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IL SANTO CURATO D’ARS
Non è facile delineare compiutamente i tratti della figura spirituale di Jean-Marie
Baptiste Vianney detto comunemente il Curato d’Ars. Bisognerebbe rivisitarne
minuziosamente le virtù.
Qui prenderò in considerazione alcuni aspetti che riguardano, soprattutto, il suo
essere prete, non semplicemente un semplice “curato di campagna”, ritenuto al
riparo dal pericoli e dai mali della città, come molte agiografie l’hanno presentato.
Del resto, era parso proprio ai suoi Superiori che non occorressero troppe doti per
esercitare, “in campagna” appunto, il ministero. Lo aveva confermato lo stesso
Vicario Generale, nel deciderne l’ammissione: “Il Signor Vianney ne sa
abbastanza, e anche più, della maggior parte dei preti di campagna”.
Il giudizio intendeva essere benevolo: almeno per superare le reiterate difficoltà
incontrate negli studi dal giovane Vianney. Certo, egli non aveva dato prova di
brillanti risultati in seminario: i documenti ufficiali lasciano anzi intravedere un
itinerario scolastico sofferto e travagliato, con esiti finali per nulla convincenti.
Ma, forse, bisogna rendergli giustizia anche sotto questo profilo, se di lui può
incisivamente dire il Nodet: “Bisogna distruggere, una volta per sempre, la
leggenda che il Santo Curato d’Ars sia stato un personaggio di scarsa intelligenza,
un minus habens, che solo la grazia di Dio avrebbe elevato a un ammirevole
comprensione delle anime”.
L’intuizione delle sue capacità intellettive (è dotato di una intelligenza acuta,
vivace, di uno spirito che sa scoprire gli stati d’animo e i sentimenti più nascosti di
una persona), anche se non sostenute da memoria vivace e da rigore
metodologico, peraltro non mai coltivati per l’incuria dello stesso maestro degli
studi primari (pare fosse non solo incapace di promuovere culturalmente gli
allievi, ma del tutto incurante di coloro che provenivano da ambienti poveri e
modesti, come il piccolo Vianney), aveva certamente persuaso l’abbé Balley a
prendersi cura del giovane seminarista, a guidarlo con puntigliosa determinatezza
fino al Diaconato e al Presbiterato.
Né da seminarista né da prete, il Vianney considererà comunque inutile lo studio.
La sua biblioteca comprende più di 400 volumi. Sul comodino ha la Vita dei Santi,
opere di Autori mistici, libri di teologia e di morale. Studia anche per svolgere il
suo ministero di consigliere spirituale. Il suo Vescovo, certo per metterlo alla
prova, gli chiede di mandargli i casi di coscienza difficili con le soluzioni proposte
(circa 200), sempre giuste, tranne 2 o 3 casi discutibili.
Da prete, soprattutto, egli si preoccuperà di colmare le proprie lacune, di adeguare
la sua preparazione alle esigenze del ministero, convinto della responsabilità che il
prete assume, anche in questo senso, di fronte a coloro di cui deve prendersi cura.
A confermarlo in tale convinzione aveva certo contribuito la guida sapiente e
illuminata del Balley, canonico regolare di S.Agostino, parroco di Écully che lo
aveva avviato a uno studio puntiglioso e tenace: studio cui continuerà a dedicarsi,
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trascorrendo lunghe ore su libri e articoli, anche divenuto Curato d’Ars.
Per meglio comprenderne la statura spirituale, sarebbe opportuno ripercorrere le
tappe della sua vita, non priva di difficoltà anche per il contesto storico: quello del
romanticismo, del laicismo, dell’anticlericalismo illuministico, della rivoluzione
francese, del giansenismo.
ALCUNI
DATI BIOGRAFICI
Giovanni Maria Vianney nasce a Dardilly l’8 maggio 1786 e viene battezzato lo
stesso giorno. La famiglia è contadina. Vive una profonda dimensione di fede e
così educa i figli. E’ il 4° dei sei figli di Matteo e Maria Béluse, che risiedeva a
Écully, parrocchia vicina a Dardilly, a 8 km da Lione.
Il cognome viene dal soprannome Vianeis o Vianneis e significa abitante della città
di Vienne, nel Delfinato.
Il contesto storico è quello della Rivoluzione francese, con le note vicende:
- saccheggio di S.Lazzaro (casa religiosa fondata da S.Vincenzo de’ Paoli - 13 luglio
1789)
- presa della Bastiglia (14 luglio 1789)
- leggi che confiscano i beni del clero (2 novembre 1789)
- soppressione dei monasteri e dei voti dei religiosi (13 febbraio 1790)
- Costituzione civile del clero (26 novembre 1790)
Nel gennaio 1791 entra in vigore nel Lionese la Costituzione civile del clero e molti
preti prestano il giuramento scismatico (tra essi Giacomo Rey, parroco a Dardilly).
I parrocchiani sono inizialmente ignari (tra cui gli stessi Vianney), anche perché i
preti continuano a celebrare la Messa, sia pure nei termini della Costituzione.
I preti che non giurano sono arrestati e giustiziati: chi li denuncia riceve un
compenso di 100 franchi.
La casa dei Vianney è aperta a chi resta segretamente fedele.
Qui viene anche celebrata la Messa, pure celebrata nei granai.
Il 27 novembre 1790 vi è obbligo del giuramento di fedeltà allo Stato e alle sue
leggi sotto pena della privazione dell’ufficio ecclesiastico. Giurano solo 7 vescovi.
Preti refrattari sono ritenuti quelli che rifiutano di giurare la Costituzione.
Si apre uno scisma nella Chiesa di Francia.
L’Assemblea dichiara decaduti i vescovi e i preti refrattari. Il Vescovo Talleyrand
consacra solo in 2 mesi 36 vescovi, in violazione dei canoni della Chiesa.
Il Papa Pio VI, con due successivi “brevi” (10 marzo e 15 aprile), ricusa la
Costituzione civile del clero e condanna i Vescovi giurati, i neo-eletti.
