protesi-anca 60KB Oct 17 2016 06:47:50 PM
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Quando l’artrosi non dà tregua Generalmente in età avanzata la patologia artrosica peggiora e diventa invalidante. Il dolore insopportabile suggerisce un intervento drastico, la protesi d’anca, che lo elimini e restituisca l’assetto funzionale della persona. Ne abbiamo parlato con il professor Roberto D’Anchise, noto chirurgo ortopedico di Sergio Meda Sempre più spazio hanno gli interventi di protesi d’anca, in ragione dell’aumentata aspettativa di vita e dei problemi connessi all’età che avanza in una struttura osteoarticolare non programmata per durare così a lungo in efficienza. Nonostante i progressi compiuti nella rigenerazione tessutale e ossea, al momento non è infatti possibile bloccare la patologia artrosica avanzata. L’artrosi colpisce, meglio sarebbe dire affligge, gran parte della popolazione e in alcuni casi è particolarmente invalidante. Il dolore, dapprima insistente poi insopportabile, si accompagna e scandisce la malattia degenerativa dell’osso, nel caso specifico la testa del femore e la componente del bacino. Nascono poi le limitazioni funzionali a livello articolare, che sono causa di ulteriore disequilibrio e ci costringono, nostro malgrado, ad assumere posizioni difensive, che si trasformano presto in “vizi di atteggiamento”: per difenderci dal dolore cerchiamo nuove posture che ci producono ulteriori scompensi. Se a tutto questo – chiamiamola normalità - si aggiungono traumi o lesioni o squilibri intervenuti nelle varie fasi della vita, ecco spiegato l’aumento cospicuo degli interventi all’anca, a vario titolo: in soli quindici anni in Italia siamo passati da 70mila casi l’anno a 100mila, dato approssimato per difetto. Va anche detto che i pazienti si rivolgono alle strutture ortopediche di riferimento quasi sempre con ritardo: il timore dell'intervento si unisce a quello, paventato ma insensato, di non poter ritrovare la completa funzionalità dell’arto. Grande ansietà può produrre l’ipotesi, non rara, di un intervento duplice, anche sull’altra anca, ma questo può avvenire tre-quattro mesi dopo il primo, ma c’è anche chi effettua l’intervento bilaterale in contemporanea, in condizioni di sicurezza. La decisione di operarsi matura lentamente, magari con anni di ritardo rispetto alle condizioni ideali e spesso con un’efficienza fisica decisamente compromessa. Ma questo discorso ci porterebbe lontano, considerato quanto scarsamente valutata sia l’educazione sanitaria nel nostro Paese. Di protesi dell’anca abbiamo parlato con il professor Roberto D’Anchise, primario ortopedico presso l’Istituto Galeazzi di Milano. Lo scenario di riferimento Le cartilagini rendono lisce e flessibili le superfici che ricoprono la “testa” dell’osso della coscia (il femore) e la cavità che la contiene (l’acetabolo). Quando questi tessuti si usurano le ossa dell'articolazione fanno attrito fra loro e questo porta a dolore, deformazione e perdita di mobilità. Quando i farmaci e le terapie di contenimento non sono più efficaci e i disagi si fanno via via insostenibili, si ricorre all’atto chirurgico sostituendo la testa del femore con una sfera di metallo (titanio) e rifacendo la cavità che la contiene con solo metallo e polietilene o con una struttura di ceramica o metallo ricoperta di plastica. Le protesi possono essere fissate con cemento (polimetilmetacrilato) o sfruttando la ricrescita dell’osso sulla superficie e negli anfratti dell’innesto. I metodi di ancoraggio e i materiali utilizzati dipendono dalle abitudini del chirurgo e dalle caratteristiche del paziente (età, patologia, caratteristiche dell’osso). L’intervento può essere totale (sostituzione della testa e della cuffia) o di revisione. Il soggetto operato incomincia a camminare con le stampelle dopo 2-4 giorni e raggiunge un recupero totale dopo un paio di mesi. La buona riuscita è del 90%. L’intervento La protesi d’anca è un intervento nel quale la testa e il collo del femore, unitamente all’osso acetabolare del bacino vengono interamente asportati e sostituiti. Per ripristinare l’articolarità si impianta nel femore lo stelo protesico e nel bacino la coppa acetabolare. In alcuni pazienti dopo l’intervento la lunghezza delle gambe può essere diversa e può essere compensata con un piccolo rialzo. Esiste un minimo rischio di lussazione. Dopo la protesizzazione, realizzata con materiale comunque soggetto ad usura, è preferibile non sottoporsi ad attività lavorative e si suggerisce di ridurre la pratica di attività sportive. Nonostante la durata sia ben prolungata rispetto a quelle del passato, soprattutto nei pazienti giovani e attivi, la protesi dell’anca può andare incontro a un progressivo consumo con necessità di un reintervento. Quali i rischi La protesizzazione dell'anca è un intervento importante di chirurgia maggiore e come tale comporta alcuni rischi, riferibili a tre situazioni rilevanti. Possono sorgere infezioni sulla superficie metallica dell'impianto per la crescita dei batteri al riparo dalle difese immunitarie