una crisi di creatività a tre anni», commentò Jack. «Roba da matti.»
«Così cominciò a... a...» Mi fermai, per un momento non riuscii a proseguire.
«Edgar?» mi richiamò sottovoce Wireman. «Tutto bene?»
No, ma non potevo permettermelo. Se non mi fossi sentito bene, Tom
sarebbe stato solo l'inizio. «Eppure alla galleria era sembrato così in forma.
Aveva l'aria di stare così bene, no? Come se si fosse rimesso totalmente in
sesto. Non ci avesse messo lo zampino lei...»
«Lo so», annuì Wireman. «Bevi un sorso di quell'acqua, muchacho.»
Bevvi un sorso di quell'acqua e mi costrinsi a riprendere il filo del mio
discorso. «Cominciò a sperimentare. Passò dalle matite ai colori da applicare con le dita e agli acquerelli in, credo, un arco di poche settimane. Nella cesta da picnic ci sono anche disegni eseguiti con una stilografica e sono
più che sicuro che qualche volta abbia usato anche vernici da parete, una
cosa che avevo intenzione di provare anch'io. Hanno un effetto speciale
quando si asciugano...»
«Risparmiatelo per le tue lezioni di tecnica artistica, muchacho», mi zittì
Wireman.
«Sì, certo.» Bevvi altra acqua. Stavo ritrovando la rotta. «Cominciò a
sperimentare anche altre forme di espressione artistica, se è giusto chiamarle così. Credo di sì. Gesso su mattone. Disegni nella sabbia sulla
spiaggia. Un giorno disegnò un ritratto di Tessie con del gelato sciolto su
un piano in cucina.»
Jack era proteso in avanti, corrucciato in volto, con le mani serrate tra le
cosce muscolose. «Edgar... queste non sono solo fantasie? Sono cose che
hai visto?»
«In un certo senso. In certi momenti le ho viste davvero. Altre volte è
stato piuttosto come... come un'onda che mi è arrivata dai suoi disegni e
dall'aver usato le sue matite.»
«Ma tu sai che è vero.»
«Sì.»
«Non le importava che i suoi lavori resistessero al tempo?» domandò
Wireman.
«No. Per lei contava di più farli. Sperimentò nuove tecniche, poi cominciò a fare esperimenti con la realtà. Per cambiarla. Ed è stato allora che
Perse la udì, credo, quando Elizabeth cominciò a manipolare la realtà. La
udì e si svegliò. Si svegliò e cominciò a chiamare.»
«Perse era in mezzo a tutti i rottami ritrovati da Eastlake, vero?» chiese
Wireman.
«Elizabeth pensava che fosse una bambola. La più bella del mondo. Ma
non si sarebbero potute riunire prima che lei fosse stata abbastanza forte.»
«Di quale lei stai parlando?» volle sapere Jack. «Perse o la bambina?»
«Probabilmente entrambe. Elizabeth era molto piccola. E Perse... Perse
aveva dormito per molto tempo. Sotto la sabbia... cinque braccia sotto.»
«Molto poetico», commentò Jack, «ma non capisco bene di che cosa stai
parlando.»
«Neppure io», confessai. «Perché lei, non la vedo. Se Elizabeth ha mai
disegnato Perse, ha distrutto i disegni. Mi pare di vedere un indizio nel fatto che in tarda età abbia cominciato a fare raccolta di statuine di porcellana, ma potrebbe essere solo una coincidenza. So però che Perse stabilì una
linea di comunicazione con la bambina, prima attraverso i suoi disegni, poi
tramite Noveen, quella che fino a quel momento era stata la sua bambola
preferita. E fu sempre Perse a istituire una sorta di... be', programma di esercitazioni. Non saprei come meglio definirlo. Persuase Elizabeth a disegnare cose che si sarebbero avverate nel mondo reale.»
«Allora vuol dire che ha fatto lo stesso anche con te», concluse Jack.
«Candy Brown.»
«E il mio occhio», aggiunse Wireman. «Non dimentichiamo il mio occhio guarito.»
«Mi piacerebbe pensare che sia stata tutta opera mia», dissi... ma era
proprio così? «Ci sono state comunque anche altre cose. Cose piccole per
lo più... usando alcuni dei miei quadri come una sfera di cristallo...» M'interruppi. Non avevo molta voglia di procedere in quella direzione perché
per di là si arrivava a Tom. Tom che credevo fosse stato recuperato.
«Dicci che cos'altro hai scoperto dai suoi disegni», mi esortò Wireman.
«D'accordo. Cominciamo da quell'uragano fuori stagione. Fu Elizabeth a
evocarlo, probabilmente con l'aiuto di Perse.»
«No no, tu mi stai prendendo in giro», protestò Jack.
«Perse disse a Elizabeth dove si trovavano i rottami ed Elizabeth lo disse
a suo padre. Tra le altre cose c'era... diciamo che c'era la stamina di porcellana di una bella donna, alta forse una spanna o poco più.» Sì, lo vedevo.
Non nei dettagli, ma vedevo la miniatura. E le perle prive di pupilla che
aveva per occhi. «Era il premio di Elizabeth, il suo diritto di salvataggio, e
quando fu finalmente recuperata dall'acqua, allora sì che si rimboccò veramente le maniche.»
«Edgar», mi chiese Jack quasi bisbigliando, «quale potrebbe essere l'origine di una cosa del genere?»
Mi affiorò alle labbra una frase scaturita da non so dove, ma sicuramente
non era mia: c'erano dei più antichi in quei giorni; re e regine erano. Non
la dissi. Non volevo sentirla, nemmeno in quella stanza così ben illuminata, così mi limitai a scuotere la testa.
«Non lo so. E non so quale bandiera battesse quella nave quando fu
spinta fin qui, forse strisciando la carena sulla cima del Kitt Reef e rovesciando parte del carico. Non so niente di assolutamente sicuro... ma penso
che anche Perse avesse una sua nave e che, dopo che fu liberata dall'acqua
e saldata indissolubilmente alla potente mente infantile di Elizabeth Eastlake, abbia potuto chiamarla.»
«Una nave dei defunti», commentò Wireman. Aveva sul volto un'espressione fanciullesca di paura e meraviglia. Fuori, un colpo di vento scosse la
rigogliosa vegetazione del giardino; i rododendri dondolarono nel sottofondo del suono sonnolento e ritmico delle onde che si infrangevano sulla
riva. Avevo amato quel suono fin dal momento in cui avevo messo piede a
Duma Key e lo amavo ancora, ma adesso ne provavo anche timore. «Una
nave che si chiamava... come? Persefone?»
«Se vogliamo», gli concessi. «È un'ipotesi che ho fatto anch'io pensando
che Perse potesse essere il modo in cui Elizabeth cercava di pronunciare
quel nome. Ma non ha importanza, qui non è questione di mitologia greca.
Stiamo parlando di qualcosa di molto più antico e mostruoso. E affamato,
anche. Almeno in questo ha qualcosa in comune con i vampiri. Solo che ha
fame di anime e non di sangue. Almeno così credo io. Elizabeth ebbe la
sua nuova 'bambola' per non più di un mese e Dio sa come fu la vita alla
prima Heron's Roost durante quel periodo, ma sono certo che non ci fosse
da stare molto allegri.»
«Fu allora che Eastlake si fece fare gli arpioni d'argento?» domandò Wireman.
«Non ti so rispondere. Ci sono troppe cose che non so, perché quello che
ho ricostruito mi viene da Elizabeth e lei era solo una bambina molto piccola. Non ho alcuna percezione di ciò che avvenne nella sua altra vita, perché ormai aveva smesso di disegnare. E se ricordava l'epoca in cui disegnava...»
«Faceva del suo meglio per dimenticarlo», finì Jack.
Wireman si rabbuiò in viso. «Verso la fine stava ormai dimenticando
praticamente tutto.»
«Ricordate i disegni in cui tutti avevano sulla bocca quei grandi sorrisi
ebeti da fumati? Quella era Elizabeth che cercava di rifare il mondo che ricordava. Il mondo di prima di Perse. Un mondo più felice. Nei giorni precedenti alla morte delle sorelle gemelle era una bambina impaurita, ma non
aveva il coraggio di dire niente perché era convinta che tutto quello che
accadeva di brutto fosse colpa sua.»
«Per esempio?» chiese Jack.
«Non saprei con precisione, ma c'è un disegno in cui si vede un negretto
ornamentale da giardino messo a gambe all'aria e credo che valga da solo
per tutto il resto. Credo che per Elizabeth, in quegli ultimi giorni, tutto fosse a gambe all'aria.» Quel negretto aveva un significato più complesso, ne
ero quasi certo, ma non avevo idea di che cosa potesse essere e quello non
era probabilmente il momento adatto per fermarmi a indagare più a fondo.
«Credo che nei giorni precedenti e subito successivi alla scomparsa di Tessie e Laura la famiglia sia stata praticamente prigioniera della Heron's Roost.»
«Con la sola Elizabeth a sapere perché», aggiunse Wireman.
«Non è detto», obiettai alzando le spalle. «È possibile che Tata Melda
avesse intuito qualcosa. Anzi, è probabile che qualcosa sapesse.»
«Chi c'era in quella casa nei giorni seguenti al ritrovamento del tesoro e
prima dell'annegamento delle bambine?» chiese Jack.
Provai a rispondergli. «Immagino che Maria e Hannah tornassero a casa
da scuola per il fine settimana e che Eastlake fosse via per lavoro almeno
per parte di marzo e aprile. Le persone che sicuramente non si assentarono
mai sono Elizabeth, Tessie, Laura e Tata Melda. Ed Elizabeth cercò di disegnare la sua nuova 'amica' per esercizio.» Mi passai la lingua sulle labbra. Erano secchissime. «Lo fece con le matite colorate, quelle che ci sono
nella cesta. Fu subito prima che Tessie e Laura annegassero. Forse la sera
prima. Perché il loro annegamento fu una punizione, giusto? Come sarebbe
stata una punizione per me se Tom avesse ucciso Pam. Per aver ficcato il
naso. Questo vi è chiaro, no?»
«Dio del cielo», mormorò Jack. Wireman era diventato bianco in volto.
«Fino ad allora non credo che Elizabeth avesse capito.» Mi soffermai a
meditare su questo, poi mi strinsi nelle spalle. «Diavolo, non ricordo quanto fossi capace di capire io a quattro anni. Ma probabilmente prima d'allora
il peggio che le era capitato in vita sua - a parte cadere da quel carrettino e
scommetto che neppure se lo ricordava - era di essere stata messa a pancia
in giù sulle ginocchia di papà ed essersi buscata una sculacciata o di aver
ricevuto uno schiaffo su una mano per aver cercato di rubare uno dei tortini alla marmellata di Tata Melda prima che si fossero raffreddati. Che cosa
sapeva della natura del Male? Lei sapeva solo che Perse era maligna, Perse
era una bambola cattiva e non una bambola buona, era fuori controllo e
andava peggiorando velocemente. Dunque doveva mandarla via. Così Libbit prese le sue matite e della carta da disegno e disse a se stessa: Lo posso
fare. Se vado piano e ce la metto tutta, lo posso fare.» Mi fermai e mi passai la mano sugli occhi. «Credo che sia andata così, ma vi prego di non
prendere tutto quello che dico per oro colato, potrei confondermi con quello che ricordo di me stesso. La mia mente potrebbe farmi ancora qualche
scherzo. Qualcun altro dei suoi stupidi scherzi bambineschi.»
«Con calma, muchacho», disse Wireman. «Vai avanti adagio. Dunque
Elizabeth cercò di eliminare Perse. E in che modo?»
«Disegnandola per poi cancellarla.»
«Perse non glielo permise?»
«Perse non lo sapeva, ne sono quasi sicuro. Perché Elizabeth fu in grado
di nascondere le sue intenzioni. Se mi domandi come, non ti so rispondere.
Se mi chiedi se sia stata un'idea sua, qualcosa che elaborò da sé quando
aveva quattro anni...»
«È abbastanza plausibile», m'interruppe Wireman. «In un certo senso è
un'idea da bambino.»
«Non capisco come abbia fatto a nasconderlo a Perse», osservò Jack.
«Dico... una bambina così piccola?»
«Non ne ho idea nemmeno io.»
«In ogni caso non funzionò», disse Wireman.
«No. Credo che abbia fatto il disegno e sono sicuro che lo ha fatto a matita e credo che, appena finito, lo abbia completamente cancellato. Avrebbe
probabilmente ucciso un essere umano come io ho ucciso Candy Brown,
ma Perse non era umana. Il suo tentativo ebbe come unico risultato quello
di farla arrabbiare. Punì Elizabeth prendendo le gemelle che adorava. Tessie e Laura non presero il sentiero per Shade Beach per andare in cerca di
un altro tesoro. Vi furono spinte. Finirono nell'acqua dove scomparvero.»
«E non per la pace eterna», aggiunse Wireman e sapevo che stava pensando a certe piccole impronte di piedi. Per non parlare della cosa che aveva visitato la mia cucina.
«No», convenni, «niente pace.»
Il vento soffiò di nuovo, questa volta così forte da far sbattere qualcosa
sul lato della casa rivolta al Golfo. Sobbalzammo tutti.
«Come si è impossessata di Emery Paulson?» chiese Jack.
«Non lo so», dovetti ammettere.
«E Adriana?» domandò Wireman. «Perse ha preso anche lei?»
«Non lo so», dovetti ripetere. «Può darsi.» Poi, a malincuore, corressi in:
«Probabile».
«Ma noi non abbiamo visto Adriana», osservò Wireman. «C'è almeno
questo.»
«Non ancora», precisai.
«Ma le bambine sono annegate», insisté Jack, come se si sforzasse di riportare tutto entro i termini di un realismo accettabile. «Questo essere le ha
attirate nell'acqua. O qualcosa del genere.»
«Sì», annuii. «O qualcosa del genere.»
«Ma poi c'è stata una ricerca. Con la partecipazione di estranei.»
«Per forza, Jack», ribatté Wireman. «Si era capito che le bambine erano
scomparse. Shannington sopra tutti gli altri.»
«Questo lo so», disse Jack. «È questo il punto. Ed Elizabeth e suo padre
e la governante se ne sono stati zitti zitti a bocca chiusa?»
«Che alternativa avevano?» obiettai. «Te lo vedi John Eastlake che dice
a quaranta o cinquanta volontari: 'Il babau ha preso le mie figlie, cercate il
babau'? E poi forse non lo sapeva. Anche se a un certo punto deve averlo
scoperto.» Pensavo al disegno di John che urlava. Urlava e sanguinava.
«Concordo sul fatto che non avrebbe mai potuto raccontare una storia
come quella», disse Wireman. «Ma voglio sapere cosa accadde dopo che le
ricerche furono sospese. Poco prima di morire la signorina Eastlake disse
qualcosa sulla necessità di rimetterla a dormire annegandola. Alludeva a
Perse? E, ammesso che sia così, come potrebbe funzionare?»
Scossi la testa. «Non ne ho idea.»
«Perché non ne hai idea?»
«Perché il resto delle risposte è all'estremità sud dell'isola», risposi. «In
quello che resta della Heron's Roost originale. E credo anche che sia lì che
si trovi Perse.»
«Benissimo», concluse Wireman, «allora vuol dire che se non intendiamo abbandonare Duma Key in fretta e furia, è lì che dobbiamo andare a
cercarla.»
«Se ci basiamo su quello che è successo a Tom, non abbiamo nemmeno
quella scelta», risposi. «Ho venduto molti dipinti e i galleristi non li tratterranno per sempre.»
«Ricomprali», mi suggerì Jack. Non che non ci avessi già pensato io
stesso.
Wireman scosse la testa. «Molti di quelli che hanno comprato non vorranno rivenderli, nemmeno al doppio di quello che hanno pagato. E non
sarà una storia come questa a convincerli.»
Su questo nessuno ebbe nulla da dire.
«Ma di giorno non è forte quanto di notte», osservai. «Propongo le nove
del mattino.»