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Il Terrore che regna a Parigi (1793-1794) raggiunge la provincia. Le chiese vengono
chiuse e così le scuole rette dai religiosi: perciò le funzioni religiose si celebrano di
notte.
Il 26 novembre 1793 è abolito il calendario gregoriano, sostituito con quello
repubblicano.
Sorge però a Ècully un centro di missione, con annesso il villaggio di Dardilly.
Giovanni incontra uno di questi missionari in casa sua, che gli propone la prima
confessione. Ha 11 anni.
Nel 1795 l’orizzonte politico sembra schiarirsi.
Il 21 giugno (il 3 messidoro Anno III) i parrocchiani di Dardilly fanno una
petizione perché sia riaperta al culto la Chiesa e ottengono la celebrazione della
Messa domenicale.
Giovanni vi partecipa tutti i giorni (così dice la madre).
Ma la persecuzione riprende.
Il parroco deve allontanarsi.
Lo stesso Giovanni si recherà dalla zia e dai cugini a Écully, dove due suore lo
preparano alla 1° comunione, che riceverà nel 1799. Ha 13 anni. La celebrazione
avviene in una casa di campagna, al tempo della mietitura, nascosta da carri di
fieno, che scaricavano per sviare l’attenzione.
Il periodo che segue è senza Messa per tutti: fino alla primavera del 1891.
Giovanni è senza guida spirituale, se non quella della mamma.
Intanto va spegnendosi lo scisma.
Lo stesso abbé Rey si sottopone alle decisioni della Santa Sede e si ritrova, nel
1803, parroco legittimo di Dardilly, interessandosi di Giovanni, adolescente
“devoto”, che vede spesso in Chiesa.
Rey muore il 23 ottobre 1804 e gli succede un prete eroicamente fedele alla Chiesa.
E’ Jacques Fournier, che era stato coadiutore di Rey.
E’ un prete molto attento ai poveri (mette a disposizione del segretario comunale e
del maestro di scuola parte della sua casa).
Riprende la scuola per i piccoli e giovani contadini, al loro ritorno dai campi.
Tra questi anche Giovanni.
Ma quando Giovanni impara a leggere e a scrivere, il padre lo impegna nel lavoro
dei campi, nell’accudire i pochi animali.
Il 21 ottobre 1806 muore il parroco e Giovanni perde un protettore e un
consigliere, anche se il ricordo di lui resterà vivo come resta forte e profondo il
desiderio di imitarlo nella vocazione.
La cosa non sarà facile, anche per l’opposizione del padre, quando il giovane
manifesterà il suo proposito.
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Ne prenderà cura l’abbé Balley, nuovo pastore di Écully, che aveva aperto in
Parrocchia una scuola presbiterale.
Dopo le iniziali resistenze perché oberato di lavoro, alla vista di questo giovane di
20 anni, pare che Balley gli avesse detto: “Sta tranquillo, amico mio, mi
sacrificherò per te se è necessario”. Non solo mantiene la parola, ma diverrà per il
futuro curato d’Ars il maestro, il padre spirituale, il sostegno e la guida negli anni
del Seminario e successivamente.
Ma gli studi sembrano un fallimento.
Nell’ottobre 1812, presentato all’esame di filosofia in Seminario da Balley, resta
muto: non aveva capito la domanda in latino.
Le umiliazioni, in questo senso, continuano.
Nel 1813, lo stesso disastro registrerà al Seminario di teologia, nonostante la sua
buona volontà.
Dopo 40 giorni è congedato: “rimandato al suo parroco”. Che continuerà a
studiare con lui, ma agli esami nuovo fallimento. L’insistenza di Balley presso
l’Arcivescovado ottiene la ripetizione degli esami: questa volta con esito positivo!
Riceve perciò gli Ordini Sacri. Finalmente riceve l’Ordinazione sacerdotale il 13
agosto 1815 a Grenoble, per le mani di Mons. Simon, a cui era stato chiesto scusa,
perché scomodato per una sola ordinazione.
Ma, dicono gli archivi, il vecchio Vescovo di Grenoble, dopo aver visto quel
Diacono dal volto ascetico, solo, non accompagnato né da parenti né da amici,
pare abbia detto: “Non è troppo scomodo ordinare un buon prete!”
Don Vianney rivelerà più tardi le emozioni di quel mattino, parlando della
sublime dignità del sacerdozio:
“Oh, che cosa grande è il sacerdozio! Il sacerdozio non lo si capirà bene che in cielo…
Se lo si comprendesse sulla terra, si morirebbe, non di spavento, ma di amore!...”.
Celebrerà la prima Messa il 20 agosto, alle 6 del mattino, ad Écully, desiderando
essere come “un vaso sacro” sull’altare del Signore.
Pare che M.Courbon, vicario generale dell’Arcidiocesi di Lione, abbia detto: “Il
giovane Vianney è pio? Sa recitare bene il rosario? E’ devoto della S.Vergine? La
grazia farà il resto!”.
Giovanni sa di non sapere. Non nasconde né a sé né agli altri questo, anzi esagera:
“Nelle famiglie ce n’è sempre uno che ha meno testa: da noi ero io”.
E ancora: “Quando sono con gli altri sacerdoti sono l’idiota del villaggio”.
Ha paura, per questo, di diventare parroco.
Quando lo sarà, vive questo conflitto interiore, accusandosi di ipocrisia perché
svolge un compito di guida, a cui pensa di non avere diritto.
Accetta come verità le critiche anche pesanti.
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E’ rimasto famoso lo scambio di lettere con un certo Abbé Boyon che lo apostrofa:
“Quando si possiede così poca teologia come voi, non si dovrebbe mai entrare in
un confessionale”. E lui lo ringrazia.
E’ convinto che l’ignoranza sia un peccato così che aumenta il suo tormento
interiore, i suoi scrupoli.
Ha paura di essere giudicato ipocrita davanti a Dio.
Ma confida nella misericordia di Dio.
E’ un tema ricorrente, di grande intuizione teologica.
