LE GRIDA NELLA NOTTE AQUILANA La testimonianza di Stefano

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LE GRIDA NELLA NOTTE AQUILANA La testimonianza di Stefano
LE GRIDA NELLA NOTTE AQUILANA
Scritto da Araldo Abruzzese
Martedì 28 Aprile 2009 17:12
La testimonianza di Stefano Beccaceci, studente di ingegneria scampato al terremoto de L'Aquila
“Inizialmente eravamo quasi affascinati dalle scosse, poi il crescendo ha ben presto allarmato le ragazze”,
facendo così svanire un’euforia forse comprensibile in adolescenti incoscienti o in studenti genialoidi, incuriositi
dal mondo e dalle sue mille mutevoli manifestazioni. Un po’ come Stefano Beccaceci, 22 anni di Mosciano,
prossimo alla laurea, facoltà di ingegneria.
“Subito dopo la scossa tremenda lo spavento era così tanto, che ci siamo catapultati per le scale senza
accorgerci dei danni, in preda ad una paura totale. Solo sotto ci siamo resi conto. Eppure la sensazione è stata
per me non disperata, mi sono sentito parte di una grande famiglia, bastavano sguardi intensi accomunati dalla
paura del palazzo che sembrava crollare da un momento all’altro”. Sguardi che né il buio, nè la polvere, nè il
fumo potevano impedire.“A questo sono seguiti urla per chiamare aiuto e per scaricare la tensione di attimi
infiniti, urla non pianto” e l’incredibile disponibilità di accogliere i vicini di casa, quegli stessi che fino a ieri erano
estranei, corpi spettrali diventati improvvisamente grembi di accoglienza, mete di abbracci caldi e muti, corpi da
stringere per confermarsi ancora vivi e corporei in quell’inferno dalle sembianze tuttavia familiari. E in quel girone
dantesco, Stefano si ritrova abbracciato da una madre di famiglia, resa pallida, evanescente più dalla paura che
dal forzato mutismo dei suoi figli. “E in quello sguardo ho intuito la solidarietà per quegli anziani del 4° piano che
non scendono: li andiamo ad aiutare? E la crepa al muro? E le voragini? E le scosse?”Le urla e il dolore che si
rincorrono in un tragico abbraccio annunciano la squillante verità per quei fantasmi notturni buttati in strada. “Solo
allora ci siamo accorti di essere stati dei miracolati, quando abbiamo provato il desiderio di renderci utili e,
tuttavia, ci sentivamo paralizzati da un devastante senso di impotenza, spettri vaganti di una notte che per molti è
stata il capolinea di un’esistenza. Choc e grazia vanno a braccetto, in un turbine di pensieri che rincorre il mistero
e si schianta di fronte allo sfacelo, che assume tutti i suoi apocalittici contorni all’apparire delle luci del mattino
della settimana santa.Ma le gambe portano dove non si sa e poco dopo il miracolo si ripete di fronte alla casa
dello studente, o quanto di essa rimane. “Lì ho incontrato un mio amico albanese, uscito fuori illeso chissà
come”, da quello che i giornali e le televisioni ben presto faranno assurgere a simbolo dell’impotenza della
gioventù e di un’intera generazione. “Mi ha abbracciato, quasi volesse sfogare con un viso amico l’enorme
tensione e io gli ho offerto la mia ospitalità a Mosciano; si è accontentato di chiedermi il cellulare per chiamare i
genitori e rassicurarli”.“Oggi sento molti che mi chiedono come si possa pregare in queste situazioni, ma la mia
speranza è nella preghiera, il Signore fa le cose a suo modo e quello che sembra un caso non lo è, anche il lutto
assume altri contorni. Questo linguaggio”, evidentemente troppo duro per le orecchie del mondo, “l’ho imparato
da piccolo in famiglia, grazie all’obbedienza, perché di fronte a Dio siamo come bambini e abbiamo tutto da
imparare. E forse è questo ciò che oggi manca ai giovani, l’umiltà di sentirsi limitati e per questo bisognosi di
autentiche guide, che indicano alte mete e sterminati orizzonti di bene, raggiungibili solo con sacrifici enormi,
fatica costante e santa umiltà”. Francesco Campanella