«A me sta bene», ribatté Jack alzandosi. «Sarò qui alle nove meno un
quarto. Per ora riattraverso il ponte e torno a Sarasota.» Il ponte. Cominciò
a frullarmi in testa un'idea.
«Se preferisci restare, sei il benvenuto», offrì Wireman.
«Dopo questa conversazione?» Jack inarcò le sopracciglia. «Con tutto il
rispetto, non se ne parla proprio. Ma sarò qui domani.»
«Calzoni lunghi e scarpe alte», gli raccomandò Wireman. «Dovremmo
addentrarci in una giungla e potrebbero esserci dei serpenti.» Si strofinò
una guancia. «A quanto pare domani mi perderò la scena all'AbbotWexler. I parenti della signorina Eastlake dovranno mostrarsi i denti a vicenda. Che peccato... Ehi, Jack.»
Jack era diretto alla porta. Si girò.
«Non è che per caso hai qualche piccolo capolavoro di Edgar per le mani, vero?»
«Ehm... be'...»
«Sputa il rospo. Confessare fa bene all'anima, compañero.»
«Uno schizzo», disse Jack. Era imbarazzato e mi parve che stesse arrossendo. «In inchiostro. Sul retro di una busta. Una palma. Io... ah... l'ho ripescato dal cestino della carta straccia. Scusa, Edgar. Non ho saputo resistere.»
«Non fa niente, ma brucialo», gli consigliai. «Può darsi che quando tutto
questo sarà finito possa regalartene un altro.» Se mai finirà, pensai senza
aggiungerlo.
Jack annuì. «Va bene. Vuoi che ti riaccompagni a Big Pink?»
«Io resterò qui con Wireman. Ma prima voglio effettivamente tornare a
casa.»
«Non dirmelo», ribatté Jack. «Pigiama e spazzolino.»
«No», risposi. «Cesta da picnic e quegli arpioni d'argento...»
Squillò il telefono e tutti e tre ci scambiammo uno sguardo. Credo d'aver
intuito subito che erano brutte notizie; avvertii quel tuffo interiore dello
stomaco che si trasforma in ascensore. Squillò di nuovo. Io guardai Wireman, ma Wireman si limitò a guardare me. Aveva intuito anche lui. Risposi io.
«Sono io.» Pam, voce pesante. «Tieniti, Edgar.»
Quando qualcuno ti dice così, cerchi sempre di allacciarti una cintura di
sicurezza mentale. Ma raramente serve a qualcosa. Non ce l'ha quasi nessuno.
«Ti ascolto.»
«Ho trovato Bozie a casa e gli ho riferito quello che mi hai detto. Ha
cominciato a farmi domande, com'era logico, ma gli ho detto che avevo
fretta e che comunque non avevo risposte per lui, così, stringendo, ha accettato di fare come hai chiesto. 'In omaggio ai vecchi tempi', ha detto.»
La sensazione di avere lo stomaco in caduta libera peggiorò.
«Poi ho provato Ilse. Non ero sicura di trovarla, ma era appena arrivata.
Mi è sembrata stanca, ma è a casa sana e salva. Domani provo Linnie,
quando...»
«Pam...»
«Ci sto arrivando. Dopo Illy ho chiamato Kamen. Al secondo o terzo
squillo mi ha risposto una voce maschile e io ho cominciato il mio discorsetto. Credevo di parlare a lui.» Fece una pausa. «Era suo fratello. Mi ha
detto che Kamen si è fermato da Starbucks a prendere un caffellatte prima
di tornare a casa dall'aeroporto. Mentre era in coda ha avuto un infarto. Lo
hanno trasportato subito in ospedale, ma è stata pura formalità. Il fratello
mi ha detto che Kamen era morto sul colpo. Mi ha chiesto perché telefonavo e gli ho risposto che ormai non aveva più importanza. Ho fatto bene?»
«Sì.» Non pensavo che il disegno di Kamen potesse avere effetto sul fratello o qualcun altro; pensavo piuttosto che avesse esaurito il suo compito.
«Grazie.»
«Se ti è di consolazione, può benissimo essersi trattato di una coinciden-
za. Era una persona adorabile, ma aveva anche addosso un notevole eccesso di lardo. Non è che si potesse non notarlo.»
«Può darsi che tu abbia ragione.» Anche se sapevo che non l'aveva. «Ci
risentiamo presto.»
«D'accordo.» Esitò. «Sta' attento, Eddie.»
«Anche tu. Chiudi tutto a chiave e metti l'allarme.»
«Lo faccio sempre.»
Chiuse la comunicazione. Sull'altro lato della casa la risacca litigava con
la notte. Mi prudeva il braccio destro. Se potessi prenderti, credo che ti taglierei via di nuovo. In parte per fermare i danni che sai provocare, ma
soprattutto per farti tacere una volta per sempre.
Ma naturalmente il problema non era il mio braccio perduto o la mano
che una volta viveva attaccata alla sua estremità; il problema era l'esseredonna in tunica rossa, che si serviva di me come di una dannata tavoletta
ouija.
«Cosa?» mi domandò Wireman. «Non tenerci in sospeso, muchacho, cosa?»
«Kamen», dissi. «Un infarto. Morto.»
Pensai a tutti i quadri che si trovavano alla Scoto, quadri che erano stati
venduti. Per un po' sarebbero stati al sicuro dov'erano, ma alla fine è sempre il denaro a spuntarla sulle chiacchiere. E questa non era nemmeno saggezza popolare, era semplicemente la becera dottrina americana.
«Vieni, Edgar», mi richiamò all'ordine Jack. «Ti accompagno a casa tua
e poi ti riporto qui.»
14
La nostra incursione nella Little Pink non fu propriamente serena (mi
ero armato del candeliere d'argento, che brandii costantemente come una
clava per tutto il tempo in cui fummo nel mio studio), ma si consumò senza incidenti. I soli spiriti presenti erano le voci agitate delle conchiglie. Riposi i disegni nel paniere rosso. Jack lo prese per i manici e lo portò di sotto. Io gli tenni sempre dietro e chiusi a chiave la porta di Big Pink alle nostre spalle. Per quel che poteva servire.
Mentre tornavamo a El Palacio, mi sovvenne un pensiero... o riaffiorò.
Avevo lasciato a casa la mia Nikon digitale e non volevo tornare a prenderla, però...
«Jack, non è che per caso hai una Polaroid?»
«Sì», rispose. «Una One-Shot. Quella che mio papà definisce 'vecchia
ma utile'. Perché?»
«Domani, quando torni, voglio che ti fermi un momento sul lato di Casey Key del ponte levatoio. Fai qualche foto degli uccelli e delle barche,
d'accordo?»
«Va bene...»
«E scattane anche un paio del ponte, specialmente del macchinario di
sollevamento.»
«Perché? A che ti servono?»
«Voglio disegnare il ponte senza le macchine», spiegai. «E lo farò quando sentirò la sirena che significa che è stato sollevato per far passare una
barca. Non credo che il motore e gli stantuffi idraulici scompariranno davvero, ma con un po' di fortuna dovrei riuscire a bloccare il sistema perché
almeno per qualche tempo nessuno possa venire a Duma. Almeno in macchina.»
«Dici sul serio? Credi davvero di poter sabotare il ponte?»
«Considerato quante volte si guasta da solo, non dovrebbe essere difficile.» Guardai di nuovo l'acqua scura e pensai a Tom Riley, che sarebbe dovuto essere guarito. Che era guarito, dannazione. «Peccato solo che non
possa disegnarmi una bella nottata di sonno profondo.»
Come fare un disegno (IX)
Cerca l'immagine dentro l'immagine. Non sempre è facile vederla, ma
sempre c'è. E se ti sfugge, può sfuggirti il mondo. Lo so meglio di chiunque
altro perché quando guardai l'immagine di Carson Jones e mia figlia - di
Smiley e della sua Zucchetta - credetti di sapere che cosa stavo guardando
e mi sfuggì la verità. Perché non mi fidavo di lui? Sì, ma questo è quasi divertente. La verità era che non mi sarei fidato di nessun uomo che avesse
avanzato pretese sul mio tesoro, la mia prediletta, la mia Ilse.
Avevo trovato una foto che lo ritraeva da solo prima di trovare quella di
loro due insieme, ma avevo detto a me stesso che non volevo una foto di
lui soltanto, che quella non mi sarebbe servita, che se desideravo conoscere le sue intenzioni nei confronti di mia figlia dovevo toccarli come coppia
con la mia mano magica.
Già partivo da dei presupposti, vedete? Sbagliati.
Se avessi toccato la prima, se l'avessi indagata per bene -Carson Jones
nella sua maglia dei Twins, Carson da solo - sarebbe stato tutto diverso.
Avrei forse percepito la sua fondamentale buona fede. Quasi certamente
l'avrei percepita. Ma ignorai quella foto. E non mi domandai mai perché,
se Carson era un pericolo per lei, l'avevo ritratta sola, in mezzo a tutte
quelle palline da tennis galleggianti.
Perché la bambina in tenuta da tennis era lei, naturalmente. Lo erano
quasi tutte le bambine che avevo disegnato e dipinto durante il mio soggiorno a Duma Key, persino quelle mascherate da Reba o Libbit, o, in un
caso, da Adriana.
C'era stata una sola eccezione femminile: la tunica rossa.
Lei.
Quando avevo toccato la foto di Ilse con il suo ragazzo avevo avvertito
la morte: al momento non lo avevo confessato a me stesso, ma così è. La
mia mano mancante aveva sentito la morte incombente come pioggia nelle
nuvole.
Ne dedussi che Carson Jones intendeva far del male a mia figlia ed è
questo il motivo per cui volevo che lei gli stesse lontana. Ma Carson non
fu mai il problema. Perse voleva fermarmi - dopo che ebbi trovato i vecchi
disegni e le matite di Libbit credo che fosse disperatamente intenzionata a
fermarmi - ma Carson Jones non fu mai la sua arma. Persino il povero
Tom Riley fu solo un ripiego, un intralcio arrangiato alla meglio.
L'immagine era lì, ma io ne avevo tratto la deduzione sbagliata e avevo
mancato la verità: la morte che avevo avvertito non proveniva da lui. Era
sospesa sopra di lei.
E qualcosa dentro di me lo aveva intuito.
Altrimenti perché avevo disegnato quelle dannate palle da tennis?
16
La fine della partita
1
Wireman mi offrì un Lunesta che mi aiutasse a dormire. La tentazione fu
forte, ma rifiutai. Presi invece uno degli arpioni d'argento e altrettanto fece
Wireman. Con il ventre peloso che gli ricadeva leggermente oltre l'elastico
dei boxer celesti e la speciale fiocina di John Eastlake nella mano destra
faceva pensare a una divertente rappresentazione iper realistica di Cupido.
Il vento si era ulteriormente rinforzato; rombava lungo i lati della casa e fischiava rasente gli angoli.
«Porte delle camere da letto aperte, giusto?» chiese.
«Confermo.»
«E se durante la notte succede qualcosa, urla come un demonio.»
«Roger, Houston. Lo stesso per te.»
«Edgar, non è che Jack corre qualche pericolo?»
«Se brucia il disegno, non gli succederà niente.»
«Tu te la stai cavando con quello che è accaduto ai tuoi amici?»
Kamen, che mi aveva insegnato a pensare per vie traverse. Tom, che mi
aveva raccomandato di non rinunciare al vantaggio di giocare in casa. Me
la stavo cavando con quanto era accaduto ai miei amici?
Be', sì e no. Mi sentivo triste e stordito, ma mentirei se non ammettessi
di aver provato anche un senso di furtivo sollievo; per certi versi gli esseri
umani sono proprio delle merde totali. Perché Kamen e Tom, per quanto
intimi, erano appena al di fuori della cerchia prediletta delle persone che
per me contavano davvero. Quelle persone Perse non era riuscita a toccarle. E se mi fossi mosso con tempestività, Kamen'e Tom sarebbero state le
nostre sole perdite.
«Muchacho?»
«Sì», risposi sentendomi chiamare da molto lontano. «Sì, me la cavo.
Chiamami se hai bisogno, Wireman, e senza esitare. Non mi aspetto di
dormire più che tanto.»
2
Mi allungai sul letto a guardare il soffitto con l'arpione d'argento sul comodino. Ascoltai lo stridio incessante del vento e lo scroscio incessante
della risacca. Ricordo di aver pensato: Sarà una notte lunga. Poi mi prese il
sonno.
Sognai le sorelline di Libbit. Non le Grandi Cattive; le gemelle.
Le gemelle correvano.
Quello grosso le inseguiva.
Aveva IENTI.
3
Mi destai che ero quasi completamente per terra, salvo che per una gamba, la sinistra, ancora sul letto e profondamente addormentata. Fuori vento
e risacca continuavano a rumoreggiare. Dentro, il mio cuore batteva forte
quasi quanto le onde che si infrangevano sulla spiaggia. Vedevo ancora
Tessie che s'inabissava, che annegava con quelle mani molli e implacabili
che le serravano i polpacci. Un'immagine perfettamente chiara, un dipinto
infernale dentro la mia testa.
Ma non era il sogno delle bambine in fuga dall'essere-rana a farmi martellare il cuore, non era stato il sogno a farmi risvegliare sul pavimento con
un sapore di rame in bocca e tutti i nervi incendiati. Fu piuttosto il modo in
cui ci si sveglia da un brutto sogno rendendosi conto di aver dimenticato
qualcosa d'importante: spegnere il fornello, per esempio, così ora la casa è
piena di odore di gas.
Tirai giù dal letto il piede che colpì il pavimento in una sventagliata di
aghi. Me lo massaggiai con una smorfia. All'inizio fu come strofinare un
pezzo di legno, ma dopo un po' l'intorpidimento cominciò a passare. Non
però la sensazione di aver dimenticato qualcosa di vitale importanza.
Ma cosa? Covavo qualche speranza che la nostra spedizione all'estremità
sud della key potesse mettere fine alla progressiva suppurazione di quel
fenomeno sinistro. Del resto l'ostacolo principale era crederci e se l'indomani mattina non fossimo stati risucchiati nel sole splendente della Florida, quello si poteva considerare ormai superato. Era possibile che vedessimo volare uccelli rovesciati o che cercasse di sbarrarci la strada una gigantesca mostruosità batraciforme come quella che avevo visto in sogno,
ma avevo il sospetto che fossero essenzialmente creazioni spettrali, eccellenti per far colpo su bambine di sei anni, ma non altrettanto efficaci contro uomini adulti, specialmente se armati di arpioni con la punta d'argento.
E poi avrei avuto naturalmente il mio album e le mie matite.
Pensavo che ormai Perse avesse paura di me e del mio improvviso talento. Isolato, ancora non rimessomi dall'incidente quasi mortale (ancora pervaso da tendenze suicide, per la precisione), sarei potuto essere uno strumento invece di un problema. Perché alla faccia dei bei discorsi, quell'Edgar Freemantle non aveva veramente avuto un'altra vita; quell'Edgar aveva semplicemente cambiato lo sfondo della sua esistenza da invalido dai
pini alle palme. Ma dopo che avevo ritrovato degli amici... avevo visto che
cosa c'era intorno a me e ne avevo preso contatto...
Allora ero diventato pericoloso. Non so bene che cosa avesse in mente a parte riconquistare il suo posto nel mondo, si capisce - ma deve aver
pensato che quanto a dar forma alla malvagità, un artista talentuoso e privo
di un braccio rappresentasse un potenziale infallibile. Dio santo, avrei potuto invadere il mondo di dipinti avvelenati! Solo che ora mi ero rivoltato
nella sua mano, proprio come aveva fatto Libbit. Ora ero diventato qualcosa che bisognava prima fermare e poi liquidare.
«Sei un po' in ritardo, bastarda», mormorai.
Allora perché sentivo ancora odore di gas?