“Dio mi ha usato questa grande misericordia di non mettere in me nulla su cui
potessi appoggiarmi, né talento, né scienza, né sapienza, né forza, né virtù.
Io sono la pialla nelle mani di Dio. E se avesse trovato un prete più ignorante, più
indegno di me, lo avrebbe messo al mio posto, per mostrare la grandezza della sua
misericordia”.
Si tratta di una profonda autentica intuizione teologica, in un’epoca in cui vige
ancora l’influenza rigorista e si guarda a Dio come a un giudice severo, perciò si
sottolinea la paura dell’inferno, la difficoltà di salvarsi.
Trascorre i primi anni del ministero come vicario a Écully, dove è parroco il suo
“protettore” e maestro Balley, con cui condivide la severità di una vita
rigorosamente ascetica, mortificata, di continua quaresima. E insieme impara i
compiti del prete.
Dovrà supplirlo quando Balley si ammala gravemente. Sarà proprio questo santo
parroco che, prima di morire, chiede di confessarsi “dal suo caro piccolo prete”,
dopo aver ricevuto da lui il Viatico e l’Estrema Unzione.
Consegna a lui anche gli strumenti di penitenza, raccomandandogli di
nasconderli, perché non pensino che egli sia un santo.
Balley muore il 17 dicembre 1817.
Giovanni piange la morte di un padre. I parrocchiani lo vorrebbero parroco, ma il
Vescovo nomina don Tripier, assai diverso dal predecessore, incline a una vita
agiata e festaiola.
Cappellano ad Ars
Nel 1818, a febbraio, la Cappellania di Ars è affidata al Vianney. Il 9 febbraio don
Vianney si mette in viaggio per Ars con totale obbedienza. Vi giunge a piedi, con
poco bagaglio, nel grigio della nebbia.
Il Vescovo ha grande stima di lui.
Preavvertito che ad Ars avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria,
proprio per questo, si dedica con tutte le sue energie alla formazione cristiana del
popolo a lui affidato, richiamando sempre la tenerezza salvifica del Signore.
Valorizza molto anche i fedeli laici.
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Vive poverissimo in una casa dove c’è soltanto l’essenziale e dà le stanze ai più
poveri.
Comincia il suo ministero andando a far visita alle famiglie e conquista i
parrocchiani con la sua grande carità e bontà.
La paura di non reggere ritorna con frequenza, per cui chiede per ben due volte il
trasferimento, senza ottenerlo.
Nonostante ciò e il suo desiderio di solitudine, lavora indefessamente:
- contro le usanze pagane
- contro l’abitudine di bestemmiare
- contro l’abitudine di lavorare la domenica
- contro l’abitudine di frequentare le bettole.
Per vendicarsi, molti lo calunniano pesantemente (è accusato di aver reso incinta
una ragazza madre), ma lui aiuta economicamente chi lo perseguita così. Pare che
in questo senso parli anche la ragazza, che riceve l’ospitalità da lui.
E’ il suo modo di amare, di amare molto.
Prega e si mortifica per i suoi parrocchiani (si alza alle 4 e sta in Chiesa fino all’ora
della Messa, alle 7).
“Mio Dio, concedetemi la conversione della mia parrocchia: io sono disposto a soffrire
tutto quello che voi vorrete, per tutta la durata della mia vita, purchè si convertano…”.
Le sue mortificazioni e i suoi digiuni oggi ci appaiono eccessivi. E lo sono, anche
perché gli provocano guai seri di salute. Muterà questo stile di vita per ordine del
medico (dopo il 1827 e, soprattutto, dopo il 1854).
Non impone tuttavia mai agli altri severe mortificazioni, mostrando grande
equilibrio.
E’ invece preoccupato di “edificare” personalità cristiane.
A poco a poco riesce a trasformare la parrocchia in una comunità:
- dà importanza alla formazione dei giovani e delle ragazze;
- apre due scuole gratuite;
- fa ingrandire la casa per poter ospitare 60 ragazze abbandonate o di famiglie
povere, per garantire loro la scuola. (Di fatto è un orfanotrofio: il cui nome è
Provvidenza).
Nel 1838 fonda anche la scuola per i ragazzi che, dieci anni dopo, a partire dal
1849, sarà diretta dai “Frati della Sacra Famiglia” di Belley.
Tutto questo grava pesantemente sulle spalle del curato. Le ristrettezze
economiche arrivano al punto di dover chiudere la “Provvidenza”, ma, all’ultimo
momento, arriva sempre qualcosa di straordinario.
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E dice:
“Ho pensato spesso che se noi uscissimo dalla nostra condizione di povertà, non
sapremmo più come fare” (cioè Dio cesserebbe di manifestarsi come Provvidenza).
Non si esime mai dall’assumere fino in fondo la propria responsabilità. Vende
tutti i beni di famiglia ereditati personalmente dal padre e accetta ogni forma di
aiuto.
Nel 1848 deve cedere la Provvidenza alle suore della “Congregazione di
S.Giuseppe”, che prendono in mano l’opera (l’orfanotrofio è chiuso, resta solo la
scuola parrocchiale).
Anche questo dice non solo la capacità di distacco, ma il “non possedere” ciò che
ha messo in atto. Ciò che conta non è lui, ma il bene oggettivo.
Ciò che tuttavia ha la priorità nelle sue giornate sono le confessioni, a cui si dedica
dal mattino alla sera, interrompendosi solo per la Messa e la preghiera.
La sua fama di confessore si dilata: vengono da tutte le parti in numero sempre
più crescente così che è necessario stabilire un servizio regolare di trasporti da
Trévaux e Villefrance ad Ars e anche da Lione.
Propone a tutti la gratuità e la bellezza del perdono del Signore, soffrendo per i
peccati accusati, soprattutto se si rende conto che manca il pentimento e la
conversione.
Ha una sicura capacità di discernimento, ma non impone mai. Pur essendo preciso
nel decidere, si limita a dire: “Io non farei così”.