dell'organismo (caso peraltro raro, stimato nello 0,5%) Il diabete mellito e le condizioni di immunodeficienza aggravano questo rischio. Secondo rischio la trombosi venosa, con rischio di embolo polmonare, che ha incidenza molto relativa (basta impiegare farmaci anticoagulanti e calze elastiche durante il decorso postoperatorio). Terza ipotesi di rischio la lussazione, vale a dire la fuoruscita della testa protesica dalla coppa. Questa può verificarsi se il paziente azzarda alcuni movimenti proibiti come accavallare le gambe o flettere troppo l’arto nelle prime 6 settimane dopo l'impianto. Le eventuali lussazioni si risolvono senza interventi chirurgici, ma a volte richiedono la riduzione sotto sedazione. Il decorso postoperatorio Dopo l'intervento, il paziente rimane ricoverato nel reparto chirurgico per un tempo variabile tra 4 e 8 giorni in funzione dell'età, delle malattie coesistenti, della capacità di seguire il programma riabilitativo. La deambulazione inizia in genere il secondo giorno dopo l’intervento, con carico relativo. Negli impianti cementati è possibile eliminare le stampelle precocemente, non appena siano guariti i tessuti molli (entro 2 settimane), mentre in quelli non cementati è preferibile attendere 4-6 settimane per non disturbare il processo di osteointegrazione delle componenti. Dopo 6-8 settimane, in presenza di un decorso regolare, il paziente può tornare a una vita normale. La durata di una protesi d'anca Le protesi attuali durano in media 15/20 anni, ma molto dipende dal peso corporeo del soggetto e dal livello di attività fisica che svolge. Per questo un paziente anziano, magro e con basse richieste funzionali, può ragionevolmente pensare che il suo impianto lo accompagni per l’intera vecchiaia. Diverso è il caso di un soggetto giovane, attivo e magari sovrappeso, per il quale il rischio di una riprotesizzazione è concreto. Lo sport dopo l’intervento La pratica sportiva richiede un completo recupero della funzione e della stabilità articolari, traguardi che necessitano di non meno di 4 mesi dopo l’intervento. La protesi d'anca, eliminando il dolore, induce il paziente a riprendere le attività sportive interrotte da tempo. Da evitare, in ogni caso, le discipline che comportano la corsa o il salto in quanto causano violenti e ripetuti impatti della testa protesica nella coppa, con incremento dell'usura. Sono dunque sport assolutamente sconsigliati. Anche gli sport a rischio di trauma, perché eseguiti in velocità (sci alpino, ciclismo) o a distanza da terra (equitazione) vanno frequentati con molta cautela. Ogni incidente può avere gravi conseguenze sulla protesi e si suggerisce la massima attenzione. Ai pazienti protesizzati si consigliano attività praticate a livello ludico-ricreativo privilegiando il nuoto, il golf, la ginnastica che incidono poco o nulla sull'usura dell'impianto e non espongono a gravi rischi. Il caso di pazienti “giovani” Per soggetti giovani, spesso vittime di incidenti, o relativamente giovani, si ricorre preferibilmente a protesi conservative o ad accoppiamenti a bassissima usura. Vediamo in che cosa consistono. Le prime sono modelli protesici che comportano una minore asportazione ossea, soprattutto a livello femorale. Le protesi conservative hanno indicazioni piuttosto limitate, ma in alcuni casi offrono la possibilità di un reale risparmio dei tessuti. Gli accoppiamenti a bassissima usura sono interfacce articolari che liberano quantità minime di detriti. Le interfacce tradizionali sono dette metallo-polietilene o ceramicapolietilene in base alla composizione della testa protesica e dell'inserto acetabolare. L’attuale polietilene consente eccellenti prestazioni di durata, è ideale nei pazienti over-60 ma può liberare detriti in quantità considerevoli nei pazienti molto giovani e attivi. L’artroplastica di rivestimento Negli ultimi anni si sta facendo strada, con risultati ancora da valutare nel tempo, l’artroplastica di rivestimento come alternativa alla protesi d’anca. Si impiegano due sottilissime cupole metalliche che rivestono la superficie articolare del bacino e della testa del femore, rimpiazzando la cartilagine usurata. Questo procedimento chirurgico permette la conservazione sia della testa che del collo del femore, asportati completamente nell’intervento di protesi d’anca. Dell’artroplastica di rivestimento si giovano i soggetti attivi in rapporto alla scomparsa del dolore e al recupero della funzione. In caso di reintervento, raro ma possibile, l’artroplastica di rivestimento permette di porre il paziente nelle condizioni utili per affrontare un intervento di protesi d’anca. L’artroplastica di rivestimento è impiegabile in qualsiasi paziente, a patto che l’osso sia in buono stato e la testa del femore sia sufficientemente conservata. Esiti confortanti Per un giudizio complessivo va detto che gli interventi di protesizzazione dell’anca sono consueti in Italia e presentano ottimi esiti. È chiaro che è sempre opportuno rivolgersi a strutture ortopediche dove operino chirurghi dotati di esperienza e precisione.