I dipinti, e in particolare i più pericolosi, quelli della serie Bambina e
nave, erano al sicuro, sotto chiave e lontani dall'isola, proprio come aveva
chiesto Elizabeth. Secondo Pam nessuno nella cerchia di amici e parenti
aveva preso dei disegni eccetto Bozie, Tom e Xander Kamen. Era troppo
tardi per Tom e Kamen e Dio sa quanto avrei dato perché così non fosse,
ma Bozie aveva promesso di bruciare il suo, dunque almeno con lui avevo
rimediato. Anche con Jack era tutto a posto, perché aveva confessato il suo
furtarello. Astuto da parte di Wireman chiederglielo, pensai. Mi meravigliava solo che non avesse chiesto se non gli avessi regalato io qualcosa
della mia pro...
Il respiro mi si trasformò in vetro nella gola. Ora sapevo che cosa avevo
dimenticato. Ora, in questa profonda piega della notte con il vento che ululava all'esterno. Preso com'ero da quella dannata mostra, non avevo mai riflettuto molto sulle persone a cui avessi eventualmente regalato qualcosa
dei miei lavori prima dell'esposizione in galleria.
Me lo dai?
La mia memoria, spesso ancora così balbettante, mi sorprendeva talvolta
con esplosioni di brillantezza in Technicolor. Fu così in quel momento.
Vidi Ilse nella Little Pink, a piedi scalzi, in calzoncini e canotta. Era vicino
al mio cavalletto. Le avevo chiesto di spostarsi per poter vedere il quadro
che l'aveva tanto interessata. Il quadro che non ricordavo d'aver fatto.
Me lo dai?
Quando si era spostata, avevo visto la bambina in tenuta da tennis. Era
girata dall'altra parte, ma era il centro focale della composizione. I capelli
rossi la identificavano come Reba, il mio amorino, quella fidanzatina della
mia altra vita. Ma era anche lise - Ilse della Barchetta - ed era anche contemporaneamente Adriana, la sorella maggiore di Elizabeth, perché quello
era il vestitino da tennis di Adie, con l'ornamento di ghirigori blu sull'orlo.
(Non potevo saperlo, eppure lo sapevo; erano informazioni che mi erano
giunte bisbigliate dai disegni di Elizabeth, i disegni eseguiti quando era
ancora conosciuta come Libbit.)
Me lo dai? Io voglio questo.
O quello che qualcosa voleva che lei volesse.
Ho provato Ilse, aveva detto Pam. Non ero sicura di trovarla, ma era
appena arrivata.
Tutt'intorno ai piedi della bambina-bambola c'erano palline da tennis.
Altre galleggiavano nell'acqua spinte dolcemente a riva dalle onde.
Mi è sembrata stanca, ma è a casa sana e salva.
Sul serio? Lo era davvero? Io le avevo regalato quel dannato quadro. Lei
era la mia Miss Biscottino e io non sapevo rifiutarle nulla. Lo avevo persino battezzato per lei, perché aveva detto che gli artisti devono dare un titolo ai loro quadri. La fine della partita, le avevo detto e ora quel nome mi
frastornava la testa come una campana.
4
Non c'era telefono nella stanza per gli ospiti, così uscii in silenzio stringendo nella mano il mio arpione d'argento. Nonostante dovessi mettermi in
contatto con Ilse al più presto possibile, indugiai un momento per sbirciare
oltre la soglia della porta aperta dirimpetto. Wireman russava pacifico
sdraiato sul dorso come una balena spiaggiata. Accanto a sé aveva l'altro
arpione e un bicchier d'acqua.
Passai davanti al ritratto di famiglia, scesi le scale ed entrai in cucina. Lì
il rombo del vento e lo scroscio delle onde era più forte che mai. Sollevai il
ricevitore e sentii... niente.
Ovvio. Pensavi che Perse avrebbe trascurato i telefoni?
Poi guardai lo strumento e vidi che c'erano i pulsanti per due linee diverse. In cucina evidentemente sollevare semplicemente il ricevitore non era
sufficiente. Recitai sottovoce una preghierina, schiacciai il pulsante con la
scritta LINEA 1 e fui ricompensato dal segnale di libero. Spostai il pollice
sugli altri tasti e fu allora che mi resi conto di non ricordare il numero di
telefono di mia figlia. La mia agenda era rimasta a Big Pink e il suo numero di telefono mi si era totalmente cancellato dalla mente.
5
Il telefono cominciò a emettere un suono di sirena. Era piccolo, lo avevo
posato sul piano-lavoro, ma nella penombra della cucina il suono che lanciava sembrava assordante e mi fece fare cattivi pensieri. Macchine della
polizia che accorrevano sul luogo di un fatto violento. Ambulanze che si
precipitavano sulla scena di un incidente.
Schiacciai il pulsante di STOP, poi appoggiai la testa alla fresca superfi-
cie color alluminio del grande frigorifero di El Palacio. All'altezza degli
occhi avevo una calamita con la scritta GRASSO È IL NUOVO MAGRO.
Bravo, e morto è il nuovo vivo. Di fianco alla calamita c'era una pinza magnetizzata in cui inserire un taccuino con un pezzo di matita appesa a uno
spago.
Schiacciai di nuovo il tasto di LINEA 1 e composi il 411. La voce registrata mi diede il benvenuto al servizio abbonati Verizon e mi domandò
città e stato. «Providence, Rhode Island», dissi declamando come se fossi
su un palcoscenico. Fin lì tutto bene, ma il robot s'impigliò in Ilse nonostante tutti i miei sforzi per compitarlo con cura. Mi passò a un'operatrice
umana, che controllò e mi riferì quello che già sospettavo: il numero di Ilse
non era pubblico. Le dissi che stavo telefonando a mia figlia e che era importante. L'operatrice mi rispose che avrei potuto parlare con un suo superiore il quale probabilmente avrebbe inoltrato una telefonata di verifica al
numero del destinatario, ma non prima delle otto del mattino. Guardai l'orologio del microonde. Erano le 02.04.
Chiusi la comunicazione e gli occhi. Avrei potuto svegliare Wireman,
sentire se per caso non avesse il numero di Ilse nella sua agendina rossa,
ma avevo l'atroce sensazione che anche quello mi avrebbe preso troppo
tempo.
«Lo posso fare», dissi, ma senza reale speranza.
Certo che puoi, ribatté Kamen. Quanto pesi?
In libbre, ne pesavo centosettantaquattro, un po' di più delle centocinquanta che erano state la mia duratura media da adulto. Nella mente vidi
formarsi queste cifre: 174150. I numeri erano rossi. Poi cinque di essi diventarono verdi, uno dopo l'altro. Senza aprire gli occhi, afferrai il mozzicone di matita e li scrissi sul taccuino: 40175.
E qual è il tuo numero della Previdenza Sociale? mi chiese allora Kamen.
Comparve nel buio, in vivide cifre rosse, quattro di esse diventarono
verdi e le aggiunsi a quelle che avevo già trascritto. Quando aprii gli occhi
vidi il numero intero che avevo vergato alla cieca, come un ubriaco:
401759082.
Era giusto, lo riconobbi, ma mi mancava ancora una cifra.
Non importa, mi confortò nella testa la voce di Kamen. I telefoni a tastiera sono un aiuto sorprendente per la memoria in difficoltà. Se sgombri
la mente di ogni pensiero e digiti quello che hai, l'ultima cifra verrà fuori
da sola senza problemi. È memoria neuromuscolare.
Sperando che avesse ragione, aprii di nuovo la LINEA 1 e digitai il prefisso del Rhode Island e poi 759-082. Il mio dito non ebbe un solo attimo
di esitazione. Trovò l'ultimo numero e in un punto imprecisato di Providence un telefono cominciò a squillare.
6
«Pron-to?... Chi... è?»
Per un momento fui certo d'aver sbagliato lo stesso. La voce era femminile, ma sembrava più vecchia di quella di mia figlia. Molto. E intorbidita
da qualche sostanza. Ma resistetti all'impulso iniziale di riappendere scusandomi per aver sbagliato numero. Mi è sembrata stanca, aveva detto
Pam, ma se era Ilse, era più che stanca, sembrava stremata.
«Ilse?»
Nessuna risposta per molto tempo. Cominciai a pensare che il qualcuno
incorporeo che mi aveva risposto da Providence avesse riappeso. Mi accorsi che stavo sudando e abbastanza abbondantemente da sentirne l'odore,
come una scimmia su un ramo. Poi lo stesso piccolo refrain.
«Pron-to?... Chi... è?»
«Ilse!»
Niente. Percepii che si accingeva a chiudere la comunicazione. Fuori il
vento strideva e le onde picchiavano.
«Miss Biscottino!» gridai. «Miss Biscottino, non t'azzardare a chiudere!»
Feci breccia. «Pa-pà?» C'era un mondo di stupore in quella parola spezzata.
«Sì, tesoro. Papà.»
«Se sei davvero papà...» Una pausa prolungata. Me la figurai nella sua
cucina a piedi scalzi (come quel giorno nella Little Pink, quando contemplava il quadro della bambola e le palline da tennis nell'acqua), capo chino,
capelli che le pendevano ai lati del viso. Assente, forse quasi sulla soglia
della follia. E per la prima volta cominciai a odiare Perse oltre che temerla.
«Ilse... Miss Biscottino... voglio che mi ascolti...»
«Dimmi qual è il mio nick.» Questa volta la sua voce si era trapuntata di
un sottile filo di sconcertata furbizia. «Se sei davvero mio padre, dimmi
qual è il mio nick.»
E se non lo avessi fatto, mi resi conto, avrebbe riappeso. Perché qualcosa l'aveva raggiunta. Qualcosa aveva cominciato a manipolarla, a tessere
intorno a lei le sue ragnatele. Solo che non era una cosa. Era una lei.
Il nick di Illy.
Lì per lì non ricordai nemmeno quello.
Lo puoi fare, disse Kamen, ma Kamen era morto.
«Tu non sei... mio padre», disse la ragazza svagata all'altro capo del filo
e di nuovo fu sul punto di chiudere la comunicazione.
Pensa di traverso, mi consigliò pacato Kamen.
Un'ipotesi, pensai senza sapere perché. Congiuntivo, congiunzione, trattino...
«Tu non sei mio padre, tu sei lei», disse Ilse. Quella voce drogata, strascicata, così diversa dalla sua. «Mio papà è morto. L'ho visto in un sogno.
Add...»
«If So!» gridai senza preoccuparmi di poter svegliare Wireman. Senza
nemmeno pensare a Wireman. «Tu sei If-So-Girl!»
Una lunga pausa. Poi: «E poi?»
Vissi un altro orribile momento di buio assoluto e poi pensai: Alicia Keyes suona il piano... tastiera... quanti tasti...
«Ottantotto», dissi. «Tu sei If-So-Girl88.»
Questa volta la pausa fu lunghissima. Sembrò non dover finire più. Poi
cominciò a piangere.
7
«Papà, mi aveva detto che eri morto. Quella è l'unica cosa che ho creduto. Non solo perché lo avevo sognato, ma perché mi ha chiamato la mamma per dirmi che è morto Tom. Io ho sognato che tu eri triste e che eri andato a fare il bagno nel Golfo. Ho sognato che eri annegato, trascinato via
dalla corrente.»
«Non sono annegato, Ilse. Sto benissimo, te lo giuro.»
La sua storia emerse a spizzichi e bocconi, interrotta da pianti e digressioni. Mi era chiaro che udire la mia voce l'aveva rianimata ma non guarita. Divagava, stranamente disancorata, nel corso del tempo; fece riferimento alla mostra alla Scoto come se fosse avvenuta almeno una settimana
prima e s'interruppe una volta per raccontarmi che un suo amico era stato
arrestato per una «potatura». Ne rise un po' sguaiatamente, come se fosse
ubriaca o drogata. Quando le chiesi che cosa volesse dire, mi rispose che
non aveva importanza. Aggiunse che poteva addirittura aver fatto parte del
suo sogno. Poi sembrò di nuovo lucida. Lucida... ma non giusta. Disse che
lei era una voce nella sua testa, ma che giungeva anche dagli scarichi e dal
water.
A un certo punto, mentre stavamo parlando al telefono, arrivò Wireman,
che accese le luci in cucina e si sedette al tavolo posando davanti a sé l'arpione. Non disse niente, rimase solo ad ascoltare la mia metà di conversazione.
Ilse disse di aver cominciato a sentirsi strana - lei per la precisione parlò
di «sottosopra» - dal momento stesso in cui aveva rimesso piede in casa.
All'inizio era stata solo una sensazione di stonatura, ma poco dopo aveva
cominciato ad avere anche la nausea, quella che l'aveva colpita il giorno in
cui avevamo cercato di perlustrare l'unica strada che portava a sud di Duma Key. La nausea era peggiorata rapidamente. Una voce di donna le aveva parlato dal lavandino dicendole che suo padre era morto. Ilse disse di
essere uscita nella speranza di riprendersi con una boccata d'aria, ma di aver deciso di rientrare subito.
«Dev'essere colpa di tutti quei racconti di Lovecraft che ho letto per la
mia tesina di letteratura», disse. «Continuavo a pensare che qualcuno mi
stesse seguendo. Quella donna.»
Rientrata, voleva farsi dell'avena pensando che potesse placarle il voltastomaco, ma ne era stata nauseata appena la farina aveva cominciato ad
addensarsi: ogni volta che la mescolava, le sembrava di vederci dentro delle cose. Teschi. Facce di bambini urlanti. Poi un volto di donna. Una donna che aveva troppi occhi, spiegò. La donna nell'avena le disse che suo padre era morto e che sua madre ancora non lo sapeva, ma che quando lo avesse saputo avrebbe dato una festa.
«Così sono andata a fare la nanna», concluse, regredendo inconsciamente a un'espressione infantile, «ed è stato allora che ho sognato che la donna
aveva ragione e che tu eri morto, papà.»
Pensai se chiederle quando le aveva telefonato sua madre, ma dubitavo
che lo ricordasse e comunque non aveva importanza. Ma, buon Dio, possibile che Pam non avesse avvertito niente oltre alla stanchezza, specialmente alla luce della mia telefonata? Era sorda? Non potevo essere io il solo a
sentire tanta confusione nella voce di Ilse, tutta quella spossatezza. Ma forse quando aveva parlato con Pam stava meglio. Perse era potente, ma non
per questo non aveva bisogno del suo tempo per agire. Specialmente a distanza.
«Ilse, hai ancora il quadro che ti ho regalato? Quello della bambina e le
palline da tennis? La fine della partita, l'avevo intitolato.»
«Questa è un'altra cosa buffa», ribatté lei. Mi parve di toccare con mano
il suo sforzo di essere coerente, come fa un ubriaco fermato da un'auto di
pattuglia che tenta di sembrare sobrio. «Avevo intenzione di farlo incorniciare, ma poi non ne ho fatto niente, così l'ho appeso con una puntina alla
parete dello stanzone. Sai quale, il soggiorno con annessa la cucina. Dove
ti ho servito il tè.»
«Sì.» Non ero mai stato nel suo appartamento di Providence.
«Dove potevo guardare... guardarlo... ma poi quando sono tornata...
nnn...»
«Ti stai addormentando? Non ti addormentare, Miss Biscottino.»
«Non dormo...» Ma la sua voce si affievoliva.
«Ilse! Svegliati! Sveglia, maledizione!»
«Papà!» Sgomento nella voce. Ma ora era anche di nuovo completamente sveglia.
«Cos'è successo al quadro? Cosa c'era di diverso quando sei tornata?»
«Era in camera da letto. Immagino di essere stata io a spostarlo, è appeso
persino con la stessa puntina rossa, però non ricordo di averlo fatto. Si vede che volevo tenerlo più vicino. Non è buffo?»
No, non mi sembrava buffo.
«Non vorrei vivere se tu fossi morto, papà», dichiarò. «Vorrei essere
morta anch'io. Morta come... morta come una bilia!» E rise. A me tornò in
mente la figlia di Wireman e non risi con lei.
«Ascoltami attentamente, Ilse. È importante che tu faccia come ti dico.