Dal 1830 al 1835 cresce vistosamente il pellegrinaggio al confessionale. Fino al
termine della vita. Ma il caldo estenuante dell’estate e il rigore dell’inverno lo
porteranno alla morte, estenuato.
Il 29 luglio 1859 è costretto ad uscire dal confessionale per riposarsi un po’. E’
sfiancato. Le forze sono ormai allo stremo. La notte è costretto a cercare aiuto.
Consapevole della fine, fa chiamare il suo confessore: “E’ la mia povera fine,
bisogna andare a chiamare il parroco di Jassans” (il suo confessore e padre
spirituale).
Muore il 4 agosto alle due del mattino. Per sfinimento.
E’ beatificato l’8 gennaio 1905 e canonizzato il 31 maggio 1925.
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LA SPIRITUALITÀ DI UN PARROCO
Un vissuto di fede e di amore
Quella del Curato d’Ars è una fede trasparente, cristallina, imparata in famiglia. Ma
non ingenua. Neppure scevra dalla fatica della ricerca. È una fede interrogata e
interrogante, che conosce momenti di luce e di oscurità, che sperimenta il travaglio
e la desolazione, ma insieme l’abbandono e la fiducia.
Ben lontano, dunque, da ciò che una certa agiografia dice di lui, presentando la
figura di un parroco più “sempliciotto” che semplice, Jean-Maria Vianney è un
credente, che faticosamente alimenta, giorno dopo giorno, la sua fede, non aliena
da prove e tentazioni, purificata nel crogiuolo di un patire che ha nomi e volti
diversi.
È un credente, che legge e studia, perfino con accanimento, non solo per
prepararsi alle “prediche”, ma per “sapere” di più, per penetrare di più in quel
mistero di Dio, di cui va innamorandosi, con stupore e freschezza sempre nuovi.
Così la fede lo conduce alla Trinità e all’Eucaristia, che divengono, con la
devozione alla Santa Vergine, il punto d’attrazione della sua vita spirituale, il
“luogo” della sua esperienza contemplativa, il riferimento amato e desiderato
della sua anima.
La SS.Trinità
Ritorna con insistenza sul mistero. E vi ritorna per mettere in luce l’amore di Dio
che si comunica all’uomo, che dice all’uomo una tenerezza e una misericordia,
capaci di renderlo “grande”, “nuovo”, nonostante il peccato.
E’ con stupore adorante che contempla il mistero della Trinità. E scopre, insieme,
il valore dell’uomo, del cristiano “oggetto dell’amore delle Tre Persone della
SS.Trinità; oggetto della compiacenza delle Tre Persone divine”.
Dinanzi al mistero d’amore del Dio trinitario si fa più forte la percezione del
peccato: ma per contestarlo, per piangerlo:
“Oh, se noi comprendessimo il suo amore, se potessimo vedere il suo cuore colmo di
bontà, di compassione, di misericordia, detesteremmo i nostri peccati, li
piangeremmo notte e giorno..”.
Preso dal mistero prega e contempla, con la gioia, “fino a morirne”, di poter
intravedere e amare una verità così grande: “Se sapessimo come nostro Signore ci
ama, ne moriremmo di gioia, di piacere....”.
L’unica immaginetta, che conserva nel Breviario, è quella della Trinità: per recitare
l’Ufficio
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alla presenza delle Tre Persone: de1 Padre, “del buon Padre che ci ama, che abbassa il
suo cuore verso la sua piccola creatura, come un padre che si china per ascoltare il
piccolo figlio che gli parla”; del Figlio, «nostro Signore Gesù Cristo... che pensa e
prega per noi...; che offre il proprio cuore perché l’uomo vi dimori…; e si offre
incessantemente al Padre... e ha voluto essere l’uomo dei dolori, di tutti i dolori
perché fossimo salvati..”; dello Spirito, il quale “attesta il nostro essere figli di Dio e ci
costruisce come tali...”.
Affascinato dal mistero, il prete Vianney si pone in preghiera. In silenzio. Come chi
sa che ogni parola può essere soltanto un balbettio. Anche se va detta, gridata:
perché a un Amore così grande sia data risposta da parte di tutti.
Questo insegnerà allora ai suoi parrocchiani, con paziente e inquietante insistenza.
E’ la grande sfida evangelica, che vive fino alla fine, con il solo desiderio di
ricondurre tutti a Cristo. Ed è questo amore a Dio, vissuto senza misura, in
costante risposta all’amore manifestato nel Cristo crocifisso, che alimenta il suo
impegno per salvare “le anime”, per ricondurle all’amore di Dio.
Dice:
“Il sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù” (E’ l’espressione citata dal Papa nella sua
lettera ai sacerdoti).
Qui si trova la ragione fondativa del suo sacerdozio, del sacerdozio.
L’eloquenza del cuore è più importante di ogni altra eloquenza.
Torna spesso nei suoi sermoni e nelle sue catechesi su questo argomento:
“O mio Dio, preferisco morire amandovi, che vivere un solo istante senza amarvi.
Vi amo, o mio divin Salvatore, perché siete stato crocifisso per me… perché mi
tenete crocifisso per voi…”
Cerca la conformità a Cristo nel vivere la sua missione sacerdotale: che lo porta a
una grande dedizione pastorale e al sacrificio di sé.
E’ cosciente della sua responsabilità, “divorato” dal desiderio di strappare i suoi
fedeli al peccato e alla tiepidezza:
“Bisogna fare come i pastori nei pascoli durante l’inverno: accendono il fuoco, ma
di volta in volta corrono a raccattare legna da tutte le parti per mantenerlo acceso.
Se noi sappiamo, come i pastori, ravvivare continuamente il fuoco dell’amore di
Dio nel nostro cuore attraverso le preghiere e le buone opere, non si spegnerà
mai”.
Il mistero di Cristo lo trasfigura: provoca nella sua persona, fragile, malata,
ansiosa (forse nevrotica) un grande cambiamento. E’ una trasfigurazione, una
sorta di metamorfosi che agisce in lui, assai più di una terapia o di una seduta
psicologica.
E lui, così pieno di paura, riesce a dire,a testimoniare che la paura della propria
inadeguatezza si vince guardando a Gesù, conformandosi a Lui.
Progressivamente.
Insegna così che la vita presbiterale non è un traguardo raggiunto per sempre.
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E’ un cammino, un’ascesa: che può conoscere svolte difficili, magari anche soste ai
bordi della strada…, ma esige una ripresa continua;
esige di superare la pesantezza, il sonno, la paura e accettare la fatica di un
cammino, che ci spoglia di noi stessi, ma per rivestirci di Gesù Cristo.
Mi pare anche importante sottolineare che le difficoltà del cammino non sono
indice di una scelta sbagliata, di un’obbedienza passiva: gli ostacoli sono,
piuttosto, nel non lasciarsi trasformare, nel non fare affidamento sull’aiuto di chi ci
guida con autorità (Vescovo per i sacerdoti).
L’Eucaristia
Se la grande direzione della vita spirituale è ‘la Trinità, il centro è l’Eucaristia, in
particolare sotto l’aspetto della presenza reale, come confermano molte
testimonianze.
Il Curato ha il pensiero costantemente rivolto al Tabernacolo, dove sta Gesù.
Appena può, è davanti a Lui. Trascorre in preghiera, con lo sguardo fisso e
contemplante, lunghe ore, fin dal mattino (prestissimo ).
Sarebbe interessante soffermarsi su questo sguardo, più eloquente delle parole.
Esprime un rapporto d’intimità con il suo Signore, un rapporto profondo, vero.
In questo reciproco guardarsi c’è un dialogo, un parlarsi, un vederlo. Sapendo di
vivere sotto il suo sguardo, che non indugia sui nostri limiti, ma esprime solo
tenerezza.
Bisogna educarci ed educare a questo sguardo, restituendo a ciascuno e alle nostre
comunità cristiane uno sguardo vero su Dio, su di sé, sugli eventi, sulle realtà che
connotano il nostro quotidiano.
Dinanzi al Tabernacolo prepara e studia le “prediche”, che non si concludono mai
-come fa per tutti i sermoni e le catechesi- senza un pensiero di tenerezza verso
“Colui, che sta nascosto sotto l’apparenza del pane per venire incontro alla nostra
pochezza... per soddisfare i nostri desideri…”.
Dinanzi al Tabernacolo non registra lo scorrere del tempo o la fatica o il freddo. È
come trasfigurato, preso da un Presenza che lo custodisce e lo avvolge, dandogli il
senso della sicurezza e della pace.
Pare che, proprio ad Ars, verso il 1847, Jean Marie Vianney abbia avuto la grazia
straordinaria di sentire la presenza reale di Gesù. (Si tratta indubbiamente di
un’esperienza mistica).
Ma, certamente, questo dono si rinnova per lui, ogni giorno, nell’esperienza di
fede della Messa. Quasi a ripetere che abbiamo bisogno. Ogni giorno, di imparare
che l’unico gesto di Cristo diventi il nostro, dentro lo scorrere di un tempo non
sempre facile.
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La celebra con normale rapidità fino al momento della consacrazione, in cui
sembra arrestarsi guardando l’ostia nelle sue mani, questo “grande dono fatto a
peccatori, mentre esigerebbe la capacità di lode dei serafini”.
E alla Messa si prepara con una preghiera prolungata, ogni giorno, non finendo
mai di ripetere a se stesso e ai suoi parrocchiani quanto sia grande il ministero del
prete, che può “toccare il corpo adorabile di Gesù Cristo e assumere dal calice il
suo sangue”.
I suoi atteggiamenti, i suoi gesti, le sue parole contagiano i parrocchiani, che
imparano a sostare, come lui, davanti all’Eucaristia
E’ noto l’episodio di un certo père Chaffangeon che, interrogato sul suo lungo
permanere in Chiesa presso il Tabernacolo, rispondeva: “Io lo guardo e Lui mi
guarda”. Aveva imparato dallo sguardo del suo parroco?
Altri testimoni ricordano che talmente il Curato d’Ars aveva inculcato nei fedeli il
senso della presenza reale da non passare mai davanti alla Chiesa senza entrarvi
per una breve visita a Gesù). E imparano a capire la Messa; imparano ad accostarsi
con frequenza all’Eucaristia, il “sacramento dell’amore in cui Gesù intercede
incessantemente presso il Padre a vantaggio dei peccatori”.
E’, per noi, come per i parrocchiani di Ars, uno stimolo indubbio alla conversione,
un invito pressante a ritrovare in profondità il significato della Messa quotidiana e
anche un invito a sostare in preghiera nelle nostre Chiese, ritrovando il silenzio di
un’adorazione contemplativa. Oggi non si parla più di visita al SS. Sacramento,
ma penso che ne vada ritrovato il significato.
Ci sono “pensieri” di G.Vianney di grande efficacia, che dicono la comprensione
del Mistero eucaristico:
“Venite alla comunione, venite a Gesù,
Venite a vivere di Lui, al fine di vivere per Lui”.
“Non dite che non ne siete degni. E’ vero; non ne siete degni, ma ne avete bisogno”.
“Quando Dio volle dare un nutrimento alla nostra anima, per sostenerla nel
pellegrinaggio della vita, Egli pose il suo sguardo sulla creazione e non trovò nulla
che fosse degna di lei. Allora si ripiegò su se stesso e decise di dare se stesso…
O anima mia, quanto sei grande, dal momento che soltanto Dio può appagarti!”
C’è qui mi pare, in compendio, un trattato di antropologia cristiana e l’immersione
nel mistero eucaristico.
In molte omelie ritorna su questi concetti, lasciando trasparire quanto sia
importante e profondo il riferimento all’Eucaristia, quanto e come desideri che i
suoi parrocchiani capiscano la straordinarietà di questo mistero.
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La Santa Vergine
Accanto all’amore per le Persone divine e per l’Eucaristia sta la devozione, o
l’amore, per la Vergine Santa.