Lo farai?»
«Sì, papà. Basta che non ci voglia troppo tempo. Sono...» Il suono di
uno sbadiglio. «...stanca. Ora che so che stai bene, forse potrò dormire.»
Sì, avrebbe potuto dormire. Giusto sotto La fine della partita, appeso al
muro con una puntina rossa. E si sarebbe svegliata pensando che il sogno
era la conversazione e che la realtà era il suicidio di suo padre a Duma
Key.
Era stata Perse. Quella strega. Quella porca.
La collera tornò, di punto in bianco. Come se non fosse mai andata via.
Ma non potevo consentirle di sconvolgermi i pensieri. Non potevo nemmeno permettere che mi si travasasse nella voce, con il rischio che Ilse
pensasse che fosse diretta a lei. M'incastrai il telefono tra orecchio e spalla.
Poi chiusi con forza le dita sul sottile rubinetto cromato del lavandino della
cucina.
«Non ci vorrà molto, tesoro. Ma devi farlo. Poi potrai dormire.»
Wireman sedeva al tavolo e mi guardava perfettamente immobile. Fuori
le onde martellavano la spiaggia.
«Che tipo di forno hai, Miss Biscottino?»
«Gas. Un forno a gas.» Rise di nuovo.
«Bene. Prendi il quadro e buttalo nel forno. Poi chiudi lo sportello e accendi il gas. Alla temperatura massima. Brucialo.»
«No, papà!» Di nuovo sveglissima, sgomenta come quando avevo urlato, se non di più. «Io adoro quel quadro!»
«Lo so, tesoro, ma è il quadro a farti star male.» Fui sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma mi fermai. Se era quel disegno - e lo era, non c'era
alcun dubbio - allora non c'era bisogno che fossi io a rincarare la dose. Lo
avrebbe intuito da sola. Invece di parlare mi misi a ruotare la manopola del
rubinetto avanti e indietro, desiderando con tutto il cuore che fosse il collo
di quella sozza megera.
«Papà! Credi davvero che...»
«Io non credo, lo so. Prendi il quadro, Ilse. Io resto al telefono. Prendilo,
ficcalo nel forno e brucialo. Subito.»
«Ma non... Va bene. Aspetta.»
Sentii il tonfo del ricevitore che veniva posato.
«Lo sta facendo?» domandò Wireman.
Prima che potessi rispondere ci fu uno schiocco. Fu seguito da un getto
d'acqua fredda che m'inzuppò il braccio fino al gomito. Guardai la manopola che mi era rimasta in mano, poi il rubinetto spezzato. Lasciai cadere
la manopola nel lavello. L'acqua sgorgava dal moncone del rubinetto.
«Credo di sì», dissi. E poi: «Scusa».
«De nada.» S'inginocchiò, aprì le antine sotto il lavello, infilò un braccio
oltre la pattumiera e la scorta di sacchi per l'immondizia, ruotò qualcosa e
il getto dell'acqua cominciò a morire. «Non sai quanto sei forte, muchacho.
Oppure lo sai.»
«Scusa», ripetei. Ma non ero particolarmente rammaricato. Mi ero tagliato il palmo e stavo sanguinando, ma mi sentivo meglio. Più lucido. Mi
venne da pensare che in un lontano passato quel rubinetto sarebbe potuto
essere il collo di mia moglie. Si capisce che avesse chiesto il divorzio.
Restammo in attesa, seduti in cucina. La seconda lancetta dell'orologio
sopra i fornelli compì un lento giro e ne cominciò un secondo. L'acqua che
usciva dal rubinetto rotto era ridotta a un filo. Poi, debolissima, udii la voce di Ilse: «Sono tornata... l'ho preso... ora...» Poi uno strillo. Non seppi dire se fosse sorpresa, dolore o entrambi.
«Ilse!» gridai. «Ilse!»
Wireman saltò in piedi e per l'irruenza urtò il bordo del lavandino con
l'anca. Levò le mani aperte verso di me. Io scossi la testa: non so. Ora sentivo il sudore che mi colava per le guance sebbene non facesse particolarmente caldo.
Mi stavo chiedendo che cos'altro avrei dovuto fare, chi chiamare, quando Ilse tornò al telefono. Più sfinita che mai. Ma anche un po' più se stessa.
Finalmente se stessa. «Dio del cielo e della terra», mormorò.
«Cos'è successo?» Dovetti trattenermi dal gridare di nuovo. «Illy, cos'è
successo?»
«È andato. Ha preso fuoco ed è bruciato. L'ho guardato attraverso lo
sportello. Ci sono solo ceneri. Devo andare a prendere un cerotto, papà, ho
una ferita sul dorso della mano. Avevi ragione. C'era qualcosa di molto,
molto brutto in quel quadro.» Fece una risatina incerta. «Non voleva saperne di entrare nel forno. Si è ripiegato su se stesso e...» Di nuovo quella
risatina incerta. «Io lo definirei un taglio della carta, ma non sembra un taglio della carta e nemmeno mi ha dato quella sensazione. Mi è sembrato un
morso. Credo che mi abbia morsicata.»
8
La cosa principale per me era che lei stesse bene. La cosa principale per
lei era che stessi bene io. Ce l'avevamo fatta. O così pensò l'artista illuso.
Le dissi che l'avrei chiamata l'indomani.
«Illy? C'è un'altra cosa.»
«Sì, papà.» Sembrava di nuovo del tutto sveglia e padrona di sé.
«Vai al forno. Ha una lucina interna?»
«Sì.»
«Accendila. Dimmi cosa vedi.»
«Allora devi aspettare... il cordless è in camera da letto.» Ci fu un'altra
pausa, più breve. Poi di nuovo la sua voce: «Cenere».
«Bene.»
«Papà, ma tutti gli altri quadri che hai fatto? Sono tutti come questo?»
«Me ne sto occupando, tesoro. È una storia per un altro giorno.»
«Va bene. Grazie, papà. Sei sempre il mio eroe. Ti voglio bene.»
«Anch'io.»
Quella fu l'ultima volta che ci parlammo e nessuno dei due lo sapeva.
Non lo sappiamo mai, vero? Almeno avevamo finito scambiandoci parole
d'affetto. Mi resta questo. Non è molto, ma è qualcosa. Ad altri va peggio.
È quello che mi dico nelle lunghe notti in cui non riesco a dormire.
Ad altri va peggio.
9
Mi sedetti fiaccamente di fronte a Wireman e mi presi la testa nella mano. «Sto sudando come una troia.»
«Sbriciolare il rubinetto della signorina Eastlake può aver contribuito.»
«Sono deso...»
«Dillo ancora una volta e ti arriva un cazzotto», m'interruppe lui. «Te la
sei cavata alla grande. Non capita a tutti di salvare la vita alla propria figlia. Credimi se ti dico che t'invidio. Ti va una birra?»
«La vomiterei sul tavolo. Hai del latte?»
Controllò in frigorifero. «Niente latte, ma a mezza panna stiamo bene.»
«Dammi un po' di quella.»
«Ti vedo molto afflitto, povero micetto», mi apostrofò Wireman. Ma mi
versò due dita di panna scremata in un bicchiere da bibite. Poi tornammo
di sopra, procedendo adagio, armati entrambi dei nostri arpioni con la punta d'argento come due vecchi guerrieri primitivi.
Io mi sdraiai di nuovo nella camera degli ospiti a fissare il soffitto. Mi
faceva male la mano, ma non era niente di grave. Lei si era ferita la sua, io
la mia. Era anche giusto così.
La tavola perde, pensai.
Annegala a dormire, pensai.
E qualcos'altro ancora. Elizabeth aveva detto qualcos'altro. Prima che
potessi ricordare, mi venne in mente qualcosa di molto più importante: Ilse
aveva bruciato La fine della partita nel suo forno a gas e aveva subito solo
un taglio, o forse un morso, sul dorso della mano.
Avrei dovuto dirle di disinfettarlo, pensai. Dovrei disinfettare anche il
mio.
Dormii. E questa volta non venne nessun gigantesco batrace ad avvertirmi in sogno.
10
Mi svegliò un tonfo al sorgere del sole. C'era ancora vento, soffiava più
forte che mai, e aveva spinto una delle sedie da spiaggia di Wireman con-
tro il muro della casa. O forse ci era volato addosso l'allegro ombrellone
sotto il quale avevamo bevuto insieme per la prima volta: tè verde ghiacciato, molto rinfrescante.
M'infilai i jeans e abbandonai tutto il resto sul pavimento, compreso l'arpione con la punta d'argento. Non pensavo che Emery Paulson sarebbe
tornato a trovarmi, non durante il giorno. Diedi un'occhiata a Wireman, ma
per pura formalità: lo sentivo russare e fischiare dal corridoio. Era di nuovo supino, a braccia spalancate.
Scesi in cucina e contemplai scuotendo la testa il rubinetto rotto e il bicchiere da bibita imbiancato dai coaguli della panna. In uno dei pensili trovai un bicchiere più grande e lo riempii di succo d'arancia. Poi uscii in veranda. Il vento che giungeva dal Golfo, forte ma caldo, mi sollevò i capelli
sudati dalla fronte e dalle tempie. Era una sensazione piacevole. Mi dava
sollievo. Decisi di scendere in spiaggia a bere lì il mio succo.
Mi fermai a tre quarti della passerella quando stavo per bere un sorso.
Inclinai il bicchiere e mi versai un po' di succo su un piede nudo. Ma non
me ne accorsi.
Al largo, nel Golfo, spinta verso la spiaggia da un cavallone sollevato
dal vento, c'era una palla da tennis color verde brillante.
Non significa niente, dissi a me stesso, ma era un'idiozia. Significava
tutto e lo capii nel momento stesso in cui la vidi. Gettai il bicchiere nei
ciuffi di uniola e mi precipitai verso la spiaggia zoppicando, nel solo modo
in cui in quell'anno Edgar Freemantle fosse in grado di correre.
Mi ci vollero quindici secondi per arrivare in fondo alla passerella, forse
meno, ma in quel breve lasso di tempo vidi spuntare sulle onde altre tre
palline da tennis. Poi sei, poi otto. Per lo più erano sulla mia destra, verso
nord.
Non guardavo dove mettevo i piedi e mi ritrovai sospeso nell'aria oltre
l'estremità della passerella a sbracciarmi per mantenere l'equilibrio. Piombai sulla sabbia ancora correndo e sarei forse riuscito a reggermi se fossi
atterrato sulla gamba buona, ma non andò così. Un succhiello di dolore mi
risalì per l'arto infortunato, dallo stinco al ginocchio all'anca, e finii lungo
e disteso nella sabbia. A una spanna dal mio naso c'era una di quelle maledette palline da tennis, con la peluria inzuppata e appiattita.
Su un lato c'era la scritta DUNLOP, lettere nere come una condanna.
Mi rialzai goffamente perlustrando ansioso il Golfo con lo sguardo. Davanti a El Palacio, c'erano solo poche palline in arrivo, ma più a nord, dalla
parte di Big Pink, vidi una flotta verde, almeno un centinaio, probabilmen-
te molte di più.
Non significa niente. È sana e salva. Ha bruciato il quadro e sta dormendo beata e tranquilla a casa sua a duemila chilometri da qui.
«Non significa niente», dissi, ma ora il vento che mi spingeva all'indietro i capelli era diventato freddo. Partii zoppicando in direzione di Big
Pink, scegliendo il tratto dove la sabbia era bagnata, compatta e lucida. I
peep si levarono a stormi davanti a me. Di tanto in tanto un'onda in arrivo
mi depositava una pallina da tennis ai piedi. Ce n'erano moltissime ormai,
sparpagliate sulla sabbia bagnata. Poi m'imbattei in una cassa semisfasciata
con le scritte DUNLOP PALLE DA TENNIS e SCARTI DI PRODUZIONE SFUSI. Era circondata da palline che saltellavano sulla cresta delle onde.
Mi misi a correre.
11
Aprii la porta e abbandonai il mazzo di chiavi appeso alla serratura. Mi
precipitai al telefono e vidi lampeggiare la spia dei messaggi. Premetti
PLAY. L'inespressiva voce maschile robotizzata mi informò che il messaggio era stato ricevuto alle 06.48, vale a dire meno di mezz'ora prima.
Poi dall'altoparlante esplose la voce di Pam. Chinai la testa, come si farebbe per cercare di evitare che una mitragliata di frammenti di vetro ti colpisca in piena faccia.
«Edgar, ha chiamato la polizia e dicono che Illy è morta! Hanno detto
che una donna di nome Mary Ire è andata a casa sua e l'ha uccisa! Una tua
maledetta amica! Una del tuo giro di amici d'arte arrivata dalla Florida ha
ucciso nostra figlia!» Esplose in un pianto tempestoso, orribile e straziante... poi rise. Terribile, quella risata. Fu come se uno di quei cocci di vetro
volanti mi si fosse piantato in faccia. «Chiamami, bastardo. Chiamami e
spiegati. Mi avevi detto che era al SICURO!»
Poi altri singhiozzi. Furono interrotti da un clic. Poi il ronzio della linea
libera.
Spensi la segreteria.
Andai nella Florida room e guardai le palline da tennis che ancora ballonzolavano sulle onde. Mi sentivo sdoppiato, un uomo che guarda un uomo.
Le gemelle morte avevano lasciato un messaggio nel mio studio: DOVE
NOSTRA SORELLA. Intendevano Illy?
Quasi mi parve di sentire la strega ridere e di vederla annuire.
«Sei qui, Perse?» chiesi.
Il vento sibilava attraverso i graticci. Le onde scrosciavano sulla riva con
la regolarità di un metronomo. Gli uccelli volavano sull'acqua gridando. In
spiaggia c'era un'altra cassa di palline, sfasciata e già per metà sepolta nella
sabbia. Il tesoro arrivato dal mare; il diritto di salvataggio offerto dal caldo
largo. Sì, stava guardando. Aspettava che crollassi. Ne ero più che certo.
Durante le ore diurne dormivano forse i suoi - come chiamarli? i suoi
guardiani? - ma non lei.
«Vinco io, vinci tu», recitai. «Ma tu credi di aver avuto l'ultima parola,
eh? E brava la mia Perse.»
Certo che era brava. Era un gioco in cui si esercitava da molto tempo.
Avevo il sospetto che fosse già vecchia quando i Figli d'Israele ancora
sgobbavano nei giardini d'Egitto. Ogni tanto dormiva, ma ora era sveglia.
E sapeva colpire lontano.
Il mio telefono cominciò a squillare. Rientrai sentendomi ancora diviso
in due, un Edgar con i piedi in terra, l'altro sospeso nell'aria sulla sua testa.
Risposi al telefono. Era Dario. Molto contrariato.
«Edgar? Cos'è questa stronzata di non spedire i quadri ai...»
«Non ora, Dario», tagliai corto. «Zitto.» Interruppi la comunicazione e
telefonai a Pam. Ora che non ci stavo pensando, il numero mi venne facile
facile; mi guidò quel fenomeno meraviglioso che è la memoria neuromuscolare. Mi venne da pensare che forse l'umanità sarebbe stata più felice se
avesse avuto solo quel tipo di memoria.
Pam era più calma. Non so che cosa avesse preso, ma stava già avendo
effetto. Parlammo per venti minuti. Per quasi tutta la conversazione non
smise di piangere e a intermittenza i suoi toni furono accusatori, ma quando io non feci nulla per difendermi, la sua collera si sciolse in angoscia e
smarrimento. Ottenni i fatti salienti, o almeno così credetti allora. Ce n'era
uno più saliente di tutti che sfuggì a entrambi, ma, come disse una volta il
saggio, «se non li vedi non puoi colpirli» e il funzionario di polizia che aveva telefonato a Pam non aveva pensato di comunicarle che cosa Mary
Ire aveva portato con sé a casa di nostra figlia.
A parte la pistola, s'intende. La Beretta.