Ha verso di lei una tale confidenza, una tale tenerezza da far presumere, come
molti testimoni affermano, che abbia fatto esperienza diretta del suo aiuto, anche
in modo straordinario.
Contempla e ama la Vergine come “la più bella delle creature”, la ‘”più tenera
delle madri”, “la piena di grazia”.
E guarda a lei, accostandola alla Trinità, pur con le debite distanze, accostandola
all’amore che prova per la Trinità, perché ella riempie d’amore tutta la sua anima.
Di lei intesse gli elogi più belli. A lei si affida, come un figlio alla propria madre
amata.
Di lei afferma, come chi non trova espressioni adeguate per riconoscerne i meriti
pur volendone esaltare la grandezza: “Le Tre Persone divine contemplano la Santa
Vergine”.
È un modo per dire un’ammirazione, una lode e un amore sconfinati.
Una fedele obbedienza
Potremmo considerare questo atteggiamento di Giovanni Maria come un
irrinunciabile elemento della sua identità spirituale.
Indubbiamente, l’educazione familiare, la situazione stessa del contesto in cui vive
forgiano già nel giovane Vianney l’attitudine all’obbedienza.
Ma quando il suo cammino vocazionale si fa più sicuro, emerge con chiarezza
questa dimensione: sia nella preparazione al sacerdozio, sia, soprattutto, quando
diventa prete.
Non discute mai il discernimento dell’autorità, specialmente del Vescovo. Ne
accetta le indicazioni, le fa sue, le traduce nelle proprie scelte e le propone ai
parrocchiani come irrinunciabili insegnamenti da non disattendere.
Ma specialmente per sé accoglie il discernimento del suo Vescovo: quando viene
nominato coadiutore dell’abbé Balley a Écully, quando viene destinato ad Ars,
senza suggerimenti concreti che possano aiutarlo.
E’ profondamente consapevole che la volontà di Dio si legge anche così, attraverso
la mediazione di chi ha il compito di guida nella Chiesa. E obbedisce senza
discutere.
Ciò anche quando l’obbedienza non è facile e gli chiede fatica. Basterebbe
ricordare la sua ritrosia a svolgere il compito di parroco, ritenuto troppo gravoso
per la sua inadeguatezza, desideroso, come era sempre stato, di solitudine e di
preghiera.
Il pensiero di ritirarsi lo aveva assillato per molti anni così da ripetere la richiesta
di trasferimento, senza risposta dal vescovo o con un netto rifiuto.
Le sue richieste al vescovo (ai Vescovi) si trovano nel 1820, 1834, 1843, 1851, 1859.
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Nel 1843 aveva confidato al sindaco di Ars: “Dall’età di 11 anni chiedo a Dio di
vivere in solitudine, ma i miei voti non sono stati mai esauditi”.
E così tenta una fuga nella notte dall’11 al 12 settembre dello stesso anno.
A nulla valgono le pressioni e le accorate richieste dei parrocchiani a restare,
quando lo raggiungono nella sua casa di Dardilly.
Quando il maestro Pertinand, che lo aveva seguito nella notte, gridandogli, a
nome di tutti: “Signor Curato, perché ci abbandonate in questo modo?”, aveva
risposto:
Su, non perdiamo tempo. Ho scritto al Vescovo per chiedergli il permesso di
ritirarmi e attenderò la sua risposta a Dardilly. Andrò a Nostra Signora di Fourvier a
celebrare la Messa, per meglio conoscere la volontà di Dio. Se il Vescovo acconsente,
sarà esaudito il mio desiderio. Diversamente, ritornerò. D’altronde la parrocchia non
ci perderà, perché ho provveduto a tutto”.
“Se il Vescovo acconsente…”. Ecco la ragione profonda che lo indurrà a restare.
Non rinuncerà mai alla piena disponibilità alle decisioni del Vescovo.
Quando, infatti, saprà dal delegato vescovile che il Vescovo non avrebbe mai dato
il suo consenso, decide: “Ritorniamo ad Ars”.
Una decisione diversa non poteva sorgere da un cuore obbediente!
Contemplativo in missione
Se l’aspetto contemplativo è prevalente, esso si coniuga con una quotidiana,
incessante disponibilità al servizio.
Il Curato d’Ars non “trattiene” per sé il suo Signore. Obbediente al va’ del Risorto,
vive in pienezza la diaconia del ministero che lo conduce ai fratelli.
Dopo aver contemplato, e perché ha contemplato, l’impegno si fa cogente,
determinato, concreto. Diventa obbedienza a una “missione” ricevuta.
La cura della missione lo rende sempre più disponibile per la comunità. Per tutti: i
fedeli “assidui”, ma anche i cosiddetti “lontani” (è una parola che non c’è nel suo
vocabolario, perché la sua preoccupazione è di comunicare la fede a tutti, convinto
com’è che ciascuno di noi è un “lontano” quando ci lasciamo sopraffare dalla
fragilità e dal peccato).
Sa che l’obbedienza al Signore e la cura della comunità stanno insieme; che questa
unità è il modo di vivere il sacerdozio, coltivando il distacco da sé per vivere
l’ospitalità e la cura degli altri.
E’ un modo di tradurre l’amore alla Chiesa concreta, quella che il Vescovo gli ha
affidato, perché se ne prenda cura, ne veda i bisogni, la custodisca come il “buon
Pastore”, dentro i giorni e il tempo da non disattendere, nel rispetto di tutti.
Il Curato d’Ars, forse, non era particolarmente edotto nell’ecclesiologia (e il
Vaticano II era ancora lontano), ma, dentro la Chiesa (oggi diremmo il “popolo di
Dio”) mostra, attraverso la sua persona sacerdotale, il modo con cui la Chiesa
custodisce tutti nel suo grembo, si mette a disposizione, viene incontro a ciascuno
per condurlo al Signore.
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E dimostra, così, qual è il compito del ministero sacerdotale: cha ha la sua grazia e
la sua fatica, il suo “profitto” e l’impressione del fallimento, quando alla sera, nella
verifica di ciò che si è fatto e dei risultati, i conti non tornano.