«Secondo la polizia deve essere venuta in macchina, viaggiando praticamente giorno e notte senza fermarsi», mi riferì tristemente Pam. «Non
avrebbe mai potuto portare una pistola come quella in aereo. Perché lo ha
fatto? È stato un altro di quei tuoi dipinti di merda?»
«Certo», dovetti ammettere. «Ne aveva comprato uno. Non ci avevo
pensato. Non ho mai preso in considerazione lei. Nemmeno per un istante.
Era del dannato fidanzato di Illy che mi preoccupavo.»
Parlando con calma estrema, la mia ex moglie - ora lo era in via definitiva - disse: «Tu hai fatto questo».
Sì. Io. Avrei dovuto rendermi conto che Mary Ire avrebbe sicuramente
comprato almeno un dipinto e che con tutta probabilità avrebbe scelto una
tela della serie Bambina e nave, uno cioè dei quadri più micidiali. Né avrebbe permesso alla Scoto di tenerglielo da parte, non quando abitava a
pochi passi dalla galleria. Per quel che ne sapevo, era possibile che fosse
nel bagagliaio della sua vecchia Mercedes quando mi aveva lasciato all'ospedale. Da lì avrebbe potuto proseguire fino a casa sua a Davis Islands a
prelevare l'automatica che possedeva per difesa personale. Diavolo, sarebbe stata già in direzione nord.
Sì, avrei dovuto intuirlo. L'avevo ben conosciuta e sapevo che opinione
aveva del mio lavoro.
«Pam, su quest'isola sta succedendo qualcosa di molto brutto. Io...»
«Credi che m'importi qualcosa della tua isola, Edgar? O del perché quella donna ha fatto una cosa così? Tu sei il responsabile della morte di nostra
figlia. Non voglio più parlarti, non ti voglio più vedere, mi cavo gli occhi
piuttosto che dover guardare ancora uno dei tuoi quadri. Saresti dovuto
morire quando ti ha investito quella gru.» C'era una spaventosa ponderatezza nella sua voce. «Quello sì che sarebbe stato un lieto fine.»
Ci fu un momento di silenzio, poi di nuovo il ronzio della linea libera.
Mi venne voglia di scaraventare il telefono contro il muro, ma l'Edgar che
mi stava sopra disse di no. L'Edgar che mi stava sopra disse che forse Perse ne avrebbe goduto un po' troppo. Così riattaccai con tutta dolcezza e poi
per un minuto restai lì a vacillare, vivo mentre mia figlia diciannovenne
era morta, non uccisa da un colpo di pistola, alla fine, bensì annegata nella
propria vasca da bagno da una critica d'arte pazza.
Lentamente tornai fuori. Lasciai la porta aperta. Non vedevo motivo di
chiuderla a chiave ora. Appoggiata al muro esterno della casa c'era una
scopa che serviva per spazzare la sabbia dal vialetto. La guardai e il mio
braccio destro cominciò a prudere. Sollevai la mano destra e la tenni davanti agli occhi. Non c'era, ma quando l'aprivo e la chiudevo, sentivo la
flessione. Sentivo anche un paio di unghie troppo lunghe che mi incidevano il palmo. Le altre erano corte e frastagliate. Dovevo essermele rotte. Da
qualche parte, forse sulla moquette della Little Pink, c'erano un paio di un-
ghie fantasma.
«Vattene», dissi alla mano. «Non ti voglio più, vattene e muori.»
Non successe. Non volle accontentarmi. Come il braccio a cui una volta
era attaccata, la mano prudeva e pulsava e doleva e si rifiutava di andarsene.
«Allora vai a cercare mia figlia», dissi e cominciarono a scendere le lacrime. «Riportala indietro. Ridammela. Dipingerò tutto quello che vuoi,
basta che me la riporti.»
Niente. Ero solo un uomo con un braccio solo e un prurito fantasma. Il
solo spettro presente era il suo, librato sopra la sua testa, a osservare la
scena.
Il formicolio che avevo dentro si diffuse. Presi la scopa piangendo ora
non solo per il dolore ma anche per l'insopportabile fastidio di quel prurito
che non potevo grattare, poi mi resi conto di non poter fare quello che mi
serviva: un uomo con un braccio solo non può spezzare un manico di scopa su un ginocchio. L'appoggiai nuovamente al muro e spaccai il manico
con una pedata. Ci fu uno schiocco e l'estremità con le setole volò via. Io
guardai attraverso il velo delle lacrime il pezzo che avevo in mano e annuii. Andava bene.
Svoltai l'angolo della casa verso la spiaggia mentre una parte lontana
della mia mente registrava la vivace conversazione delle conchiglie sotto
Big Pink a ogni slancio e riflusso delle onde nell'oscurità sottostante.
Un rapido pensiero mi attraversò la memoria mentre giungevo sul tratto
di sabbia compatta, bagnata e lucida, punteggiata qua e là dalle palline da
tennis: la terza cosa che Elizabeth aveva detto a Wireman era Vorrai ma
non devi.
«Troppo tardi», dissi e allora il filo che tratteneva l'Edgar sopra la mia
testa si spezzò. Edgar fluttuò via e per un po' non seppi altro.
17
Il Sud della key
1
Ricordo solo Wireman che veniva ad aiutarmi a rialzarmi. Ricordo di
aver compiuto pochi passi e di essere crollato in ginocchio al pensiero che
Ilse era morta. E la cosa più vergognosa è che, per quanto avessi il cuore a
pezzi, avevo anche fame. Una fame tremenda.
Ricordo Wireman che mi accompagnava in casa e mi diceva che era tutto un brutto sogno, che ero vittima degli incubi, e quando io gli avevo risposto di no, che era tutto vero, che era stata Mary Ire, che la giornalista
aveva annegato Ilse nella vasca da bagno della casa in cui mia figlia abitava, lui aveva riso e aveva detto che ora era sicuro che fossi vittima di un'allucinazione. Per un tragico momento gli credetti.
Gli indicai la segreteria telefonica. «Ascolta il messaggio», dissi e andai
in cucina. Barcollai in cucina. Mentre Pam ricominciava - Edgar, ha chiamato la polizia e dicono che Illy è morta! - io divoravo a quattro palmenti
barrette dolci alla crusca pescandole direttamente dalla scatola. Avevo la
spiacevole sensazione di essere stato messo su un vetrino. Presto sarei stato infilato sotto le lenti di un microscopio per essere studiato. Nell'altra
stanza il messaggio finì. Wireman imprecò e lo ascoltò di nuovo. Io continuai a mangiare. Il tempo che avevo trascorso in spiaggia prima dell'arrivo
di Wireman era andato perso. Quella parte della mia memoria era vuota
come i primi giorni della mia degenza in ospedale dopo l'incidente.
Presi un'ultima manciata di barrette, me ne riempii la bocca e le mandai
giù. Mi si fermarono in gola ed era giusto così. Era perfetto. Sperai di esserne soffocato. Meritavo di soffocare. Poi il boccone scese. Mi tirai dietro
la gamba acciaccata fino in soggiorno. Wireman era in piedi davanti alla
segreteria telefonica, con gli occhi fuori delle orbite.
«Edgar... muchacho... cosa in nome di Dio?...»
«Uno dei miei quadri», risposi continuando ad avanzare zoppicando.
Ora che avevo qualcosa nella pancia, volevo dell'altro oblio. Anche se solo
per un po'. Solo che il mio non era propriamente desiderio, era bisogno.
Avevo spezzato il manico della scopa... poi era arrivato Wireman. Cosa
c'era stato nel mezzo? Non lo sapevo.
Conclusi di non volerlo sapere.
«I quadri?...»
«Mary Ire ne ha comprato uno. Sono sicuro che sia uno della serie Bambina e nave. E l'ha portato con sé. Avremmo dovuto aspettarcelo. Io avrei
dovuto. Wireman, ho bisogno di sdraiarmi. Ho bisogno di dormire. Due
ore, va bene? Poi mi svegli e andiamo in fondo all'isola.»
«Edgar, non puoi... non mi aspetto che tu, dopo...»
Mi fermai a guardarlo negli occhi. Mi sentivo la testa pesante come un
macigno, ma ci riuscii. «Nemmeno lei si aspetta che io, ma questa situazione si chiude oggi. Fra due ore.»
La porta d'ingresso di Big Pink era rivolta a est e il sole del mattino col-
piva in pieno il volto di Wireman, illuminando una compassione così profonda da non poterla guardare. «Okay, muchacho. Due ore.»
«Nel frattempo cerca di tenere tutto ben chiaro.» Non so se udì le mie ultime parole. Mi ero girato ormai verso la mia camera e la voce mi si andava spegnendo in gola. Caddi sul letto, dove c'era Reba. Mi venne una mezza idea di scagliarla da una parte all'altra della stanza, come già avrei voluto fare con il telefono. Invece la presi, mi schiacciai sulla faccia il suo corpo invertebrato e cominciai a piangere. Quando mi addormentai stavo ancora piangendo.
2
«Sveglia.» Qualcuno mi scuoteva. «Sveglia, Edgar. Se dobbiamo veramente farlo, dobbiamo metterci in moto.»
«Non so... questo non ha nessuna intenzione.» Era la voce di Jack.
«Edgar!» Wireman mi schiaffeggiò in faccia, prima da una parte e poi
dall'altra. Senza tanti complimenti. Un lampo di luce colpì i miei occhi
chiusi inondando il mondo di rosso. Io cercai di sottrarmi a tutti quegli
stimoli - c'erano cose brutte ad attendermi dall'altra parte delle palpebre ma Wireman non mi diede tregua. «Muchacho! Sveglia! Sono le undici e
dieci!»
Quel richiamo fece effetto. Mi alzai a sedere e lo guardai. Reggeva l'abat-jour del comodino tra sé e la mia faccia, così vicino da farmi sentire il
calore della lampadina. Accanto a lui c'era Jack. Mi piombò sul cuore la
realtà della morte di Ilse - la mia Illy -, ma la respinsi. «Undici! Wireman,
ti avevo detto due ore! E se qualcuno dei parenti di Elizabeth decidesse
di...»
«Calma, muchacho. Ho chiamato l'agenzia delle onoranze funebri e ho
detto loro di tenere tutti lontani da Duma. Ho detto a tutti che abbiamo il
morbillo. Molto contagioso. Ho anche chiamato Dario e gli ho spiegato di
tua figlia. Almeno per il momento i quadri restano dove sono. Dubito che
per te sia una priorità, comunque...»
«Certo che lo è.» Mi alzai in piedi e mi passai la mano sul volto. «Perse
non provocherà altre tragedie oltre a quelle che ci ha già inferto.»
«Mi spiace, Edgar», disse Jack. «Mi spiace molto per quello che ti è
successo. So che la mia solidarietà non serve a molto, ma...»
«Serve», ribattei e forse con il tempo sarebbe veramente servita. Se avessi continuato a ripeterlo, se avessi continuato ad andare avanti. L'inci-
dente mi aveva in fondo insegnato una cosa sola: l'unico modo per andare
avanti è andare avanti. Dire lo posso fare anche quando sai che non puoi.
Vidi che uno dei due mi aveva portato il resto dei miei indumenti, ma
per la spedizione che avevo in mente volevo le scarpe da trekking che c'erano nell'armadio e non quelle da tennis ai piedi del letto. Jack indossava
una felpa dei Giants della Georgia su una camicia a maniche lunghe. Bravo.
«Wireman, faresti del caffè?» domandai.
«Abbiamo tempo?»
«Dovremo trovarlo. Ci sono delle cose di cui ho bisogno, ma prima di
tutto mi serve svegliarmi. E un po' di carburante farà bene anche a voi due.
Jack, mi aiuti con le scarpe, per piacere?»
Wireman andò in cucina. Jack s'inginocchiò, m'infilò le scarpe e me le
allacciò. «Che cosa sai?» gli chiesi.
«Più di quanto vorrei», rispose. «Ma non ci capisco niente. Avevo parlato a quella donna alla tua mostra... Mary Ire, giusto? Mi era sembrata simpatica.»
«Anche a me.»
«Mentre dormivi Wireman ha telefonato a tua moglie. Lei non ha voluto
parlargli più che tanto, così poi ha chiamato un tizio che era alla tua mostra, Bozeman, dico bene?»
«Sentiamo.»
«Edgar, sei sicuro...»
«Racconta.» La versione offertami da Pam era scoordinata e frammentaria e nemmeno quella serbavo più con chiarezza nella mente: i particolari
erano oscurati da un'immagine dei capelli di Ilse che galleggiavano in superficie in una vasca da bagno traboccante d'acqua. Poteva essere o no
un'immagine accurata, ma era di una nitidezza infernale e aveva cancellato
quasi tutto il resto.
«Bozeman ha detto che la polizia non ha trovato segni di effrazione e per
questo pensano che sia stata tua figlia a lasciarla entrare, anche se era notte
inoltrata...»
«Oppure Mary si è messa a suonare tutti i campanelli finché qualcuno le
ha aperto.» Il braccio mancante cominciò a prudere. Era un prurito in profondità. Sonnolento. Quasi sognante. «Poi è salita all'appartamento di Illy
e ha suonato alla sua porta. Diciamo semplicemente che ha finto di essere
qualcun altro.»
«Edgar, stai tirando a indovinare oppure...»
«Diciamo semplicemente che ha finto di far parte di un coro di gospel
chiamato Colibrì e diciamo che abbia detto a mia figlia attraverso la porta
che a Carson Jones era successo qualcosa di brutto.»
«Chi sarebbe...»
«Solo che lei lo chiama Smiley ed è il soprannome a convincerla.»
Wireman era tornato. E, insieme con lui, l'Edgar sospeso. L'Edgar terrestre vedeva tutta la realtà prosaica di una mattina di sole a Duma Key.
L'Edgar sopra la mia testa vedeva di più. Non tutto; quanto bastava per essere troppo.
«Poi cos'è successo, Edgar?» chiese Wireman. Parlava in un tono molto
sommesso e delicato. «Tu cosa pensi?»
«Diciamo che Illy apre la porta e, quando lo fa, si ritrova faccia a faccia
con una donna che le punta una pistola addosso. Riconosce vagamente la
donna, ma quella sera ha già vissuto un momento di terrore, è disorientata,
e non ricorda bene dove l'ha già vista, la sua memoria balbetta. Forse è
meglio così. Mary le dice di girarsi e quando lei lo fa... quando lei lo fa...»
Ricominciai a piangere.
«Edgar, Gesù, no», gemette Jack. Quasi piangeva anche lui. «Te lo stai
inventando.»
«Non se lo inventa», lo zittì Wireman. «Lascialo parlare.»
«Ma perché è necessario che sappiamo...»
«Jack... muchacho... noi non sappiamo che cosa è necessario che sappiamo. Quindi lascialo parlare.»
Sentivo le loro voci, ma lontanissime.
«Diciamo che Mary, quando lei si è girata, l'ha colpita con la pistola.»
Mi asciugai le lacrime con la base del palmo. «Diciamo che l'ha colpita ripetutamente, quattro o cinque volte. Nei film basta una botta in testa e addio. Nella vita reale dubito che vada così.»
«Già», mormorò Wireman e naturalmente quel gioco del «diciamo che»
si rivelò fin troppo accurato. Il cranio della mia If-So-Girl aveva riportato
tre fratture per ripetuti colpi di un corpo contundente e aveva sanguinato
molto.
Mary l'aveva trascinata. La striscia di sangue attraversava il soggiorno
con annessa cucina (dove molto probabilmente l'aria era ancora permeata
dell'odore del disegno bruciato) e percorreva il breve corridoio tra la camera da letto e lo stanzino che fungeva a Illy da studio. Nel bagno, in fondo a
quel corridoio, Mary aveva riempito la vasca nella quale aveva annegato
mia figlia svenuta come si annega un gattino randagio. Conclusa la sua
missione, Mary era tornata in soggiorno, si era seduta sul divano e si era
sparata in bocca. Il proiettile era uscito dalla volta del cranio spappolando
sulla parete alle sue spalle le sue concezioni dell'arte, assieme a un buon
quantitativo di capelli. Mancavano in quel momento pochi minuti alle
quattro. L'inquilino del piano di sotto, che soffriva di insonnia e sapeva riconoscere il rumore di uno sparo, aveva chiamato la polizia.