Ma quello del prete è il lavoro del seminatore: proprio nel campo, nel “luogo”
non scelto, ma accolto dal Vescovo, in un’obbedienza talora crocifiggente, ma che
offre la garanzia della proficuità, comunque.
Un’obbedienza con il cuore!
Senza recriminazioni, senza “scaricare” su altri (in questo caso per voi il Vescovo)
la responsabilità di una decisione.
E’ perfino commovente il modo con cui il Curato d’Ars si riferisce al suo Vescovo
(ricordiamo le ripetute richieste di esonero dal suo incarico di parroco).
E’ tutt’altro che passivo, che dipendente in modo adolescenziale.
Acquista sempre più consapevolezza dell’essere nella Chiesa in cui si deve essere,
dove il ministero apostolico è ciò che il Signore chiede e al quale vuole
corrispondere.
E questo risplende nella testimonianza della vita, nella tessitura del suo ministero:
raccolto e incentrato nella celebrazione dell’Eucaristia, il “centro” della comunità
cristiana; e poi nell’esercizio del Sacramento della Riconciliazione, nella
predicazione, nella rete di una carità, che privilegia i piccoli e i poveri.
Mi pare sia questa la visione sintetica, che consente di leggere i vari aspetti del suo
ministero:
- il ministero della Parola
- il ministero della misericordia
- il ministero di un cuore che ama, come quello di Gesù.
- Il ministero della Parola
Nutre per esso una grandissima stima.
“Il Vangelo, la Sacra Bibbia e, naturalmente, i sermoni devono essere tenuti in
considerazione come la consacrazione della Messa…Nostro Signore, che è la verità
stessa, non tiene meno in considerazione la Parola del suo Corpo”.
Di qui il grande impegno per la predicazione. Lo abbiamo detto.
Di qui lo slancio e la forza dei suoi “sermoni” spesso “tonanti”, specialmente
all’inizio, quando parla dell’inferno, della morte, del giudizio di Dio,
disorientando i parrocchiani. Qui appare indubbiamente debitore di quel
rigorismo giansenista in cui era cresciuto. Ma, con il passare degli anni, il tema
dominante è l’amore di Dio, per cui i sermoni divengono dolcissimi e teneri,
traboccanti di una eloquenza che nasce dal cuore. Ma diventa eloquenza suasiva.
Come quando parla dell’Eucaristia e le parole vengono meno: così da poter
soltanto dire, mostrando il Tabernacolo: “Egli è là…”.
È come se tutte le argomentazioni si concentrassero in queste parole: “Egli è là…”.
Il pubblico, non pur sempre attento o gratificante, talora assonnato, impara a
credere che “Egli è là”. Se ne lascia persuadere.
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E’ sufficiente questo perché il Curato continui a predicare, anche se è stanco e le
forze sembrano venir meno.
Ma “quando è per parlare del buon Dio, io ho ancora molte forze!”. – dice.
Gli vengono -lo confessa- dalle ultime parole dette da Gesù ai suoi apostoli:
“Andate e istruite…”.
Obbedendo a questo imperativo, il Curato sa di essere fedele al suo ministero.
- Il ministero della misericordia
E’ un’intuizione, o una consapevolezza, che trasuda nei confronti del ministero
della misericordia.
Trascorre, lo sappiamo, ore e ore nel confessionale accogliendo penitenti diversi,
per i quali ha attenzione, ascolto, che incoraggia o rimprovera, con sapiente
discernimento. Sempre con dolcezza e compassione. Sempre capace di indicare la
misericordia di Dio, che è come “un torrente straripante, che trascina tutti al suo
passaggio”.
Certo, il Curato mostra la bruttezza del peccato, ne fa sentire l’orrore, ma parla
soprattutto della misericordia, dell’amore di Dio.
Sa essere anche severo ed esigente con quanti vivono il sacramento della Penitenza
come un rito, compiuto per abitudine:
“Siamo ben superficiali nell’accusarci!”; “Vi sono molti che si confessano, ma pochi
si pentono... Lo credo bene! E’ perché molti si confessano senza pentirsi!
Piango per ciò per cui voi non piangete”.
Sapiente “maestro di spirito” si preoccupa, invece, di indicare il cammino, e i
mezzi per percorrerlo, a chi ricerca in profondità la comunione con Dio: sapendo
discernere le esigenze e le possibilità di ciascuno, con lucida intelligenza delle
singole personalità, cui non rivolge indicazioni generiche, ma consigli puntuali,
capaci comunque di raggiungere l’unica meta, che è l’amore di Dio, la vita di
unione con Lui.
Sa che per giungervi è necessario il distacco da sé, per conformarsi alla volontà di
Dio, e insiste sulla “mortificazione del cuore”; ma non vuole che i suoi penitenti
generosi si sottopongano a delle mortificazioni eccessive, “che potrebbero incidere
negativamente nella loro vita e impedire un corretto compimento dei propri
doveri”.
L’esposizione è chiara. E dice una lucida conoscenza delle anime, delle situazioni.
Risponderà a una sua penitente, che vorrebbe imitarlo nella sua rigida penitenza:
“io posso digiunare, perché posso compiere la mia attività; ma voi non lo potete”.
Risposte scarne e concise, le sue. Ma indici di una non comune sapienza. Indici,
soprattutto, di un cuore che ha “conosciuto” la misericordi di Dio, e la comunica; e
non cessa di presentarla come quel “torrente straripante” che ha la forza di
prendere ogni cuore.
Allora il “sacramento della Penitenza, dove Dio sembra dimenticare la sua
giustizia per manifestare la sua misericordia, diventa veramente capace di
dimostrare che “il suo più grande piacere sta nel perdonarci”.
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Il Curato d’Ars lo sa. Le sue lacrime, davanti ai suoi penitenti, diventano talvolta
tutta la sua esortazione, il suo rimprovero. Ma per ispirare soltanto sentimenti di
confidenza.
Si capisce, allora, la straripante affluenza al suo confessionale.