«Perché annegarla?» chiese Wireman. «Questo non lo capisco.»
Perché questo è il modo in cui agisce Perse, pensai io.
«Non è di quello che ci occuperemo adesso», tagliai corto. «D'accordo?»
Lui si allungò per stringermi la mano. «D'accordo, Edgar.»
E se riusciamo in quello che ho in mente, forse non saremo mai costretti
a farlo, pensai.
Ma io avevo disegnato mia figlia. Ne ero sicuro. L'avevo disegnata sulla
spiaggia.
Mia figlia morta. Mia figlia annegata. Disegnata nella sabbia perché se
la prendessero le onde.
Vorrai, aveva detto Elizabeth, ma non devi.
Oh, Elizabeth...
Certe volte non abbiamo scelta.
3
Tracannammo caffè forte nella soleggiata cucina di Big Pink fino a farci
affiorare il sudore sulle guance. Io presi tre aspirine, aggiungendo un'altra
dose di caffeina, quindi spedii Jack a prendermi due album da disegno. E
gli dissi di temperare tutte le matite colorate che avesse trovato al piano di
sopra.
Wireman riempì una sporta di plastica con provviste prese dal frigorifero: carote e cetrioli a bastoncini, una confezione da sei di Pepsi, tre bottiglie di acqua minerale, del roast beef e uno dei polli dell'astronauta di Jack,
ancora nella sua capsula trasparente.
«Mi sorprende che tu abbia ancora voglia di pensare al cibo», commentò
con una lieve nota di rimprovero.
«Non è il cibo che m'interessa, tutt'altro», spiegai, «ma potrei dover disegnare. Anzi, sono sicuro di dover disegnare. E, non so perché, ma sembra che quando disegno bruci calorie a vagonate.»
Jack tornò con gli album e le matite. Io diedi una controllata poi lo rimandai di sopra a prendere delle gomme per cancellare. Sospettavo che mi
servisse qualcos'altro ancora - non è sempre così? - ma non mi veniva in
mente niente. Diedi un'occhiata all'orologio. Mancavano dieci minuti a
mezzogiorno.
«Hai fatto delle Polaroid del ponte?» chiesi a Jack. «Dimmi di sì, ti prego.»
«Sì, ma ho pensato... quella storia del morbillo...»
«Fammi vedere le foto.»
Jack si tolse alcune Polaroid dalla tasca posteriore. Le sfogliò e me ne
porse quattro, che io disposi sul tavolo della cucina come per preparare un
solitario. Presi uno degli album da disegno e tracciai velocemente uno
schizzo della fotografia che mostrava più chiaramente gli ingranaggi e le
catene sotto il ponte che si sollevava: era una struttura modesta, con una
sola corsia per carreggiata. Il braccio destro continuava a prudermi, un brulichio sommesso e sonnolento.
«La storia del morbillo è stata geniale», dissi. «Terrà lontano praticamente tutti. Ma praticamente non basta. Mary non avrebbe rinunciato ad
andare da mia figlia se qualcuno le avesse detto che Illy aveva il vaiolo...
Cazzo!» Mi si era appannata la vista e una linea che sarebbe dovuta essere
sicura se ne andò per conto suo.
«Piano, Edgar», mi raccomandò Wireman.
Guardai l'orologio. 11.58 adesso. Il ponte sarebbe stato alzato a mezzogiorno; era sempre così. Mi liberai delle lacrime sbattendo le palpebre e
tornai al mio disegno. I meccanismi sgorgarono dalla punta della Venus
nera e anche in quel momento, a poche ore dalla scomparsa di Ilse, mi sentii stregare dal fascino di vedere qualcosa di reale emergere dal nulla, come
una forma che sbuca lentamente da un banco di nebbia. E perché no?
Quando sarebbe potuto essere un momento migliore? Era un rifugio.
«Se ha qualcuno da mandarci contro e il ponte levatoio è guasto, lo spedirà sulla passerella pedonale di Don Pedro Island», osservò Wireman.
«Forse no», gli risposi senza alzare gli occhi dal mio disegno. «Sono
molti a non sapere dell'esistenza di quel ponticello e sono più che sicuro
che Perse non ne sa niente.»
«Perché?»
«Perché è stato costruito negli anni Cinquanta, me l'hai detto tu stesso, e
a quell'epoca lei dormiva.»
Lui rifletté per un momento. «Tu credi che possa essere sconfitta, vero?»
domandò poi.
«Sì, lo credo. Uccisa forse no, ma rimessa a dormire sì.»
«Sai come?»
Trovando la perdita nella tavola e riparandola, fui lì lì per rispondergli... ma non aveva senso.
«Non ancora. Ci sono altri disegni di Libbit nell'altra casa. Quella all'estremità sud della key. Ci diranno dov'è Perse e diranno a me che cosa devo fare.»
«Come fai a sapere che ce ne sono degli altri?»
Perché non può essere diversamente, avrei risposto, ma in quel momento
suonò la sirena del mezzogiorno. A un chilometro da noi il ponte levatoio
tra Duma Key e Casey Key - l'unico collegamento tra noi e la costa sul lato
nord - si stava alzando. Contai fino a venti infilando Mississippi tra un
numero e l'altro come facevo da bambino. Poi cancellai l'ingranaggio più
grande del mio disegno. Mentre lo facevo - nel braccio mancante, sì, ma
anche subito sopra gli occhi, perfettamente al centro - provai la sensazione
di compiere un atto di precisione squisita.
«Okay», annunciai.
«Ora possiamo andare?» chiese Wireman.
«Non ancora.»
Lui lanciò un'occhiata all'orologio poi guardò di nuovo me. «Credevo
che avessi fretta, amigo. E alla luce di quello che abbiamo visto qui dentro
ieri sera, so di aver fretta io. Allora?»
«Prima devo disegnare voi due.»
4
«Sarei onorato di avere un ritratto fatto da te, Edgar», commentò Jack,
«e sono sicuro che mia madre ne sarebbe assolutamente deliziata... ma
credo che Wireman abbia ragione. È meglio che andiamo.»
«Tu sei mai stato in fondo alla key, Jack?»
«Mah, no.»
Di quello ero stato quasi certo. Ma mentre strappavo il foglio con i meccanismi del ponte, guardai Wireman. Nonostante avessi il cuore e le emozioni schiacciati sotto una lastra di piombo, sentii che era qualcosa che desideravo veramente sapere. «E tu? Mai stato giù alla Heron's Roost originale a dare un'occhiatina?»
«Per la verità no.» Wireman andò a guardare dalla finestra. «Il ponte è
ancora alzato. Da qui si vede la punta della nostra metà. Finora, tutto bene.»
Non mi sarei lasciato sviare così facilmente. «Perché?»
«Me lo aveva sconsigliato la signorina Eastlake», rispose, sempre girato
verso la finestra. «Diceva che l'ambiente era nocivo. Acqua, vegetazione,
persino l'aria. Disse che durante la seconda guerra mondiale l'Aeronautica
militare fece degli esperimenti in quella zona di Duma Key e finì per avvelenarla, motivo per il quale probabilmente la vegetazione laggiù è così
senza controllo. Disse che la quercia velenosa che c'è lì è la peggiore di
tutta l'America, peggiore della sifilide prima della penicillina, sono state le
sue parole. L'infiammazione che ti attacca, se la tocchi, dura anni. Sembra
che scompaia e poi salta fuori di nuovo. E ti prende tutto il corpo. Così
disse.»
Erano anche interessanti, le informazioni che mi stava dando, ma ancora
non aveva risposto alla mia domanda. Così la formulai di nuovo.
«Disse anche che ci sono i serpenti», aggiunse, voltandosi finalmente
verso di me. «Io ho il terrore dei serpenti. Ce l'ho da quand'ero piccolo e
una mattina, in campeggio con i miei, mi svegliai per scoprire di avere un
falso corallo nel sacco a pelo. Mi si era infilato sotto la maglietta. Mi
spruzzò addosso la sua saliva. Credevo che mi avesse avvelenato, porca
merda. Soddisfatto?»
«Sì», dissi. «Le hai raccontato quella storia prima o dopo che ti parlò dei
serpenti che infestano quella zona?»
«Non ricordo», rispose lui, asciutto. Poi sospirò. «Probabilmente prima.
Capisco dove vuoi andare a parare... voleva tenermene lontano.»
Non sono stato io a dirlo, l'hai detto tu, pensai. «Io sono soprattutto preoccupato per Jack. Ma è meglio non correre rischi inutili.»
«Io?» si meravigliò Jack. «Io non ho niente contro i serpenti. E so riconoscere la quercia e l'edera velenose. Sono stato un Boy Scout.»
«Tu fidati di me», ribattei cominciando a disegnarlo. Lavorai velocemente, resistendo all'impulso di entrare nei particolari... che, a quanto
sembrava, qualcosa dentro di me desiderava aggiungere. Mentre lavoravo,
sul Iato della costa del ponte levatoio partì il primo irritato colpo di clacson.
«Sembra che il ponte si sia bloccato di nuovo», commentò Jack.
«Già», annuii senza distogliere la mia attenzione da quel che stavo facendo.
5
Fui ancora più rapido con il disegno di Wireman, ma di nuovo mi ritrovai a dover respingere la voglia di lasciarmi andare... perché quando ero al
lavoro, cordoglio e pena erano a bada. Il lavoro era come una droga. Ma
non avevamo molte ore di luce e avevo poca voglia quanto Wireman di ritrovarmi a tu per tu con Emery. Il mio proposito era di aver chiuso la questione e aver abbandonato con i miei due amici la key - di essere ben lontano da quell'isolotto - prima che dal Golfo cominciassero a emergere i bei
colori del tramonto.
«Bene», annunciai. Avevo disegnato Jack in blu e Wireman in arancione
acceso. Nessuno dei due era perfetto, ma mi sembrava di aver colto per entrambi i tratti essenziali. «Solo un'ultima cosa.»
Wireman gemette. «Edgar!»
«Niente che debba disegnare», lo tranquillizzai chiudendo l'album con i
due disegni. «Voglio solo che sorridi all'artista, Wireman. Ma prima pensa
a qualcosa che ti faccia sentire particolarmente bene.»
«Dici sul serio?»
«Serissimo.»
La sua fronte si corrugò... poi si ridistese. Sorrise. Come sempre il sorriso gli illuminò il viso e lo trasformò in un uomo nuovo.
Mi rivolsi a Jack. «Adesso tu.»
E siccome ero veramente convinto che lui fosse il più importante tra i
due, mentre lo faceva lo osservai con la massima attenzione.
6
Non avevamo un veicolo a trazione integrale, ma la vecchia Mercedes di
Elizabeth era solida come un carro armato e ci sembrava un valido sostituto. Tornammo a El Palacio sulla macchina di Jack e parcheggiammo appena oltre il cancello. Io e Jack trasferimmo i bagagli sulla SEL 500. Wireman aveva il compito di andare a prendere la cesta da picnic.
«Già che sei dentro, se puoi, prendi anche una bomboletta di insetticida
e una torcia di quelle affidabili», gli raccomandai. «Ne hai una?»
Annuì. «Nel capanno del giardinaggio ce n'è una da otto batterie. Professionale.»
«Bene. E...»
Mi rivolse uno sguardo da cosa ancora - quell'espressione esasperata
che si ottiene soprattutto con le sopracciglia - ma non disse niente.
«La pistola subacquea?»
Sorrise con malizia. «Sí, señor. Para fijaciono.»
Mentre era via, io mi misi a contemplare il campo da tennis stando appoggiato alla Mercedes. Il cancello in fondo era rimasto aperto. Dentro c'era l'airone semiaddomesticato di Elizabeth, fermo vicino alla rete. Mi rivolse dagli occhi blu uno sguardo accusatorio.
«Edgar?» Jack mi toccò il braccio. «Okay?»
Non ero okay e non sarei stato okay per chissà quanto tempo. Ma...
Lo posso fare, pensai. Lo devo fare. Non può vincere lei.
«Sì», risposi.
«Hai una brutta faccia, sei troppo pallido. Come quando sei arrivato
qui.» La voce gli tremò sulle ultime parole.
«Sto bene», ribadii e gli posai per qualche istante la mano sul collo. Mi
resi conto che, a parte le strette di mano, era probabilmente la prima volta
che lo toccavo.
Wireman uscì reggendo la cesta con entrambe le mani. Si era messo in
testa tre cappelli con la visiera lunga. Sotto un'ascella stringeva la pistola
subacquea di John Eastlake. «La torcia è nella cesta», disse. «Idem l'insettifugo e tre paia di guanti da giardinaggio che ho trovato nel capanno.»
«Ottimo», mi felicitai.
«Sí. Ma manca un quarto all'una, Edgar. Se dobbiamo andare, vogliamo
muoverci?»
Io guardai l'airone sul campo da tennis. Era fermo vicino alla rete, immobile come la lancetta di un orologio guasto, e mi fissava impietoso. Era
giusto così; il nostro è, per lo più, un mondo impietoso.
«Sì», risposi. «Andiamo.»
7
Avevo ritrovato la memoria. Non era più in condizioni ottimali e ancora
oggi mi capita di confondermi sui nomi o la cronologia di certi avvenimenti, ma ogni istante della nostra spedizione alla casa all'estremità sud di
Duma Key mi resta chiaro nella mente come il primo film che mi riempì di
meraviglia o il primo dipinto che mi tolse il fiato (The Hailstorm, di Thomas Hart Benton). Eppure all'inizio mi sentii freddo, distaccato da tutto,
come un mecenate un po' saturo che guarda un quadro in un museo di second'ordine. Fu solo quando Jack trovò la bambola nel vano delle scale
che salivano verso il nulla che cominciai a rendermi conto di essere dentro
il quadro e non fuori a guardarlo. E che non c'era modo per noi di tornare
sui nostri passi se prima non l'avessimo fermata. Sapevo che era forte, se
era in grado di arrivare fino a Omaha e Minneapolis per ottenere ciò che
voleva, e poi fino a Providence per conservarlo, non poteva non essere forte. E tuttavia ancora la sottovalutavo. Finché non fummo fisicamente in
quella casa all'estremità a sud di Duma Key, non capii quanto forte fosse
Perse.
8
Volevo che a guidare fosse Jack e che Wireman sedesse dietro. Quando
Wireman mi chiese perché, risposi che avevo le mie ragioni e pensavo che
di lì a non molto sarebbero state evidenti. «E se mi sbaglio», aggiunsi,
«nessuno ne sarà più felice di me.»
Jack uscì a marcia indietro nella strada e partì verso sud. Più per curiosità che altro, accesi la radio e fui ricompensato da Billy Ray Cyrus che urlava del suo cuore spezzato sanguinante. Jack gemette e allungò la mano
probabilmente con l'intenzione di trovare The Bone. Prima che ci riuscisse,
Billy Ray fu risucchiato in un gorgo di disturbi assordanti.
«Gesù santo, spegni!» guaì Wireman.
Ma prima io abbassai il volume. Non servì a nulla. Semmai, le scariche
di energia statica s'intensificarono. Sentii che cominciavano a farmi tremare le otturazioni nei denti e schiacciai il pulsante di spegnimento prima che
prendessero a sanguinarmi i timpani.
«Ma cosa diavolo era!» sbottò Jack. Aveva accostato. Con gli occhi
strabuzzati.
«Chiamiamolo ambiente nocivo», proposi. «Un ricordino lasciatoci dai
test compiuti dall'Aeronautica sessant'anni fa.»
«Molto divertente», mi stigmatizzò Wireman.
Jack stava guardando la radio. «Voglio provare di nuovo.»
«Accomodati», lo invitai e mi schiacciai la mano sull'orecchio sinistro.
Jack premette il tasto. La botta di stridii che uscì questa volta dai quattro
altoparlanti della Mercedes fu peggio di un caccia a reazione. Anche con
l'orecchio protetto dalla mano, mi straziò il cervello. Mi parve di sentire
Wireman urlare, ma non ne ero sicuro.
Jack si affrettò a spegnere la radio troncando quell'infernale tempesta.
«Niente musichette per oggi, mi sa», concluse.
«Wireman? Tutto bene?» Sentii la mia voce giungere da lontano, attraverso una prolungata eco di un gong.
«Una favola», disse lui.
9
È possibile che Jack si fosse spinto un po' oltre il punto in cui Ilse era
stata male, ma non saprei. Era difficile trovare i riferimenti dopo che la vegetazione si era fatta più fitta. La strada si restringeva in un cunicolo con il
fondo corrugato dalle radici che vi scorrevano sotto. Sopra di noi le fronde
s'intrecciavano nascondendo quasi completamente il cielo. Era come percorrere un tunnel vivente. I vetri della Mercedes erano chiusi, ma anche
così l'abitacolo si riempì di un odore verde e fecondo di giungla.
Jack mise alla prova le sospensioni della vecchia Mercedes in una buca
particolarmente capiente, scavalcò subito dopo un'alta gobba nel fondo
stradale, poi piantò il piede sul pedale del freno e mise in folle.
«Spiacente», disse. Gli tremavano le labbra e aveva gli occhi troppo
grandi. «Non...»
Sapevo benissimo che cosa gli stava succedendo.
Armeggiò con la maniglia per aprire lo sportello, si sporse e vomitò.
Pensavo che l'odore della giungla (così diventava la vegetazione un paio di
chilometri dopo El Palacio) fosse forte dentro la macchina, ma quando
piombò nell'abitacolo dalla portiera aperta fu dieci volte più ottenebrante,
denso e verde e perniciosamente vivo. Eppure non sentii un solo richiamo
di uccello nell'ammasso del fogliame. L'unico suono era quello di Jack che
si liberava della colazione.
Poi del pranzo. Finalmente si accasciò contro il sedile. E pensava che io
fossi ridiventato pallido come quando ero arrivato? Comico, a suo modo,
perché in quelle prime ore del pomeriggio di metà aprile, Jack Cantori era
più bianco di un marzo nel Minnesota. Invece di ventun anni, ne dimostrava quarantacinque portati male. Comincio ad avere seri dubbi su quell'insalata di tonno, aveva detto Ilse, ma non era il tonno. Qualcosa che arrivava dal mare, sì, ma tonno no.
«Scusate», ripeté. «Non so cosa mi ha preso. Sarà l'odore... questo odore
schifoso di giungla...» Il suo petto sussultò, dal profondo della gola gli salì
un gorgoglio e Jack si sporse di nuovo dallo sportello aperto. Questa volta
mancò la presa sul volante e se io non lo avessi acchiappato per il colletto
tirandolo indietro, sarebbe finito con la faccia nel proprio vomito.
Si appoggiò allo schienale con gli occhi chiusi, la faccia lucida di sudore, il respiro affannato.
«È meglio che lo riportiamo a El Palacio», suggerì Wireman. «Non mi
va di perdere tempo... diavolo, ancora meno mi va di perdere lui, ma qui
siamo messi male.»
«Dal punto di vista di Perse, siamo messi esattamente come vuole lei»,
ribattei. Ora la gamba infortunata mi prudeva quasi quanto il braccio. Era
come elettricità. «È la sua piccola muraglia avvelenata. Tu come stai, Wireman? Come va la pancia?»
«Bene, ma l'occhio ballerino... quello che una volta era l'occhio ballerino, intendo, mi prude da matti e ho come un ronzio nella testa. Forse mi è
rimasto da quella dannata radio.»
«Non è la radio. E il motivo per cui Jack soffre e noi no è perché noi
siamo stati... be'... diciamo vaccinati. Ironico, vero?»
Seduto al volante, Jack emise un gemito.
«Che cosa puoi fare per lui, muchacho? Niente?»
«Qualcosa sì. Spero.»
Avevo gli album sulle ginocchia e le matite e le gomme in un marsupio.
Ora aprii l'album in cui c'era il disegno di Jack e trovai una delle mie
gomme. Cancellai la bocca e gli archi inferiori degli occhi, arrivando fino
agli angoli. Il prurito al braccio destro era più violento che mai e mi sentii
sicuro che quello che mi accingevo a fare avrebbe funzionato. Richiamai
alla memoria il sorriso di Jack in cucina - quello che gli avevo chiesto di
mostrarmi mentre pensava a qualcosa di particolarmente bello - e lo disegnai velocemente con la mia matita blu notte. Non ci vollero più di trenta
secondi (la chiave stava in realtà negli occhi, quando si tratta di sorrisi, è
sempre così), ma quei pochi tratti cambiarono totalmente l'idea stessa del
volto di Jack Cantori.
E ottenni qualcosa che non mi ero aspettato. Mentre disegnavo lo vidi
baciare una ragazza in bikini. No, qualcosa di più. Sentii la pelle di lei, levigata, persino qualche granello di sabbia che le si era attaccato nella curva
in fondo alla schiena. Sentii l'aroma del suo shampoo e un vago sapore di
salmastro sulle sue labbra. Sapevo che si chiamava Caitlin e che lui la
chiamava Kate.
Riposi la matita nel piccolo marsupio e chiusi la lampo. «Jack?» lo
chiamai a bassa voce. Aveva gli occhi chiusi e le guance e la fronte ancora
imperlate di sudore, ma mi sembrò che il suo respiro si fosse placato.
«Come va ora? Meglio?»
«Sì», mormorò senza aprire gli occhi. «Cosa hai fatto?»
«Be', finché resta fra noi tre, possiamo chiamarla con il suo nome vero:
una magia. Un piccolo controincantesimo a tuo favore.»
Wireman allungò il braccio da dietro, prese l'album, studiò il ritratto e
annuì. «Comincio a credere che avrebbe fatto meglio a lasciarti stare, muchacho.»
«È mia figlia che avrebbe dovuto lasciar stare», risposi.
10
Sostammo dov'eravamo per cinque minuti, dando tempo a Jack di riprendersi. Finalmente annunciò di sentirsi pronto a ripartire. Gli era tornato il colorito in viso. Mi domandai se saremmo incorsi negli stessi problemi giungendo lungo la costa. «Wireman, hai mai visto pescherecci ancorati
davanti al capo sud della key?»
Rifletté. «Be', sai, direi proprio di no. Di solito stanno sul lato di Don
Pedro dello stretto. Singolare, vero?»
«Altro che singolare, sinistro, direi», sbottò Jack. «Come questa strada.»
Era ridotta a un sentierino. Uva di mare e rami di banyan grattavano le
fiancate della Mercedes producendo stridii infernali. Procedevamo a passo
d'uomo su un fondo frastagliato dalle escrescenze delle radici sottostanti e
in più punti sgretolato e disseminato di buche, inoltrandoci su un percorso
serpeggiante che ora aveva anche cominciato a salire.
Penetravamo nella giungla chilometro dopo lento chilometro, sferzati e
schiaffeggiati della vegetazione, e io mi aspettavo che da un momento
all'altro la strada percorribile scomparisse del tutto, ma il denso fogliame
sovrastante l'aveva in certa misura protetta dalle intemperie. I banyan cedettero il passo a un'opprimente foresta di alberi di pepe rosa e lì vedemmo
il primo esemplare di fauna selvatica: un'enorme lince rossa che indugiò
per un istante sui resti sbriciolati della strada, soffiò contro di noi appiattendo le orecchie e scomparve nella boscaglia. Poco più avanti ci caddero
sul parabrezza una decina di grassi bruchi neri che scoppiarono nell'urto
schizzando sul vetro le loro viscere appiccicose. Il tergicristallo e il liquido
detergente riuscirono solo a spargerle uniformando lo strato, cosicché
guardare attraverso il parabrezza fu come guardare da un occhio con la cataratta.
Chiesi a Jack di fermarsi. Scesi, aprii il bagagliaio e trovai una piccola
scorta di stracci. Ne usai uno per pulire il parabrezza, dopo essermi fatto
infilare sulla mano da Jack uno dei guanti trovati da Wireman: avevo già il
cappello in testa. Ma per quel che potei stabilire, erano solo bruchi; vomi-
tevoli, forse, ma non soprannaturali.
«Niente male», si complimentò Jack dal finestrino aperto. «Ora ti apro il
cofano così controlli se...» S'interruppe guardando dietro di me.
Mi voltai. La strada era un piccolo sentiero ingombro di pezzi d'asfalto e
ciuffi di margherite. A una trentina di metri da noi la stavano attraversando
in fila cinque rane grosse come cuccioli di cocker. Le prime tre erano di un
brillante verde smeraldo che raramente si trova in natura; la quarta era blu;
la quinta era di un arancio scolorito che un tempo poteva esser stato rosso.
Sorridevano, ma c'era qualcosa di fisso e stanco nei loro sorrisi. Saltavano
adagio, come se fossero prive di muscoli negli arti posteriori, come già la
lince; scomparvero nella vegetazione.
«E cosa cazzo erano mai quelle?» proruppe Jack.
«Fantasmi», dissi. «Residui della fervida fantasia di una bambina. E non
ne hanno ancora per molto, a giudicare da come sono ridotti.» Risalii in
macchina. «Vai, Jack. Proseguiamo finché ci è ancora possibile.»
Ripartì lentamente. Io chiesi a Wireman che ora era.
«Le due passate.»
Riuscimmo ad arrivare fino al cancello della prima Heron's Roost. Non
ci avrei mai scommesso, ma ce la facemmo. Le fronde si chiusero per
un'ultima volta - banyan e pini nani con grigie barbe di muschio spagnolo ma Jack si aprì un varco di forza e tutt'a un tratto fummo all'aperto. In quel
tratto le intemperie avevano cancellato completamente la pavimentazione e
della strada restava solo un ricordo inciso da solchi profondi, ma era quanto bastava alla Mercedes, che dondolando e sobbalzando risalì ancora
qualche decina di metri verso due pilastri di pietra. Su entrambi i lati correva una grande siepe incolta, alta almeno sei metri e Dio solo sapeva
quanto larga, che già aveva cominciato ad allungare folti tentacoli verdi
giù per la discesa verso la giungla. I battenti del cancello c'erano ancora,
ma erano arrugginiti e aperti per metà. Calcolai che la Mercedes non sarebbe potuta passare.
Quell'ultimo tratto di strada era fiancheggiato su entrambi i lati da secolari pini australiani di imponente altezza. Cercai uccelli a testa in giù e non
ne vidi. Non vidi nemmeno nessuno della varietà normale, quella che si
regge sulle zampe, se è per questo, sebbene cominciassi in quel momento a
udire un sommesso ronzio di insetti.
Jack si fermò al cancello guardandoci con un'espressione desolata.
«Questa vecchia carretta per di là non ci passa.»
Scendemmo. Wireman sostò a guardare le antiche targhe incrostate dai
licheni affisse ai pilastri. Su quella di sinistra c'era scritto HERON'S ROOST. Su quella di destra c'era EASTLAKE, ma sotto era stato graffiato
qualcos'altro, forse con la punta di un coltello. Può darsi che in passato
fosse stato difficile leggere la scritta, ma il lichene che era cresciuto nelle
sottili incisioni l'aveva evidenziata: Abyssus abyssum invocat.
«Qualche idea su che cosa significhi?» domandai a Wireman.
«Senza dubbio. È un avvertimento che danno spesso ai neoavvocati appena superato l'esame di stato. La traduzione libera è: 'Un passo falso porta
a un altro'. La traduzione letterale è: 'L'inferno chiama l'inferno'.» Mi
guardò con occhi tetri. «Ho il sospetto che possa essere il verdetto finale di
John Eastlake prima di lasciare per sempre la vecchia Heron's Roost.»
Jack allungò la mano con l'idea di toccare l'incisione, poi parve ripensarci.
Lo fece Wireman per lui. «Il verdetto, signori... ed espresso nella lingua
propria della legge. Andiamo. Il sole tramonta alle sette e un quarto, più o
meno, e la luce del giorno ha vita breve. Faremo a turno con la cesta. È una
puta maledettamente pesante.»
11
Ma prima di entrare in azione, qualunque essa fosse, ci soffermammo al
di là del cancello a contemplare quella che era stata la prima abitazione di
Elizabeth a Duma Key. La mia reazione immediata fu di sgomento. Avevo
più o meno elaborato mentalmente un chiaro disegno narrativo: si entrava
in casa, si saliva al piano di sopra e si entrava in quella che era stata la
stanza di Elizabeth nei giorni lontani in cui era conosciuta come Libbit. Lì
il mio braccio mancante, noto anche come la Bacchetta Magica del Sensitivo Edgar Freemantle, mi avrebbe condotto a un vecchio baule (o anche
forse una più umile cassa di legno). Dentro avrei trovato altri disegni, i disegni mancanti, quelli che mi avrebbero rivelato dove si trovava Perse e
avrebbero risolto l'enigma della tavola che perdeva. Tutto prima del tramonto.
Una bella storia, con un solo piccolo problema: il piano di sopra della
Heron's Roost non esisteva più. La casa si ergeva su un poggio esposto e
tutta la parte superiore era stata completamente distrutta da qualche antica
tempesta. Rimaneva il pianterreno, imbozzolato però dai rampicanti grigiastri che si erano avvinghiati anche alle colonne della facciata. I pendagli
di muschio spagnolo che scendevano dal tetto trasformavano la veranda in
una grotta. Il terreno tutt'intorno alla casa era cosparso di cocci di tegole
arancione, tutto quel che restava del tetto. Spuntavano come denti di gigante dalla prateria incolta che aveva rimpiazzato il prato. Gli ultimi venticinque metri del viale di frammenti di conchiglie erano stati sepolti dal ficus strangolatore. Stessa fine avevano fatto il campo da tennis e quella che
un tempo doveva essere stata una casetta da gioco per bambini. Altri rampicanti avevano invaso il lungo annesso, forse una scuderia, dietro il campo e si erano inerpicati su quanto restava del tetto della casetta.
«E quello cos'è?» Jack indicava un lungo rettangolo di preoccupante liquido nero che luccicava nel sole pomeridiano tra il campo da tennis e la
casa. Il ronzio degli insetti sembrava provenire soprattutto da lì.
«Ora?» ribatté Wireman. «Lo definirei una pozza di catrame. Negli Anni
Ruggenti immagino che la famiglia Eastlake lo chiamasse piscina.»
«Fare il bagno là dentro? Brrrr», commentò Jack e rabbrividì.
La vasca era circondata da salici. Più oltre c'era un'altra macchia di pepe
rosa e...
«Wireman, quelli sono banani?» chiesi.
«Sì», rispose lui. «E probabilmente infestati dai serpenti. Puah. Guarda
sul lato ovest, Edgar.»
Sul lato del Golfo il groviglio di erbe e rampicanti che una volta era stato il prato della Heron's Roost cedeva il passo all'uniola. La brezza era vivace e la vista era migliore e per questo potei apprezzare l'unica cosa di cui
raramente si può godere in Florida: una visuale sopraelevata. Da lì si aveva
la sensazione di avere il Golfo del Messico ai propri piedi. Alla nostra sinistra c'era Don Pedro Island, a destra Casey Key sembrava l'immagine di un
sogno, avvolta in una bruma grigio-azzurra.
«Il ponte è ancora alzato», osservò Jack divertito. «Questa volta hanno
davvero dei problemi.»
«Wireman», dissi io, «guarda da quella parte, lungo quel vecchio sentiero. Vedi laggiù?»
Seguì la direzione del mio indice puntato. «L'affioramento? Sì, lo vedo.
Non è corallo, non credo, ma dovrei avvicinarmi un po' per accertarmene.
Ti interessa?»
«Smettila per un momento di fare il geologo e limitati a guardare. Cosa
vedi?»