Noi vorremmo anche oggi tanti preti così!!!
- Il ministero di un cuore che ama, come quello di Gesù
E’ questo cuore che trasforma Ars a poco a poco. Impara a conoscere e a seguire
questo parroco, la cui dedizione senza riserve conquista tutti.
E’ visibile la ripresa religiosa anche con segni esteriori: la rinascita delle
confraternite, la costituzione di gruppi di catechesi, di carità…, l’adesione a una
formazione morale, per persone di ogni età.
Va ricordata anche la cura per un’istruzione scolastica dei bambini in età scolare,
per i quali viene aperta una scuola, che possa colmare le lacune preesistenti.
Con un linguaggio attuale potremmo dire che il Curato d’Ars è attento ai “segni
del tempo”, ai bisogni ricorrenti, “abitando” il suo territorio con intelligenza, cioè
con la capacità di “intus legere” la situazione concreta: visita le famiglie, gli
ammalati; organizza missioni popolari e feste patronali; abbellisce la Chiesa
dotandola di arredi sacri; si occupa di garantire alla Provvidenza educatrici
preparate; si avvale della collaborazione di laiche e laici ….
Intuizioni moderne, in un contesto e con soluzioni coerenti al tempo.
Ma tutt’altro che datate in senso negativo!
Dice giustamente il Papa:
“ … Gli insegnamenti e gli esempi di San Giovanni Maria Vianney possono offrire a
tutti un significativo punto di riferimento: il curato d’Ars era umilissimo, ma
consapevole, in quanto prete, di essere un dono immenso per la sua gente.
Aveva infatti ripetuto:
Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon
Dio possa accordare a una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia
divina”.
Lo dice, continua il Papa, come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del
dono e del compito affidati a una creatura umana:
“Oh, come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe…
Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua
voce e si rinchiude in una piccola ostia”.
Il Papa rilegge un altro pensiero:
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“Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento,
ma di amore… Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero
a niente. E’ il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra… Che ci
gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il
prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del
buon Dio; l’amministratore dei suoi beni.
Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie…
Il prete non è prete per sé, lo è per voi”.
Una bella sintesi vissuta, come dice il Papa, “abitando attivamente in tutto il
territorio della sua parrocchia, per condurre tutti all’unità della carità”.
Questo, fondamentalmente, il ministero da vivere.
UN “UOMO
SPIRITUALE”
Soltanto entro questa dimensione, che coniuga l’amore di Dio e dei fratelli, si può
allora cogliere l’interiore dinamismo, che ha condotto questo “curato di
campagna” a essere autentico “uomo spirituale”: mite e umile, paziente e povero,
straordinariamente asceta e straordinariamente dolce nel vivere il suo ministero
pastorale.
Come il buon Pastore, capace di misericordia e di perdono, senza tuttavia mai
venir meno alla chiarezza della verità, conclamata e vigorosamente difesa.
La sintesi di una vita, di una vocazione, quella del prete “che tiene il posto di Dio,
che è rivestito di tutti i poteri di Dio”, è tutto qui. Si radica in una profonda
esperienza teologale, per fare della volontà di Dio il proprio cibo vitale.
Chi parla di lui, lo vede così. Ne riconosce anche i limiti. Ne giudica i movimenti
che si succedono talora con sconcertante rapidità.
Ma sente di lui, come l’immagine più emblematica della sua persona, l’intensità e
la profondità dello sguardo: “La sensazione di gioia, di sofferenza, di amore, di
tristezza si succedevano con sconcertante rapidità. Solo i suoi occhi, i suoi begli
occhi azzurri, erano lenti a muoversi. Essi si arrestavano, con insistenza, su un
volto e sembravano trapassarlo fino all’anima. Questo suo sguardo straordinario
fu, per molte volte, all’origine di profonde trasformazioni.
Un santo non può, nonostante tutta la sua umiltà, contenere la sua anima”.
Forse è questo il ritratto più significativo di JeanMarie Vianney.Contemplativo e
attivo, proprio perché contemplativo.
Come chi ha veduto il Signore, è stato con Lui. E porta nel volto e nello sguardo
l’intensità e l’ineffabilità di questo incontro.
Non si può non pensare, leggendo queste righe, alla scena della Trasfigurazione.
Come i discepoli, anche un curato di campagna, dopo aver contemplato in
preghiera la gloria del Signore, non poteva contenere la “pienezza” di un amore
“saputo”. Trasfigurandosi.
Non poteva non avvincere, Nonostante la povertà e l’incompiutezza delle proprie
doti naturali, Giovanni Maria Vianney sapeva che, al di là dei limiti, “Dio è più
grande del nostro cuore” (1 Gv 3,20).
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E da questo cuore poteva ricevere autorevolezza, forza, fiducia per un ministero
più grande di lui, ma sempre vissuto e amato con fedeltà.
Penso che il santo Curato d’Ars va letto e guardato così. Come un “uomo
spirituale”, “trasfigurato dallo Spirito”, come ci ha ripetuto il Card.Martini nel
pellegrinaggio ad Ars (1992).
Se farete un pellegrinaggio, dovete guardarlo così, superando la comprensibile
percezione di una ritrosia dinanzi a ciò che testimonia il suo mortificarsi e la sua
povertà. Non va dimenticato che è figlio del suo tempo e ne porta in sé le tracce
(anche nelle forti contestazioni di certe mode allora in vigore tra la gente di
campagna).
Ma non siamo anche noi figli del nostro tempo?
Ciò che conta è trasformare il kronos in kairos: come è stata l’intentio profundior del
Santo Curato d’Ars.
Ha ragione, allora, il teologo Sequeri di definire “il sacerdote (la Chiesa) questo
ossimoro vivente, cui è concessa -dal Signore e per terzi, non da sé e per se stesso –
autorevolezza a riguardo di ciò su cui non ha potere, ossia il legame del singolo
con Dio”.
Possiamo guardare al S.Curato d’Ars come a questo “ossimoro”.
E il desiderio è che lo siano tutti i preti.
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