Guardò. Lo fecero entrambi. Fu Jack ad arrivarci per primo. «Un profilo?» Poi lo ripeté, in tono affermativo: «Un profilo».
Io annuii. «Vediamo solo la fronte, l'incavo dell'orbita e la punta del na-
so, ma scommetto che se fossimo sulla spiaggia vedremmo anche una bocca. O qualcosa che la ricordi. Quella è Hag's Rock, Punta Strega. Subito
sotto, sono pronto a scommettere qualunque cosa, c'è Shade Beach. Da dove John Eastlake partiva per le sue spedizioni di caccia al tesoro.»
«E dove sono annegate le gemelle», aggiunse Wireman. «Quello è il
sentiero che percorrevano per arrivarci. Solo...»
Si ammutolì. La brezza ci spingeva all'indietro i capelli. Osservammo il
sentiero, ancora visibile dopo tanti anni. Non poteva essere solo l'opera di
piccoli piedi che scendevano in spiaggia a fare il bagno. Un sentiero pedonale tra Heron's Roost e Shade Beach sarebbe scomparso nell'arco di cinque anni, forse anche solo due.
«Non è un sentiero», dichiarò Jack leggendomi nel pensiero. «Quella
una volta era una strada. Sterrata, ma strada lo stesso. A che cosa poteva
mai servire una strada tra la casa e la spiaggia quando non potevano essere
più di dieci minuti a piedi?»
Wireman scosse la testa. «Chi lo sa?»
«Edgar?»
«Nessuna idea.»
«Forse in fondo al Golfo aveva trovato qualcosa di più che qualche vecchio rottame», ipotizzò Jack.
«Può darsi, ma...» Colsi un movimento con la coda dell'occhio, qualcosa
di scuro, e mi girai verso la casa. Non vidi nulla.
«Cosa c'è?» domandò Wireman.
«Nervi a fior di pelle, probabilmente», gli risposi.
La brezza che ci arrivava dal Golfo cambiò leggermente direzione mettendosi a soffiare verso sud. Mi arrivò una zaffata putrida.
Jack arricciò il naso. «Che cazzo c'è ancora!»
«Profumo dalla piscina, immagino», disse Wireman. «Jack, è buono l'odore di morchia di mattina.»
«Sì, ma è pomeriggio.»
Wireman gli scoccò un'occhiata impietosita, poi si rivolse a me. «Tu cosa pensi, muchacho? Si va avanti?»
Feci un rapido inventario. Wireman aveva la cesta rossa, Jack aveva la
borsa con le provviste; io avevo il mio materiale da disegno. Non avevo
idea di che cosa avremmo fatto se gli altri disegni di Elizabeth fossero stati
distrutti dalla tempesta che aveva strappato il tetto al rudere davanti a noi
(o se non fossero mai nemmeno esistiti altri disegni), ma eravamo arrivati
fin lì e qualcosa dovevamo fare. Me lo chiedeva Ilse, dalle ossa e dal cuo-
re.
«Sì», risposi. «Si va avanti.»
12
Eravamo arrivati al punto in cui il vialetto cominciava a essere coperto
dal ficus strangolatore quando vidi la forma nera sfrecciare nell'intrico di
alte erbacce a destra della casa. Questa volta la vide anche Jack.
«Là c'è qualcuno», disse.
«Io non vedo nessuno», rispose Wireman. Posò la cesta e si deterse la
fronte con l'avambraccio. «Facciamo cambio per un po', Jack. Tu il paniere
e io la borsa. Tu sei giovane e forte. Wireman è vecchio e consunto. Rischia di restarci secco se... Porca merda, cos'è quello!»
Indietreggiò dalla cesta posata sul terreno e sarebbe caduto se io non lo
avessi preso per la vita. Jack lanciò un grido di sorpresa e orrore.
Uscì dal sottobosco davanti a noi, sulla sinistra. Non c'era modo perché
potesse trovarsi lì - io e Jack lo avevamo scorto cinquanta metri più in là
solo pochi secondi prima - ma lì era. Era un uomo nero ma non un essere
umano. Non lo scambiammo nemmeno per un istante per un vero essere
umano. Per cominciare le sue gambe, storte e rivestite da una calzamaglia
blu, non si mossero quando ci passò davanti. Né scosse le quinte di fitto ficus strangolatore che lo attorniavano. Eppure le sue labbra sorrisero; i suoi
occhi vibrarono di allegra malignità. In testa aveva un berretto con visiera
con un bottone in cima, e quello era il particolare peggiore.
Pensai che se avessi guardato a lungo quel berretto, sarei impazzito.
La cosa scomparve nell'erba alla nostra destra, un uomo nero in calzamaglia blu, alto pressappoco un metro e settanta. L'erba non era più di un
metro e mezzo e la semplice aritmetica diceva che non ci sarebbe potuto
mai sparire dentro, e invece sparì.
Un attimo dopo era in veranda, a sorriderci come il Vecchio Servo di
famiglia, dopodiché, senza una pausa, fu ai piedi dei gradini e di nuovo
sfrecciò nell'erba, sempre sorridendoci.
Sorridendoci da sotto il suo berretto.
Il suo berretto era ROSSO.
Jack si girò per darsela a gambe. Sul suo volto non c'era altro che panico, di quello che soffoca la capacità di ragionare e cancella il dono della
parola. Io lasciai andare Wireman per afferrarlo e in quel momento, se anche Wireman avesse deciso di fuggire, credo che per la nostra spedizione
sarebbe stata la fine; io del resto avevo un braccio solo e non potevo trattenerli entrambi. Non potevo trattenere nessuno dei due, se davvero avevano
intenzione di mollare.
Terrorizzato com'ero, io non ebbi mai la tentazione di scappare. E Wireman, Dio lo benedica, tenne duro, fermo a guardare a bocca aperta il nero che ricompariva dai banani tra la piscina e l'annesso.
Acchiappai Jack per la cintura e lo tirai indietro. Non potevo schiaffeggiarlo - non avevo una mano con cui farlo - così mi accontentai di urlare.
«Non è reale! È il suo incubo!»
«Il suo... incubo?» Qualcosa di simile alla comprensione si accese negli
occhi di Jack. O forse solo un briciolo di consapevolezza. Più facile la seconda ipotesi.
«L'incubo che la insidiava, il suo babau, quello che le faceva paura
quando spegnevano le luci», dissi. «È solo un altro fantasma, Jack.»
«Come lo sai?»
«Sfarfalla come un vecchio film», intervenne Wireman. «Guardalo.»
L'ometto nero scomparve, poi spuntò di nuovo, questa volta davanti alla
scaletta incrostata di ruggine che saliva al trampolino della piscina. Ci sorrise da sotto il suo berretto rosso. La camicia, vidi, era blu come la calzamaglia. Saltabeccava da un posto all'altro su quelle gambe che non si
muovevano, sempre flesse nella stessa posizione, come un bersaglio al tiro
a segno. Scomparve di nuovo, poi comparve sulla veranda. Un istante dopo era sul vialetto, quasi direttamente davanti a noi. Guardarlo mi faceva
male al cuore e ancora mi incuteva paura... ma solo perché lei ne aveva
avuto paura. Libbit.
La volta dopo si materializzò sul sentiero solcato che scendeva a Shade
Beach e questa volta vedemmo il Golfo luccicare attraverso camicia e calzamaglia. Poi si dissolse nel nulla e Wireman cominciò a ridere istericamente.
«Cosa?» Jack si girò verso di lui. Quasi lo aggredì. «Cosa?»
«Ma è un maledetto pupazzo da giardino!» esplose Wireman ridendo
come un matto. «Uno di quei negretti da giardino che ora sono così politicamente verboten ingrandito di tre, forse quattro volte! Il babau di Elizabeth era il negretto da giardino di casa!»
Cercò di aggiungere ancora qualcosa, ma non ci riuscì. Si piegò in avanti
ridendo così forte da doversi reggere con le mani sulle ginocchia. Io non
potei fargli compagnia, per quanto comica fosse quella specie di qui pro
quo... e non solo perché nel Rhode Island c'era mia figlia morta. Wireman
adesso rideva solo perché all'inizio aveva avuto paura quanto me e Jack,
quanto doveva averne avuta Libbit. E perché lei aveva avuto paura? Perché
qualcuno, probabilmente senza volere, aveva messo l'idea sbagliata nella
sua testolina fantasiosa. Io avrei puntato i miei soldi su Tata Melda e, magari, su una storia inventata lì per lì all'ora di andare a dormire con il solo
intento di confortare una bambina ancora agitata dal trauma della caduta.
Che forse soffriva addirittura di insonnia. Solo che quella storia si era insinuata nel posto sbagliato e si era fatta crescere IENTI.
E Brache Blu non andava confuso con le rane che avevamo visto sulla
strada. Quelle erano un'invenzione personale di Elizabeth ed erano prive di
malevolenza. Il nano da giardino invece... Forse in origine era stato un
frutto della testa ammaccata di Libbit, ma avevo il sospetto che da tempo
Perse se ne fosse appropriata per i propri scopi. Se qualcuno si fosse avvicinato troppo alla prima abitazione di Elizabeth, eccolo lì, pronto a spaventare l'intruso. Aprendogli forse le porte di una degenza nel manicomio più
vicino.
Il che significava che allora forse qualcosa da trovare in quella casa c'era
ancora.
Jack fissava nervoso il punto in cui il sentiero, che davvero dava l'impressione di essere stato un tempo largo abbastanza da permettere il passaggio di un carro o addirittura un camion, cominciava a scendere e scompariva. «Tornerà?»
«Non importa, muchacho», gli rispose Wireman. «Non è reale. Invece la
cesta sì e bisogna che qualcuno la trasporti. Perciò, coraggio, omaccione,
tirala su.»
«Solo guardarlo mi faceva sentire come se stessi per perdere il lume della ragione», commentò Jack. «Tu lo capisci, Edgar?»
«Sì. Ai suoi tempi Libbit era dotata di un'immaginazione molto potente.»
«E poi cos'è successo?»
«Ha dimenticato come usarla.»
«Gesù. Ma è orribile.»
«Sì. E credo che questo genere di perdita della memoria si verifichi con
una certa facilità. La qual cosa è ancor più orribile.»
Jack si chinò, afferrò i manici della cesta e alzò gli occhi su Wireman.
«Cosa c'è qui dentro? Lingotti d'oro?»
Wireman prese la borsa con le provviste e gli rivolse un sorriso sereno.
«Ci ho messo dentro qualcosina, in più.»
Ci avviammo per il vialetto invaso dall'erba attenti all'eventuale riapparizione del nano troppo cresciuto. Non tornò. In cima ai gradini della veranda Jack posò la cesta con un piccolo sospiro di sollievo. Udimmo alle
nostre spalle un frullare di ali.
Quando ci girammo, vedemmo un airone che si era posato sul viale. Poteva essere lo stesso che mi aveva guardato con sdegno dal campo da tennis di El Palacio. Di certo l'espressione era la stessa: occhi azzurri e penetranti e senza una traccia di compassione.
«Quello è reale?» domandò Wireman. «Tu che ne pensi, Edgar?»
«È reale.»
«Come lo sai?»
Avrei potuto fargli notare che l'airone proiettava un'ombra, ma per quel
che ne sapevo lo faceva anche il negretto da giardino; lo sgomento mi aveva impedito di farci caso. «Lo so e basta. Su, entriamo. E senza stare a
bussare. La nostra non è una visita di cortesia.»
13
«Uh, questo potrebbe essere un problema», borbottò Jack.
Le fitte propaggini di muschio spagnolo che pendevano dalla tettoia impedivano al sole di illuminare la veranda, ma quando i nostri occhi si furono adattati al buio, vedemmo la grossa catena arrugginita che fermava i
due battenti del portone. Passava attraverso anelli fissati a entrambi gli stipiti ed era trattenuta non da uno, ma da due lucchetti.
Wireman si avvicinò per esaminarla meglio. «Secondo me», fu il suo
commento, «io e Jack dovremmo essere in grado di strappare uno o entrambi quegli anelli. Hanno visto giorni migliori.»
«Anni migliori», lo corresse Jack.
«Forse», obiettai io, «ma possiamo dare praticamente per scontato che il
portone è comunque chiuso a chiave e se ci mettiamo a far saltare anelli e a
sferragliare catene, disturberemo i vicini.»
«Quali vicini?» chiese Wireman.
Indicai all'insù. Wireman e Jack alzarono gli occhi e videro quello che io
avevo già notato: una folta colonia di pipistrelli marrone che dormivano in
quella che sembrava un'ampia amaca di ragnatele. Guardai giù e vidi che
la veranda non era solo imbrattata di guano, ma ne era completamente pavimentata. Fui molto felice di avere un cappello in testa.
Quando rialzai gli occhi, Jack Cantori era ai piedi dei gradini. «Non se
ne parla», dichiarò. «Datemi del vigliacco, datemi del cacasotto, datemi di
quel che vi pare, ma io non ci entro. Per Wireman sono i serpenti, per me
sono i pipistrelli. Una volta...» Diede l'impressione di avere altro da dire,
forse molto, ma di non sapere come dirlo. Indietreggiò invece di un altro
passo. Mi concessi un momento per meditare sulla singolarità della paura:
quello che non era riuscito a ottenere lo strano gnomo nero (ci era andato
vicino, ma questo conta solo nel lancio dei ferri di cavallo), era stato realizzato da una colonia di pipistrelli addormentati. Almeno quanto a Jack.
«Possono attaccare la rabbia, muchacho», commentò Wireman, «lo sapevi?»
Annuii. «Credo che dovremo cercare un ingresso di servizio.»
14
Camminammo lentamente lungo il fianco della casa. In testa al terzetto
c'era Jack con il paniere rosso. Aveva la camicia scura di sudore, ma non
dava più il minimo segno di nausea. Era strano, probabilmente tutti e tre
avremmo dovuto soffrire di nausea, perché il puzzo che si alzava dalla piscina era quasi insopportabile. L'erba che ci arrivava alle cosce si strusciava sui nostri calzoni; gli steli rigidi del fiddlewood ci rimbalzavano sulle
caviglie. C'erano delle finestre, ma a meno che Jack volesse tentare di
montare sulle spalle di Wireman, erano tutte troppo alte.
«Che ore sono?» ansimò Jack.
«Ora di muoversi un po' più alla svelta, mi amigo», lo incalzò Wireman.
«Vuoi che porti un po' io quella cesta?»
«Come no», ribatté Jack in un tono seccato che gli sentivo per la prima
volta da quando lo avevo conosciuto. «Così poi ti viene un infarto e io e il
boss possiamo sperimentare la nostra tecnica di rianimazione.»
«Stai insinuando che non sono in forma?»
«Sarai anche in forma, ma io ti piazzo di un bel venti chili dentro la zona
di pericolo cardiopatico.»
«Piantatela», intervenni. «Tutti e due.»
«Metti giù, figliolo», disse Wireman. «Metti giù quel cesto de puta madre, che adesso lo porto io.»
«No. Scordatelo.»
Percepii qualcosa di nero che si muoveva con la coda dell'occhio. Quasi
non guardai. Pensai che fosse di nuovo la statuetta da giardino, che questa
volta correva lungo il bordo della piscina. O slittava sulla sua superficie
puzzolente e piena di insetti. Meno male che decisi di assicurarmene.
Intanto Wireman stava fissando Jack con astio. Il giovane aveva messo
in dubbio la sua prestanza fisica. «Voglio darti il cambio.»
Un pezzo della massa schifosa che riempiva la vasca si era animato. Si
staccò dal nerume e si abbatté flaccido sul vecchio bordo di cemento pieno
di crepe e ciuffi d'erba, spruzzando intorno a sé una raggiera di fanghiglia.
«No, Wireman, la porto io.»
Un pezzo di schifezza con gli occhi.
«Jack, te lo dico per l'ultima volta.»
Poi vidi la coda e capii che cosa stavo guardando.
«E io sto dicendo a te...»
«Wirem